Il “Governo del cambiamento” (s)travolge anche gli istituti di pena camerepenali.it, 22 dicembre 2018 Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con nota del 5 dicembre 2018, ha indicato quali saranno gli obiettivi per “migliorare la natura e la qualità dell’azione del Dipartimento che ha bisogno di riprendere a crescere”. In premessa, viene chiarito che “non verrà fatto cenno alla carenza di personale e di beni nella Polizia Penitenziaria, al bisogno di creare o comunque rafforzare il personale civile e del Comparto Funzioni Centrali (si pensi ai contabili, agli educatori, ai funzionari pedagogici, ecc..), alla necessità d’istituire ruoli tecnici della Polpen, all’esigenza di rimodulare l’assistenza sanitaria - anche di tipo psichiatrico - e di rendere più responsabili gli organismi regionali, alla necessità d’intervenire sugli immobili del patrimonio penitenziario, e così via”. Volendo “garantire la tempestiva esecuzione delle disposizioni” contenute nel documento, il Capo del Dipartimento ha innanzitutto evidenziato alcune - solo alcune - delle molteplici criticità che affliggono il sistema penitenziario italiano, affermando che, nonostante tutto, si deve potenziare ed ottimizzare l’attività svolta. Una lodevole iniziativa che, prendendo atto della catastrofica situazione dal futuro più che incerto, vuole ottimizzare le condizioni generali “dell’Amministrazione penitenziaria che risultano di primo acchito complesse e disarticolate”. Meritorio impulso che, purtroppo, essendo “in simbiosi e sintonia con la strada segnata dal Ministro della Giustizia” - e non potrebbe essere altrimenti - ignora principi fondamentali che dovrebbero costituire la base di una concreta e non aleatoria dichiarazione d’intenti. Antieconomici vengono definiti i piccoli istituti (al di sotto delle 50 unità detentive) e, pertanto, si auspica la loro chiusura o comunque l’ampliamento, in linea con i propositi di nuova edilizia penitenziaria già evidenziati nell’atto d’indirizzo per il 2019, sottoscritto il 3 ottobre u.s. dal Ministro della Giustizia. La “ricetta” del Governo è più carcere e meno misure alternative, in totale contrasto con il principio che aveva ispirato la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, che non solo rifletteva il dato costituzionale della “rieducazione” del condannato e del suo reinserimento sociale, ma si basava sulla statistica della recidiva che coinvolge maggiormente coloro che scontano l’intera pena in carcere. Il disegno governativo, dunque, prevede più carcere e quindi “più carceri!”, che nei desiderata del Capo del Dipartimento devono essere strutture grandi con molti detenuti, al fine di contenere la spesa pubblica. Soluzione non nuova. In passato si è rivelata fallimentare con edifici costruiti, inaugurati, vandalizzati e mai messi in funzione per mancanza di risorse ed ha rappresentato uno sperpero di danaro pubblico con risvolti penali, le c.d. “carceri d’oro” e che, con l’aumento esponenziale della popolazione detenuta, dovrebbe essere adottata all’infinito, fino a coprire il territorio nazionale di istituti penitenziari. Sono, invece, gli istituti più piccoli quelli che funzionano meglio per evidenti e logiche ragioni. L’attività trattamentale, infatti, viene effettivamente svolta e il rapporto detenuti/personale si giova di un’umanità sconosciuta altrove. Non è affatto vero, inoltre, che sono antieconomici se si valuta il risultato ottenuto. Il tema, infatti, è il risultato, ovvero il rispetto dei principi costituzionali che impone allo Stato di garantire al ristretto una detenzione dignitosa, dove la dolorosa privazione della libertà e la lontananza dagli affetti deve essere accompagnata dall’offerta di un percorso rieducativo, presupposto essenziale per il reinserimento sociale e per le stesse ragioni di sicurezza dei cittadini. Il programma “ministeriale-penitenziario”, invece, vuole grandi strutture per molti detenuti ben rinchiusi nelle loro celle - quelle che dal 1975 sono definite dall’Ordinamento “Camere di pernottamento”, ma che da allora per la quasi totalità dei reclusi sono il luogo dove trascorrere gran parte della giornata - senza ulteriori oneri e spese da parte dello Stato. Il Capo del Dipartimento, prendendo atto della “diversificazione dei metodi organizzativi, che vengono creati da ogni singolo direttore senza alcun coordinamento da parte del Dipartimento”, auspica la realizzazione di “uniformi modelli organizzativi, a contenuto standardizzato, che siano adattabili da parte di ciascun direttore alle esigenze e alla realtà del proprio istituto, raccogliendo le best practices più proficue”. Verrà dunque istituito “un tavolo di lavoro, a cui prenderanno parte funzionari, tecnici ed esperti (scelti anche tra gli stessi Comandanti di Polpen, Direttori e/o Provveditori) per la creazione di modelli organizzativi di riferimento”. Tale iniziativa, unitamente al principio che “non si prescinderà, in tutte le iniziative e le azioni di gestione delle risorse umane, da parametri meritocratici e di efficienza”, rappresenta una chiara limitazione all’autonomia delle Direzioni degli Istituti e dei Provveditorati Regionali, che dovranno uniformarsi al potere centrale. Il tema sotto quest’aspetto è comprendere cosa s’intenda per “best practices”, perché vi è il rischio che la normalizzazione possa far cessare locali modelli virtuosi. L’istituzione presso ogni Provveditorato Regionale di un “referente per la comunicazione, che funga da organo di raccolta e selezione delle informazioni e delle notizie utili, soprattutto in tema di aggressioni ed eventi critici, da portare all’attenzione dell’Ufficio Stampa del Ministero della Giustizia, per l’eventuale divulgazione all’esterno”, conferma la volontà di volere un’Amministrazione Penitenziaria con un sistema verticistico, ancora più chiusa su se stessa, possibilmente impenetrabile, dove all’esterno devono giungere esclusivamente le notizie volute dal Ministero. Quel minimo di trasparenza che si era raggiunto in questi anni, viene oscurato e all’esterno del carcere verranno conosciute solo notizie gradite all’Amministrazione. Al fine di evitare i costi delle numerose traduzioni dei detenuti, il Capo del Dipartimento ritiene che “potrebbe risultare utile ricorrere al sistema delle videoconferenze e della partecipazione a distanza nelle udienze di convalida anche per i detenuti arrestati... il risparmio di uomini e risorse sarebbe considerevolissimo”. Tra la valutazione fatta dal Giudice vedendo fisicamente la persona e l’ipotesi che tale giudizio possa essere espresso dinanzi uno schermo, si preferisce quest’ultima, dimenticando che è in gioco la libertà dell’individuo, ignorando i diritti della difesa e le stesse norme del codice di procedura penale (123, norme di attuazione C.P.P.). Con riferimento al trattamento, si prende atto che “la popolazione detentiva rappresenta una risorsa dell’Amministrazione Penitenziaria, su cui occorre adoperarsi in maniera mirata e costruttiva, allo scopo di migliorarne le condizioni di vita e la qualità di vita”, ma che “il quadro di partenza è problematico”, evidenziando tra le varie criticità il “sovraffollamento e il suo trend di progressiva crescita”. La soluzione ottimale prospettata è “la realizzazione di nuovi istituti penitenziari” ed “in quest’ottica devono essere lette le iniziative, adottate dal Ministero della Giustizia, di raggiungere intese bilaterali con alcuni paesi stranieri per il rimpatrio dei detenuti, reclusi in Italia, verso il territorio di origine”. Nell’esprimere un illuminante concetto, che dovrebbe essere il faro-guida di tutte le iniziative dell’Amministrazione Penitenziaria - il detenuto come risorsa - il Capo del Dipartimento segue, purtroppo, la strada governativa (che seppure fosse giusta - e non lo è - sarebbe impossibile e impraticabile) dell’edilizia penitenziaria e ripropone la già prevista e fallimentare ipotesi degli accordi bilaterali. Sotto il profilo della qualità della vita del detenuto e sulla affettività si indica come “imprescindibile” l’intervento da effettuare. Ci si adopererà per la “visione allargata dei canali televisivi” e per “offrire ai detenuti più occasioni di dialogo e di comunicazione con i propri familiari, sfruttando in forma ottimale le possibilità offerte dalla tecnologia. In questo senso, il Dipartimento ha avviato nei mesi scorsi uno studio di fattibilità che porterà all’istallazione nelle sezioni (che non offrano rischi) degli istituti penitenziari di personal computer, dotati di programmi di videoconversazione (come Skype), in grado di permettere ai detenuti di interagire con i prossimi congiunti, favorendo ed agevolando nuove ed ulteriori occasioni di contatto affettivo”. Pur apprezzando le intenzioni del Capo del Dipartimento, va evidenziato che pensare di migliorare la “qualità della vita” ampliando la scelta di canali televisivi è un obiettivo più che minimo, laddove nella maggior parte degli istituti non vi è la possibilità di fare attività motoria e le stanze dove i detenuti trascorrono gran parte della giornata sono in condizioni indecenti. Anche in merito all’ “affettività” la visione di un familiare sullo schermo, rappresenta certamente un’occasione in più di contatto, ma certo è ben lontana dall’idea di affettività indicata dalla Legge Delega per la Riforma e da quanto emerso dal lavoro degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Tra i primi impegni che la Direzione Generale Detenuti e Trattamento dovrà assumere è indicato quello di “definire finalmente un vero modello organico di Sorveglianza Dinamica”. “Si ritiene, in chiave propositiva, che occorra eliminare innanzitutto la confusa sovrapposizione concettuale tra la vigilanza dinamica ed il regime di celle aperte, creando un progetto condivisibile di gestione trattamentale dei detenuti, che uniformi la disparata e diversificata realtà esistente negli istituti penitenziari…. Un intervento armonizzante appare opportuno. Peraltro, la confusione di modelli e di sistemi organizzativi, impiegabili nella gestione dei detenuti, può essere una delle cause scatenanti il fenomeno delle sistematiche e ripetute aggressioni, che avvengono quotidianamente all’interno dei penitenziari…. In simili condizioni non si può soprassedere sulle iniziative disciplinari…”. La rivisitazione della c.d. “sorveglianza dinamica” e del regime “celle aperte” è una delle principali richieste dei Sindacati di Polizia Penitenziaria e, pertanto, le generiche indicazioni di cambiamento date dal Capo del Dipartimento destano preoccupazione e lasciano intravedere oscuri orizzonti. Ulteriore impegno indicato nel documento è quello di “accrescere le opportunità lavorative della popolazione ristretta nei penitenziari”. Viene auspicato un intervento normativo che ridefinisca significativamente gli aspetti del lavoro in carcere. Si rileva che “l’aumento delle mercedi (termine modificato in “remunerazione” dalla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, ma che evidentemente ancora piace), oggetto di recente aggiornamento, nell’ottica di equiparare il lavoro penitenziario a quello svolto fuori dagli istituti, ha di fatto ridotto in maniera drastica le chances di lavoro per i detenuti che, quindi, sono molto meno occupati di prima”. Viene indicata l’ “indubbia forza risocializzante” del lavoro di pubblica utilità. “Le eventuali modifiche normative dovrebbero rendere più funzionale e premiale il ricorso al lavoro di pubblica utilità: auspicabile sarebbe prevedere che, in caso di partecipazione ai progetti di pubblica utilità, i detenuti possano fruire di una qualche agevolazione (sotto forma di liberazione anticipata speciale oppure compensatoria, direttamente proporzionale ai giorni di lavoro). “Ovviamente il Dipartimento dovrà attivarsi anche per procurare e realizzare altre occasioni, come quelle legate al lavoro remunerato…..Un altro canale economico, capace di dare consistente impulso alle possibilità lavorative per i detenuti, è quello collegato alle produzioni alimentari (o di altro genere) che, pur avendo una loro intrinseca qualità, non trovano un importante e significativo sbocco commerciale”. Le intenzioni del Capo del Dipartimento in tema di lavoro sono senz’altro propositive, ma dovranno fare i conti con il sovraffollamento, con le condizioni in cui versano la maggior parte degli istituti penitenziari e con la stessa politica dell’attuale maggioranza. Aldilà del già evidenziato uso del termine “mercedi”, abolito dalla Riforma e modificato in “remunerazione”, va evidenziato che proprio il Governo ha voluto cancellare, dai lavori della Commissione Ministeriale, la possibilità d’inserire nell’Ordinamento Penitenziario un aumento dei giorni di liberazione anticipata per coloro che svolgevano lavori di pubblica utilità. La lettura delle linee programmatiche indicate dal neo-nominato Capo del Dipartimento desta forte preoccupazione in quanto nell’immediato si avrà un forte accentramento di potere con la volontà di uniformare l’organizzazione dei singoli istituti. La normalizzazione porterà necessariamente a peggiorare le condizioni in cui versano quei pochi istituti virtuosi, in quanto le loro iniziative difficilmente potranno essere replicate in altri, afflitti dal sovraffollamento e da condizioni strutturali disastrose. Inoltre l’auspicato uso della videoconferenza per le udienze di convalida è sintomo di una volontà di svilire un momento essenziale per le sorti dell’indagato e di mortificazione per i diritti della difesa. Nell’insieme appare molto esplicito il ritorno ad un’Amministrazione Penitenziaria poco trasparente, più autoreferenziale di prima, mentre i pochi buoni propositi dovranno fare i conti con l’attuale drammatica situazione per la quale non s’intravede via d’uscita, ma solo un’inarrestabile corsa verso il baratro. La Giunta dell’Unione della Camere Penali Italiane L’Osservatorio Carcere dell’Unione della Camere Penali Italiane Affettività, isolamento, telefonate: una proposta di legge per prevenire i suicidi La Repubblica, 22 dicembre 2018 Quest’anno, fino ad oggi, sono stati 63 i suicidi nelle carceri italiane. Un numero così alto non si registrava dal 2011, quando furono 66. Erano stati 53 lo scorso anno, 45 nel 2016, e si erano fermati a 43 nel 2015. Vi è una crescita in termini assoluti e percentuali; mentre nel 2015 si è suicidato un detenuto ogni 1200 detenuti presenti, nel 2018 se ne è suicidato uno ogni 950. Il tasso di suicidi nelle persone libere è pari a 6 persone ogni 100mila residenti. In carcere ci si ammazza diciannove volte in più che nella vita libera. Il sovraffollamento aumenta il rischio. Benché i suicidi dipendano da cause personali che non è possibile generalizzare, è facile immaginare come le condizioni di detenzione possano contribuire al compimento di questo atto estremo. “Più cresce il numero dei detenuti - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - più alto è il rischio che essi siano resi anonimi. L’alto numero delle persone recluse aumenta il rischio che nessuno si accorga della loro disperazione, visto che lo staff penitenziario non cresce di pari passo, anzi. I suicidi non si prevengono attraverso pratiche penitenziarie (celle disadorne o controlli estenuanti) che alimentano disperazione e conflitti. Né si prevengono prendendosela con il capro espiatorio di turno (di solito un poliziotto accusato di non sorvegliare il detenuto in modo asfissiante). Va prevenuta la voglia di suicidarsi più che il suicidio in senso materiale”. Il senso della proposta di legge. “La prevenzione dei suicidi - prosegue Gonnella - richiede l’approvazione di norme che assicurino maggiori contatti con l’esterno e con le persone più care, nonché un minore isolamento affettivo, sociale e sensoriale. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale - sottolinea il presidente di Antigone - si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo”. Per questo Antigone ha presentato ai componenti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica una proposta di legge che punti a rafforzare il sistema delle relazioni affettive, ad aumentate le telefonate, a porre dei limiti di tempo ai detenuti posti in isolamento. “Abbiamo pensato ad un articolato molto breve che, andando a modificare la legge che regola l’ordinamento penitenziario approvata nel 1975, consenta di prevenire i suicidi nelle carceri” conclude Patrizio Gonnella. Ermini (Csm): “Prescrizione, lo stop danneggia gli assolti” di Valentina Errante Il Messaggero, 22 dicembre 2018 Il vicepresidente del Csm: è stata abolita la decorrenza per tutti i reati. “L’errore è non intervenire sui tempi delle indagini preliminari: troppo stretti”. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, è fiducioso che la riforma del processo penale, annunciata entro un anno dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, tenga conto delle reali criticità e delle esigenze manifestate dagli attori principali del pianeta Giustizia, magistrati, avvocatura e tecnici. Anche se il ddl Anticorruzione è diventato legge senza tener conto delle critiche espresse dalle toghe, e ancor prima che il plenum del Consiglio superiore della magistratura approvasse un parere molto critico, soprattutto in relazione alle norme sulla prescrizione e sul daspo a vita per i corrotti, già reso noto dopo il voto in commissione. Per uno dei componenti laici del Csm, il parere era già superato dai fatti e il voto del plenum inutile. Visto che l’Anticorruzione era già legge. Non è un passaggio da poco, non siete stati consultati prima della scrittura del provvedimento? “La richiesta di parere sul disegno di legge è arrivata solo lo scorso ottobre, mentre quella sulla prescrizione soltanto dopo la presentazione dell’emendamento. Abbiamo fatto il possibile per fare in fretta, ma il nostro è un parere tecnico e ha bisogno di approfondimenti. una materia delicatissima che non può essere trattata in modo superficiale”. Però le criticità che aveva espresso la commissione non hanno determinato alcuna modifica. I dubbi riguardano le modifiche alla prescrizione e la norma relativa al cosiddetto “daspo” a vita per i corrotti. Eppure la magistratura ha spesso invocato una sospensione della prescrizione… “In realtà questa legge non prevede la sospensione, ma l’eliminazione della prescrizione a partire dalla sentenza di primo grado. Peraltro la norma non fa alcuna differenza tra una sentenza di condanna e una di assoluzione. Il rischio, alla fine, è che una persona assolta continui ad essere imputata per tempi indefiniti”. Bisognerebbe pensare alla depenalizzazione di alcuni reati? “Penso che sarebbe opportuno. Si dice che le norme penali contengano oltre 30mila ipotesi di condotte criminose. Abbiamo troppe norme penali e troppe norme spesso senza sanzioni realmente efficaci ed effettive. Bisognerebbe seriamente pensare a una depenalizzazione ampia, trasformando i reati minori in illeciti sanzionati amministrativamente. In tal modo procure e tribunali sarebbero sgravati di un’infinità di “micro-processi” e potrebbero invece concentrarsi sui reati contro la persona e il patrimonio, sui reati economici e su altri reati gravi”. C’è anche un problema di tempi? “Certo, bisogna stare attenti che l’eliminazione della prescrizione non ci faccia andare oltre i termini previsti dal giusto processo. Ricordiamoci che è un principio costituzionale. C’è comunque un aspetto, che è la vera questione della prescrizione, che la riforma non affronta. I dati parlano chiaro: nel 2014, su 132mila prescrizioni, 80mila sono intervenute nella fase delle indagini preliminari. Reati che, nonostante la riforma, continueranno a prescriversi. Il fatto è che bisognerebbe distinguere i reati a conoscenza istantanea da quelli che emergono solo molto tempo dopo e ipotizzare, per questi ultimi, che la prescrizione decorra dal momento in cui vengono scoperti. Ma a parte tutto ciò, il punto vero è che le modifiche serviranno a poco se non verranno supportate da assunzioni e da un forte investimento nella macchina della giustizia”. Le critiche non sono arrivate solo dal Csm… “Una posizione critica l’hanno assunta anche le Camere penali e alcuni tecnici del diritto. Parlo a titolo personale, ma auspico che l’annunciata riforma del processo penale, che dovrebbe avvenire entro un anno, non riguardi solo la modifica delle procedure per le notifiche, ma che sia il frutto di un confronto con tutte le parti e preveda, ad esempio anche che si scorra velocemente la graduatoria degli idonei al concorso per assistenti giudiziari”. Anche la norma sul daspo a vita secondo il Csm non è risolutiva. Addirittura presenterebbe profili di incostituzionalità.. “Il Csm non può fare valutazioni di costituzionalità e non le ha fatte neppure in questa occasione, rilevo però che di recente sulle pene accessorie che non lasciano spazio alla valutazione in concreto da parte del giudice è intervenuta la Corte costituzionale. Infine, si renderà necessario verificare con attenzione che non si ricorra a comportamenti volti ad aggirare gli effetti sanzionatori delle nuove norme attraverso l’utilizzo di prestanome”. Prescrizione, un falso problema di Bruno Tinti Italia Oggi, 22 dicembre 2018 Oggi, tempo, soldi e lavoro sono buttati dalla finestra. Ciò che invece deve essere riformato è l’attuale processo penale che non funziona proprio. Politici, avvocati e magistrati stanno tutti litigando sulla prescrizione. In realtà litigano su qualcosa che con la prescrizione non ha nulla a che fare. Litigano sulla durata del processo. La prescrizione è solo un termine che segna la fine dell’interesse dello Stato a “perseguire” gli autori di un reato. Attenzione: “perseguire”, cioè indagare; il “processo” viene dopo, quando l’indagine ha fornito possibili responsabili del reato. Una volta che la “persecuzione” (l’indagine) sia iniziata prima della scadenza di questo termine, la prescrizione cessa: i reati devono essere accertati, i responsabili identificati e puniti; con un processo regolato da norme e termini suoi propri che con la prescrizione non hanno nulla a che fare. Ma, a termine scaduto, lo Stato questo processo non lo vuole più: ritiene che il tempo trascorso lo renda inutile, ingiusto e antieconomico. È per questo che, se dopo la scadenza del termine il reato fosse scoperto e il colpevole sommerso da prove a carico, l’indagine non potrebbe iniziare. Almeno così avviene nei Paesi dove diritto e razionalità coincidono, dove c’è equilibrio tra il numero di processi che si devono celebrare e le risorse necessarie per celebrarli. In questi Paesi nessuno capirebbe perché mai dovrebbero impiegarsi soldi ed energie per celebrare processi da fermare a metà, magari alla fine, perché il termine di prescrizione è scaduto: lì si pensa che o non si comincia o si va fino alla fine. Nel nostro paese funziona in un altro modo: la prescrizione non si ferma mai e se un processo non finisce in tempo si chiude in automatico. Tempo, soldi e lavoro buttati dalla finestra. Il che non angustia nessuno, in verità. Quello che scoccia alla gente è il conclamato delinquente che la fa franca; e peggio è quando, avendo beneficiato della prescrizione, si dichiara assolto; dunque, per definizione innocente. E poi, naturalmente, c’è l’avvocatura: i soldi (del cliente) comprano il tempo e il processo può, entro certi limiti, essere sapientemente allungato. La prescrizione non sarà una medaglia ma sempre un’assoluzione è; e, a buttarla in caciara, “assolto assolto” fa sempre un effetto migliore di “reato estinto per prescrizione”. Così siamo arrivati alla “riforma”: dopo la sentenza di primo grado, la prescrizione si sospende, il processo può continuare fino alla sua fine naturale (Cassazione). Il che, nel nostro Paese, dove la durata media (media!) del processo penale è di otto anni, significa incrementare il volume di lavoro dell’amministrazione giudiziaria almeno del doppio dell’attuale. Giudici e avvocati sul piede di guerra: i primi sono terrorizzati da questo enorme magazzino; i secondi vedono diminuire le possibilità di successo professionale. Ecco, queste sono le vere ragioni del litigio, il resto è fumo. Si dice: la riforma è inutile perché, in gran parte, la prescrizione scatta negli uffici di procura. Sicché non sarebbe vero che la prescrizione falcidi processi in fase già avanzata, l’allarme è ingiustificato, le cose importanti si fanno, la riforma è inutile, quando un processo comincia arriva sempre alla fine. C’è del vero, molti procedimenti si prescrivono nelle fase delle indagini, molte notizie di reato arrivano addirittura già prescritte. Ma si tratta di “fuffa”, di quei reati bagatellari che nemmeno dovrebbero essere considerati reati: infrazioni inps, tributarie, codice della strada; e poi in molte Procure esistono assetti organizzativi che prevedono criteri di priorità: prima si fanno i procedimenti per reati gravi e, poi (se ci sarà tempo; che naturalmente non c’è) questi altri. Dunque l’argomentazione è infondata, i tempi del processo sono così lunghi che, con il sistema vigente, i caduti lungo la strada che dal primo grado porta alla Cassazione sono innumerevoli. Morte del “giusto processo”, lamenta l’avvocatura: senza la prescrizione i processi dureranno un tempo interminabile; inaccettabile per gli imputati che hanno diritto a un processo rapido ed efficiente. Condivisibile. Ma la soluzione non è ammazzare il processo a metà o, peggio, alla fine (come voleva fare Silvio Berlusconi con il suo cosiddetto “processo breve”, trascorsi tre anni si bloccava tutto e chi s’è visto s’è visto). La soluzione è un processo che funzioni. Infine: senza la prescrizione i giudici se la prenderanno comoda e i processi si allungheranno ancora di più. Che è una stupidaggine, i giudici fannulloni ci sono anche oggi, pochi ma ci sono; e non sono scoraggiati dall’imminente prescrizione. Situazioni del genere vanno risolte a livello disciplinare, non ammazzando un processo e vanificando il lavoro di altre decine di persone. Senza parlare dei regali fatti agli imputati colpevoli. È però vero che l’abolizione della prescrizione aumenterebbe il numero dei processi con il conseguente rallentamento di tutti. Dall’insieme di queste critiche emerge una linea comune: la prescrizione va mantenuta perché elimina un certo numero di processi e rende possibile la celebrazione di quelli che restano. Il che è proprio irragionevole. Se il problema è l’eccessivo numero dei processi, e lo è, allora bisogna evitare di iniziarne una parte e limitarsi a quelli che possono essere utilmente celebrati. Iniziarli tutti, lavorarci, spendere soldi e tempo e poi ammazzarli a metà è la cosa più stupida, antieconomica e irritante che si possa immaginare (veramente no, c’è anche quella storia, di cui ho già scritto, di celebrare il processo, condannare l’imputato a molti anni di galera e poi non mandarlo in prigione). Certo, così si rischia di non perseguire reati anche importanti (pensiamo a tutte le violazioni di misure antinfortunistiche e in materia di inquinamento). Ecco perché la riforma importante non è la prescrizione ma l’abolizione dell’attuale codice di procedura penale. È lui il responsabile della lunghezza dei processi. Ce ne va uno nuovo, tutto diverso, più o meno simile a quello che abbiamo avuto fino al 1989. Se arriverà l’ennesima riforma tipo “al comma 1 è aggiunto questo e al comma 2 è tolto quest’altro”, non sarà questione di prescrizione sì, prescrizione no. Il processo penale sempre inutile resterà: o perché ammazzato in corso d’opera o perché l’imputato sarà morto prima della sua fine. “La nuova legittima difesa non ci porterà nel far west” di Errico Novi Il Dubbio, 22 dicembre 2018 Intervista a Stefano Putinati, professore di Diritto penale dell’Università di Parma. “Non ha alcun fondamento dire che le modiche sulla legittima difesa all’esame del Parlamento schiudano le porte al far west. Estendono, certo, l’area della non punibilità per chi reagisce a un’aggressione, in particolare quando si è in casa propria o nel proprio luogo di lavoro. Ma l’effetto sarà semplicemente quello di arrivare in tempi più rapidi a un proscioglimento che nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe stato pronunciato dal giudice già con le norme attuali. E mi pare che quello di evitare alcune lungaggini nei procedimenti, oggi inevitabili, fosse in fondo l’obiettivo dichiarato dal legislatore”. A dirlo è Stefano Putinati, professore di Diritto penale dell’Università di Parma e avvocato. La comunicazione politica è materia inafferrabile. E la stessa critica di opposizione si sviluppa su un piano parallelo rispetto al reale. Non fa eccezione quanto avviene da alcuni mesi attorno alla legittima difesa. Nodo giuridico sul quale il Senato ha già approvato la proposta di legge ora all’esame della Camera e destinata al via libera finale entro l’anno. Ecco, l’idea che si tratti di un’apertura scriteriata al far west delle armi, a leggere i passaggi cruciali della nuova disciplina, pare infondata. “Gran parte delle disposizioni che ci si appresterebbe ad introdurre ruotano attorno alla questione del turbamento provocato nella persona aggredita”, nota Stefano Putinati, professore di Diritto penale dell’università di Parma e avvocato del Foro di Milano. Si tratta di uno dei giuristi auditi dalla commissione Giustizia di Palazzo Madama che non hanno manifestato particolari perplessità o allarmi sulle eventuali conseguenze delle nuove norme. “Mi pare che siano in grado di accelerare i tempi di alcuni procedimenti, di consentire in un maggior numero di casi il proscioglimento della persona aggredita senza che si debba necessariamente andare in giudizio. Il che non sembra doversi scontare”, rileva Putinati, “con il verificarsi di casi in cui la persona che eccede nella difesa eviterebbe la condanna”. Lei quasi dà una notizia. Anche se a dire il vero persino un magistrato da poco in congedo come Carlo Nordio ha detto che il testo già licenziato da Palazzo Madama non ci precipiterebbe affatto nell’incubo della giustizia fai da te. Le notizie iniziali hanno fatto pensare a un intervento legislativo che potesse addirittura minare la possibilità, per il magistrato, di iscrivere nel registro degli indagati chi reagisce all’aggressione. C’è in realtà un rafforzamento della presunzione di proporzionalità fra offesa e difesa, c’è un effettivo ampliamento, ma sempre a condizione che non vi sia desistenza da parte di chi aggredisce o cerca di introdursi nel domicilio. Si riferisce alle modifiche che la legge all’esame del Parlamento apporterebbe all’articolo 52 del codice penale? Esatto. Ci sono due passaggi. Da una parte si rafforza quella presunzione di proporzionalità con l’aggiunta dell’avverbio “sempre” al secondo comma dell’articolo 52. Si aggiunge poi un quarto comma in cui la cosiddetta legittima difesa domiciliare, cioè la reazione di chi è aggredito a casa o nel proprio luogo di lavoro, è effettivamente ampliata, perché sussiste anche se si respinge un’intrusione compiuta con “minaccia di uso di armi, o altri mezzi di coazione fisica”, o semplicemente “con violenza”. Ecco, il riferimento alla violenza di chi si introduce in casa sembra estendere la legittimità della reazione anche quando l’offesa ingiusta è rivolta al solo bene patrimoniale. Ma premesso che come dirò tra un attimo, tale aspetto in realtà non schiude affatto le porte del far west, per comprendere davvero il senso di tale modifica va richiamato l’altro intervento significativo, compiuto sull’articolo 55 del codice penale. Quello in cui si diventa non punibili in caso di turbamento... Più precisamente, la modifica prevede la non punibilità in due particolari circostanze. Innanzitutto quando all’aggressore possa applicarsi una delle cosiddette aggravanti comuni, quella di aver profittato di specifiche circostanze di tempo o di luogo tali da ostacolare la pubblica o privata difesa. Ad esempio se l’aggressore fa temere all’aggredito di essere armato, anche grazie al buio della notte? È uno dei casi. L’altra specifica circostanza che determina la non punibilità riguarda appunto chi ha agito “in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo”. Si tratta di una previsione normativa da tempo applicata in Germania. Ed è questa forse la novità più significativa, che amplia in effetti il campo della legittima difesa senza peraltro imporre di riconoscerla in modo automatico. Non si introduce alcun diritto di uccidere. Torniamo un attimo al comma che viene aggiunto al primo dei due articoli di cui si parla, il 52 del codice penale: dire che si presume proporzionata la reazione anche quando la “violenza” è genericamente attuata dall’aggressore, quindi anche quando si tratta di violenza alle cose, non è in fondo una tutela riferibile proprio alla paura che in ogni caso un’effrazione violenta può provocare in chi è aggredito a casa propria? Appunto. Come si fa a sostenere che un’intrusione violenta non possa indurre chi si trova in casa propria a temere un pericolo per la persona? Oltretutto tale eventuale quarto comma aggiunto all’articolo 52 non cancella la condizione necessaria perché sussista la proporzionalità fra offesa e difesa, vale a dire il fatto che non vi sia desistenza da parte dell’aggressore. Resta il fatto che se le modalità dell’intrusione fanno temere il pericolo, e il pericolo crea turbamento, non si può essere condannati per eccesso colposo di legittima difesa. Ripeto: l’intervento del legislatore c’è, l’ampliamento c’è, ma non c’è alcuna licenza di uccidere. Le condotte che prima determinavano la condanna continueranno a essere punite. Chi spara a trenta metri di distanza a un ladro in fuga sarà condannato. Diversi magistrati considerano tali disposizioni lesive della loro discrezionalità... Anche qui credo che alcune valutazioni abbiano risentito dell’idea diffusasi inizialmente secondo cui le nuove norme avrebbero addirittura determinato l’impossibilità di iscrivere nel registro degli indagati chi si difende. Invece resta la previsione che un’indagine vi debba essere, in modo da compiere un vaglio del fatto. Il resto delle scelte normative possono essere più o meno condivisibili, con un certo particolare favore che, credo, meriti l’intervento sulla non punibilità inserito all’articolo 55 del codice penale. A proposito di tale aspetto: ma per determinare se la persona che ha reagito lo ha fatto in stato di turbamento, si dovrà per forza ricorrere a una perizia psichiatrica? Già nei casi di stalking si verifica, ed è anzi necessaria, una valutazione dello stato d’ansia determinato nella vittima, e tale valutazione non richiede necessariamente che il soggetto sia sottoposto a una perizia psichiatrica. Va condotta un’analisi, certo, ma può farla il giudice. E un giudice è in grado di compiere una valutazione simile? Ma certo. Può fare riferimento a dei dati di esperienza oggettivi. Immaginiamo il caso che credo venga più di frequente evocato tra quelli ai quali potrebbe applicarsi la non punibilità per lo stato di turbamento, quello di un furto tentato in casa in piena notte, con dei bambini piccoli che dormono e un ladro che spacca il vetro di una finestra per introdursi: ecco, non credo affatto che, per ritenere plausibile il turbamento della persona coinvolta in casa propria in una simile esperienza, si debba ricorre a uno psichiatra. Sicilia: il Garante “necessaria tutela mentale durante l’esecuzione della pena” blogsicilia.it, 22 dicembre 2018 Dai dati ufficiali del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), aggiornati al 30 novembre 2018, risulta che i detenuti ospitati nelle carceri italiane sono 60.002 e di questi oltre 40.000 soffrirebbero di disturbi psichici e depressivi. Una percentuale molto alta a cui il sistema non sempre riesce a dare risposte adeguate con un aumento del rischio suicidario all’interno degli istituti di pena. Di questo si è parlato ieri a Palazzo dei Normanni nel convegno nazionale “Salute mentale, carceri e Rems” organizzato dal Garante dei detenuti per la Sicilia, Giovanni Fiandaca e a cui hanno partecipato il Garante nazionale Mauro Palma e i Garanti dei diritti dei detenuti di varie regioni italiane, oltre a psichiatri e responsabili di Rems. In apertura anche il saluto dell’assessore alla Sanità, Ruggero Razza e del presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché. Nel raffronto con le altre Regioni, la Sicilia non brilla per efficienza. Le due Rems esistenti si trovano in Sicilia orientale e l’Isola detiene il record per la lista d’attesa, più lunga che nel resto d’Italia con 105 persone in coda per un posto nelle Rems (dato al 26 giugno 2018). In alcuni di questi casi i soggetti da internare restano in carcere con grave nocumento per sé e per la gestione interna degli Istituti penitenziari. “Il tema della Salute mentale e dell’assistenza psichiatrica in carcere dovrebbe costituire una priorità, anche per ragioni di difesa sociale - ha detto in apertura Giovanni Fiandaca. Non esistono statistiche ufficiali davvero affidabili e ad essere carente è in particolare, l’assistenza psichiatrica all’interno degli istituti penitenziari. Per un carcere di grandi dimensioni come il Pagliarelli con 1300 detenuti, dei 5-6 psichiatri presenti sulla carta, mi risulta da una recente visita all’istituto di pena, che per vari motivi ne sono stati in servizio per molto tempo solo due e che solo più di recente sono diventati tre”. Le Rems, destinate ad ospitare i soggetti non imputabili affetti da malattia mentale e socialmente pericolosi, nascono come risposta alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Non tutti sono concordi nel chiedere l’apertura di nuove strutture ma dal dibattito è emersa una non sempre efficiente distribuzione territoriale. Ogni Rems può assistere fino a 20 persone ed oggi in Sicilia ce ne sono due: una a Naso, e un’altra con due sezioni (di cui una femminile) a Caltagirone. “Le criticità sono diffuse in tutta Italia - dice il Garante nazionale Mauro Palma- I numeri forniti dal Dap mettono a mio giudizio insieme malattia psichiatrica e disagio comportamentale aprendo un altro tema: quello della presa in carico del paziente e di un monitoraggio necessario dell’assistenza dentro le carceri per intervenire su disagi che sono condizionati da motivi soggettivi e logistici e che non hanno necessità di trattamenti psichiatrici”. In tutta Italia la lista d’attesa per le Rems conta 502 persone e di queste 62 si trovano attualmente in carcere. “Sull’Isola - ha detto l’assessore regionale Razza - nei prossimi anni sarà realizzata una nuova Rems a Caltanissetta e c’è l’intenzione di costruire un’altra struttura in Sicilia occidentale. Per la Rems di Caltanissetta, l’iter burocratico e amministrativo per la realizzazione sarà concluso entro il 2019”. “Sono disponibile a portare avanti un disegno di legge che normi le Rems qui in Sicilia - ha detto il presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché - e sarei molto felice di dare il mio contributo per risolvere queste annose problematiche che investono persone detenute e i loro familiari. Ringrazio il Garante siciliano, professor Fiandaca, con il quale a breve mi rincontrerò, e tutti i Garanti dei detenuti che svolgono un compito importantissimo e molto delicato”. Dopo la pausa pranzo il convegno continuerà fino alle 18,30. Porteranno il proprio contributo: Antonio Francomano, Presidente sezione Sicilia S.I.R.P. Società Italiana Riabilitazione Psichiatrica; Nunziante Rosania, Direttore Casa circondariale Barcellona P.G. (ME); Paola Cavallotto, Psicologa-Psicoterapeutica Rems “San Michele” Bra (CN); e Salvatore Aprile, Direttore sanitario Rems Caltagirone (CT). “Nel mio ruolo, sono particolarmente interessato al tema che state dibattendo rientrando la tutela della salute in generale, e quindi della stessa salute mentale, nelle competenze delle istituzioni regionali” ha detto il Presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, Gianfranco Miccichè al ‘Convegno nazionale sul tema della tutela mentale dei soggetti in esecuzione di pena e misure di sicurezzà che si tiene nella Sala Mattarella dell’Ars, organizzato dal Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e per il loro reinserimento sociale. “Ci troviamo di fronte - ha proseguito Miccichè - ad un progressivo incremento, negli ultimi anni, del numero degli autori di reato affetti da patologie mentali o da disturbi della personalità, preesistenti all’ingresso in carcere o sopravvenuti. Ciò richiede un’attenta riflessione, sul duplice versante tecnico e politico-istituzionale, sulle modalità con le quali viene in atto assicurata l’assistenza psichiatrica a questi soggetti sia nelle carceri che nelle cosiddette Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Auspico che dai lavori di oggi possano emergere utili indicazioni ai fini di una tendenziale omogeneizzazione delle modalità di assistenza psichiatriche seguite in Sicilia con quelle di altre Regioni che possono essere assunte a virtuosi modelli di riferimento. Sono disponibile a portare avanti un disegno di legge che normi i Rems qui in Sicilia e sarei molto felice di darvi una mano per risolvere queste annose problematiche che investono persone detenute e i loro familiari. Ho molta attenzione - ha concluso il presidente dell’Ars - alle condizioni dei detenuti e ringrazio il garante siciliano, Prof. Fiandaca, e tutti i garanti dei detenuti che svolgono un compito importantissimo e molto delicato”. Sicilia: detenuti con disturbi psichici, in tutta la Regione solo due Rems di Fabio Geraci meridionews.it, 22 dicembre 2018 Regione: “Ne faremo altri due, uno a Caltanissetta”. In Sicilia esistono solo due Rems, entrambe nella parte orientale. Le residenze dovrebbero accogliere i carcerati affetti da disturbi mentali. Ma sono poche per contenere il fenomeno: al momento 105 persone rimangono in attesa che si liberi un posto. Oltre 60mila detenuti ospitati nelle carceri italiane, di questi ben 40mila soffrirebbero di disturbi psichici e depressivi. Una percentuale altissima confermata dai dati ufficiali del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), aggiornati al 30 novembre 2018, che è stata svelata nel corso del convegno nazionale Salute mentale, carceri e Rems. E in Sicilia la situazione è ancora peggiore anche se il governo regionale si è impegnato promettendo di costruire, nei prossimi anni, altre due strutture destinate ai malati che attualmente sono reclusi. “Il tema della salute mentale e dell’assistenza psichiatrica in carcere dovrebbe costituire una priorità, anche per ragioni di difesa sociale - ha detto in apertura il Garante dei detenuti per la Sicilia, Giovanni Fiandaca. Non esistono dati davvero affidabili e ad essere carente è in particolare l’assistenza psichiatrica all’interno degli istituti penitenziari. Per un carcere di grandi dimensioni come il Pagliarelli con 1300 detenuti, dei cinque-sei psichiatri presenti sulla carta, mi risulta da una recente visita all’istituto di pena che per vari motivi ne sono stati in servizio per molto tempo solo due e che solo più di recente sono diventati tre”. La Rems, ovvero la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, è la struttura sanitaria che, nata dopo la chiusura dei manicomi, dovrebbe accogliere i detenuti affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi per la cura e per la riabilitazione. Ma solo sulla carta. In realtà non sempre riescono a dare risposte adeguate alle esigenze, meno che mai in Sicilia anche perché i centri sono distribuiti solo nella parte orientale del territorio. Attualmente sono in servizio la struttura di Naso (in provincia di Messina) e un’altra con due sezioni (di cui una femminile) a Caltagirone che possono accogliere una quarantina di persone, troppo poche per dare risposta ai malati attualmente reclusi. “Sull’Isola - ha detto l’assessore regionale alla Salute Ruggero Razza - nei prossimi anni sarà realizzata una nuova Rems a Caltanissetta e c’è l’intenzione di costruire un’altra struttura in Sicilia occidentale. Per la Rems di Caltanissetta, l’iter burocratico e amministrativo per la realizzazione sarà concluso entro il 2019”. Una presa di responsabilità sposata anche dal presidente dell’Ars, Gianfranco Miccichè: “Sono disponibile a portare avanti un disegno di legge che normi le Rems qui in Sicilia e sarei molto felice di dare il mio contributo per risolvere queste annose problematiche che investono persone detenute e i loro familiari”. Rispetto alle altre regioni, il gap è evidente. In tutta Italia la lista d’attesa per le Rems conta 502 persone e di queste 62 si trovano attualmente in carcere ma il record è in Sicilia con 105 persone in coda per ottenere un posto. Con il forte rischio di un aumento dei casi di suicidio all’interno degli istituti di pena. “Le criticità sono diffuse in tutta Italia - dice il Garante nazionale Mauro Palma. I numeri forniti dal Dap mettono a mio giudizio insieme malattia psichiatrica e disagio comportamentale aprendo un altro tema: quello della presa in carico del paziente e di un monitoraggio necessario dell’assistenza dentro le carceri per intervenire su disagi che sono condizionati da motivi soggettivi e logistici e che non hanno necessità di trattamenti psichiatrici”. Liguria: dal Consiglio regionale l’ok all’istituzione del Garante dei detenuti ivg.it, 22 dicembre 2018 Nel corso della riunione del Consiglio regionale di ieri è stato discusso l’ordine del giorno presentato da Gianni Pastorino (Rete a Sinistra-Liberamente Liguria) per destinare adeguate risorse all’istituzione del garante dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive, una “importante figura di garanzia, tutt’ora assente in Liguria (unica regione in Italia)”. “Fatto eclatante - dicono Gianni Pastorino e Francesco Battistini - Oltre al PD e al M5S vota a favore tutta la maggioranza compreso il presidente Toti. Unico voto contrario è quello della Lega. Su questa misura si spacca l’asse del centrodestra. Una grande vittoria del nostro gruppo consiliare, che afferma in maniera netta una necessità non più rinviabile: il garante dei detenuti deve essere istituito al più presto, facendo seguito a quanto già approvato in prima commissione”. “All’ultima conferenza dei presidenti dei consigli regionali, che si è tenuta il mese scorso a Roma, a cui ho partecipato - ha detto il presidente del consiglio regionale Alessandro Piana della Lega - è emerso che alcune regioni si siano già dotate del Garante delle vittime di reato e altre si appresteranno a farlo. Pertanto, semmai prima bisogna occuparsi di questo piuttosto che pensare a tutelare chi commette o viene accusato di commettere reati”. “In tal senso - ha aggiunto il capogruppo regionale Franco Senarega - noi della Lega Liguria stiamo già predisponendo una proposta di legge che sarà presentata a breve come già fatto in altre regioni, tra cui la Lombardia. Siamo orgogliosi di essere stati gli unici a non avere votato l’ordine del giorno di Rete a Sinistra. Una volta istituito il garante delle vittime di reato non avremo nessuna difficoltà a votare un provvedimento anche per l’istituzione del garante dei detenuti. Ovviamente a condizione che non sia un’ulteriore fonte di spesa a carico dei cittadini”. Messina: si uccide in carcere detenuto 43enne di Giuseppe Baglivo lacnews24.it, 22 dicembre 2018 Si è tolto la vita impiccandosi nella cella del carcere di Messina Rosario Primo Mantino, 43 anni, di Vibo Marina, detenuto per l’operazione antimafia della Dda di Catanzaro denominata “Outset” e per altra operazione dove aveva riportato la condanna a 4 anni e due mesi di reclusione (al termine del giudizio con rito abbreviato) per una tentata estorsione e delle lesioni, aggravate dalle modalità mafiose, ai danni di alcuni pescatori di Vibo Marina. Nell’ambito dell’operazione “Outset” la Dda di Catanzaro per Rosario Primo Mantino aveva chiesto la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Giuseppe Pugliese Carchedi ed il ferimento di Francesco Macrì, entrambi di Vibo Valentia, fatti di sangue commessi il 17 agosto 2006 lungo la strada che collega Pizzo Calabro a Vibo Marina. Nell’ambito di tale procedimento, nel luglio scorso la difesa di Mantino, rappresentata dall’avvocato Sergio Rotundo, aveva chiesto al Gip distrettuale che un perito procedesse a perizia psichiatrica. Il 18 settembre, il medico legale, incaricato a luglio dal Gup distrettuale Francesca Pizii di eseguire la perizia sull’imputato, aveva però stabilito che lo stesso poteva partecipare scientemente al processo. La sua posizione era stata pertanto unita a quella degli altri tre imputati già ammessi al rito abbreviato: Domenico Giampà (classe 1981), attuale collaboratore di giustizia, di Lamezia Terme; Enzo Giampà (classe 1970) di Lamezia Terme; Salvatore Mantella, 44 anni, di Vibo Valentia, cugino del collaboratore di giustizia Andrea Mantella. Il 26 novembre scorso, quindi la richiesta di condanna al carcere a vita. In serata, però, è arrivata la notizia del suicidio in carcere. Evitabile o meno sarà un’eventuale inchiesta a stabilirlo. Viterbo: quel suicidio in cella non convince il Gip, indagini da rifare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2018 Nel 2008 un detenuto fu ritrovato morto in cella a viterbo. Ancora una volta il carcere di Viterbo è al centro della cronaca, questa volta per un vecchio caso tuttora aperto e che riguarda uno strano suicidio di un detenuto avvenuto nel 2008, dopo un presunto pestaggio da parte di alcuni agenti penitenziari. Una storia ancora da chiarire nonostante le continue richieste di archiviazione da parte della procura di Viterbo e sistematicamente respinte - l’ultima a fine novembre - dal giudice per le indagini preliminari che ha ordinato ulteriori indagini. A convincere il gip ci sono anche le dichiarazioni di un detenuto a Mammagialla che avrebbe “denunciato - è scritto nell’ordinanza - degli agenti di polizia penitenziaria che, a suo dire, sarebbero stati autori di un pestaggio ai danni di Tomaino nei giorni precedenti la morte”. Il detenuto “ha affermato che la sera prima del decesso di Tomaino gli agenti in servizio avevano stranamente chiuso tutte le porte blindate prima del tempo”. Per questo il giudice ha chiesto di “comparare anche i profili genetici degli agenti con quelli a disposizione”, e di accertare se “la sera del 18 gennaio 2008 le celle della sezione fossero state chiuse prima del tempo”. Indagini da rifare, dunque. Le ennesime. Troppe cose non tornano nella ricostruzione della fine di Claudio Tomaino, trovato morto la mattina del 18 gennaio 2008. Le autorità carcerarie parlano subito di suicidio per soffocamento. L’uomo si sarebbe tolto la vita infilando la testa in una busta di plastica dentro la quale aveva immesso il gas di un fornello scaldavivande. Ma su quel presunto suicidio, la madre dell’uomo, ha sempre mostrato dubbi. Alcuni punti oscuri sono ancora da chiarire. Innanzitutto le tracce di sangue rinvenute sul volto del presunto suicida, sul lenzuolo e sulla federa del cuscino. Un suicidio per soffocamento. Padova: detenuto morto, medico condannato a 16 mesi di carcere Il Gazzettino, 22 dicembre 2018 La Corte di Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso. È diventata quindi definitiva la sentenza di condanna per omicidio colposo a carico del dottor Annibale Cirulli, 48 anni, medico di base specializzato in medicina generale, con studio a Mira, all’epoca dei fatti in servizio di guardia medica alla Casa circondariale di strada Due Palazzi. La Corte d’Appello di Venezia gli aveva rifilato un anno e quattro mesi di reclusione, con la sospensione condizionale. Il medico è riuscito ad ottenere il beneficio soltanto dopo aver risarcito i familiari della vittima, cui il giudice di primo grado aveva riconosciuto una provvisionale di 250 mila euro. Processato con rito abbreviato, era stato condannato a due anni, poi ridotti in appello. L’accusa - Al dottor Cirulli era stata contestata una colpa grave. Era accusato di aver violato la posizione di garanzia che un medico del carcere deve assicurare nei confronti di un detenuto in precarie condizioni di salute. Il fatto risale al 13 marzo 2011.Quella mattina Adel Mzoughi, un pusher tunisino di 36 anni, aveva chiesto di essere accompagnato in infermeria. Lamentava forti dolori epigastrici e retrosternali. Il medico l’avrebbe visitato in maniera sommaria. Si sarebbe limitato a prescrivergli un gastroprotettore senza disporre ulteriori esami né accertamenti di natura diagnostica. Ad un’ora di distanza il tunisino si era sentito male un’altra volta. Il farmaco non era servito ad arrestare il dolore. Cirulli non aveva però ritenuto necessario il trasferimento in ospedale. Gli avrebbe prescritto soltanto un valium. Nemmeno un’ora dopo il cuore di Mzoughi aveva cessato di battere. Il 36enne era deceduto tra le sbarre della sua cella. L’omissione - Per la Procura il medico non si era reso conto della gravità della sindrome coronarica in atto e non aveva disposto approfondimenti diagnostici utili ad evitare il decesso di Mzoughi. Il processo si era giocato sulle consulenze tecniche. Quella prodotta dalla difesa era arrivata ad esiti diametralmente opposti a quelli cui erano giunti i periti della Procura. Secondo gli esperti nominati dal pm Orietta Canova, un tempestivo intervento del medico avrebbe potuto scongiurare il decesso del paziente. La rappresentante della pubblica accusa aveva sollecitato la condanna dell’imputato ad un anno e sei mesi di carcere. Il giudice Lara Fortuna, pur riconoscendo al dottor Cirulli lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato, gli aveva inflitto due anni di reclusione. Il risarcimento - E aveva concesso al medico, assistito dall’avvocato Lino Roetta, il beneficio della sospensione condizionale a patto che risarcisse il danno entro sei mesi dal giorno in cui la sentenza fosse diventata definitiva. Il medico ha rispettato il verdetto risarcendo i tre fratelli e i due genitori di Adel Mzoughi con la provvisionale di complessivi 250 mila euro stabilita dal giudice. L’esatta quantificazione del risarcimento ai familiari, costituiti parte civile con l’avvocato Annamaria Beltrame, dovrà essere stabilita in sede civile. Milano: il fischio d’inizio per Luca “11 anni in carcere, oggi faccio l’arbitro e studio legge” di Francesco Floris Redattore Sociale, 22 dicembre 2018 Luca è il primo arbitro di “Le regole del gioco”, progetto di Bambini senza sbarre Onlus presentato a Milano. I detenuti in esecuzione penale esterna, 8 mila persone in Lombardia, diventeranno arbitri di calcio nei campionati studenteschi e universitari grazie all’impegno di Cun, Dap e Uepe: “È come diventare giudici”. Il secondo tempo nella vita di Luca è iniziato a maggio del 2018. Dopo 11 anni di carcere senza mai uscire, ora sta scontando l’ultimo anno di pena in regime di esecuzione esterna. Non è libero, ancora per qualche mese. Però si sveglia, va al lavoro in una comunità diurna, dalle 9 alle 17, rientra a casa entro le 21 e vive con la compagna e le figlie: la più piccola delle due non l’aveva mai vista prima fuori da una prigione, perché è stato arrestato durante la gravidanza. E infine Luca fa l’arbitro. È il primo del progetto “Le regole del gioco”, presentato oggi a Milano da “Bambini Senza Sbarre”, la Onlus che da 15 anni si occupa dei genitori in carcere: sono 100 mila in Italia i bambini con madri o padri detenuti, 2,1 milioni in tutta Europa. Il progetto è la naturale continuazione della campagna di sensibilizzazione “La partita con papà”, iniziata nel 2015 e che oggi coinvolge 60 istituti detentivi, 1.400 reclusi e 2.900 bambini, e prevede di trasformare in arbitri alcuni detenuti che potranno così incontrare i figli all’esterno: impareranno a trattare con le panchine a bordo campo nel ruolo di quarto uomo; a fischiare falli e lasciar correre quando necessario; a fare i guardialinee. Il tutto dopo aver preso parte a corsi di formazione e con la supervisione di Angelo Bonfrisco, già direttore di gara nella massima serie italiana. Saranno nei campi da calcio dei tornei organizzati da Cun Company, associazione sportiva dilettantistica che gestisce il Campionato universitario, la Lega delle scuole superiori, il Campionato per le imprese e la Expo Cup e che contattata ha messo subito a disposizione il proprio calendario partite e le proprie risorse. “Se ho potuto arbitrare dentro al carcere ergastolani e condannati a 30 anni, posso farcela anche con i ragazzi universitari” dice Luca con un mezzo sorriso e molta sicurezza. Anche se le prime esperienze sul campo gli hanno già mostrato che la realtà è più complicata del previsto: “Li credevo più tranquilli gli studenti, invece quando ci sono l’agonismo e l’adrenalina, non c’è niente da fare, bisogna essere attenti e precisi”. Ne ha scherzato con Luigi Pagano, Provveditore in Lombardia dell’amministrazione penitenziaria e già storico direttore della Casa circondariale di San Vittore oltre che ex numero due del Dap, perché proprio il dirigente ha ammesso durante la mattinata di presentazione del progetto in via Pietro Azario, di essere stato squalificato in gioventù durante una partita di serie C. “Diventare arbitri è come diventare giudici, si tratta di un contrappasso significativo dal punto di vista dei valori” ha detto Severina Panarello, Direttrice dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna in Lombardia, a cui rispondono 8mila persone in regione che godono di questo regime, dove la recidiva scende al 20 per cento rispetto all’80-85 per cento di chi sconta la pena in prigione dal primo all’ultimo giorno. Questo anche perché, spiega Luca al telefono, “se rimani chiuso per tanti anni e poi improvvisamente vieni liberato da un giorno all’altro, è una botta forte: sei disorientato mentre invece la gradualità è importante, sia dal punto di vista psicologico che lavorativo”. Luca un vero giudice in toga non lo diventerà mai. Ma non ci va così lontano: gli mancano tre esami per prendere la laurea in scienze giuridiche che serve a diventare consulente. E si vede quando sciorina i dati sulla recidività e le esperienze più o meno virtuose d’Italia nel recupero alla società di persone che in passato hanno avuto problemi con la legge. Nozioni che ha appreso per l’esame di diritto penitenziario. Lui, i suoi, li ha pagati a caro prezzo: “Non sono stato un angioletto, lo so, e non voglio passare per la vittima perché ho fatto degli errori grossi, anche se uno pensa sempre che ha pagato più del necessario e soprattutto avrei preferito che anche per i miei reati ci fossero delle misure alternative”. “Però - aggiunge Luca - l’ho pagata: sono stato all’alta sorveglianza di Pavia, a Spoleto, a Taranto e poi Opera ma nel circuito comune”. “Quando ero a Pavia le mie figlie potevano venire di frequente, anche tutte le settimane. A Spoleto e Taranto a volte passavano anche otto mesi prima di vederle. La legge dice che devi essere rinchiuso nel raggio di 200 chilometri, per il principio della territorialità della pena, però poi nell’attuazione pratica non è così e ti possono mandare anche molto lontano dalla tua famiglia. Ne risenti molto”. Cosa succede adesso alla sua vita? “Con la piccola non ho mai vissuto, con lei è tutto nuovo, e c’è stata tanta sofferenza da ambo le parti. La vita dentro al carcere non ha nulla a che vedere con quella fuori: mangiare assieme alla sera, andare al parco, comprare un gelato, piccole cose che ti stravolgono perché prima eri rinchiuso fra quattro mura a fare sport”. Un nuovo inizio anche per la sua vita di coppia: “È tutto diverso anche con la mia compagna, non siamo più i ragazzini di quando mi hanno arrestato”. Milano: nella scuola di via Paravia i bimbi stranieri non fanno più paura di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 22 dicembre 2018 Tre anni fa era l’elementare più problematica di Milano: troppi bambini stranieri, molti genitori spostavano i figli in altre scuole. Con il progetto di inserimento non è più così. Tre anni fa la scuola di via Paravia 83 era l’elementare più problematica di Milano: a causa della stragrande maggioranza di bambini stranieri che non conoscevano bene la lingua italiana e rallentavano l’apprendimento e il programma di tutta la classe, molti genitori avevano cominciato a ritirare i loro figli e a iscriverli in altri istituti. “La scuola è stata la prima in cui si è manifestato il problema e rischiava di diventare un ghetto”, dice Chiara Tronconi, della Onlus Unione Volontari per l’Infanzia. “Era una scuola da tutti considerata come molto difficile poiché frequentata in gran parte da bambini stranieri”. Anche adesso l’83,7 per cento degli alunni è straniero, ma i problemi sono stati risolti grazie a un progetto di integrazione, “L’albero dai mille colori”, che ha creato uno spazio dove insegnare ai bambini stranieri la lingua italiana, le regole come gli orari e il vivere in comunità: un inserimento nella scuola materna o elementare che grazie a Uvi e all’associazione Sos Bambini (entrambe impegnate sul fronte dell’educazione alla cittadinanza) ha avuto successo. “Gli adulti stranieri hanno risposto bene e anche le insegnanti della scuola riscontravano un netto miglioramento”, dice Tronconi. tanto che adesso gli alberi si sono moltiplicati e sono tre: due in via Paravia e un terzo in zona via Padova, anche questa caratterizzata da una grande presenza di stranieri. Questa settimana è stata festeggiata la conclusione di un altro progetto, “RadicaMi”, un percorso di integrazione e formazione cominciato a gennaio 2018 per dare ai volontari e agli insegnanti gli strumenti necessari per poter interagire con i bambini di varia provenienza geografica e le loro famiglie. In collaborazione con il Politecnico di Milano, l’associazione World Bridge e con il sostegno della Fondazione Cariplo, ha coinvolto gli insegnanti, gli educatori e i volontari dell’Albero dei mille colori. Per ringraziare, i bambini hanno intonato un coro autodidatta sulla musica dell’Inno alla Gioia della Nona Sinfonia di Beethoven, cantando strofe scritte per l’occasione. “Una scelta non casuale, ma meditata”, ha detto Tronconi. “Si è voluto infatti lasciare la parola a chi parola non ha, con l’intento di valorizzarne il senso. In fondo, anche Beethoven - sulle tracce di Mozart - ha voluto inserire (ed è stata la prima volta) la voce umana all’interno di una Sinfonia”. Barcellona P.G. (Me): uno short movie in carcere per raccontare le speranze dei detenuti pippogaliponews.it, 22 dicembre 2018 Uno short movie all’interno del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto nel Messinese, per raccontare le emozioni e le speranze dei detenuti. Un film in cui gli stessi detenuti e gli agenti penitenziari diventano protagonisti. È quanto ha realizzato il regista cinematografico Salvo Presti noto per aver firmato il film sulla storia e il processo di beatificazione del giudice Livatino. “Dopo questo esilio” è il significativo titolo dato al lavoro che conclude un percorso didattico durato ottanta ore curato dal centro provinciale per l’ Istruzione degli adulti diretto da Giovanna Messina. Lo short movie è stato proiettato all’interno del carcere alla presenza del magistrato di sorveglianza Francesca Arrigo. Nel film vengono descritte le emozioni: l’ alterità dello sguardo, il rapporto con la realtà, le dinamiche legate al sogno e ai ricordi. Emerge la storia di Vito che racconta la sua speciale salvezza scoperta durante la reclusione. Viterbo: concluso primo ciclo del progetto “Lo sport entra nelle carceri” olimpopress.it, 22 dicembre 2018 Si è conclusa a Viterbo la prima parte del progetto “Lo sport entra nelle carceri”, voluto da Regione e Coni Lazio, in collaborazione con le direzioni degli istituti di pena di 12 strutture delle varie province. Nel capoluogo della Tuscia, nella Casa circondariale di Mammagialla, si è tenuta la seconda edizione del quadrangolare di calcio. Al mini torneo hanno partecipato le due formazioni interne alla struttura, ovvero i padiglioni D1 e D2 (allenati rispettivamente dai tecnici Romolo Ercoli e Massimo Baggiani) e le squadre dell’Aia (Associazione italiana arbitri) e del Sodalizio facchini di Santa Rosa. La finale, giocata tra D2 e Facchini, ha visto la vittoria di questi ultimi con il risultato di 4-1, ma solo a capo di un match comunque combattuto ed equilibrato per larga parte della contesa. Il progetto “Lo sport entra nelle carceri” proseguirà nei mesi di gennaio e febbraio con tornei di scacchi e lezioni di sala pesi sotto la guida di tecnici qualificati. Un ringraziamento particolare alle squadre partecipanti, alla Sezione AIA di Viterbo per la presenza arbitrale delle gare, ma soprattutto un grazie a dirigenza e personale della casa circondariale Mammagialla. Venezia: il pranzo di Natale nel carcere femminile Il Gazzettino, 22 dicembre 2018 Riunione conviviale organizzata dalle coop e dalle volontarie. È stato un momento di festa allietato dalla musica e da un pranzo di Natale con i fiocchi. Come è ormai tradizione ieri nel carcere femminile della Giudecca le cooperative sociali e le associazioni che operano nell’istituto di pena (Il Granello di Senape, Il Cerchio, Fondamenta Convertite e Rio Terà dei Pensieri) hanno organizzato una riunione conviviale per tutte e 94 le donne che per i più svariati reati si trovano a scontare una periodo di pena. Una tradizione di apertura che, oltre al pranzo, è simboleggiata dalla rassegna sulle attività che nell’istituto si svolgono. “Da molti anni e, con sempre crescente successo - sottolineano Annalisa Chiaranda de Il Cerchio e Paolo Sprocati di “Fondamenta Convertite - sono operativi i laboratori di cosmesi, sartoria; è pienamente funzionante l’orto ricavato nelle parti esterne dell’istituto e che offre raccolti di grande rilievo. Molti prodotti poi come è noto sono venduti al dettaglio”. Ad accogliere le associazioni che da anni lavorano nel carcere della Giudecca è stata la direttrice Antonella Reale insieme ai rappresentanti della Polizia Penitenziaria, il cappellano e i numerosi volontari che hanno partecipato al pranzo in veste di camerieri. “E una tradizione importante - ha sottolineato proprio la direttrice - che caratterizza questo istituto da sempre in costante contatto con il mondo circostante”. Semplice, e tipicamente veneziano il menu cucinato da alcune recluse in collaborazione con le volontarie de Il Cerchio: insalata di polipo con patate lesse; pasticcio di pesce; calamari fritti e infine un dolce al pan di spagna, panna montata e cioccolato. A rallegrare la giornata, infine il gruppo musicale dei “Frankie back from Hollywood” composto da Franca Pullia, Max Bustreo, Alvíse Seggi e Giovanni Natoli che con le loro musiche hanno fatto ballare tutti i presenti. Napoli: pranzo di Natale a Poggioreale con la Comunità di Sant’Egidio di Giuliana Covella Il Mattino, 22 dicembre 2018 Al tradizionale incontro conviviale hanno partecipato 150 detenuti. Pastore, portavoce dell’associazione: “Giusto donare un sorriso a chi soffre”. La solidarietà a volte riesce ad andare oltre ogni convenzione e ad abbattere quelle barriere che, troppo spesso, aumentano la distanza tra carcere e mondo esterno. Con questo spirito per il quindicesimo anno consecutivo, la Comunità di Sant’Egidio ha organizzato il pranzo di Natale per 150 detenuti della casa circondariale di Poggioreale. “Dal 2004 organizziamo il pranzo di Natale a Poggioreale - spiega lo storico portavoce di Sant’Egidio Antonio Mattone. Questo è stato in realtà il secondo appuntamento, dopo quello di sabato scorso con i detenuti dell’area “protetti”, che ha visto la partecipazione di quelli del reparto di media sicurezza”. Al banchetto hanno partecipato i detenuti dei padiglioni Genova, Salerno, Firenze, Roma, Milano, Livorno e Napoli tra quelli più poveri, stranieri o che non fanno colloqui perché non hanno più legami familiari. “Promuovere queste iniziative - ha aggiunto Mattone - significa essere vicini a chi vive dietro le sbarre in un momento in cui l’opinione pubblica vuole sentire parlare di altro. Con questo pranzo si vuole sottolineare l’importanza del recupero del detenuto”. Un menu in piena tradizione natalizia quello servito ai reclusi, dove spiccava il baccalà islandese preparato secondo l’antica ricetta: fritto con pomodorini, capperi e olive offerto dallo chef e dal patron di Baccalaria Vincenzo Russo e Toti Lange. “Vorremmo che queste iniziative vi fossero tutto l’anno - ha aggiunto la direttrice del penitenziario Maria Luisa Palma - perché tutti i nostri 2.357 detenuti hanno voglia di avere un contatto forte ed emotivo con l’esterno”. Tante le storie di sofferenza di chi, consapevole di aver sbagliato, sta scontando la propria pena: come Antonio, che la scorsa estate ha vinto un festival canoro organizzato dai volontari; o Luca, 32 anni, dietro le sbarre perché accusato dell’omicidio del fratello. Tra i tanti ospiti seduti a tavola con i carcerati, Rossella Paliotto, presidente della Fondazione Banco di Napoli, Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, don Franco Esposito, cappellano del carcere, Maurizio Teti, direttore di Vitignoitalia, Roberta Gaeta, assessore comunale alle politiche sociali; Giuseppina Troianiello e Antonino Salvia, moglie e figlio di Giuseppe Salvia (il vice direttore ucciso nel 1981 dalla camorra), la cantante Ida Rendano che ha donato un po’ di allegria ai detenuti. Manovra. La rivolta del Terzo settore: “Se l’Ires raddoppia, tagli ai servizi” di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 22 dicembre 2018 L’aliquota per gli enti non profit salirà dal 12 al 24 per cento. E questo andrà a scapito delle risorse utilizzate per erogare servizi di sostegno alle fasce deboli dove lo Stato non arriva. Partiamo da un esempio: Fondazione Girola eroga circa 200 borse di studio da 5mila euro ciascuna destinate a studenti orfani di uno o entrambi i genitori, che abbiamo un buon rendimento scolastico e che siano residenti in Lombardia per un milioni di euro ogni anno. Ha un pensionato universitario gratuito per ragazze orfane meritevoli e una casa di accoglienza per anziani. “Pagheremo 200mila euro di tasse in più - dice il presidente Bassano Baroni - e questo ci obbligherà a ridurre di un terzo l’attività. Ci hanno tolta l’unica esenzione di cui fruivamo dal 1972”. Lo stesso aggravio di 200mila euro peserà anche sul Pio Istituto dei Sordi, che dà borse di studio e finanzia la ricerca. Perché questo aggravio? La risposta è contenuta nella legge di Bilancio in approvazione al Senato (la votazione con la fiducia è attesa entro la mezzanotte di oggi) e in particolare in una novità fiscale annunciata ieri dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: la cancellazione della mini-Ires per “gli enti non commerciali”. La misura viene giustificata con la necessità di recuperare risorse per il Reddito di cittadinanza e Quota 100 alle pensioni. Su chi pesa questa norma fiscale? “Ricade su tutti gli enti che esercitano attività di assistenza sociale, beneficenza, sanità e istruzione e che abbiano personalità giuridica, sia per le attività di produzione di beni e servizi sociali e socio-sanitari sia per le attività diverse di messa a reddito del patrimonio, (ma sempre per attività benefiche e assistenziali”, spiega l’avvocato Luca Degani, membro del Consiglio nazionale del Terzo settore. “Penalizzare gli enti senza scopo di lucro, che hanno bilanci in pareggio e che non producono né distribuiscono utili, non va contro gli azionisti che non ci sono ma contro gli assistiti. Se la prendono con gli ultimi”. Franco Massi, presidente di Uneba nazionale che rappresenta oltre 900 enti in tutta Italia attivi nel settore sociosanitario, assistenziale ed educativo, esprime la preoccupazione di tutto il settore. Gli enti e gli istituti di assistenza sociale, le società di mutuo soccorso, gli enti ospedalieri, di assistenza e beneficenza perderanno il dimezzamento dell’Ires dal 24 per cento al 12 per cento sui redditi commerciali sottoposti a tassazione anche se servono a finanziare le attività sociali. Ma non solo. Perderanno anche l’esenzione della tassazione dei redditi dei fabbricati istituzionali, che servono a svolgere le funzioni assistenziali e che attualmente hanno l’esenzione totale. “Una fondazione ex Onlus solo sulla categoria dei redditi dei fabbricati istituzionali di un immobile di 120 posti letto avrà una maggiore Ires tra i 6mila e i 10mila euro all’anno”, quantifica Massi. La questione degli immobili non è di poco conto, spiega Rodolfo Masto, presidente dell’Istituto dei ciechi e dell’Unione Italiana Ciechi di Milano: “Gli enti storici in generale ricevevano e ricevono tuttora lasciti, come per esempio appartamenti e case. Immobili che, attraverso i proventi della locazione, concorrono a finanziare le attività sociali degli enti. Con la tassazione avremo un aggravio fiscale. E pensare che al posto di un aggravio il settore si aspettava la detassazione delle donazioni, che in molti Paesi del mondo come gli Usa”. Per il Terzo settore il prezzo complessivo da pagare - in base a una prima stima - solo per il primo anno sarà di 118 milioni di euro, ha detto la Portavoce del Forum nazionale del Terzo settore Claudia Fiaschi. A farne le spese saranno non solo gli enti, bensì anche, e in maggiore misura, gli anziani, persone con disabilità, minori in difficoltà e altre persone fragili a cui ogni giorno gli enti si dedicano. “Fra tutte le misure che gridano vendetta nella Legge di Bilancio firmata da M5s e Lega c’è ne è una particolarmente iniqua per un settore di grande rilevanza sociale: il mondo del non profit”, ha commentato la capogruppo del Partito Democratico in Commissione Agricoltura alla Camera, Maria Chiara Gadda. “Il taglio del regime Ires ad aliquota agevolata del 12% provocherà per questi soggetti giuridici un raddoppio del carico tributario nel 2019. Un bel regalo di Natale per il Terzo settore”. Migranti. Global Compact, se il governo italiano sceglie di non esserci di Roberto Saviano La Repubblica, 22 dicembre 2018 Nell’ostilità al Global Compact for Migrations l’Italia fa squadra con l’Ungheria di Viktor Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità per la cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere un’alleata un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria è anche uno specchio magico utile per capire dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la Lega al governo. Il dibattito sul Global Compact alla Camera (seguita rigorosamente su Radio Radicale) ci dà, su questo governo, un’altra informazione, e cioè che l’importante per i suoi rappresentanti è sempre posticipare, non decidere, non firmare: in definitiva, non esserci. Non esserci in Europa quando si decide in materia di immigrazione (vedi il Salvini europarlamentare assenteista), non esserci a Marrakech gli scorsi 10 e 11 dicembre, quando è stato formalmente approvato il testo del Global Compact di fronte ai rappresentanti di 150 paesi del mondo. Assente Conte, assente l’Italia. E qui c’è un corollario: con la mancata presenza fisica dove sarebbe invece necessario esserci, fa il paio una presenza eccessiva, tanto da risultare risibile, dove nella sostanza del fare politica è completamente inutile essere, ovvero sui social. E però questo basta, oggi, per dire: io c’ero. Non importa dove e non importa se a Marrakech a discutere di immigrazione o mentre sui social si mostra un piatto di crepes inondate di besciamella (ormai i social di Salvini sembrano la succursale della Prova del cuoco). Resterà la sensazione della presenza: lui c’era, era con me mentre scorrevo la home di Facebook. Tocca a noi, forse, spiegare che postare foto di uova al tegamino, se sei il ministro degli Interni, non è esattamente la stessa cosa che essere dove si decidono le sorti dell’Europa e quelle di milioni di esseri umani, compresi gli italiani che verrebbero prima. Questione di lana caprina? No. Non direi. Perché non esserci, se sei al governo e sei stato votato (ribaltando l’assioma caro ai Salvini e ai Di Maio: se non volevi esserci non ti candidavi), non è un’opzione possibile. Ma viene il dubbio che l’assenza serva a dire: io non c’entro, non ero d’accordo, se fosse dipeso da me le cose sarebbero andate diversamente. Ma questo discorso è valido prima di entrare nella stanza dei bottoni, dopo tocca decidere, farlo in maniera chiara e, possibilmente, nell’interesse del Paese. Ma l’assenza (mentre tutto questo accadeva stavo mangiando una pizza, testimoni i fan di Facebook) è necessaria per poter puntare il dito su qualcun altro. L’Europa, i giornaloni, gli esperti, le Ong, gli intellettuali. Ma l’Italia, anzi, i politicanti che la governano, non sono soli, fanno squadra con altri politicanti con cui condividono presenze, assenze e forse anche uova al tegamino. Nell’ostilità al Global Compact for Migrations (torna la distinzione: i rifugiati sì, ma i migranti non li vogliamo) l’Italia fa squadra con l’Ungheria di Viktor Orbán, che con i sovranisti di casa nostra ha in comune l’ostilità per la cultura, verso i migranti e per la stampa libera. Ma oltre a essere un’alleata un po’ riottosa che non sempre ci è fedele, per noi oggi l’Ungheria è anche uno strumento di chiaroveggenza, uno specchio magico utile per capire dove finiremo con il Movimento 5 Stelle e la Lega al governo. E finiremo come chi è rimasto in silenzio mentre la stampa libera subiva colpi mortali (il mantra era: viviamo in democrazia, no? A cosa serve l’informazione?), mentre i centri del sapere venivano chiusi e banditi (chi doveva studiare in Ungheria ha studiato, gli altri si accontenteranno di Wikipedia), mentre la magistratura veniva assoggettata al governo (c’è una legge votata di recente dal Parlamento magiaro che affida la nomina di magistrati al ministro della Giustizia). Finiremo come l’Ungheria, che oggi scende in piazza per manifestare contro quella che viene definita la “legge schiavitù”, una norma appena approvata dal Parlamento che aumenta di 150 (da 250 a 400) il monte ore annuale degli straordinari che - su richiesta dei datori di lavoro - i dipendenti faranno e che difficilmente rifiuteranno di fare dato che i salari medi non arrivano a 1.000 euro al mese. Ma queste 150 ore aggiuntive potranno essere retribuite in tre anni, dunque il concetto è: prendiamo per la gola gli affamati, sfruttiamoli oggi che poi per pagarli c’è sempre tempo. E oltre alla norma in sé, è drammatica la motivazione che ha portato il Parlamento a votarla e che ha reso necessaria la sua formulazione: la scarsità di manodopera. Scarsità dovuta principalmente alla chiusura delle frontiere ai migranti e all’emorragia di ungheresi che lasciano il Paese. Vi ricorda qualcosa? No perché invece dovrebbe. Ma per il premier Orbán e per i suoi fedelissimi, se gli ungheresi scendono in piazza non è perché vivono male, ma è per colpa di Soros: un capro espiatorio per ogni male e per ogni stagione. Esattamente due anni fa apparve un video su Internet risalente alla fine degli anni Ottanta, a parlare era Viktor Orbán che raccontava della sua borsa di studio finanziata dalla fondazione di Soros. Avete capito bene: Orbán che era tra i principali oppositori del regime comunista, aveva ottenuto una borsa di studio da Soros che finanziava, appunto, gli oppositori al regime comunista. Ma Orbán non è il solo ad aver studiato grazie a una borsa di studio finanziata dal suo nemico numero uno. Zoltán Kovács, Segretario di Stato ungherese e strenuo detrattore di Soros, negli anni Novanta aveva studiato ad Oxford proprio grazie a una borsa di studio da lui finanziata. E così Maria Schmidt, storica e ideologa di Orbán. Anche lei ha goduto di una borsa di studio finanziata da Soros e suo figlio ha ottenuto un dottorato all’Università dell’Europa Centrale, una delle migliori del Paese, fondata da Soros nel 1991 e che rischia di dover lasciare il Paese a causa della cosiddetta “legge Soros”, votata nel 2017 e che impone a tutte le università straniere in Ungheria di avere un campus anche nel loro Paese d’origine, che in questo caso sono gli Stati Uniti. “Mica perché sei miliardario puoi decidere autonomamente di fondare e finanziare una università?”, queste le critiche a Soros da chi, però, aveva goduto di borse di studio da lui finanziate e che ha avuto gioco facile a convincere i tanti sofferenti cui non bastano i soldi per arrivare a fine mese. Gli attacchi a Soros e alla sua opera filantropica seguono due filoni, da un lato la guerra senza quartiere alle Ong da lui finanziate che tramerebbero per inondare l’Ungheria di immigrati (Luigi Di Maio con i suoi “taxi del mare” non ha inventato niente, ha semplicemente guardato all’Ungheria e preso ispirazione), dall’altro l’attacco alla cultura, sul presupposto che non sia un bene primario, che siccome siamo in democrazia (non importa quanto illiberale), studiare e informarsi sono pratiche superflue. Vi ricorda qualcosa? No perché invece dovrebbe. Ora, cosa deve accadere in Italia per capire che abbiamo preso una direzione che non prevede, in nessuna delle sue fasi, che vengano - come da slogan - prima gli italiani? Migranti. L’Onu: “Orrori impensabili nei centri per migranti in Libia” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 22 dicembre 2018 Rapporto Unsmil. Abusi della Guardia costiera libica e negli 11 centri di detenzione visitati con 1.300 racconti di migranti. La missione delle Nazioni Unite ricorda all’Italia e all’Ue: “Non è un paese sicuro”. E l’Unhcr soddisfatta per i 103 rifugiati arrivati in Italia con il corridoio umanitario. “Si ubriacano e poi fanno ciò che vogliono di noi, ci toccano, ci tolgono i vestiti e dobbiamo pagare per uscire”. Sono 1.300 i resoconti di prima mano raccolti dallo staff della missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) che sono alla base del rapporto appena pubblicato sulle violazioni dei diritti umani in Libia negli ultimi 20 mesi, fino all’agosto scorso. Descrive un clima di continui abusi, stupri, maltrattamenti, lavori forzati, ricatti alle famiglie d’origine, mancanza di igiene, malnutrizione e assenza di cure mediche negli 11 centri di detenzione visitati in tutto il Paese, da Est a Ovest e dalla costa all’estremo Sud al confine con il Niger. Ma soprattutto l’orrore coinvolge non solo i contrabbandieri ma anche funzionari statali e milizie che fanno capo al governo di Tripoli sostenuto dalla comunità internazionale. Con un capitolo pesante a carico della Guardia costiera libica del governo Serraj che l’Italia ha rifornito di strumentazione, golette, formazione e al quale ha lasciato spazio per pattugliare e “soccorrere” in mare i barconi, allontanando le scomode ong. Sono 29 mila i migranti che sono stati riportati nell’inferno libico dai guardiacoste di Tripoli dall’inizio del 2017. Ecco come nel racconto di due donne sudanesi che hanno tentato la traversata il 18 gennaio di quest’anno: “Dopo otto ore in mare siamo stati intercettati dalla Guardia costiera, la loro lancia si è avvicinata a grande velocità facendo onde così grandi che la nostra barca si stava per rovesciare. Si sono messi a picchiare diversi passeggeri e ci schernivano “non c’è l’Italia per te”. Poi hanno dato succo e biscotti ma solo ai bambini e alle donne palestinesi e siriane, ai bambini neri nulla, poi hanno portato quelle donne in cabina e noi siamo rimaste sul ponte”. Altri racconti del centro di detenzione per migranti di Sabha, gestito da un certo “Gateau”, parlano di morti fatti seppellire agli altri prigionieri e orribili torture. A Sabratha guardie ubriache che sparano senza ragione, donne lasciate morire dissanguate di parto assistite solo dalle altre prigioniere con solo un coltellaccio sporco e senza neppure acqua calda. A Bani Walid una donna della Costa d’Avorio cosparsa di benzina e bruciata perché non riusciva a pagare un riscatto di mille dollari. Nel centro di Gergaresh a Tripoli le donne nigeriane tra i 15 e i 22 anni costrette a prostituirsi dietro una tenda in una grande house of connection gestita da guardie libiche. E nel centro di Tarikal-matar sempre a Tripoli solo l’intervento Unsmil ha evacuato alcuni dei 1.900 migranti durante i combattimenti di quest’estate. Mentre altri sono stati trasferiti dalle milizie di Abu Salim ancora più vicini alla zona delle bombe e altri ancora sono riusciti a fuggire. Il Rapporto Onu si conclude con alcune raccomandazioni, innanzitutto ai Paesi europei, ai quali viene richiesto di non considerare assolutamente la Libia un Paese sicuro per migranti e richiedenti asilo. E poi alle stesse autorità libiche perché per prima cosa cambino le leggi risalenti all’87 e al 2010, periodo di Gheddafi, che non riconoscono i soggetti vulnerabili e i diritti dei rifugiati, criminalizzano l’immigrazione tout court e costringono i fermati a essere imprigionati come adibat, schiavo, o a pagare almeno mille dinari. Soddisfazione dell’Unhcr intanto per l’arrivo in Italia ieri l’altro di 103 rifugiati evacuati dalla Libia (56 donne, 36 minori di cui 5 non accompagnati). Si tratta del primo gruppo destinate al canale umanitario attivato dalle ong cattoliche, che hanno potuto sostare nella nuova struttura di transito inaugurata poche settimane fa a Tripoli dall’Onu. Le donne sono state quasi tutte violentate, una aveva abortito ed era in grave stato di malnutrizione. Droghe. Corsa al business della cannabis legale di Pietro Saccò Avvenire, 22 dicembre 2018 Anche Novartis e i colossi che controllano i marchi Marlboro e Budweiser iniziano a investire sulla marijuana canadese. L’industria canadese della cannabis questo mese ha avuto solide conferme della correttezza di uno dei principali presupposti alla base del suo business: nei Paesi in cui la marijuana è stata legalizzata - come il Canada e dieci Stati degli Usa, California compresa - presto milioni di consumatori si abitueranno a fumare, bere o mangiare cannabis come “lubrificante sociale” e i grandi marchi del mondo dell’alcol e del tabacco dovranno adeguarsi per non perdere quote di mercato. I dati sul consumo non sono ancora disponibili, ma gli investimenti delle multinazionali stanno arrivando davvero. Nelle ultime tre settimane hanno mosso i primi passi nel mondo della cannabis tre colossi mondiali come Altria, Ab InBev e Novartis. Il nome di Altria può non dire molto, ma solo perché il marchio di questo gruppo americano del tabacco da oltre 25 miliardi di dollari di fatturato non è ben visibile sui prodotti delle sue sigarette. Altria controlla infatti più di una dozzina di brand, compresa Marlboro. Sempre più convinta che la sua attività vada diversificata dato che in Occidente le sigarette sono sempre meno popolari, il 7 dicembre Altria ha investito 2,4 miliardi di dollari per comprare il 45% di Cronos Group, una delle principali società canadesi della cannabis, pagando le azioni a un valore del 33% superiore a quello del mercato. Altria avrà anche un’opzione per avere un altro 10% del gruppo, e quindi prenderne la maggioranza. “Questo investimento posizione Altria per partecipare nell’emergente settore mondiale della cannabis, che siamo convinti sia destinato a una rapida crescita nel prossimo decennio - hanno spiegato dall’azienda. Questo crea anche una nuova opportunità di crescita in una categoria adiacente e complementare alla nostra attività caratteristica del tabacco”. Quello di Altria è stato il primo grande investimento di una major del tabacco nel mondo della marijuana. Nel settore dell’ alcol la prima a muoversi, lo scorso giugno, era stata Heineken, che tramite la sua controllata americana Lagunitas in California ha lanciato la linea Hi-Fi Hops, bevande con zero calorie ma con una decina di milligrammi di Thc e Cbd, i due principi attivi (rispettivamente eccitante e rilassante) della cannabis. Poi ad agosto Constellations Brand, conglomerato di marchi dell’alcol che controlla anche la celebre birra Corona negli Stati Uniti, ha investito 4 miliardi di dollari per conquistare il 38% di un’altra azienda canadese della cannabis, Canopy Growth. Per non rimanere troppo indietro lo scorso mercoledì, Ab InBev, cioè l’azienda che sta dietro Budweiser ed è leader mondiale della birra, ha investito 50 milioni di euro per creare un’alleanza con Tilray, il primo gruppo della cannabis canadese a quotarsi sull’indice Nasdaq, a Wall Street. L’alleanza, in cui Tilray metterà altri 50 milioni di dollari, studierà quale sia il modo migliore di portare sul mercato i drink a base di cannabis, studiando aspetti come il gusto e la lunghezza dell’effetto “sballo”. Ab InBex partecipa tramite Labatt, la sua controllata canadese. “Siamo impegnati a portarci avanti rispetto ai trend emergenti tra i consumatori. Dal momento che i consumatori in Canada provano i prodotti a base di Thc e Cbd, la nostra spinta innovativa è eguagliata dal nostro impegno per i più alti standard di qualità del prodotto e marketing responsabile - ha spiegato Kyle Norrington, presidente di Labatt. Intendiamo sviluppare una comprensione più profonda delle bevande non alcoliche contenenti Thc e Cbd, che guiderà le decisioni future sulle potenziali opportunità commerciali”. Tradotto dal linguaggio aziendale: Ab InBev intende sperimentare con Tilray i drink commerciali a base di marijuana. Il partner scelto è il più forte di tutti: Tilray appartiene a Privateer, il fondo che punta sulla legalizzazione della cannabis e sul quale ha investito anche Peter Thiel, il miliardario che ha fondato PayPal con Elon Musk. Per Tilray quello con Ab InBev è stato il secondo grande accordo della settimana. Lunedì ha infatti siglato un’intesa con Sandoz, azienda leader nei farmaci generici e bio-similari e parte del gruppo svizzero Novartis. In base all’accordo quadro, le due aziende collaboreranno in tutti i mercati in cui la cannabis è stata legalizzata. In particolare Sandoz potrebbe sostenere la commercializzazione dei prodotti farmaceutici di Tilray, magari anche attraverso la condivisione dei marchi e la gestione dei rapporti con le farmacie. Tutte conferme che la cannabis intende farsi spazio nel mercato di largo consumo facendosi accompagnare da gruppi che quel mondo lo conoscono molto bene. Siria. Il “ritiro” di Trump sulla pelle dei combattenti curdi del Rojava di Alberto Negri Il Manifesto, 22 dicembre 2018 Quando il gioco si fa duro - politicamente serio - Trump se ne va da Siria e Afghanistan mollando al loro destino gli alleati curdi e il fragile governo di Kabul, assediato da talebani e affiliati dell’Isis. La sua è una modesta realpolitik: caricare la doppietta a salve sperando che riportare le truppe a casa e l’isolazionismo siano carte buone per vincere un secondo mandato. Sullo sfondo però non c’è la fine dei conflitti nel Medio Oriente allargato ma loro prosecuzione con la “privatizzazione” delle guerre attraverso i “contractors”, cioè i mercenari: era già accaduto in Iraq dopo il ritiro Usa nel 2011 e avviene già oggi in Siria e nella ex roccaforte del Califfato a Raqqa. L’obiettivo in Siria, oltre a vendere i Patriot a Erdogan, è riportare la Turchia nell’alveo della Nato, senza per altro riuscire a staccarla da Mosca e da Teheran (l’altro ieri Erdogan ha incontrato Rohani ad Ankara). In Afghanistan, dopo 17 anni di guerra, torna in gioco il Pakistan, che sostenne negli anni’90 l’ascesa dell’Emirato del Mullah Omar e proteggeva il fondatore di Al Qaeda, Osama bin Laden. Gli Stati Uniti, dopo essere stati ai ferri corti sia con Ankara che con Islamabad, al punto di imporre sanzioni finanziarie, tornano a puntare sui vecchi alleati ma a spese di coloro che il jihadismo lo hanno combattuto davvero. I sovranisti americani sono tra i principali traditori dei curdi, sia oggi come in passato. Ma non tradiscono soltanto loro: la Federazione della Siria del Nord, il Rojava, è uno dei pochi esperimenti, sia pure assai complicato, di convivenza tra curdi e arabi, oltre che rappresentare il tentativo di insediare in Medio Oriente un modello di governo locale laico, democratico e di sinistra che punta all’emancipazione delle donne e delle minoranze. L’Occidente così rinuncia a fare l’Occidente: la Francia di Macron, insieme agli Usa nella coalizione anti-Isis, vorrebbe proteggere i curdi ma l’Europa resta sotto il ricatto, ben pagato dall’Unione, di Erdogan sui profughi siriani mentre Donald Trump ha pure la sfacciataggine di dichiarare vittoria, emulando i suoi predecessori, tra i quali Obama che nel 2011 lasciò l’Iraq al suo destino. Dopo avere dato alla Turchia via libera nel cantone di Afrin, con il consenso della Russia di Vladimir Putin, adesso sui curdi siriani si rovescerà addosso l’apparato militare e l’aviazione di Erdogan che ha l’obiettivo di controllare 600 chilometri di confine con un’ampia “fascia di sicurezza” dentro al territorio siriano. Non è un’amara novità: i curdi sono stati traditi con regolarità dai loro alleati a ogni tornante della storia. Il primo a illuderli, in epoca contemporanea, fu il segretario di stato Henry Kissinger che negli anni Settanta incoraggiò la ribellione dei curdi iracheni perché allora Baghdad si opponeva a un accordo sulle frontiere con l’Iran dello Shah Reza Palhevi, alleato di ferro di Washington e investito del ruolo di guardiano del Golfo. Quando l’Iraq, proprio con Saddam Hussein, allora vicepresidente, firmò l’intesa di Algeri nel 1975 sul confine dello Shatt el Arab, gli americani abbandonarono i curdi al loro destino. Non servivano più. Una replica ci fu nel 1988 quando Saddam lanciò i gas contro i curdi uccidendo nell’area di Halabja almeno cinquemila persone. Nessuno disse nulla perché il raìs iracheno combatteva con il sostegno dell’Occidente e delle monarchie del Golfo contro la repubblica islamica dell’Imam Khomeini. Lo stesso accadde negli anni Novanta. Dopo la guerra del Golfo del 1991 per la riconquista del Kuwait invaso dagli iracheni, il presidente Usa George Bush senior lanciò un appello ai curdi e agli sciiti affinchè si sollevassero contro il dittatore. Ma anche allora i curdi, così come le popolazioni del Sud, vennero massacrati. Il destino dei curdi, oltre venti milioni divisi tra Turchia, Ira, Siria e Iran, è sempre stato in bilico e mai è stata attuata la promessa di uno stato curdo, previsto con lo smembramento dell’Impero ottomano dal tratto di Sèvres del 1920 e cancellato tre anni dopo da quello di Losanna per la strenua opposizione di Kemal Ataturk. Nell’anatolia del Sud Est - così Ankara chiama il Kurdistan - i turchi si sono sempre opposti a ogni forma di autogoverno e la reazione negli anni Ottanta è stata la guerriglia e il terrorismo del Pkk di Abdullah Ocalan. Quando nel febbraio 2015 fu raggiunto un accordo di pacificazione tra il Pkk e Ankara il primo a violarlo è stato proprio Erdogan che nell’estate di quell’anno, dopo avere subito una battuta d’arresto elettorale con l’entrata in parlamento, per la prima volta, del partito curdo Hdp, lanciò una pesante offensiva contro i curdi distruggendo intere città e villaggi. Più realisticamente i curdi siriani si sono posti come obiettivo di avere una loro regione autonoma nel Rojava. Questa autonomia se la sono guadagnata sul campo combattendo strenuamente da Kobane in poi contro l’Isis. Qui in Occidente sono stati acclamati come eroi e gli americani si sono serviti dei curdi siriani per combattere il Califfato fino a espugnare Raqqa, la capitale di Abu Baqr al Baghadi. Ma adesso Trump sceglie il terrorismo di stato di Ankara a coloro che hanno combattuto un duello mortale contro i jihadisti. “Battisti non si consegnerà, il Brasile lo ha lasciato fuggire” di Carlo Bonini La Repubblica, 22 dicembre 2018 L’avvocato dell’ex terrorista racconta la notte in cui è sparito. Pronto il ricorso, ma potrebbe essere tardi. Al decimo piano di un grattacielo del quartiere residenziale di Jardins, al 2441 di Alameda Santos, seduto a un tavolo che apre lo sguardo su un orizzonte urbano che non sembra avere una fine, un giovane uomo di 42 anni, gli occhi azzurri dietro lenti da presbite dalla montatura in titanio, è la sola boa che Cesare Battisti, il Fuggitivo, ha lasciato dietro di sé. O il suo pesce pilota, se si preferisce. Si chiama Igor Sant’Anna Tamasauskas. Sposato, due figli piccoli, ha sangue italiano. “Mia nonna Annunziata nacque negli anni venti del secolo scorso qui a San Paolo. Dove erano arrivati i suoi genitori, Domenico Antonio Di Sandro e Maria Barbetta, quando la miseria li aveva spinti a lasciare la loro Campobasso”, dice con un sorriso garbato. È un giovane principe del foro brasiliano. Ha fatto parte del team legale dell’ex presidente Lula. Divide lo studio con un altro pezzo da novanta dell’avvocatura brasiliana, Pierpaolo Cruz Bottini. E se esiste ancora un caso Battisti è perché lui è riuscito per sei anni a dare scacco al sistema giuridico del Paese. A infilarsi nelle sue contraddizioni e contorsioni politiche. Con il suo cliente non divide apparentemente nulla. A cominciare dalle maniere pacate dell’argomentare. Dal suo sguardo sull’Italia. “Mi è capitato spesso di pensare in questi anni e a maggior ragione in questi giorni cosa potranno pensare di me gli italiani. E la cosa mi turba, perché amo l’Italia. Ma sto difendendo Battisti non per quel che ha fatto nel vostro Paese quarant’anni fa, o per ragioni politiche o ideologiche, ma per quello che questa vicenda significa nel mio Paese. Perché in gioco non è il destino di Battisti, ma il rapporto tra i diritti umani e il Potere sovrano dello Stato”. Riportare per un momento Tamasauskas sulla terra e sulla domanda di queste ore non è complicato. Del resto, quella domanda la conosce e sembra aver pensato a lungo alla risposta. “Dov’è Battisti? Non lo so. Ho provato a capirlo. Ma so che non sarà facile neanche per me. Posso immaginare cosa gli stia passando per la testa in queste ore. E non credo di sbagliare se dico che non si consegnerà. Mai. Che non darà alcun vantaggio alla polizia che gli dà la caccia. E dunque non farà l’errore di farsi individuare con una mail, un sms o un whatsapp. Non lo farà. E del resto non ha scelta. Questa storia sarà ancora lunga e non riesco a immaginarne l’epilogo”. La notte della fuga Mentre ne ricorda perfettamente l’incipit. “Ci siamo sentiti l’ultima volta alla fine di novembre. Direi l’ultima settimana. O, forse, erano i primi giorni di inizio dicembre. Poco prima che tutto precipitasse. Era a Cananeia. Mi aveva chiamato perché dovevamo discutere dell’inchiesta in cui è indagato per esportazione illegale di valuta. Si tratta dei 6 mila euro che gli vennero trovati indosso quando fu arrestato l’ultima volta mentre cercava di passare il confine con la Bolivia. Né io, né lui, avevamo alcuna percezione di quanto il giudice Luiz Fux del Tribunale Supremo si preparava a disporre la sera di giovedì 13 dicembre”. Tamasauskas sapeva almeno dalla fine del 2017 che la nostra diplomazia aveva risollevato il caso dell’estradizione con un nuovo ricorso. E ne era anche preoccupato. “Avevo provato in tutti i modi a cercare di conoscere il contenuto di quel ricorso, ma non avrei mai immaginato che la questione avesse l’accelerazione che ha avuto. Quel giovedì stavo mettendo a letto i miei figli quando arrivò la notizia della decisione del giudice Fux e dell’ordine di arresto. Provai a contattare Battisti sul cellulare. Quindi attraverso Whatsapp, le mail. Aveva staccato tutto. E quando provai con i suoi amici ebbi la stessa risposta. Aveva interrotto ogni contatto. Allora, mi aprii una bottiglia di vino e rimasi tutta la notte in piedi per redigere il testo di un nuovo ricorso che avrei presentato il giorno successivo”. Da quella notte insonne e da quel che ne è seguito, Tamasauskas sostiene di aver maturato una convinzione. “Lo hanno lasciato scappare” - “Non era mai successo in questo Paese che un ordine di cattura firmato da un giudice del Tribunale Supremo venisse annunciato in diretta dai notiziari radio e tv, finisse on line e il giorno dopo fosse su tutte le prime pagine dei giornali. Normalmente accade che sia io che venga svegliato all’alba da un cliente che mi dice “avvocato, mi stanno arrestando”. E non che mentre vado a letto venga chiamato da decine di giornalisti che mi dicono che stanno per arrestare un mio cliente. Credo che quella fuga di notizie, che per quanto so ha fatto imbestialire la Polizia Federale, sia quello che, in portoghese, definiamo un Ato Falbo, un’azione che ha come suo scopo l’opposto di ciò che si prefigge. Detta in altro modo, penso che quella fuga di notizie sia servita a chiudere la partita senza danni per nessuno. Il Brasile ha messo fine a una partita politica delicata con l’Italia, capovolgendo la decisione di Lula, e Battisti è stato messo nelle condizioni di non doverne pagare il prezzo lasciandogli la possibilità di fuggire, come ha fatto. In mezzo, sono rimaste solo le macerie del diritto. Perché la questione, quella che ho sollevato in questo mio ultimo ricorso, è che la decisione del giudice Fux svela come di fronte a quella che noi chiamiamo sovranità, ma che è solo un modo per definire il Potere, vengono meno i diritti umani”. A ben vedere, parlando di diritti umani, ci sarebbero anche quelli dei familiari delle vittime di Battisti che chiedono giustizia da 40 anni. Tamasauskas annuisce. “Lo so. Quando nel 2013 accettai l’incarico di difendere Battisti, gli chiesi come mai l’Italia tutta, destra e sinistra, lo odiasse. Mi rispose che era innocente, che non aveva commesso gli omicidi per cui era stato condannato e che pagava la colpa di aver provocato politicamente l’opinione pubblica italiana durante il suo periodo di esilio in Francia. Non ho mai voluto approfondire. Ho imparato a non giudicare i miei clienti ed è quello che ho fatto in questi anni e continuo a fare con Battisti, cui peraltro, senza mai essere troppo ascoltato, ho sempre consigliato di mantenere un profilo basso”. Per la sua difesa, assicura l’avvocato, “Battisti non paga”. “Nel 2013 decisi di assisterlo pro bono. Era una scommessa su quello che questo caso rappresentava per il Brasile. E dunque che sarei stato ripagato su un altro piano, come è stato”. O, almeno, così pensava fino a giovedì scorso. “Già. Ora la situazione è tale che la questione giuridica che ho posto con il nuovo ricorso non potrà essere discussa prima di febbraio 2019 quando, dopo la sospensione feriale, il Tribunale Supremo tornerà a riunirsi. Conoscendo la Corte, si rifiuterà di discuterne il merito se Battisti non accetterà di consegnarsi. Ma se Battisti si consegna, dopo qualche ora sarà su un aereo per l’Italia. È uno stallo da cui non so come si uscirà. Anzi, sono certo che presto arriverà un nuovo ordine di arresto per i 6 mila euro dell’ultima fuga. Capisce ora perché Battisti non si farà mai prendere?”. Nicaragua. Esperti indipendenti accusano il governo di crimini contro l’umanità di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 dicembre 2018 Il Gruppo interdisciplinare di esperti indipendenti (Giei) della Commissione interamericana sui diritti umani ha presentato ieri sera il suo “Rapporto sugli atti di violenza occorsi tra il 18 aprile e il 30 maggio in Nicaragua”. Il rapporto costituisce una minuziosa indagine sui crimini di diritto internazionale commessi da agenti dello stato nicaraguense sotto il comando del presidente Daniel Ortega e sull’uso spietato delle istituzioni pubbliche e di gruppi armati filo-governativi per stabilire un regime repressivo allo scopo di uccidere e perseguitare coloro che si opponevano alle politiche del governo. Per il Giei il governo del presidente Ortega si è macchiato di crimini contro l’umanità. Le indagini del Giei hanno portato alla conclusione che le azioni violente commesse nei 40 giorni esaminati hanno fatto parte di una deliberata e mortale strategia repressiva. La maggior parte delle uccisioni è stata causata da armi da fuoco, usate per provocare intenzionalmente perdite di vite umane, da parte delle forze di sicurezza o di altri soggetti collusi con loro. Il governo del presidente Ortega ha fatto ricorso a tutto l’apparato statale, tra cui la Polizia nazionale, l’Ufficio della procura e il sistema giudiziario, ma anche a soggetti non istituzionali come i gruppi armati filo-governativi, per arrestare, torturare e uccidere coloro che erano scesi in piazza per contestare le politiche ufficiali. Il governo del Nicaragua ha annunciato la temporanea sospensione della presenza e delle visite nel paese della Commissione interamericana sui diritti umani e dei suoi Meccanismi speciali di monitoraggio sul Nicaragua, così come la fine del mandato del Giei prima della presentazione del suo rapporto finale. Che infatti è avvenuta a Washington e non a Managua.