La certezza della pena di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2018 Lo scorso 19 dicembre centodieci accademici hanno firmato l’appello rivolto al Presidente della Repubblica affinché consideri l’ipotesi del rinvio alle Camere del ddl S955, attese le “preminenti ragioni costituzionali” ivi segnalate. Dobbiamo essere grati all’Unione delle Camere Penali e alla Dottrina per il tentativo di fare un po’ d’ordine, mentre tutto sembra bruciare. Chi scrive non è un accademico, ma un pratico del diritto, che da circa 25 anni ha qualche dimestichezza con la galera. Per questo mi rivolgo a Ristretti, per segnalare una norma del ddl citato, l’art.5, che nell’implementare ancor di più la norma carcerocentrica per elezione, l’art.4 bis ord. penit., consacra definitivamente la chiusura della stagione di riforma penitenziaria, consumatasi alla vigilia delle ultime elezioni. Ristretti Orizzonti pratica da sempre la logica del cambiamento dell’Uomo, lavorando concretamente perché ciò avvenga. Per questo, penso sia giusto consegnare qui queste brevi riflessioni. Perché non resti un non detto. Con la (contro)riforma, fatta salva la nuova “causa di non punibilità” di cui al nuovo art.323 ter c.p. (uno sconclusionato invito alla delazione, foriero di nuovi disastri),diverse ipotesi di delitti contro la P.A. finiranno nel catalogo di quelli assolutamente ostativi. Accadrà dunque tra qualche giorno, salvo l’auspicato intervento del Presidente, che coloro i quali avranno riportato condanne passate in giudicato per i delitti citati non solo verranno tratti in arresto, stante il rinvio mobile che l’art.656, comma 9,lett.a), c.p.p. fa all’art.4 bis ord. penit., ma dovranno per intero scontare la loro pena in carcere, salvo che collaborino con la giustizia. Del resto il Ministro del lavoro (ma non c’è da stupirsi, ogni Ministro si occupa di ciò che non gli compete) l’aveva promesso: “festeggeremo il Natale con i corrotti in galera”. Forse non sarà Natale, ma non ci vorrà molto. Procrastinata al 2020 la folle riforma della prescrizione (stante la sua irretroattività), il “tutti dentro” avrà effetti immediati. Inutile ricordare quanto aveva proposto la Commissione Giostra (eliminare, nel rispetto della delega parlamentare, ogni ipotesi di reato da quelli di prima fascia, salvo quelle di mafia e terrorismo),giacché (tra l’altro) risulta inspiegabile come possa prestarsi collaborazione in delitti mono-soggettivi. Niente da fare; e’ la certezza della pena, bellezza. Del resto, il contratto di governo l’aveva promesso (punto 12,intitolato, per l’appunto, “Certezza dell pena”): per garantire tale principio bisognava “far sì che chi sbaglia torni a pagare; e’ necessario riformare e riordinare il sistema”. La pena carceraria, dall’inizio alla fine. Ed infatti, stante il principio del tempus regit actum in materia processuale (e penitenziaria) non varrà ad impedire quanto sopra indicato la pronuncia della Corte Costituzionale n.306 del 1993, che ha dichiarato l’illegittimità Costituzionale di una disposizione nella quale si prevedeva la revoca delle misure alternative per il condannato ex art.4 bis comma 1 ord. penit. non collaborante, il quale stesse già fruendo di una misura all’entrata in vigore del dl n.306/1992, anche nel caso in cui non fossero accertati collegamenti in atto con la criminalità organizzata. Ancora. Il legislatore giallo bruno si rivela del tutto incurante di quanto recentemente stabilito dal Giudice delle leggi (sent.n.149/2018), che ha affermato “il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”, ribadendo la sua necessaria “progressività e flessibilità”, quale diretta “attuazione del canone Costituzionale” di cui all’art.27/3 Cost. Mentre questo scempio accade, con ordinanza depositata lo scorso 20 dicembre, la prima sezione della Suprema Corte ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.4 bis, comma 1,ord. penit., laddove impedisce la fruizione del permesso premio ai condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416 bis c.p., che non abbiano prestato collaborazione, per contrasto con gli artt.3 e 27 Cost., censurando l’idea che la scelta collaborativa sia indice unico di assenza di pericolosità, “senza alcuna possibilità di apprezzamento in concreto della situazione del detenuto alla stregua del criterio di individualizzazione del trattamento”. Parole chiare, che il Ministro ignora, o forse non comprende. Ed allora, non resta che intraprendere la via del confronto giurisdizionale. Chiunque indossi la toga non potrà arrendersi al Mainstream governativo. La Corte come custode del Diritto e della sua ragionevole interpretazione. Rovesciando il dogma, anzi, (una rosa e’ una rosa e’ una rosa), la certezza della pena dovrà recuperare il senso compiuto di ciò che vuol dire la pena Costituzionale. Una pena legale, flessibile, che non arrivi (quando arriva) tanto tempo dopo il fatto accaduto. Con la riforma della prescrizione, viceversa, come già segnalato nell’appello, una condanna definitiva potrà arrivare a distanza di decenni, trascurando del tutto le vite degli altri, aprendo definitivamente le porte del carcere. Da ultimo, e di nuovo, la Corte come custode della Convenzione: invocando l’illegittimità dell’art. 4 bis, come modificato dall’art. 5 del ddl, per contrasto con l’art.1 17/1 Cost, in relazione all’art. 7 Cedu (cfr. GC 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna). *Avvocato Un carcere a misura d’uomo di Franco Corleone* e Corrado Marcetti** Corriere Fiorentino, 23 dicembre 2018 L’ipotesi di una grande riforma del carcere che mettesse al centro un sistema di sanzioni diverse dalla detenzione è stata fatta fallire dopo tre anni di lavori intensi, degli Stati generali e dei tavoli tematici. L’ipotesi di una grande riforma del carcere che mettesse al centro un sistema di sanzioni diverse dalla detenzione e avesse come faro il principio dell’articolo 27 della Costituzione è stata fatta fallire dopo tre anni di lavori intensi, degli Stati generali e dei tavoli tematici. Ora si devono fare i conti con la delusione e soprattutto con il sovraffollamento che incombe: sessantamila detenuti ammassati nelle carceri italiane come al momento della sentenza Torreggiani che condannava l’Italia per trattamenti crudeli e disumani. Oltre 3.400 persone detenute in Toscana e un nuovo suicidio a Pisa di un giovane senegalese per piccolo spaccio. Sorprende che di fronte alla gravità generale della situazione di degrado edilizio di tante strutture e alla gravità della mancata allocazione di risorse adeguate per la loro manutenzione o ristrutturazione, si alzino voci per richiedere la demolizione del carcere di Sollicciano, uno dei pochi carceri d’impianto riformatore. Chi conosce le vicende costruttive di Sollicciano sa che le cause di dissesto sono diverse, dalla scelta del sito all’esecuzione costruttiva da parte dell’impresa alla insufficiente manutenzione edilizia, ma riteniamo che richiederne la demolizione sia un obiettivo profondamente sbagliato per vari motivi: perché non fa i conti col fatto che se anche fossero rese disponibili le ingenti risorse necessarie alla nuova costruzione, i tempi complessivi di attuazione non sarebbero inferiori ai dieci anni; perché mentre non si conosce a quali criteri progettuali possa oggi far riferimento la concezione di un nuovo carcere (ed è forte il rischio di una ricaduta su modelli carcerari prettamente quantitativi e contenitivi) l’impianto del carcere di Sollicciano, se riportato alla coerenza innovativa della concezione originaria, risponderebbe alla visione costituzionale della pena: perché a questa visione ha fatto riferimento la progettazione e la realizzazione, all’interno del carcere, del Giardino degli Incontri di Michelucci. È necessario un piano di generale riorganizzazione delle funzioni che investa tutto il costruito del paesaggio carcerario (Sollicciano + Casa Circondariale M. Gozzini + l’edificio logistico collocato tra i due complessi + gli edifici inutilizzati da anni nello spazio di pertinenza del Gozzini) in cui sia presa in considerazione l’opportunità di destinare a esclusiva casa penale il complesso di Sollicciano con presenza di una sezione di alta sicurezza; sia studiata un’autonoma collocazione della sezione giudiziaria e una autonoma collocazione della semilibertà, attraverso una riprogettazione responsabile di edifici esistenti senza ulteriore consumo di spazio e infine la creazione di un luogo per la detenzione femminile rispettoso della differenza di genere; sia sviluppato il sistema di relazioni con il contesto e la città, sperimentando l’apertura all’esterno del Giardino. *Garante dei detenuti della Toscana **Responsabile Comitato Scientifico della Fondazione Michelucci. Aumentano i suicidi in carcere, come prevenire di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 23 dicembre 2018 Rapporto Ristretti Orizzonti. Vi è una crescita in termini assoluti, ma soprattutto in termini percentuali: mentre nel 2015 si è suicidato un detenuto ogni 1.200, nel 2018 il rapporto è diventato pari a uno su 900. I dati dicono inoltre che dietro le sbarre ci si ammazza circa venti volte di più che nella vita libera. Nelle ultime ore ci sono stati due suicidi in carcere, uno a Messina e l’altro a Trento. Tra i detenuti che negli ultimi mesi si sono ammazzati ci sono anche un giovane senegalese e uno tunisino. Il primo si è suicidato qualche giorno fa nel carcere di Pisa, il secondo a settembre in quello di Civitavecchia. Il giovane senegalese era dentro da circa un mese in custodia cautelare per violazione della legge sugli stupefacenti; pare avesse una qualche forma di disagio comportamentale. Il ragazzo tunisino aveva venticinque anni. Si è ammazzato nell’istituto di Civitavecchia proveniente da quello romano di Regina Coeli. Da lui abbiamo ricevuto una lettera dopo avere saputo della sua morte; ne abbiamo informato le autorità inquirenti. Dall’inizio dell’anno si sono suicidate nelle carceri italiane 65 persone. Queste sono le rilevazioni di Ristretti Orizzonti. I calcoli ufficiali del Ministero pare siano leggermente diversi, ma la sostanza della tragedia non cambia. Comunque è un numero in crescita rispetto al 2017, quando i suicidi erano stati in tutto 53; ma anche rispetto al 2016, quando vi erano stati 45 suicidi, e al 2015, quando furono ancora meno, ossia 43. Vi è una crescita in termini assoluti ma soprattutto, e ciò preoccupa, in termini percentuali: mentre nel 2015 si è suicidato un detenuto ogni 1.200 detenuti presenti, nel 2018 il rapporto è diventato pari a un detenuto suicida ogni 900 presenti. I dati inoltre ci dicono che in carcere ci si ammazza circa venti volte di più che nella vita libera. Ogni suicidio ha una risposta diversa. Le sintesi esplicative non funzionano per spiegare gesti di disperazione così gravi. La scelta di una persona di togliersi la vita non deve mai, da nessuno, essere strumentalizzata. Sarebbe dunque forse semplificatorio dire che vi sia un nesso causale diretto con il sovraffollamento crescente. È inequivocabile, però, che più cresce il numero dei detenuti più alto è il rischio che nessun operatore si accorga della disperazione di una persona. Se infatti cresce il numero dei detenuti, non crescono i numeri di coloro che compongono lo staff penitenziario. Dietro una scelta suicidaria può esservi solitudine, disagio psichico, trattamento sommario con psico-farmaci, assenza di speranza, disperazione per il processo o per la condanna, abusi. Non è possibile ricondurre a una la motivazione. Utile a individuarne le cause è la decisione del Garante nazionale delle persone private della libertà di attivarsi davanti alle Procure per ogni caso di suicidio in carcere, anche per dare dignità a quelle biografie altrimenti sepolte senza memoria. La peggiore delle soluzioni giudiziarie in un suicidio consiste nella ricerca del capro espiatorio. I suicidi non si prevengono attraverso pratiche penitenziarie umilianti (ad esempio lasciare nudo in una cella disadorna una persona ritenuta a rischio di suicidio per evitare che usi lenzuola o vestiti per ammazzarsi) o sottoponendo il detenuto a una sorveglianza asfissiante. Prendersela con l’agente di Polizia che ha abbandonato la marcatura a uomo è ingiusto e non ha alcuna valenza preventiva speciale o generale. Va rivista la colpa del custode. Per prevenire i suicidi in carcere bisogna togliere la volontà di ammazzarsi e non limitarsi a privare i detenuti degli oggetti con cui suicidarsi. La prevenzione dei suicidi ha a che fare con la qualità della vita interna, con la condizione di solitudine, con l’isolamento e con i legami affettivi all’esterno. Abbiamo messo a disposizione di senatori e deputati una proposta che contiene norme dirette a ridurre l’isolamento affettivo, sociale e sensoriale dei detenuti. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo. Una telefonata, al momento giusto, allunga la vita. L’isolamento penitenziario fa male alla salute psichica del detenuto. Durante l’isolamento i suicidi sono più frequenti. Va abolita la norma presente nel codice penale che prevede l’isolamento diurno per i pluri-ergastolani. Nei tempi duri non bisogna limitarsi a resistere passivamente, ma si deve continuare a spingere in avanti l’asse dei diritti. Continueremo a fare questa campagna insieme al manifesto, nostro grande compagno di viaggio. *Presidente Antigone Trento: detenuto si suicida in cella, scoppia la rivolta dei detenuti di Dafne Roat Corriere del Trentino, 23 dicembre 2018 Nella sommossa coinvolti 300 carcerati. Distrutti due piani del penitenziario. Struttura fuori controllo per 6 ore. Aperte 2 inchieste. Pronti 180 trasferimenti. È notte fonda, anche nel carcere di Spini di Gardolo tutti dormono. Le luci sono spente. Gli agenti ogni ora fanno i controlli di tutte le celle. Sembra tutto normale, anche se normalità non è propriamente un termine che si addice alla vita dentro una struttura penitenziaria. Sembra una notte come tante. Poi lo sguardo di un agente si allunga verso la cella di Sabri El Abidi, 32 anni, tunisino, detenuto per reati legati alla droga. Il suo compagno dorme profondamente, ma El Abidi non è nel suo letto. Gli agenti accorrono, scatta l’allarme. Sono le 3.04 del mattino quando arriva la chiamata al numero unico di emergenza 112. L’arrivo dell’ambulanza alle 3.27 e poi dell’auto-sanitaria con il medico rianimatore a bordo non è sufficiente a salvare El Abidi. Per lui non c’è più nulla da fare. La notizia in carcere si diffonde in fretta già dalle prime ore del mattino. Alle 8 arrivano i familiari per la consueta visita, sono quelli del primo turno, si sentono le prime urla. “Assassini”. “Bastardi, siete degli assassini”. E ancora: “Aiuto”. Le grida dei detenuti echeggiano nel piazzale davanti alla struttura di Spini. Mettono i brividi. Una nube di fumo si vede uscire dal tetto del carcere, i familiari all’esterno registrano tutto. Sono impauriti e arrabbiati. “Non ci dicono come stanno” spiegano. “Io qui brucio tutto se non mi fanno entrare e mi dicono come sta mio figlio” aggiunge un papà, arrivato da Verona con la moglie e i nipotini. I bimbi hanno le mani ghiacciate, ma giocano lo stesso con la neve. Sono impauriti, gli occhi languidi pieni di interrogativi e lacrime. Pensavano di vedere il loro papà. Dall’esterno si sentono gli agenti della polizia penitenziaria con i megafoni che invitano i detenuti alla calma. Ma ormai la rivolta è in atto. Sono le 8.30. I detenuti sono ormai incontenibili, inizialmente sono più di 300, come confermerà poi il capo del Dap, Francesco Basentini, arrivato da Padova a Trento poco dopo. Alcuni desistono e rientrano nelle proprie camere, mentre altri, circa 200 prigionieri si barricano in una stazione con i laboratori per le lavorazioni, ci sono fiamme e fumo. La rivolta è iniziata al terzo piano, ma i detenuti hanno appiccato piccoli focolai su tutti i piani. Sono stati bruciati materassi, distrutte suppellettili, danneggiati gli impianti di riscaldamento ed elettrico (parte del carcere poche ore dopo, alla fine della protesta, era ancora al buio). Per sicurezza gli agenti sono stati costretti a fare scendere tutti i prigionieri al piano terra e hanno aperto le celle. Ma ormai la protesta è difficile da contenere. I detenuti hanno divelto anche alcune porte, tra cui una verso l’esterno. I vigili del fuoco di Trento, arrivati in forze, hanno dovuto posizionare un grosso container per bloccare l’uscita ed evitare il rischio di possibili fughe. La tensione è alle stelle. Arrivano la polizia, i carabinieri, la guardia di finanza, sono un centinaio compresa la polizia penitenziaria. Ci sono tutti, sono schierati, alcuni con caschi e manganelli nelle auto. È il protocollo. Il questore Giuseppe Garramone e il Commissario del governo, Sandro Lombardi, arrivano poco dopo lo scoppio della rivolta insieme al tenente colonnello Giovanni Cuccurullo. Iniziano le trattative. Insieme alla direttrice del carcere Francesca Gioieni tentano di riportare la calma, di trovare un via per un colloquio con i detenuti. Non è facile. “È una guerra” commentano alcuni all’interno della struttura. Il primo e secondo piano sono stati devastati ed è danneggiato anche il terzo, in alcune parti. I danni sono ingentissimi, qualcuno azzarda delle cifre: “Qualche milione”. Ma per ora è difficile fare stime. All’esterno ci sono pattuglie di carabinieri, polizia e guardia di finanza, nel piazzale interno c’è solo la Croce Bianca, poco prima era uscita in emergenza un’altra ambulanza. All’interno ne resta solo una, pare su esplicita richiesta della direttrice. Arrivano i baschi verdi della Finanza, i carabinieri del Battaglione di Laives e il reparto mobile della polizia. Sembrano pronti ad un intervento di forza. Ci sono gli scudi, i manganelli, mentre dall’alto l’elicottero dei carabinieri sorvola il cielo sopra Spini e controlla la struttura. “Il rischio di fuga è concreto in casi di questo tipo” spiegano. Poco dopo arriva il presidente dell’ordine degli avvocati, Andrea de Bertolini, insieme al consigliere provinciale di Futura, Paolo Ghezzi, che chiede, come è previsto, di fare un’ispezione. Entrano, ma vengono fermati nel primo blocco. Ragioni di sicurezza. È detto tutto. Alle 13.25 per iscritto il consigliere chiede il motivo del diniego all’ispezione, ma non arriva alcuna risposta. Poco dopo le 13 esce dall’ingresso del carcere anche la pm Antonella Nazzaro. La Procura ha aperto una doppia inchiesta, una sulla morte del giovane tunisino e l’altra, per danneggiamento sulla rivolta. Arriva anche il governatore Maurizio Fugatti. Ci sono volute 6 ore per riportare la calma. Una trattativa lunga, estenuante. Ma non ci sono stati feriti. “Nessuno si è fatto male, grazie alle forze dell’ordine e al delicato lavoro fatto dal prefetto e dal questore” commenta la direttrice del carcere. Il Sappe invece denuncia “la follia della rivolta” e il ferimento di un’agente. “Ci sono anche sei intossicati” spiega il sindacato. Alle 14 è tornata la calma, ma la rivolta ha lasciato dietro di sé tanti danni e domande. Molte celle sono inservibili e 180 detenuti nei prossimi giorni verranno trasferiti in altri carceri, i più vicini, tra Lombardia e Veneto. Gioieni non conferma i numeri. “Stiamo facendo le verifiche sulle celle” spiega. Verranno sistemate camere da tre persone anziché da due. “Non sono trasferimenti punitivi - aggiunge - questo va chiarito. Ma vogliamo e dobbiamo garantire una detenzione corretta e dignitosa”. Trento: cure sanitarie carenti e permessi negati “troppe falle nel sistema” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 23 dicembre 2018 Gli avvocati: “Sorveglianza? Problema grave”. La replica: non è così “Lamentano pochi problemi che si possono risolvere”. Il Commissario del governo Sandro Lombardi è netto. I problemi verranno affrontati, ha garantito ieri ai detenuti. Dopo sei ore di trattative la rivolta è finita, ma per quanto? I numeri dei suicidi e dei tentati suicidi in carcere fanno paura, sono statisticamente di più del resto d’Italia. D’altronde “una struttura bella e moderna non fa un carcere vivibile”, denunciano gli avvocati. La sofferenza dei prigionieri di Spini è palpabile da tempo. È di dieci giorni fa la notizia di alcuni detenuti che hanno ingerito candeggina. A novembre un ventenne nigeriano ha tentato di togliersi la vita appena arrivato in carcere dopo la condanna a sette anni per stupro. È morto cinque giorni dopo in ospedale. È cronaca. I detenuti denunciano in particolare gravi problemi relativi alla rieducazione e soprattutto nella sanità. Sembra sia molto difficile per loro aver accesso alle visite specialistiche. Problema noto, sul fronte del servizio sanitario la Procura di Trento ha già avviato accertamenti. “Sono in corso degli approfondimenti” spiega il procuratore Sandro Raimondi. Poi c’è il nodo della sorveglianza e la “difficile dialettica con la magistratura di sorveglianza” in particolare per quanto riguarda i permessi. “Problemi risolvibili” ha garantito il Commissario del governo che ha fissato subito dopo Natale un comitato per la sicurezza. Sul tavolo ci sarà proprio l’emergenza carcere. Filippo Fedrizzi, presidente della Camera penale, parla di un “problema grave”. “Proprio oggi ho presentato un ricorso per una ragazzo in comunità a Vicenza, gli hanno trovato un lavoro, è seguito benissimo, ha un residuo di pena di due mesi e quattordici giorni ed è uscita un’ordinanza dopo l’udienza di ottobre in cui hanno deciso di rimetterlo in carcere. Per pene microscopiche interrompere percorsi terapeutici porta a gesti estremi. C’è un problema serio - aggiunge - anche sui tempi della Sorveglianza”. Fedrizzi si dice molto preoccupato: “La struttura è bella, ma ci sono troppi suicidi. Serve cooperazione virtuosa tra politica, sorveglianza, direzione e chi lavora all’interno. È un tunnel senza fine, non si vede mai uno sbocco, aspettare una risposta per mesi porta all’esasperazione”. “Non basta una struttura all’avanguardia perché all’interno ci sia una condizione di salubrità sociale che garantista la dignità dell’individuo” aggiunge il presidente dell’ordine degli avvocati Andrea de Bertolini. Serve una riflessione. “È urgente”, sottolinea. “Non è accettabile che questo territorio, dopo la Provincia ha fatto uno sforzo immane per dare dignità ai detenuti, non è accettabile un tasso di suicidi così alto. Siamo disponibili a dialogare - spiega - l’importante è trovare ascolto. Il carcere non deve essere un luogo di morte. I diritti non hanno colore politico, è responsabilità di tutti occuparsi di queste situazioni”. Un affondo pesante. Ieri a Spini è arrivato anche il magistrato di sorveglianza Arnaldo Rubichi che ha seguito personalmente il caso. “Dalle prime verifiche non risultano anomalie - commenta la presidente del Tribunale di sorveglianza di Trento, Lorenza Omarchi - ma approfondiremo il caso”. Sulla tempistica, invece, la presidente respinge le critiche. “Ci sono i dati, le statistiche vengono inviate ogni anno alla Corte d’appello di Venezia - spiega - siamo in linea con le statistiche nazionali”. E sulla tempistica del magistrato di sorveglianza? “Sono commisurate alle esigenze istruttorie” replica Omarchi. Trento: “6 colloqui al mese, ci trattano come cani. Il mio compagno? Recluso per droga” di Dafne Roat Corriere del Trentino, 23 dicembre 2018 Capelli lunghi neri raccolti in una coda, occhi grandi, sul viso c’è poco trucco. Sembra poco più di una bambina, ma è una mamma. A soli ventuno anni conosce già il dolore, la reclusione, la lontananza. L’assenza. Megan (il nome è di fantasia per questioni di riservatezza ndr) aspetta con le sue due grosse borse fuori dal carcere piene di biscotti e una felpa. “L’ho appena lavata”, dice. Era arrivato il suo turno ieri mattina per far visita al fidanzato quando è scoppiata la rivolta. Ora aspetta, ma tra pochi istanti dovrà tornare al lavoro. “E non lo vedrò neppure oggi”. Le visite saranno spostate alla vigilia di Natale, hanno assicurato. Da quanto state aspettando? “Io sono qui dalle otto e mezza. Ho sentito le urla, fanno paura. Non sappiamo niente di quello che sta succedendo. Gridano. Guardi, ho girato un video. Chiedono aiuto. Vogliamo solo sapere come stanno. Io voglio vedere il mio fidanzato, mi devono dire qualcosa”. Da quanto tempo il suo fidanzato è in carcere? “Da maggio, è dentro per spaccio... Io ho una bimba di soli due anni a casa, non la porto mai, ma almeno a Natale voglio che veda il suo papà”. Quante volte può vederlo? “Abbiamo diritto a sei visite al mese, se si hanno bambini piccoli diventano otto. Ma ci trattano come cani. Il lunedì è riservato alle visite dei detenuti protetti, il mercoledì i comuni, Posso parlare con lui sono un’ora e adesso hanno tolto anche l’orologio dalla stanza, così magari se possono accorciano i tempi. Non possiamo portare niente, solo cose confezionate in carta trasparente. Ci perquisiscono ogni volta. Guardi, gli ho portato biscotti, dei grissini, una felpa pulita e un po’ di dolciumi. Neppure a Natale ci lasciano portare qualcosa, i soldi, quelli, invece li accettano ben volentieri”. In che senso? “Moltissime cose le devono comprare e lì dentro c’è un business incredibile”. Dicono che questo carcere è moderno, bello, ma ha parecchie falle. Cosa le racconta il suo fidanzato? “Qualche volta lo vedo tranquillo, altre volte sta male. Non è un brutto carcere, ci sono agenti buoni, altri no. Il mio fidanzato sta cercando di lavorare, va anche a scuola. Ma è difficile”. Trento: la Garante Menghini “in carcere solo 3 educatori per oltre 300 detenuti” di Marzia Zamattio Corriere del Trentino, 23 dicembre 2018 Tre educatori per 350-360 detenuti, quando il carcere raggiunge la sua capienza massima. Problemi relativi ai servizi sanitari con infermeria chiusa la sera e nel weekend e lunghe liste di attesa per gli interventi specialistici, disagi legati ai trasferimenti e ai permessi. Questi i “nodi” lamentati dai detenuti del carcere di Spini di Gardolo, non il sovraffollamento anche se i numeri aumentano costantemente per una popolazione per il 70% straniera, dove venerdì notte si è tolto la vita Sabri El Abidi, tunisino di 32 anni. E dal cui suicidio, il secondo in due mesi anche se negli cinque anni se ne contano sette, è scaturita la rivolta dei detenuti conclusa dopo lunghe trattative. Le conosce bene, le problematiche, Antonia Menghini, docente di diritto penale e penitenziario e garante dei detenuti. Che ricorda un altro aspetto importante: il Natale. “I malesseri in questo periodo delicato creano situazioni detentive difficili per persone senza la famiglia vicina, che resta il riferimento anche per loro - spiega la Garante - qualsiasi disperazione profonda può portare a gesti estremi, in questi momenti, anche violenti”. Per questo, aggiunge, serve intercettare ogni disagio per evitare queste tragedie. È quello che è successo anche a Sabri El Abidi? “Si tratta di una disgrazia immane, di un’azione inattesa. Era un detenuto conosciuto, una persona positiva, sorridente e coinvolto in tante iniziative in carcere, sia di studio sia lavorative. Studiava all’alberghiero lavorava in cucina, era anche bravo: aveva cucinato per la festa di pochi giorni fa con le autorità. Non trovo parole, sono rimasta molto sorpresa del suo gesto inatteso, e non soltanto io”. Cosa può essere accaduto? “Non lo so, l’ho incontrato pochi giorni fa in corridoio, non a colloquio, ma mi aveva detto che le cose andavano bene. Sono quelle cose imponderabili... Verranno ovviamente fatte le veridiche del caso su questa disgrazia enorme su cui dobbiamo assolutamente portare l’attenzione e riflessione di tutti i vertici”. Quali saranno le azioni da mettere in campo ora? “Ho visto tutte le istituzioni coinvolte ai massimi livelli che hanno subito espresso la volontà di trovarci attorno a un tavolo per parlare di queste problematiche. Non è una notizia di oggi purtroppo ma è un dato positivo cercare insieme una soluzione al più presto”. La protesta che si è scatenata successivamente nel carcere di Spini è stata la reazione al gesto estremo di Abidi? “Si è creata una grave situazione di crisi. È stata una giornata molto molto difficile, del tutto inusuale. La mediazione messa in atto dal prefetto, dal questore e dalla direttrice con l’ascolto delle istanze dei detenuti e le risposte date loro, ha riportato la calma. Non so se sussista il nesso tra le due vicende ma il disagio in carcere è alto, si sa, in tutti, ma è importante fare per quanto possibile per intercettare e capirne le cause”. Quali sono i disagi nel penitenziario trentino? “Le problematiche riportate per la mia esperienza e che rilevo settimanalmente nei colloqui con i detenuti sono essenzialmente di carattere sanitario, le lunghe attese per gli interventi specialistici (ortodonzia, oculista con specialisti dall’esterno), oltre al lavoro e al problema del reinserimento, difficile per molti di loro, il 70% è straniero e spesso irregolare: quindi per persone che vivono tutta la detenzione in carcere diventa difficile il reinserimento. Questo è un punto nevralgico sui cui puntare. E non solo”. Quali altri nodi rileva? “Uno dei profili più lamentati qui, spesso collegato al numero ridotto di operatori - cosa che non riguarda la polizia penitenziaria, già implementata con 120 persone - nell’area educativa: solo tre per una popolazione che cresce specie negli ultimi due mesi, con impennate di 355-360 presenze. È un aspetto da monitorare, gli educatori si occupano anche dei colloqui. Poi ci sono i trasferimenti in altre carceri per avvicinarsi alle famiglie, anche questi con tempi spesso lunghi. E infine il disagio psichico, da monitorare, specie in questo momento, sotto Natale, dove tutto è amplificato dalla lontananza dai propri cari”. Ora cosa succede? “Intanto vediamo quanti detenuti verranno trasferiti dopo i danni della rivolta, domattina (oggi, ndr) torno in carcere, e spero tanto, soprattutto quest’anno che il vescovo venga per la messa fissata per domani, la vigilia di Natale”. Trento: Futura 2018 “troppi suicidi a Spini di Gardolo, il quadruplo della media nazionale” di Paolo Ghezzi* agenziagiornalisticaopinione.it, 23 dicembre 2018 Futura 2018 è vicina ai familiari di Sabri El Abidi, detenuto trentaduenne che si è tolto la vita stanotte nel carcere di Spini di Gardolo. Un’altra tragedia umana e sociale. Un altro essere umano morto in cella. A Trento, struttura modello o quasi, cominciano ad essere troppi. I dati statistici parlano di una frequenza ben superiore alla media nazionale. Sono da poco tornato dalla casa circondariale dove per oltre due ore, insieme agli avvocati Andrea de Bertolini e Filippo Fedrizzi, mentre si svolgevano le operazioni per il ripristino della “normalità”, ho atteso di poter svolgere la visita ispettiva che è un diritto (e direi anche un dovere) del consigliere regionale. Comprendo come non sia stato possibile, nei particolari frangenti delle operazioni di oggi, essere ammesso nella zona di detenzione: di certo mi ripresenterò presto a quei cancelli. Per cercare di capire. Senza voler fare alcuna speculazione politica su una tragedia umana e sulle circostanze particolari (e complesse, come abbiamo potuto apprendere) del caso di Sabri, le dimensioni della protesta che è divampata dopo che si è diffusa la notizia della morte del detenuto, nel cuore della notte, ripropone il tema dei diritti umani dentro la struttura carceraria di Trento. Un alto livello di tensione interna, che a detta degli stessi responsabili va al più presto abbassato, non è compatibile con la dignità che va riconosciuta anche ai detenuti: Futura 2018 è coinvinta infatti che la pena debba avere, secondo i principi della nostra civiltà giuridica, una funzione socialmente riabilitativa oltre che “retributiva” dei reati commessi. Come gruppo consiliare di Futura 2018, insieme alla collega Lucia Coppola, manterremo alta l’attenzione affinché nel carcere di Spini di Gardolo sia ristabilito un clima che non incoraggi le scelte disperate come quella che la scorsa notte ha compiuto il detenuto Sabri El Abidi, nella sua cella al terzo piano, mentre il suo compagno dormiva. Negli ultimi 5 anni la percentuale dei suicidi in Italia rispetto ai detenuti è dello 0,082 %, in Trentino dello 0,37%. Nel 2013 si è registrato 1 suicidio su 296 detenuti, nel 2014 due su 223, nel 2015 nessuno, nel 2016 uno su 327 e uno su 296 detenuti nel 2017. *Capogruppo consiliare di Futura 2018 Messina: suicidio in carcere di Rosario Mantino, aperta un’inchiesta di Giuseppe Baglivo ilvibonese.it, 23 dicembre 2018 E’ stata portata all’ospedale di Messina la salma di Rosario Primo Mantino, 43 anni, di Vibo Marina, che ieri sera si è tolto la vita impiccandosi nella cella del carcere della città dello Stretto dove si trovava detenuto. La Procura di Messina, al fine di vederci chiaro sul suicidio e per stabilire con esattezza ora e modalità del decesso, ha disposto il sequestro della salma e l’esame autoptico. A tal fine ha affidato l’autopsia ad un medico legale proveniente da Roma che inizierà ogni esame nella giornata di lunedì. Accanto alla Procura di Messina, si stanno intanto muovendo anche i familiari del detenuto che con l’avvocato Sergio Rotundo hanno segnalato il caso a più livelli nel tentativo di fare luce su un decesso a loro avviso in parte annunciato (nel carcere di Caltanissetta aveva tentato di tagliarsi la gola). Nei mesi scorsi, infatti, non sarebbero mancati tentativi da parte di Rosario Primo Mantino di farla finita in carcere. La perizia psichiatrica, chiesta dalla difesa e disposta nel luglio scorso dal gip distrettuale di Catanzaro nell’ambito del processo in abbreviato nato dall’operazione antimafia “Outset”, aveva tuttavia concluso con la capacità di Mantino di partecipare scientemente al processo. Nessun disturbo mentale, quindi, per il perito che non aveva riscontrato crisi depressive o sintomi che potessero preannunciare un suicidio come invece avvenuto ieri sera. Sarà l’inchiesta della Procura ad accertare eventuali errori di valutazione del caso. Nei confronti di Rosario Primo Mantino, l’accusa aveva avanzato nel processo “Outset” la condanna alla pena dell’ergastolo contestandogli di aver ucciso Giuseppe Pugliese Carchedi e ferito Francesco Macrì, entrambi di Vibo Valentia, il 17 agosto 2006 in concorso con Davide Fortuna, quest’ultimo a sua volta freddato in spiaggia nel luglio del 2012 a Vibo Marina nell’ambito della guerra di mafia contro il clan Patania di Stefanaconi. Il fatto di sangue era avvenuto lungo la strada provinciale che collega Pizzo Calabro a Vibo Marina, con la vittima - Giuseppe Pugliese Carchedi - inseguita da un’altra auto. Per tale omicidio è indagato anche Rosario Fiorillo, 29 anni, alias “Pulcino”, di Piscopio, la cui posizione è stata però stralciata in quanto all’epoca dell’omicidio di Giuseppe Pugliese Carchedi e del ferimento di Francesco Macrì era minorenne. Rosario Primo Mantino era stato condannato anche in primo grado (4 anni e due mesi la pena) per una tentata estorsione e delle lesioni - reati aggravati dalle modalità mafiose - ai danni di alcuni pescatori di Vibo Marina. Milano: al Consorzio VialedeiMille dolci artigianali della Banda Biscotti e vini Vale la Pena Corriere della Sera, 23 dicembre 2018 Cinque vetrine su strada all’inizio di viale dei Mille, all’angolo con piazzale Dateo. Quasi un incoraggiamento per chi ama entrare solo a colpo sicuro: si curiosa a distanza di sicurezza. “Entrate, entrate, perché stare al freddo?”, commentano da dentro. Il negozio, Consorzio VialedeiMille (creato da cinque cooperative sociali con la spinta dell’assessorato Politiche Lavoro del Comune), è fresco di ristrutturazione e impaziente di mostrare le collezioni appena arrivate. “Sono le eccellenze delle produzioni realizzate nelle carceri, competitive per qualità e per prezzo”, sottolinea la presidente Luisa Della Morte. Sotto l’albero di Natale non manca mai il food. Loro non si fanno cogliere impreparati: dai panettoni a lievitazione lenta, sfornati nella pasticceria Dolci sogni liberi del carcere di Bergamo, ai biscotti golosi, baci di dama al farro, frollini all’avena, barabit al cacao, ricette artigianali di Banda Biscotti, il laboratorio del carcere di Verbania (che impasta solo materie prime biologiche). E ancora, praline, mandorle, cioccolati, bottiglie di barbera Vale la pena (vitigni coltivati dentro l’istituto penitenziario di Alba), vini doc della Valtellina, la birra artigianale di Regina Coeli. Nel reparto del tessile, spiccano le tibetane di Borseggi, mini borsette in pregiati tessuto d’arredo (confezionate nella sartoria maschile di Opera), i runner e le tovaglie di Gatti galeotti (rifiniti a mano), la linea morbidissima di poncho, cappelli, sciarpe e manicotti, in cachemire e lana merino (ala femminile di Verziano, Brescia). Da Venezia, infine, una scelta di borse e accessori in pvc riciclato targato Malefatte. Roma: la Sindaca Raggi “molto bene l’esperienza dei detenuti nella pulizia dei parchi” Corriere Quotidiano, 23 dicembre 2018 Con questo progetto uniamo due cose: il reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso progetti di pubblica utilità e la tutela del nostro patrimonio ambientale. “Una comunità si costruisce con il contributo di tutti. Lo scorso marzo abbiamo voluto avviare un’importante iniziativa che vede i detenuti del carcere di Rebibbia impegnati nella pulizia delle aree verdi e dei parchi di Roma. Siamo partiti da Colle Oppio, ieri invece sono stati al Parco Schuster, a prendersi cura del verde davanti la Basilica di San Paolo fuori le Mura. A inizio giugno prenderà il via il corso di formazione per il secondo gruppo di detenuti”. Questo il contenuto di un post del sindaco di Roma Virginia Raggi sul suo profilo ufficiale di Facebook. “È un’iniziativa che si è sviluppata grazie ad ampie e forti sinergie istituzionali, tramite la sottoscrizione dell’ accordo congiunto Roma Capitale - Ministero della Giustizia e la successiva firma del Protocollo d’Intesa per il progetto Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale. Un lavoro di squadra che ha coinvolto gli assessori Baldassarre, Montanari e Frongia. Si tratta di un progetto in cui crediamo molto, che rende vivo e concreto l’articolo 27 della Costituzione, ovvero la funzione rieducativa della pena. Così facendo uniamo due cose: il reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso progetti di pubblica utilità e la tutela del nostro patrimonio ambientale. Una vita fuori dal carcere è possibile. Lo vogliamo dimostrare insieme ai detenuti che per l’occasione hanno voluto scrivere una canzone per raccontare questa loro esperienza”. Poi Virginia Raggi ha concluso: “Queste le loro parole che vorrei condividere con voi: Stiamo pagando i nostri errori passati attendendo un’ occasione per essere riabilitati. I sorrisi dei bambini che giocano nei parchi ripuliti ci riempiono d’orgoglio perché a qualcosa siamo serviti’“. Caserta: detenuti e toghe sul palco “qui l’arte rende liberi” Il Mattino, 23 dicembre 2018 Oltre alla verità c’è la compassione: è questo miscuglio che rende davvero liberi. Così come l’annullamento del pregiudizio, dello sguardo sbilenco, del chiacchiericcio. In realtà, dove ci sono tutti questi ingredienti, c’è umanità. Empatia che corre in maniera parallela all’applicazione della legge che per essere efficace deve essere gestita con il cuore. Questi ingredienti erano presenti nello spettacolo Epoche messo in scena dalla compagnia “Diversamente Liberi” composta da detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Attori allo stato puro, in scena da professionisti. Il titolo, Epoche, rimanda al concetto filosofico di sospensione del “giudizio” che, secondo gli scettici, era necessario ad assicurare al saggio l’imperturbabilità. Sul palco del teatro Ariston di Marcianise, messo a disposizione dall’amministrazione comunale targata Antonello Velardi, c’erano anche le toghe. Magistrati da un lato e detenuti dall’altro: al centro, le terzine di Dante Alighieri e i versi di William Shakespeare, accanto a Bob Dylan, Konstantinos Kavafis e Giorgio Gaber, Il tutto, è stato reso possibile grazie alla forza di volontà del magistrato Marco Puglia e della sua collega Lucia De Micco che con Oriana Iuliano e Filomena Capasso (le altre toghe) hanno collaborato con il funzionario giuridico pedagogico Giovanna Tesoro e, soprattutto, con l’ordine francescano secolare di Marcianise. Ed è il primo esperimento di partecipazione, in Italia, fra “giudicati” e “sorveglianti”. I pionieri sono sì i magistrati del tribunale di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, ma anche la direttrice del carcere Elisabetta Palmieri e gli agenti della polizia penitenziaria della casa circondariale. Sul palco, con i detenuti-attori, c’erano anche l’esperta ex articolo 80 Maddalena Mangiacapra e l’assistente sociale Fe-licia Carfora accompagnate, in musica, dal maestro Filippo Morace. Il progetto, in realtà, è nato nel 2016 da un’iniziativa di Puglia e ha coinvolto i detenuti del laboratorio coordinato alla Tesoro. “Lo spettacolo rivolge allo spettatore l’invito a sospendere il giudizio - spiegano gli organizzatori - nei confronti di persone che hanno infranto una regola sociale per offrire alle stesse la possibilità di diventare una persona migliore”. Scommessa vinta. Reggio Calabria: Titti che sarà fuori per Natale “in cella è nata un’altra donna” di Davide Imeneo Avvenire, 23 dicembre 2018 Grazie a un permesso concessole dalla direzione dell’istituto di pena di Reggio Calabria, Titti potrà riabbracciare i suoi cari per un giorno. “Sto scontando la pena, ma il carcere mi ha già cambiata”. C’è un albero di Natale all’ingresso della casa circondariale “Panzera” di Reggio Calabria, dove centinaia di uomini e di donne che hanno sbagliato stanno scontando la loro pena. L’abete ci accoglie appena varcato il portone dell’istituto di pena, insieme alla direttrice del carcere Maria Carmela Longo. “Questo è il quindicesimo Natale che trascorro in questo Istituto penitenziario - spiega - ed è sempre un momento di grande fede e partecipazione da parte di tutti i detenuti”. Il Natale è un tempo che “induce a riflettere sul proprio vissuto e a volgere lo sguardo oltre il presente”. D’altronde questa è la funzione del carcere: “Una volta usciti, si deve avere la possibilità concreta di essere persone diverse rispetto a quella che si era al momento dell’ingresso”. Accanto alla direttrice c’è monsignor D’Anna - per tutti don Giacomo - storico cappellano della casa circondariale reggina dal 2004 al 2018: proprio all’inizio di questo mese e dopo ben 14 anni di servizio ha passato il testimone a padre Carlo Cuccomarino Protopapa. “In questo luogo si vive l’umanità: si tocca con mano ciò che si è veramente, senza finzioni o “coreografie”. L’uomo nudo, come Gesù nella mangiatoia, che si presenta con i suoi limiti, le fragilità, i peccati e gli errori”, dice monsignor D’Anna spiegando anche lo stile della pastorale carceraria. “Un cappellano “si pone accanto”: nessuna lezione, nessuna soluzione per i detenuti. Ci siamo messi in cammino sulla via della redenzione: riscatto e conversione sono le parole-chiave per condurre ogni uomo o donna recluso a recuperare la sua dignità”. Una sfida tutt’altro che semplice per la natura stessa del carcere reggino: “In questa casa circondariale, che per tanti rappresenta la “prima accoglienza” subito dopo l’arresto, sono transitati negli anni del mio ministero migliaia di fratelli e sorelle. Quelle prime ore e quei primi giorni sono tra i più concitati: si inizia a fare i conti con i crimini di cui si è accusati, ma anche con i primi passi in una realtà spesso sconosciuta come la detenzione. Si viene strappati dai propri affetti: immaginate la sofferenza che si prova. In questo momento proviamo a esserci, con l’obiettivo di essere portatori di speranza proprio nel momento in cui tutto sembra perso”. Don Giacomo ci accompagna da Titti; una donna sulla quarantina, capelli corti, occhi cerulei. È in carcere da quasi 5 anni: sta scontando gli ultimi mesi con la “messa alla prova” del lavoro fuori dalla sezione femminile dove è reclusa. “Siamo madri, siamo mogli, siamo figlie. Il nostro pensiero va alle nostre famiglie. La mia speranza è che, grazie a questo percorso rieducativo ci ritroveremo tutte fuori. Da persone libere”. Titti conta i giorni che la separano dal suo ritorno a casa. Ha grande dignità nel raccontarsi, guardandoci sempre negli occhi. Spesso spezza le sue risposte con un sorriso. Sta già iniziando a prendere confidenza con la libertà proprio grazie al percorso personalizzato che i responsabili dell’area educativa hanno pensato per lei. “In vista dell’ormai prossimo Natale, sto vivendo l’emozione di poter andare in permesso a casa per riabbracciare la mia famiglia. Devo ammettere che, nella mia quotidianità, all’interno dell’istituto vivo una condizione altrettanto “familiare”: può sembrare paradossale, ma è così”. In effetti queste celle, col passare del tempo, diventano una “seconda casa” soprattutto quando - accanto alla sofferenza della condizione di detenuta - si affiancano presenze silenziose ma costanti. Un paradosso, certamente: individui a cui è sottratto il bene più prezioso, la libertà, che riescono a trovare e condividere sentimenti genuini come quello dell’amicizia, seppur nei limiti della carcerazione. Il percorso è lungo, tortuoso, non mancano le ferite ancora aperte che nel continuo esercizio della rielaborazione di sé tornano a galla. Titti lo confessa: “Sono tornata a ripensarmi come una persona: qui dentro siamo categorizzati come delinquenti e questo è un macigno che ci portiamo sulle nostre spalle. Probabilmente il grande passo in avanti è proprio questo: io sto scontando la mia pena, ma non passa giorno in cui non credo di essere una persona nuova, una volta uscita da qui”. Airola (Bn): il Garante regionale a pranzo con i detenuti del carcere minorile di Alessandro Fallarino ottopagine.it, 23 dicembre 2018 Ciambriello: diminuire distanze tra le persone diversamente libere e la società esterna. Un’atmosfera natalizia di colori e sapori si è vissuta oggi nel carcere minorile di Airola dove un pranzo è stato offerto dal Garante Campano dei diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello che ha voluto trascorrere una vigilia di festività natalizie all’insegna dell’amore e della solidarietà. I giovani ospiti hanno potuto gustare un ricco menù natalizio preparato dal cuoco dell’istituto insieme allo staff del garante. Il Garante Ciambriello insieme al direttore, Dario Caggia ha regalato poi panettoni per ogni stanza di pernottamento dei ragazzi. I giovani reclusi prima del pranzo, nel teatro dell’istituto, hanno assistito ad un musical che ha visto protagonisti gli studenti del Liceo scientifico “Enrico Fermi” di Montesarchio. Per il Garante Ciambriello: “il mistero del Natale è un mistero d’amore, come Garante mi sento un agente di prossimità che fa diminuire le distanze tra le persone diversamente libere e la società esterna. In questo periodo iniziative come quella di oggi aiutano i giovani reclusi sia a sentire il peso della separatezza familiare, sia la responsabilità dei propri gesti. In queste loro assenze riscoprono il valore della solidarietà di chi entra in carcere sia per regalare loro momenti di gioia e di fraternità, sia per chi ha il dono dell’ascolto nei loro confronti”. Brescia: un dono speciale per i detenuti, i biglietti d’auguri disegnati dai bimbi di Lilina Golia Corriere della Sera, 23 dicembre 2018 Sono seicento i cartoncini consegnati nelle celle. La docente: insegniamo l’inclusione. Forse è proprio nel momento in cui ci si rende conto di quanto le scelte sbagliate tolgano alla vita che si ha più bisogno di sostegno, immaginando il mondo da dietro le sbarre. E piccoli gesti di affetto diventano l’impulso per far ripartire l’esistenza in modo nuovo. “Ma questo bigliettino è proprio per me?”. Gli occhi sono gonfi di commozione e il bigliettino, premuto con le mani tremanti sul petto, diventa un tutt’uno con il cuore di uno dei detenuti di Verziano che in questi giorni ha ricevuto gli auguri dei bimbi della scuola elementare Canossi di Brescia. Oltre 600 cartoncini e volti di bambini in pannolenci (140 già consegnati a Verziano, gli altri recapitati ieri a Canton Mombello) realizzati dai bambini - coordinati dalla maestra Alessandra Spreafico e con il plauso anche dell’Ufficio Scolastico Provinciale - e inseriti nei cestini con generi alimentari, preparati dalla cooperativa Alborea. “Ci siamo divertiti anche noi a confezionare i pacchi”, dice agli alunni il direttore, Angelo Maiolo. “Prendersi cura di qualcuno non è un compito facile - scrivono i piccoli nella lettera che accompagna gli auguri - e anche se siamo bambini, stiamo imparando a farlo nella nostra quotidianità. Abbiamo deciso di prenderci cura di chi, forse, non riceverà nemmeno un biglietto per Natale”. Un impegno gratuito, ripagato dalla felicità di chi riceve un pensiero che resta indelebile nell’anima. “Chi sbaglia va aiutato e non allontanato - spiega la dirigente scolastica Annamaria Testa - e ai nostri bambini vogliamo insegnare ad avere uno sguardo inclusivo”. Un’inclusione che per i detenuti passa anche attraverso il rapporto con l’esterno, ricorda la garante dei detenuti, Luisa Ravagnani, cui fa eco la direttrice dei due istituti di pena, Francesca Lucrezi. “È importante che voi, che appartenete a un mondo diverso, abbiate un pensiero per chi è considerato cattivo. E il vostro abbraccio simbolico a chi nemmeno conoscete è più utile di una punizione”. Il recupero dei detenuti trova nei bambini insegnanti speciali, portatori di futuro. “Questo è un messaggio di speranza importante”, evidenzia Andrea Cavaliere, presidente della Camera Penale di Brescia, ricordando che la risposta al sovraffollamento delle carceri non è la costruzione di nuovi penitenziari, ma la rieducazione. I bimbi si riuniscono in coro. Cantano con tutto il fiato che possono, immaginando di fare arrivare la loro gioia a ognuno dei detenuti di Verziano e Canton Mombello. “La giusta quantità di dolore”. Il tempo del labirinto scorre senza le persone di Alessandra Iadicicco La Lettura del Corriere, 23 dicembre 2018 Giada Ceri dà conto della sua esperienza di “operatrice della riabilitazione” fra i carcerati con un viaggio nel ventre di una prigione dove tutti, anche il visitatore occasionale, fanno i conti con “la giusta quantità di dolore”. La Scrittrice si addentra nel dedalo delle carceri in incognito, in punta di piedi. Ne sonda i meandri disposta a perdersi, a inciampare, a fermarsi davanti agli accessi sbarrati e in fondo ai vicoli ciechi, a tornare indietro per ripartire da capo, armata di pazienza, determinazione, intelligenza, non però della sicumera di chi si aspetta di venirne a capo. È sommessa, silenziosa e - si perdoni l’asprezza del calzante tecnicismo - endofasica, cioè interiore, intima, formulata nella testa per sottili figure di pensiero, la voce narrante che racconta dando forma allo spazio segreto, nascosto, occulto, paradossale dell’universo penitenziario. Che si tratti di un’esperienza personale, che l’autrice si occupi da anni delle problematiche delle prigioni contemporanee collaborando da “operatrice della riabilitazione” (questa la definizione del suo ruolo in burocratese) in ambito penitenziario lo si apprende dal risvolto di copertina. Che chi narra, e a un cosmo tanto serrato e complicato come quello in cui si patisce la pena, in cui si soffre, avverte il titolo, La giusta quantità di dolore, riesce a dare una - adeguatamente spiazzante - forma narrativa abbia la stoffa dello scrittore, lo si coglie dalla prima pagina. Giada Ceri, azzecca il tono, indovina la tonalità - sonora ed emotiva - giusta fin dall’incipit, senza bisogno di stare a studiare le variazioni da mettere in chiave: il carattere della sua prosa, il timbro del suo strumento si erano rivelati fin dai suoi esordi, avvenuti una quindicina di anni fa, lei allora era appena trentenne, con il romanzo “L’uno. O l’altro” (Giano, 2003) seguito da “Il fascino delle cause perse” (Pequod, 2009). Già allora il suo talento aveva mostrato singolari qualità: una luminosa sagacia, una grande finezza di intuizione, una folgorante ironia. Con questo spirito colei che ora racconta varca le mura del carcere che, apprende, “deriva dall’aramaico carcar, “sotterrare”. Ne misura la planimetria di non-luogo, la concretezza tutt’altro che utopica di territorio del disagio reale, gli assurdi spazi celati a chiunque dentro cui si è totalmente visibili a tutti, la geometria da primordiale Uroboro, il serpente che si morde la coda, la mappa da labirinto kafkiano: “Svoltiamo a un angolo, saliamo due rampe di scale e imbocchiamo un altro corridoio. In quale parte della prigione siamo finiti? Non pensavo ci saremmo spinti così addentro al cuore di tenebra - e di questo corridoio, di nuovo, non si indovina la fine”. Ne analizza con curiosità e incredulità la logica e la grammatica. Decostruisce la sintassi dei funzionari e dei coordinatori: “Le frasi di quest’uomo che mi guarda dall’alto in basso pur arrivandomi alla spalla riescono a confondermi anche le idee che non ho”. Incenerisce l’ipocrisia degli eufemismi e degli stereotipi: “Un’istituzione che mette al centro la persona mi fa pensare a un poligono di tiro”; il “buongiorno” di una coppia di agenti, pronunciato la mattina presto davanti all’ennesima porta blindata fa credere che forse, chissà, potrebbe ancora accadere qualcosa di buono, anche in un luogo “dove nemmeno Pascal scommetterebbe sull’esistenza di Dio”. Dei detenuti osserva la nudità delle celle - tavolo sedia lavandino water la povertà della dieta, la monotonia delle giornate, la lentezza incomputabile delle ore: “Lo scorrere del tempo viaggia senza di me”, legge sul muro di uno dei loro loculi. Assiste alla loro messa in scena di sé stessi: a teatro, quello allestito dalla Compagnia della Fortezza di Volterra, un’occasione per reinventare Shakespeare, per identificarsi con i protagonisti di una tragedia, per prendere coscienza del gioco infame del Fato, delle connivenze oscure tra Colpa e Destino. Incontra coloro che lottano inesausti per difendere, dei carcerati, il diritto alla riservatezza, alla salute, all’istruzione, alla rieducazione, personaggi di statura epica, grandiosi antieroi, “affascinanti” paladini delle “cause perse”: il Capitano, la Contessa, la Mitragliatrice - una che mitraglia parole sulla carica della propria motivazione e della buona fede nella propria missione, senza permettere all’ombra di un dubbio di turbarla, il Gatto, la Volpe, una ieratica, serenamente dimessa Nostra Signora della Bella Morte. Figure splendenti, disposte a scontrarsi con tenacia, oltre che contro le sbarre invalicabili dei penitenziari, con “l’ottusità delle istituzioni”, incapaci di pensare sé stesse se non avverte Luigi Manconi nella polemica prefazione - al prezzo di vergognarsi di sé. Figure coraggiose quanto la muta, tagliente, intelligentissima Scrittrice, sapiente abbastanza da riconoscere che, in galera, come in letteratura, uno straordinario potenziale di bellezza, di crescita e di maturità si può riporre nella “giusta quantità di dolore”. Giada Ceri - “La giusta quantità di dolore”. Prefazione di Luigi Manconi. Edizioni Exòrma. Tra fake news e tagli. Il governo Lega-Cinque Stelle contro la libertà di stampa di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 23 dicembre 2018 Attacco a radio, quotidiani locali e a quelli critici con Lega e Cinque Stelle. Ignorati otto appelli a tutela dell’editoria cooperativa e no profit del Presidente della Repubblica Mattarella. Ma il fondo per il pluralismo resta, solo per loro sarà azzerato. Nel maxiemendamento del governo alla legge di bilancio, bollinato dalla ragioneria generale, è confermata la rappresaglia contro la libertà di stampa in Italia. I 59 milioni di euro contenuti nel “fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione” saranno azzerati tra il 2019 e il 2022. Il contributo diretto erogato a ciascuna impresa editrice, tra cui ci sono anche Il Manifesto, Avvenire, Italia Oggi, Libero e molte testate locali - per un totale di 52 - sarà ridotto nel 2019 del 20% della differenza tra l’importo spettante e 500 mila euro; nel 2020 del 50% della differenza tra l’importo spettante e 500 mila euro; nel 2021 del 75% della differenza tra l’importo spettante e 500 mila euro. Previsto anche un taglio del fondo per la convenzione tra il ministero dello sviluppo e Radio Radicale da 10 a 5 milioni di euro. Dal taglio all’editoria sono stati escluse le testate delle minoranze linguistiche. Per il momento si tratta però di un salvataggio a metà. Se, infatti, il quotidiano della minoranza slovena in Friuli Venezia Giulia Primorski dnevnik è stato risparmiato dall’offensiva della Lega e dei Cinque Stelle, non è ancora così per il settimanale Novi Matajur, voce degli sloveni in provincia di Udine, e il settimanale Novi Glas edito a Gorizia e aderente alla federazione italiana settimanali cattolici (Fisc) che, in questi giorni, ha più volte invitato il governo a fermarsi e ad avviare un “tavolo di confronto”. Diversamente da quanto sostenuto dal vicepresidente del consiglio, ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio - e dal sottosegretario all’editoria Vito Crimi (M5S) - il fondo per l’editoria non sarà “cancellato”. Sarà invece indirizzato verso altri soggetti editoriali, pescati da una platea non ancora identificata di soggetti. A farlo, in maniera discrezionale, sarà la presidenza del Consiglio “con uno o più decreti”. Diversamente dalla legge esistente, già riformata nel 2017, sarà dunque la maggioranza di turno - con decreti, non con una legge - a stabilire i criteri del “pluralismo” rivendicato anche nel testo governativo. È uno dei tanti “bispensieri” populisti (ovvero la capacità di dire una cosa e di fare anche il suo contrario) di cui è costellata questa manovra: in questo caso, in nome del “pluralismo” non si estende quello esistente, ma lo si abolisce. Si tratta di una norma non innocente, né liberista. Se lo fosse stata, il fondo sarebbe stato cancellato. Non è stato fatto, al contrario di quanto si è letto nella lista pubblicata da Di Maio ad uso del balcone di Facebook. Anche l’altro ritornello, quello del mercato, va opportunamente contestualizzato. Secondo Crimi, infatti, questa misura che riscrive il concetto di “pluralismo” a misura di un governo che prova a ricattare economicamente i quotidiani più critici della sua linea politica, sarebbe una misura pro-mercato. Tagliare i contributi diretti per sostenere l’informazione intesa come bene pubblico non rivale e non esclusivo (come il cinema, il teatro, la danza o la ricerca) significa tutt’altro: favorire gli oligopoli editoriali, tra l’altro in gran parte in crisi di vendite. Un altro esito paradossale che non è stato affatto spiegato a quel “popolo” a cui il taglio è stato promesso. Hanno detto di volere attaccare i “giornaloni”, non solo perché critici con il governo, ma anche perché sono di proprietà di “editori non puri”. E, nei fatti, invece, cercano di colpire proprio gli editori “puri” che editano giornali cooperativi i cui proprietari sono i giornalisti e i poligrafici che ci lavorano. È stato stimato che questa vendetta può mettere a rischio fino a mille posti di lavoro diretti, e fino a diecimila negli indotti. Anche questo esito possibile rientra nell’orizzonte psichico e politico di una maggioranza che giura di volere creare lavoro e, nel frattempo, pensano di distruggere quello esistente. L’emendamento Patuanelli, capogruppo M5S al Senato, ha ignorato gli otto appelli per la tutela della libertà di stampa del Presidente della Repubblica Mattarella, quelli della presidente del Senato Casellati, oltre che le dichiarazioni in questo senso del presidente della Camera Fico. L’attacco alla stampa ha provocato una solida trasversale tra le forze politiche. Da Fratelli d’Italia a Forza Italia, da LeU al Pd tutti hanno denunciato la decisione del governo. L’ordine e il sindacato dei giornalisti Fnsi hanno più volte manifestato le loro critiche. Ieri il governatore della Campania De Luca ha detto che “i tagli sono una vergogna e per quanto ci sarà possibile tenteremo di prendere qualche decisione” per le testate campane. La regione Toscana metterà a disposizione 1,5 milioni di euro per le testate locali. Sul pericolo atomico l’Italia delle “tre scimmiette” di Manlio Dinucci Il Manifesto, 23 dicembre 2018 Eloquente il silenzio praticamente assoluto dell’intero arco parlamentare nostrano rispetto all’intervento del presidente russo Putin che ha sottolineato come il mondo sottovaluti il pericolo di guerra nucleare. Come se l’Italia non avesse niente a che fare con la corsa agli armamenti nucleari che potrebbe portare alla “distruzione dell’intera civiltà o forse dell’intero pianeta”. Quale reazione ha suscitato in Italia l’avvertimento del presidente russo Putin che il mondo sottovaluta il pericolo di guerra nucleare e che tale tendenza si sta accentuando? Significativo il commento de La Repubblica che parla di “toni molto allarmistici”. Eloquente il silenzio praticamente assoluto dell’intero arco parlamentare. Come se l’Italia non avesse niente a che fare con la corsa agli armamenti nucleari che, ha avvertito Putin nella conferenza stampa di fine anno, potrebbe portare alla “distruzione dell’intera civiltà o forse dell’intero pianeta”. Scenario non allarmistico, ma previsto dagli scienziati che studiano gli effetti delle armi nucleari. Un particolare pericolo - sottolinea Putin - è rappresentato dalla “tendenza ad abbassare la soglia per l’uso di armi nucleari, creando cariche nucleari tattiche a basso impatto che possono portare a un disastro nucleare globale”. A tale categoria appartengono le nuove bombe nucleari B61-12 che gli Usa cominceranno a schierare in Italia, Germania, Belgio, Olanda e forse in altri paesi europei nella prima metà del 2020. “L’alta precisione e la possibilità di usare testate meno distruttive - avverte la Federazione degli Scienziati Americani - possono portare i comandanti militari a premere perché, in un attacco, si usi la bomba nucleare, sapendo che la ricaduta radioattiva e il danno collaterale sarebbero limitati”. L’Italia è corresponsabile del crescente pericolo di guerra nucleare poiché, violando il Trattato di non-proliferazione e non aderendo al Trattato Onu per la proibizione delle armi nucleari, fornisce agli Stati uniti in funzione principalmente anti-Russia non solo basi, ma anche aerei e piloti per l’uso delle bombe nucleari. Ciò avviene con il consenso esplicito o implicito (attraverso la rinuncia a una reale opposizione) dell’intero arco parlamentare. L’altro pericolo - avverte Putin - è rappresentato dalla “disintegrazione del sistema internazionale di controllo degli armamenti”, iniziata con il ritiro degli Stati uniti nel 2002 dal Trattato Abm. Stipulato nel 1972 da Usa e Urss, esso proibiva a ciascuna delle due parti di schierare missili intercettori che, neutralizzando la rappresaglia del paese attaccato, avrebbero favorito un first strike, ossia un attacco nucleare di sorpresa. Da allora gli Stati uniti hanno sviluppato lo “scudo anti-missili”, estendendolo in Europa a ridosso della Russia: due installazioni terrestri in Romania e Polonia e quattro navi da guerra, che incrociano nel Baltico e Mar Nero, sono dotate di tubi di lancio che, oltre ai missili intercettori, possono lanciare missili da crociera a testata nucleare. Anche in questo caso l’Italia è corresponsabile: a Sigonella è installata la Jtags, stazione satellitare Usa dello “scudo anti-missili”, una delle cinque nel mondo. La situazione è aggravata dal fatto che gli Usa vogliono ora ritirarsi anche dal Trattato Inf del 1987 (quello che eliminò i missili nucleari Usa schierati a Comiso), così da poter schierare in Europa contro la Russia missili nucleari a raggio intermedio con base a terra. Anche qui con la corresponsabilità del governo italiano, che al Consiglio Nord Atlantico del 4 dicembre ha avallato tale piano ed è sicuramente disponibile all’installazione di tali missili in Italia. “Se arriveranno i missili in Europa, poi l’Occidente non strilli se noi reagiremo”, ha detto Putin. Avvertimento ignorato da Conte, Di Maio e Salvini che, mentre battono la grancassa sul “decreto sicurezza” anti-migranti, quando arrivano bombe e missili nucleari Usa mettendo a rischio la vera sicurezza dell’Italia, non vedono, non sentono e non parlano. Migranti. Emran, 14 anni: “il mio compagno di cella lasciato morire di fame nel carcere libico” di Marta Serafini Corriere della Sera, 23 dicembre 2018 “Se al vostro posto fossero arrivati i libici ci saremmo buttati in acqua”. Palestinesi, siriani, subsahariani. Non ci sono solo Sali Sanou, 23 anni, e Sam, mamma e figlio del Burkina Faso, tra le 313 anime tratte in salvo dalla Ong catalana. “I migranti sono tutti allo stremo delle forze”, spiega al Corriere Riccardo Gatti, comandante della Open Arms. “Non sono a bordo ma sto seguendo da vicino con i colleghi”. Dal ponte arrivano le prime testimonianze. “In Libia mi hanno imprigionato, con me c’era un giovane somalo, era pelle e ossa, volevamo dargli da mangiare ma ce lo hanno impedito. È morto due giorni dopo”, racconta Emran, palestinese di 14 anni, alla reporter de El Diario Fabiola Barranco Riaza. Le prigioni libiche ancora scoppiano, i racconti di torture e abusi restano una costante, i segni e le cicatrici sui corpi anche. “Mi hanno picchiato, ho perso un occhio, ero da solo: la mia famiglia è rimasta in Palestina”. Con Emran c’è Blessing, 23 anni, che ha avuto un bambino durante la prigionia e come la maggior parte delle sue compagne di viaggio ha subito violenze e abusi di ogni tipo. E Charity, 25 anni, che ha lasciato la Nigeria per sfuggire dai jihadisti di Boko Haram e ora si prende cura di Blessing e di un’altra donna che chiama “sorella”. “Li abbiamo soccorsi in tre salvataggi diversi. Durante la fase di ricerca, in un’occasione, i libici si sono avvicinati ma poi se ne sono andati”, sottolinea Gatti. Come da procedura, il team di ricerca e soccorso della Proactiva Open Arms ha segnalato via mail la presenza dei gommoni ai centri di comando delle diverse guardie costiere interessate, libici compresi. “Tripoli ci ha risposto via mail senza commenti. L’unica cosa che hanno scritto è stato l’indirizzo del comando generale della Marina italiana. Dopo di che sia La Valletta che Roma hanno rifiutato l’assegnazione del Pos (Place of Safety, il porto di sbarco che viene assegnato dalle autorità in caso di salvataggio come previsto dal diritto internazionale, ndr)”. Poi Gatti si interrompe. Da Madrid arriva la notizia che Open Arms può sbarcare in Spagna. Nel frattempo la Astral (la goletta di appoggio della Ong, ndr) è salpata da Barcellona per portare rifornimenti. “Sarà una lunga traversata, abbiamo a malapena i viveri. Ma almeno il meteo è buono fino a martedì”. Fino a Natale. Stati Uniti. Vescovi plaudono all’approvazione della riforma delle carceri federali agensir.it, 23 dicembre 2018 I vescovi americani plaudono all’approvazione e alla firma del First Step Act, la riforma delle carceri federali che inciderà non solo sul sistema detentivo ma anche sulla condanna dei detenuti. “Il sistema di giustizia penale della nostra nazione ha bisogno di riforme e questa legislazione è un degno primo passo nella giusta direzione”, ha dichiarato Frank J. Dewane, presidente del Comitato giustizia e sviluppo umano della Conferenza episcopale. Mons. Dewane ha elogiato lo sforzo di collaborazione bipartisan, poiché ha visto per la prima volta, dopo mesi, democratici e repubblicani schierati a favore delle riforma. Il vescovo ha enumerato poi gli effetti positivi della legge a partire dalla revisione delle condanne e di alcune pratiche violente, come ad esempio l’incatenamento delle donne incinte. Nella legge si favorisce un riavvicinamento dei detenuti alle loro famiglie, un approccio più compassionevole verso i malati terminali che potranno usufruire della scarcerazione. Il First step act consentirà il reintegro del detenuto e il riottenimento dei documenti di identità e di tutti i diritti di cittadinanza incluso l’esercizio del voto. Inoltre verranno istituiti corsi di formazione che consentano alla persona che tornerà in libertà di potersi reintegrare nel mondo del lavoro. Gratitudine è stata espressa anche per l’attenzione data all’esercizio della libertà religiosa e al coinvolgimento del volontariato e di diverse associazioni religiose nell’offrire servizi di accompagnamento. “Il Natale ci ricorda la necessità di promuovere la giustizia e la misericordia - ha concluso mons. Dewane - e questa legge è certamente un passo avanti in questa direzione”. Turchia. Il cinismo politico che condanna i curdi di Guido Olimpo Corriere della Sera, 23 dicembre 2018 Hanno sacrificato molti uomini e donne per sradicare le bandiere nere dell’Isis. Non è bastato a fermare la Storia. La Storia, con alcuni popoli, non è mai generosa. E lo è ancora meno quando hanno solo degli amici interessati. E’ questa la condanna dei curdi, schiacciati da giochi di cinismo politico, geografia, territorio, rivalità, nemici irriducibili. Gli Usa li hanno usati per liberare ampie porzioni della Siria finite sotto il controllo dello Stato Islamico. I guerriglieri Ypg, gemelli e cloni dei loro fratelli di Turchia (fazione Pkk), non si sono sottratti. Volevano sventare la minaccia islamista, ma anche rilanciare le loro ambizioni di crescita. Sapevano che era un patto precario, non infinito. Il loro disegno si scontrava con la “naturale” opposizione non solo della Turchia, ma anche di altri protagonisti della grande crisi. Hanno provato ad adeguarsi, saltellato da una posizione all’altra, alla fine sono stati lasciati indietro. Donald Trump ha girato loro le spalle ricucendo i rapporti con il presidente Erdogan, alleato non certo affidabile, molto ambiguo, ma sempre un membro della Nato. Svolta ingiusta, scelta non sorprendente. E se andiamo indietro nel tempo hanno sofferto tradimenti anche gli “altri” curdi. Quelli dell’Iraq, alleati nella lotta contro Saddam e dimenticati quando scattò la vendetta del raìs. Quelli dell’Iran, coccolati per infastidire gli ayatollah però non tutelati fino in fondo: per due volte la loro leadership è stata decapitata da attentati attribuiti a Teheran compiuti a Vienna e Berlino. Esperienze dure, brutali, ripetutesi in epoche diverse. Certo, i dirigenti avrebbero dovuto essere più cauti, evitando anche politiche che hanno messo in allarme le altre etnie, timorose di essere sottomesse, ma gli avversari non gli hanno lasciato troppe alternative. L’avanzata del Califfato, l’assedio di Kobane, i massacri dei jihadisti hanno creato le condizioni per l’azione comune con gli occidentali. I curdi hanno sacrificato molti uomini e donne per sradicare le bandiere nere. Non è bastato a fermare la Storia. Nigeria. Quasi 4.000 morti in tre anni negli scontri tra contadini e pastori di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 dicembre 2018 Secondo un rapporto di Amnesty International, in Nigeria dal 2016 gli scontri tra contadini e pastori per il possesso di terreni, pascoli e acqua hanno causato almeno 3641 vittime, il 57 per cento delle quali solo quest’anno, e costretto altre migliaia di persone a lasciare le loro terre. Dal 5 gennaio 2016 al 5 ottobre 2018 vi sono stati almeno 310 attacchi, soprattutto negli stati di Adamawa, Benue, Karuna, Taraba. Zamfara e Plateau. La mancanza di provvedimenti da parte delle autorità nigeriane, che non hanno svolto indagini adeguate né tanto meno assicurato alla giustizia i responsabili, ha alimentato un ciclo di rappresaglie che ha lasciato indifese intere comunità e ha investito quasi tutto il paese. Si è trattato quasi sempre di azioni coordinate, con l’impiego di armi pesanti come fucili e mitragliatrici, con l’obiettivo di fare il maggior danno possibile, dando fuoco alle fattorie e ai terreni da un lato e razziando e decimando capi di bestiame dall’altro. Uno degli attacchi più gravi ha avuto luogo il 17 giugno 2017 contro la comunità fulani dello stato di Taraba. A conferma dell’incapacità delle autorità locali di assicurare la benché minima protezione, anche quando erano state avvisate con largo anticipo, l’attacco è durato quattro giorni consecutivi ed è stato costellato di azioni atroci: donne incinte sventrate e i feti uccisi a loro volta, uomini uccisi e dati alle fiamme. Nelle aree di Guma e Logo, nello stato di Benue, il 2018 è iniziato con un attacco durato dal 1° all’11 gennaio, con almeno 88 morti (secondo fonti locali, più di 120) di cui solo 73 recuperati e sepolti. La maggior parte delle persone uccise erano uomini, spesso gli unici ad avere una minima fonte di reddito, col risultato che le famiglie, ora composte solo da donne e bambini, si sono ulteriormente impoverite. Pakistan. Dopo 3.141 giorni in carcere la festa di Asia Bibi, donna davvero libera di Francesco Riccardi Avvenire, 23 dicembre 2018 Sarà certamente un Natale speciale, questo, per Asia Bibi. Finalmente festeggiato nel calore degli affetti, anziché in una fredda prigione. Il primo Natale di nuovo in libertà dopo nove anni di ingiusta carcerazione. E come sarebbe bello se Asia e la sua famiglia potessero celebrarlo lontano da tutte le minacce, al sicuro in un Paese accogliente. Non sarà così, non è facile, ci sono ancora troppe incertezze. Una cosa però sappiamo: non sarà questo il primo Natale da donna libera per Asia. Può sembrare paradossale, infatti, ma quando penso alla parola libertà il primo nome che mi viene in mente è proprio quello di Asia Bibi. E non solo dal 31 ottobre scorso, da quando finalmente è stata scarcerata dopo la sentenza della Corte suprema pachistana che ne ha riconosciuto l’innocenza rispetto all’accusa di blasfemia. Il legame Asia Bibi-libertà è stato un pensiero ricorrente lungo i nove anni che la donna cattolica ha passato in carcere, i 3.141 giorni registrati dal contatore pubblicato sul nostro giornale, scanditi come una goccia che cade da un rubinetto rotto. Oltre tremila giorni trascorsi in una cella, senza poter avere contatti - se non sporadici - con il marito e le figlie, per la gran parte passati sotto sorveglianza e con la minaccia della pena di morte sulle spalle, come una croce da trascinare su un sentiero del Golgota quotidianamente percorso. Giorni di paura e frustrazione per le ingiuste accuse ricevute, certamente. Di infinita tristezza per una vita interrotta all’improvviso, il tempo di bere un po’ d’acqua tratta da un pozzo. Un’esistenza rubata per sottrazione d’affetti, di relazioni, di movimento. Lunghi giorni passati a pensare al marito fuori, anch’egli in pericolo; alle figlie soprattutto, costrette a crescere senza l’amore di una madre. Quanto più facile sarebbe stato, in uno di quegli infiniti giorni, abiurare alla fede cattolica, anche solo formalmente, pronunciare la frase rituale su “Allah è grande...” affinché le accuse venissero cancellate. Tornare così a una vita “normale”, alla propria famiglia. Chi l’avrebbe mai biasimata per questo cedimento e chi di noi potrebbe essere sicuro di resistere saldo nella fede così a lungo, con tale convinzione? E invece, per Asia Bibi, quanto più intenso montava lo struggimento in quei tremila giorni, tanto più tenace si faceva la sua forza, quanto più si purificava il suo cuore da ogni risentimento, tanto più cresceva la sua libertà. Libertà interiore, quella di essere davvero sé stessa, ricca della propria fede, della certezza di non essere soli, che un Altro veglia su di te e i tuoi figli. Che anche in una cella buia, una piccola luce si ostina a brillare per te. E che a ogni persona, in fondo, è sempre chiesto solo di credere, avere fiducia, affidarsi. Perché tutto il resto, poi, è dato in aggiunta. Nulla, né la condanna alla pena capitale, né le minacce di linciaggio, hanno potuto privare Asia Bibi della sua libertà più profonda, sfigurare quella dignità regale che conferisce la certezza di essere amati. Una libertà così vera, grande e dalla forza sconvolgente da far pensare che per reggerne tutto il peso, senza rimanerne schiacciata, Asia non sia rimasta sola. Una carezza del Nazareno deve averla raggiunta anche là, nel fondo di quella prigione a Multan, Pakistan centrale.