Carcere stipato e silenziato di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 dicembre 2018 Il Partito Radicale Nonviolento invia al Consiglio d’Europa un rapporto sul sovraffollamento, che torna a torturare. Il Dap ordina: stop alle notizie. “Alla Corte europea dei diritti umani l’Italia ha fatto il pacco”, riassume con un’espressione che rende bene l’idea l’avv. Riccardo Polidoro, dell’Unione delle camere penali italiane, intervenendo alla presentazione del Rapporto sulle carceri messo a punto dal Partito Radicale nonviolento (Prntt) e inviato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, alla Cedu, appunto, e al Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt). Nel rapporto che porta la firma soprattutto di un’esperta come Rita Bernardini, i dati testimoniano la “truffa istituzionale” ai danni dei giudici di Strasburgo che con la sentenza pilota Torreggiani del 2013 imponevano all’Italia riforme strutturali per sanare il sovraffollamento carcerario e garantire un trattamento umano e dignitoso ai detenuti. Procedura poi archiviata nel 2016 in seguito alla presentazione delle riforme volute dall’allora ministro di Giustizia Andrea Orlando, in parte adottate e in parte allora ancora in itinere, studiate da 200 esperti messi a lavorare per un anno su 18 tavoli tematici. Le riforme, come si ricorderà, furono invece affossate dal governo Gentiloni e definitivamente cancellate dall’attuale esecutivo giallobruno (il quale, afferma Polidoro, “ha letteralmente fatto a pezzi la giustizia”). E così, se nel 2012 con 66.271 detenuti e 45.568 posti disponibili, c’erano 145 carcerati per ogni 100 posti, alla fine del 2015 si registrava il minimo delle presenze con 52.164 detenuti, ma già nei mesi successivi la popolazione dietro le sbarre ricominciava a crescere. Mentre i posti regolamentari, che secondo il “Piano carceri” avrebbero dovuto aumentare di 12.024 unità, si sono fermati a 7.129. E oggi ci sono anche, secondo il rapporto dei Radicali, 4.600 posti inagibili. Risultato: la media del sovraffollamento nei 190 istituti penitenziari italiani al 30 novembre 2018, che secondo il Dap è del 118,6%, nella realtà arriva al 130,4%. Non solo: “94 istituti penitenziari registrano un sovraffollamento che va dal 120,7% al 204,2%”. Il dettagliato documento, che il Prntt ha inviato alle istituzioni europee, spiega quali provvedimenti hanno inciso di più sul calo della popolazione detenuta (per es. la sentenza della Consulta che ha annullato la legge Fini-Giovanardi) e contiene un’accurata disamina del sovraffollamento regione per regione, della popolazione carceraria e delle condizioni di vita (e di morte) nelle celle. In particolare viene sottolineato il problema dei cosiddetti “liberi sospesi”, ossia “decine di migliaia di persone condannate a pene detentive inferiori ai 4 anni, o 6 se tossicodipendenti, e che hanno ottenuto dalla Procura la “sospensione” dell’esecuzione della pena”. Un problema che potrebbe diventare esplosivo se si dovesse dar seguito fino in fondo al raggiro “populista e giustizialista” imperante, come ha fatto notare il presidente dell’Ucpi, Gian Domenico Caiazza: “Se si vuole sostenere una visione ipercarceraria, allora tutti i “liberi sospesi” dovrebbero tornare in cella, e si arriverebbe a 150 mila detenuti”. Rita Bernardini e la presidenza del Prntt hanno infine ricordato al Consiglio d’Europa che esiste ancora una procedura aperta sempre nel 2013 contro l’Italia, il caso Cirillo, riguardante un detenuto che non ricevette cure adeguate a causa del sovraffollamento. In questo caso, il monitoraggio da parte del Comitato dei ministri non si è ancora concluso, e potrebbe essere il cavallo di Troia per poter ottenere una nuova condanna dell’Italia. Nella speranza di far immergere nella realtà il governo giallobruno. L’impresa però non appare semplice, se si pensa a come è cambiato perfino il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nell’era M5S/Lega. Mai prima d’ora infatti una circolare che indica le linee programmatiche del capo del Dap, Francesco Basentini, aveva previsto l’accentramento di ogni decisione, e “un modello organizzativo uniforme e centralizzato che annulla qualunque iniziativa innovatrice”, come hanno spiegato i penalisti che da oggi apriranno una vertenza contro questo documento. Tra le tante “chicche” contenute nel testo (udienze di convalida dell’arresto in videoconferenza; unificazione delle carriere dei direttori di carceri e dei funzionari di Polizia penitenziaria, etc.) ce n’è una particolare: la designazione “presso ogni Provveditorato Regionale, di un “referente per la comunicazione”, che funga da organo di raccolta e selezione delle informazioni e delle notizie utili da portare all’attenzione dell’Ufficio stampa del Ministero della Giustizia per la eventuale divulgazione all’esterno”. Una ciliegina sulla torta di panna montata del governo della trasparenza. Il Partito Radicale: “Istituti stracolmi oltre ogni limite” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 dicembre 2018 Presentato il dossier con i dati veri: in 94 carceri sovraffollamento medio del 143%. “Le misure assunte dallo Stato italiano dalla sentenza Torreggiani ad oggi non sono state in grado di affrontare in modo strutturale il problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari”: è la denuncia lanciata ieri durante una conferenza stampa del Partito radicale transnazionale e transpartito convocata per presentare un dossier sulle carceri, nell’ambito delle 72 ore di mobilitazione straordinaria per la vita del partito e di Radio Radicale. Al 19 dicembre sono 2.827 gli iscritti, ma ai pannelliani ne mancano ancora 173, con solo 12 giorni ancora a disposizione, per evitare la liquidazione. L’appello rilanciato ieri è dunque quello di iscriversi in modo che le battaglie radicali possano essere portate avanti. All’incontro, moderato dal direttore di Radio Radicale Alessio Falconio, hanno preso parte Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e Giuseppe Rossodivita. A sottoscrivere l’approfondito documento - inviato al Consiglio d’Europa e al presidente della Cedu, Guido Raimondi anche l’Unione Camere penali, rappresentate dal presidente Gian Domenico Caiazza e dal responsabile dell’Osservatorio Carcere Riccardo Polidoro. Il dopo Torreggiani - Una parte del documento ricostruisce quanto avvenuto dopo la sentenza con cui la Corte europea dei Diritti dell’uomo, l’ 8 gennaio 2013, aveva condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea. Il caso, come è noto, riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza in celle triple e con meno di quattro metri quadrati disponibili a testa. Nel marzo 2016, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva dichiarata conclusa la procedura nei confronti dell’Italia e accolto “l’impegno del governo a proseguire gli sforzi per combattere il sovraffollamento al fine di raggiungere una soluzione duratura”. Tuttavia, rileva il rapporto, “dopo un significativo calo iniziale che aveva portato il numero dei detenuti dai 65.704 del 31 dicembre 2012 ai 52.164 del 31 dicembre 2015, cioè a meno 13.540”, il dato “ha ripreso ad aumentare negli ultimi tre anni passando dai 52.164 al 31 dicembre 2015 ai 60.002 al 30 novembre 2018, cioè a più 7.838”. I firmatari del rapporto si chiedono cosa sia stato fatto dagli ultimi due governi e dal Parlamento Rilevano come “purtroppo, sia stata accantonata dal governo Gentiloni/ Orlando la riforma organica dell’Ordinamento penitenziario e come, successivamente, il governo attuale Conte-Salvini-Di Maio l’abbia svuotata, respingendo la parte riguardante la possibilità di un più facile accesso alle misure alternative al carcere”. Il risultato? “Secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia al 30 novembre 2018, i posti regolamentari sono 50.583, cioè 7.129 posti in meno di quelli preventivati nel “Piano carceri”. Il dato dei posti inutilizzabili è stato riaffrontato recentemente dal Capo del Dap Francesco Basentini, secondo il quale “i posti veri”, e quindi la capacità effettiva di ricezione, sono 4.600 in meno rispetto ai circa 50.000 regolamentari”. In pratica nei 190 istituti italiani, al 30 novembre 2018, sono stati ristretti 60.002 detenuti in 45.983 posti effettivi, con un sovraffollamento nazionale pari al 130,4%. Dentro le carceri - Il carcere più sovraffollato? Quello di Brescia, con un tasso del 204,2%. Di seguito alcuni dati che però “non tengono conto dei 4.600 posti in meno, perché le schede dei singoli istituti pubblicate sul sito del ministero della Giustizia non sono aggiornate al riguardo”. Ebbene, “94 istituti registrano un sovraffollamento che va dal 120,7% al 204,2%. In questi, sono presenti 37.506 detenuti in 26.166 posti con un sovraffollamento medio del 143,3%. Quindi il 62,5% della popolazione vive in un sovraffollamento di gran lunga superiore alla media nazionale”. Morti e suicidi - “I suicidi sono sensibilmente aumentati negli ultimi due anni e rischiano di tornare ai livelli del periodo che ha preceduto la Torreggiani. In questo 2018 è stato particolarmente doloroso constatare che fra i ‘ morti in carcerè si siano dovuti contare anche due bambini piccolissimi, Faith (sei mesi) e Divine (1 anno e mezzo), uccisi dalla madre appena carcerata a Rebibbia. Quest’anno, secondo Ristretti Orizzonti, ci sono stati 140 decessi, di cui 63 suicidi”. Nel 2016 furono 45, l’anno successivo 52. “Il sovraffollamento, è quasi superfluo dirlo, determina una sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone detenute, costrette a vivere in ambienti insalubri e fatiscenti, che non vedono riconosciuto il loro diritto alla salute, trascorrono nell’ozio la maggior parte del tempo, private financo degli affetti familiari non solo perché l’Italia è fra quei Paesi europei che non consentono ai coniugi (o ai conviventi) di avere incontri intimi, ma anche perché frequentemente i detenuti vengono ristretti in carceri a centinaia di chilometri di distanza dalla zona di residenza. Giova ricordare, a proposito, che ciascun detenuto in Italia, ha diritto a soli 10 minuti di telefonata a settimana, da consumare in una sola volta”, si ricorda tra le note conclusive del rapporto. Più affettività di Giulio Cavalli Left, 21 dicembre 2018 Fino a ieri siamo a 63 suicidi nelle carceri italiane. Per favore, niente gare con i suicidi degli altri, anche se vanno di moda, dai, n. 63 suicidi in carcere non si vedevano dal 2011: sono stati 53 nell’anno scorso, 45 nel 2016 e 43 nel 2015. Se è vero come scriveva Fëdor Dostoevskij che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” allora forse sarebbe il caso di aprire una riflessione sul fatto che in carcere si suicida una persona ogni 950 mentre tra le persone libere siamo a 6 ogni 100mila. Diciannove volte di più. “Più cresce il numero dei detenuti - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - più alto è il rischio che essi siano resi anonimi. L’alto numero delle persone recluse aumenta il rischio che nessuno si accorga della loro disperazione, visto che lo staff penitenziario non cresce di pari passo, anzi. I suicidi non si prevengono attraverso pratiche penitenziarie (celle disadorne o controlli estenuanti) che alimentano disperazione e conflitti. Né si prevengono prendendosela con il capro espiatorio di turno (di solito un poliziotto accusato di non sorvegliare il detenuto in modo asfissiante). Va prevenuta la voglia di suicidarsi più che il suicidio in senso materiale”. L’associazione Antigone da sempre si occupa degli ultimi, per di più colpevoli. Pensate come siano poco di moda gli ultimi e colpevoli di questi tempi. Quelli di Antigone però oltre a certificare i numeri si occupano da sempre anche di trovare soluzioni e tra le soluzioni alla disperazione hanno il coraggio di pronunciare una parola che in quest’epoca ha il profumo della rivoluzione: “affettività”. Sembra incredibile, vero, avere il coraggio di esprimere un concetto del genere? Per questo Antigone ha presentato ai componenti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica una proposta di legge che punta a rafforzare il sistema delle relazioni affettive, ad aumentate le telefonate, a porre dei limiti di tempo ai detenuti posti in isolamento. Ci vuole coraggio a spiegare che chi viene trattato da bestia inevitabilmente reagirà da bestia, soprattutto oggi in cui la vendetta è vista come migliore e più veloce soddisfazione. Eppure devo ammettere che mi ha acceso un sorriso sapere che, come l’associazione Antigone, ci sia ancora tanta gente che prova a invertire i fattori del pensiero comune. Perché poi, pensateci, la ricetta torna utile mica solo per i carcerati ma anche per i moltissimi liberi che sono schiavi delle proprie situazioni e delle proprie condizioni. È un manifesto sociale, questa proposta di legge. Casellati: “le carceri favoriscano riabilitazione e possano sempre più aprirsi all’esterno” agensir.it, 21 dicembre 2018 “Ho ritenuto importante, in occasione del Natale, venire a condividere un momento significativo con persone che vivono situazioni di difficoltà. Personalmente sono molto felice di incontrare e trascorrere un po’ di tempo con alcune detenute e i loro bambini”. Lo ha dichiarato il presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, nel corso della sua visita alla Casa Circondariale femminile di Rebibbia. Per la seconda carica dello Stato, che successivamente farà visita all’Ospedale Bambino Gesù, “le istituzioni devono dare risposte e supporto concreto a coloro che vivono situazioni di disagio e fragilità”. “Sono convinta - ha concluso il presidente del Senato - che il carcere debba favorire percorsi di riabilitazione e possa sempre più aprirsi all’esterno e garantire realmente le relazioni affettive che costruiscono la persona e aiutano anche la rieducazione”. Legittima difesa, la lezione di 90 anni fa di Domenico Siciliano* La Repubblica, 21 dicembre 2018 Ha fatto colpo alcuni giorni fa il Procuratore Capo della Repubblica di Torino Armando Spataro quando ha definito “aberrante” la modifica della legittima difesa che si profila all’orizzonte. Le dichiarazioni di Spataro probabilmente non sarebbero dispiaciute ai suoi predecessori, che novant’anni fa difesero il principio dello Stato di diritto contro le spinte autoritarie del Regime fascista. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul progetto di codice penale Rocco del 1927, ebbe l’ardire di resistere proprio sulla questione dell’ampliamento della legittima difesa alla tutela dei beni patrimoniali. In nome di quali principi? Ma di quelli della tradizione liberale che, a giudizio dei supremi giudici, non avevano perso attualità persino in un regime così incline all’idolatria dello Stato come quello fascista. In cosa consisteva la novità proposta dal Regime? Facciamo un passo indietro. L’art. 49 co. 1 n. 2 del Codice Zanardelli, ispirato dalla Scuola classica, di matrice liberale, affermava: “Non è punibile colui che ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta”. Tramite il requisito della violenza si considerava legittima solo la difesa dei beni personali e non invece della proprietà. Ma prima ancora dell’avvento del fascismo, la visione liberale era finita sotto attacco. A condurlo era stata la Scuola positiva, in nome di un paradigma nel quale la legittima difesa diviene un diritto a difendere tutti i diritti, proprietà inclusa, per “difendere la società” minacciata dalla delinquenza. Ecco allora che i frutti dell’assedio della Scuola Positiva ai bastioni della Scuola Classica vengono raccolti dal fascismo. Nel progetto di riforma del Codice penale del 1927 si impone una legittima difesa come salvaguardia di tutti i diritti, e quindi anche della proprietà. L’art. 54 del Progetto preliminare di un Nuovo Codice Penale dichiara: “Non è punibile colui che ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa grave e ingiusta”. Ed è qui che fa sentire la sua voce la Corte di Cassazione, che percepisce questa novità come un attacco al monopolio della violenza legittima da parte dello Stato, e avverte: se non si limita la legittima difesa alla stretta cerchia della difesa personale si scivola verso l’anarchia. Il ragionamento dei giudici non fa una piega: se lo Stato fascista è davvero così forte come sostiene di essere, per quale ragione vuole armare i cittadini per surrogarlo? L’intervento della Cassazione porterà alla modifica della disposizione originaria proposta tramite la previsione del requisito di proporzione tra offesa e difesa nel testo definitivo del codice penale del 1930. Ma si, proprio il test della proporzionalità oggi contestato! Tra le testimonianze a favore di una certa prudenza nell’affrontare la questione svetta quella di Niklas Luhmann, sociologo del diritto di primo piano della seconda metà del Novecento. Luhmann contrappone al modello disfunzionale di affermazione del diritto tipico delle società primitive, fondato sulla pratica del ricorso generalizzato all’impiego della violenza fisica, quello assai più funzionale delle società complesse, che per non indebolirsi sviluppano le tecniche giuridiche per far retrocedere l’uso della forza. In parole povere, una società complessa, articolata e differenziata funzionalmente, non può tollerare la violenza privata. Consentirla significa retrocedere nella scala dell’evoluzione sociale. *Dottore di ricerca in Scienze giuridiche all’Università di Francoforte sul Meno Giuseppe Cascini: “Nessuna bocciatura: il Csm non è un ramo del Parlamento” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 21 dicembre 2018 Parere sullo spazza-corrotti. “L’Organo di autogoverno della magistratura non è la terza Camera. Vorrei che fosse chiaro a tutti”, dichiara il togato di Area Giuseppe Cascini, presidente della Sesta Commissione del Csm, all’indomani dell’approvazione in Plenum del parere sul ddl “spazza corrotti”. Diverse le criticità evidenziate dal Csm. In particolare, con il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione che di condanna, si rischierebbe un “allungamento dei processi”, e questo, di conseguenza, “aggraverebbe il vulnus al principio di cui all’articolo 111 della Costituzione” e “darebbe luogo ad una potenziale lesione del diritto di difesa dell’imputato garantito dall’articolo 24 della Costituzione”. Presidente, il parere del Csm, come era facilmente immaginabile, sta facendo molto discutere. Molti commentatori sono conviti che avete voluto bocciare il Governo giallo-verde. Guardi, vorrei approfittare di questa occasione per ricostruire quanto accaduto. Prego. Il ministro della Giustizia ha trasmesso al Csm lo scorso ottobre il ddl anticorruzione per un parere. La Commissione che presiedo ha dato un semplice contributo tecnico per evitare eventuali criticità derivanti dall’applicazione delle nuove norme. Abbiamo analizzato le future ricadute sul sistema giudiziario. Nessun di noi ha intenzione di sostituirsi al legislatore. L’iniziativa legislativa spetta al Parlamento ed il Governo è autonomo nelle scelte di politica giudiziaria. Su questo parere, però, si è aperta una polemica. Alcuni consiglieri hanno criticato il fatto che fosse stato reso pubblico prima dell’approvazione in Plenum. I pareri, prima di arrivare in Plenum, deve essere votati in Commissione. Una volta che questo passaggio è stato effettuato, sono pubblicati sul sito del Csm e, quindi, accessibili a chiunque. È un fatto di trasparenza. Chi ha paura delle idee altrui, forse, non si sente sicuro delle proprie. Ma è una bocciatura o no la vostra? Le ricostruzioni giornalistiche puntano a semplificare analisi complesse. Come in questo caso. Io credo che sia un parere molto equilibrato in cui ci si è limitati ad effettuare delle osservazioni di buon senso. I tempi dei processi sono già lunghi. Sarebbero diventati ancora più lunghi, con forti criticità nella fase d’appello. Dunque nessun stop al Governo? Il Csm non è a favore o contro il Governo del momento. La prescrizione è un problema serio? È il fallimento dello Stato che non è riuscito a garantire la celebrazione di un processo. Non credo si possa essere contenti di questa incapacità. I tempi del processo penale sono intollerabilmente lunghi. Bisogna accorciali, non fare il contrario. Le è stato procuratore aggiunto a Roma. Dal suo osservatorio cosa si sentirebbe di dire al riguardo? Il processo penale ha ormai trent’anni. Ed è chiaro che non funziona. I motivi sono diversi e sono stati abbondantemente sottolineati. Penso, ad esempio, al fallimento dei riti alternativi. Il dibattimento ordinario doveva essere l’eccezione ed invece è accaduto l’esatto contrario. Urge una riforma. Però in maniera organica. Ed e così difficile? Noi veniamo del periodo delle leggi “ad personam”, il cui unico scopo era quello di creare ostacoli al processo Di contro ci sono state anche iniziative legislative che hanno limitato i diritti e le garanzie dell’imputato…. E anche questo non va bene. Il togato di Magistratura indipendente, Corrado Cartoni, ha dichiarato che il Parlamento, per correttezza istituzionale, doveva attendere il parere del Csm prima della votazione definitiva. Io non credo si possa arrivare a tanto. Penso che per il futuro, però, si potrebbe agire in maniera. Ad esempio? Il ministro della Giustizia, conoscendo le tempistiche dei lavori dell’aula, può indicare una data entro la quale il Csm deve esprimere il parere. Ritengo sia fattibile in un contesto di leale collaborazione. Oltre centro professori di diritto hanno scritto un appello al presidente della Repubblica affinché non firmi il ddl “spazza corrotti”. Cosa pensa? Il mio ruolo istituzionale non consente sul punto di esprimere giudizi. L’odissea del giovane eritreo scambiato per trafficante di schiavi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 dicembre 2018 Parla il super teste: “Quell’uomo non è mio fratello”. “Non è mio fratello!”, ha testimoniato Merhawi Yehdego Mered durante l’ultima udienza al tribunale di Palermo tramite video-collegamento dall’Olanda. A parlare è il fratello di Medhanie Yehdego Mered, uno dei più grandi trafficanti di esseri umani sulla cosiddetta “rotta libico- subsahariana”. Per Merhawi non ci sono dubbi, quando ha visto in telecamera l’imputato, un giovane eritreo in prigione da oltre due anni e mezzo e accusato di essere il trafficante, ha suggerito che è vittima di uno scambio di identità. Diverse sono le prove che dimostrano un clamoroso scambio di persona. Ma nonostante ciò, quattro giorni fa, la corte d’assise di Palermo presieduta dal giudice Alfredo Montalto - lo stesso che ha condannato al processo di primo grado gli ex vertici dei Ros e l’ex senatore Marcello Dell’Utri per la presunta trattativa Stato mafia - ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dal suo legale, l’avvocato Michele Calantropo, sostenendo che al momento non ci sono stati mutamenti né sotto il profilo degli indizi di colpevolezza né sotto quello delle esigenze cautelari. Diverse testate si sono occupate della vicenda per dimostrare la sua innocenza. Tre giornalisti americani del Wall Street Journal erano riusciti a contattare il vero boss delle tratte che vive in libertà in Uganda. Il Wall Street non indica la data del contatto ma scrive che “ha contattato l’uomo tramite messaggi in chat facendo riferimento ai documenti che attestano per il tribunale quella che sarebbe la reale pagina di Facebook di Mered Medhanie Yedhego”. Lui ai giornalisti americani sostiene: “Ero convinto che l’avrebbero rilasciato in poco tempo. Loro sanno che non si tratta del vero Medhanie”. I giornalisti del Wall Street Journal scrivono che ci sono dozzine di testimoni che sostengono che “l’uomo dalla faccia di bambino non è il contrabbandiere”. Mered contattato spiega: “Ero negli affari tra il 2013 e il 2015”. E continua: “Non ho una residenza fissa, mi muovo da un Paese all’altro”. Secondo Facebook si troverebbe adesso in Uganda. Insomma, grazie anche a questa inchiesta, i dubbi sull’operazione coordinata dalla Procura di Palermo con il supporto della National Crime Agency inglese che portò all’arresto dell’eritreo, si addensano sempre di più e si rafforza sempre di più l’idea che potrebbe esserci stato effettivamente uno scambio di persona. Qualche mese fa anche i giornalisti del quotidiano inglese The Guardian hanno messo in luce l’altra verità che i magistrati inquirenti non vorrebbero vedere: hanno pubblicato un estratto da una chat del profilo Facebook di Mered in cui il trafficante stesso afferma che gli investigatori “hanno fatto un errore con il suo nome. Tutti sanno che non è un trafficante e spero che venga rilasciato”. Sempre The Guardian ha contattato e intervistato Li-Tesfu, indicata dalle carte della procura come la moglie del “Generale”, che senza esitazioni ha affermato che l’uomo sotto processo a Palermo non è suo marito. Anche dalle udienze in tribunale erano emersi altri elementi a favore dell’imputato. Come la sua carta di identità validata dalle autorità eritree, la ricostruzione dei suoi movimenti tra Eritrea e Sudan grazie ai collegamenti al suo profilo Facebook. E soprattutto la testimonianza di Seifu Haile, un eritreo detenuto a Roma e condannato per traffico di esseri umani: per mesi Haile ha lavorato in Libia a fianco del vero Mered e nemmeno lui ha riconosciuto il giovane detenuto a Palermo. Ma niente da fare. L’eritreo continua a rimanere nel carcere siciliano del Pagliarelli. A maggio scorso è andato a fargli visita la delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini. L’eritreo si lamentava del fatto che in tutto quel tempo di detenzione, non ha potuto ancora parlare al telefono con la madre. Reati edilizi, sospensione pena non legata alla demolizione del manufatto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza n. 57593/2018. La Cassazione, decidendo su di un caso di “applicazione della pena su richiesta delle parti” in materia di reati urbanistico-edilizi, ha chiarito che il giudice non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive non prevista dalle parti in sede di accordo. La Terza Sezione penale, sentenza n. 57593/2018, ha così accolto il ricorso di una donna che era stata condannata (con sentenza ex articolo 444 c.p.p.) dal tribunale di Caltagirone alla pena concordata di un anno e sei mesi di reclusione e 1.100 euro di multa per violazione dei sigilli e per alcune altre contravvenzioni sempre in materia edilizia. Nel ricorso, l’imputata ha sostenuto il “difetto di correlazione” tra la richiesta concordata di pena e la sentenza, “per aver il giudice subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena (oggetto della richiesta) alla demolizione delle opere abusive, contestualmente disposta e tuttavia non oggetto dell’accordo”. La Suprema corte, riconoscendo le ragioni della ricorrente, ha affermato che “nel subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla sanzione amministrativa accessoria della demolizione delle opere abusive - sanzione di per sé correttamente applicata, trattandosi di statuizione doverosa in sede di patteggiamento, indipendentemente dall’accordo delle parti - il giudice ha illegittimamente ecceduto dai limiti della richiesta concordata”. Infatti, prosegue la decisione, “nel procedimento speciale di applicazione della pena su richiesta il giudice non può, alterando i dati della concorde richiesta, subordinare il beneficio della sospensione condizionale dell’esecuzione della pena all’adempimento di un obbligo, alla cui imposizione la legge lo faculti”. Ne discende, prosegue la Suprema Corte, che “l’operatività del beneficio sospensivo non può essere subordinata alla demolizione del manufatto abusivamente realizzato, fermo l’obbligo del giudice di ordinarla”. In definitiva, conclude la sentenza, al giudice “non è consentito di modificare unilateralmente i termini dell’accordo intervenuto tra le parti, apponendo ad esso una condizione non prevista dalle stesse”. Le dichiarazioni del contribuente sospettato di reato sono inutilizzabili Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2018 Accertamento - Verifica fiscale - Contribuente sospettato di reato - Dichiarazioni inutilizzabili. Sono inutilizzabili le dichiarazioni rese nel corso dell’attività ispettiva dall’imputato o dall’indagato nei cui confronti siano emersi anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni siano state assunte in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa. L’espressione “quando...emergano indizi di reato” contenuta nell’articolo 220 disp. att. cod. proc. pen. fissa il momento a partire dal quale, in caso di ispezioni o di attività di vigilanza, sorge l’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale e raccogliere tutto ciò che serve per l’applicazione della legge penale. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 6 dicembre 2018 n. 54590. Imputato - Divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato - Ambito di applicazione - Dichiarazioni rese nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza. (cpp, articolo 62; disposizioni di attuazione del cpp, articolo 220). Le dichiarazioni rese dalla persona poi sottoposta alle indagini nel corso di un’attività ispettiva o di vigilanza, nel corso della quale emergano gli estremi di un fatto costituente reato, non possono essere oggetto di testimonianza, in applicazione del divieto previsto dall’articolo 62 del Cpp, perché tali dichiarazioni devono intendersi rese nel corso del procedimento in virtù del rinvio alle norme del codice di rito contenuto nell’articolo 220 delle disposizioni di attuazione del Cpp. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 29 agosto 2001 n. 32464. Imputato - Dichiarazioni - Divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’indagato - Ambito di applicazione. Il divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato o dell’indagato (articolo 62 c.p.p.) riguarda anche le dichiarazioni rese, dalla persona poi sottoposta alle indagini, nel corso di un’attività amministrativa (ispettiva o di vigilanza), atteso che l’articolo 220 att. c.p.p. ne estende la portata anche in presenza di semplici indizi di reato, non richiedendosi l’esistenza di veri e propri indizi di colpevolezza. (In applicazione di tale principio la Corte ha annullato la sentenza dei giudici di merito, fondata sulla deposizione testimoniale resa da un vigile urbano, il quale riferiva di fatti appresi - con ogni probabilità - dallo stesso imputato, nel corso di un’indagine ispettiva). • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 29 agosto 2001 n. 32464. Prova documentale - Reati fiscali - Processo verbale della finanza - In materia di accertamento di reati tributari, il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza o dai funzionari degli uffici finanziari è un atto amministrativo extraprocessuale come tale acquisibile ed utilizzabile ex articolo 234 cod. proc. pen. nel suo vario contenuto, senza necessità di dover richiamare normative affini o analoghe del codice di rito stabilite per specifici mezzi di prova. Tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità prescritte dall’articolo 220 disp. Att. cod. proc. pen., giacché, altrimenti, la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 28 febbraio 1997 n. 1969. Fatturazione di operazioni inesistenti - Sovra-fatturazione quantitativa e qualitativa - Il reato di cui all’articolo 4 n. 5 lett. d) legge n. 516 del 1982 rendendo esplicito ciò che risultava dalla precedente fattispecie di cui all’articolo 50 d.P.R n. 633 del 1972, ha inteso colpire ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa e non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione fatturata, secondo quanto risulta dall’inciso “in tutto o in parte inesistenti”. La sovrafatturazione quantitativa cioè è punita non solo nel caso in cui la divergenza tra il reale e la rappresentazione è totale, ma anche quando sia parziale, perché un’operazione economica si è effettivamente verificata fra i soggetti indicati in fattura, anche se in termini quantitativi minori rispetto al dichiarato. Inoltre il precetto contempla, pure, la sovrafatturazione qualitativa, attestante la cessione di beni o la prestazione di servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, e l’indicazione di nomi diversi da quelli veri in modo che ne risulti impedita l’identificazione del soggetto, sicché mira a colpire ogni divergenza tra espressione contabile e realtà commerciale. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 28 febbraio 1997 n. 1969. Milano: in aula fa troppo freddo, processo sospeso per colpa del gelo di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 dicembre 2018 Riscaldamento rotto nell’aula bunker di San Vittore, avvocati e giudici stretti nei cappotti e con i guanti. Sospesa udienza Mps, “considerate le condizioni climatiche dell’aula incompatibili con la prosecuzione dell’udienza”. È come quando l’arbitro, dopo aver sconsolatamente cercato invano di far rimbalzare il pallone sull’erba innevata, decreta il rinvio della partita per impraticabilità del campo di gioco e fischia il “tutti a casa” negli spogliatoi. Solo che giovedì non si era allo stadio ma in una sede distaccata del Tribunale come l’aula-bunker davanti al carcere di San Vittore; e non si tentava di giocare una partita di pallone, ma di celebrare una udienza del processo sui “derivati” agli ex vertici del Monte dei Paschi di Siena; e a mandare tutti a casa, a causa del non funzionamento del riscaldamento e dopo aver ugualmente provato per un’ora a interrogare il consulente dell’imputato Gianluca Baldassarri, tra avvocati e giudici che per il gelo si stringevano nei cappotti e scrivevano con i guanti, è stata la presidente del collegio giudicante, Lorella Trovato. Che infine si è vista costretta a dettare a verbale la situazione incresciosa, e, “considerate le condizioni climatiche dell’aula incompatibili con la prosecuzione dell’udienza, per la bassa temperatura”, l’ha sospesa e rinviata al 10 gennaio. Sperando che per allora aggiustino il riscaldamento dell’aula bunker, teatro negli anni 90 di grandi dibattimenti come quello per il crac del Banco Ambrosiano e poi di solito utilizzata per i maxiprocessi di criminalità organizzata come pochi anni fa il processo “Infinito” ai clan di ‘ndrangheta. Milano: la svolta di Sala per il 2019 “più attenzione ai poveri” di paolo colonnello La Stampa, 21 dicembre 2018 “Il lavoro che abbiamo fatto può essere consolidato dagli uffici. Io intendo occuparmi dei più deboli e dei quartieri più lontani”. L’idea un “sinodo laico” insieme al Vescovo Delpini. Le classifiche sono una cosa, “e sappiamo tutti che possono essere relative”. Ma i progetti, i lavori in corso e l’indiscusso stato di grazia di una città che sembra destinata a conquistare tutti i primati d’Italia, sono fatti. Eppure per il sindaco dei milanesi - imbruttiti e non - è arrivato il momento della svolta. “Sono fiero di vedere le classifiche su Milano” prima città per qualità della vita, “però la mia speranza per il 2019 è quella di occuparmi ancora di più degli ultimi e dei quartieri della città”. E non è solo un programma politico. “Lo sento nel cuore”, aggiunge inaspettatamente Beppe Sala, con quel tono di sincerità che ha fatto e sta facendo di lui uno dei sindaci più amati di Milano dal dopoguerra ad oggi. Talmente sicuro del consenso che ancora lo circonda, da potersi permettere d’intervenire l’altro ieri in un video dedicato al Natale del Milanese Imbruttito in una parodia di se stesso. È come se questo manager prestato alla politica avesse trovato il modo d’incarnare e riscoprire quel riformismo socialista, che pur diventato concetto desueto nel moderno linguaggio di quest’era post ideologica, è sempre stato in realtà il filo rosso che ha percorso negli anni l’anima più profonda della città, unendo sindaci come Aniasi o Tognoli o ancora, sebbene espressione di una destra liberale, Gabriele Albertini, non a caso un altro primo cittadino molto amato e durante il cui mandato la città seppe rifiorire dalle macerie di Mani Pulite. “Farò il mio dovere di milanese”, dice Sala alzando il calice per un brindisi coi giornalisti e, di nuovo, sorprende la platea annunciando che vorrebbe perfino una sorta di “sinodo aperto e laico” come proposto dal cardinale Mario Delpini, un vescovo illuminato, un “martiniano” con cui il sindaco ha scoperto di avere grande sintonia. “Mi sta molto a cuore il lavoro con la Curia. Il Vescovo per me rappresenta un alleato importante, saremo insieme alla messa di Natale nel carcere di Bollate, è il partner con cui inizierò il 2019”. Su temi come quello delle infrastrutture, il turismo, la reputazione e l’internazionalizzazione di Milano il primo cittadino spiega: “Abbiamo lavorato bene e adesso il lavoro passa agli uffici per consolidare. Ma io intendo occuparmi di più, come tempo, vicinanza e ascolto a quella parte di Milano che fa più fatica, lo sento nel cuore. Anche perché fare il sindaco di Milano è la cosa che mi piace più di ogni altra”. Il prossimo anno sarà anche quello del Piano quartieri: “sono convinto che possiamo portare a casa tanto. Anche sul recupero degli appartamenti sfitti siamo a quota 601-602 su un obiettivo di 3 mila”. Sui Navigli invece, Sala conferma il suo progetto di parziale riapertura ma, avverte, siamo ancora all’ascolto della città e “delle mille proposte che ci sono arrivate”. Infine sull’inquinamento fa capire che la strada è ormai tracciata: “Non possiamo rispondere con le domeniche a piedi. Sono simpatiche iniziative ma non servono a nulla”. Se vogliamo allinearci alle città del mondo, spiega, dobbiamo rapportarci ai temi ambientali in un modo più globale. Vale a dire che prima o poi, anche a Milano si arriverà ad usare pochissimo l’auto. Infine un richiamo al pragmatismo istituzionale per chi iniziava ad avere strane fantasie su Milano che, spiega Sala. “non ha istinti autonomisti e non si vede come una città-stato”. “Vogliamo essere parte del Paese e collaborare con tutti, con il governo, con la Regione Lombardia, ma su cose concrete e non a parole - ha concluso -. Penso di avere dimostrato che quando si tratta di collaborare lo faccio e non mi fermo davanti a barriere politiche se c’è di mezzo il bene dei cittadini”. Bollate (Mi): la scuderia in carcere cura i cavalli sequestrati di Massimo De Angelis Libero, 21 dicembre 2018 Nel maneggio 32 animali: coinvolti nella struttura anche 200 detenuti. Una generosa iniziativa per salvare i cavalli maltrattati. L’associazione “Salto oltre il muro Onlus” ha infatti presentato il progetto di raccolta fondi finalizzata alla cura degli animali che si trovano nella scuderia del carcere milanese di Bollate, unico spazio del genere all’interno di una struttura detentiva in tutto il continente europeo. Scarseggiano però i finanziamenti e così si è dovuto ricorrere a un’operazione di “crowdfunfing”, ovvero di raccolta fondi. I denari ricevuti verranno totalmente utilizzati per il buon mantenimento dei cavalli sequestrati dai tribunali e affidati alla Onlus e di quelli già presenti dentro la struttura (attualmente trentadue). In particolare i soldi saranno usati per pagare il fieno (il cui prezzo è cresciuto fino a 22 euro al quintale), provvedere a mangimi specifici, spese veterinarie e farmaci, nonché occuparsi delle utili visite di maniscalchi. Il tutto con l’obiettivo di creare un habitat gradevole per gli animali, garantendo loro ogni cura necessarie durante la rigida stagione invernale. La realtà no profit dal 2007 si occupa di dare nuova vita ai quadrupedi maltrattati dall’uomo ed è riconosciuta dal ministero della Salute come associazione affidataria di cavalli sequestrati o confiscati. Considerando le difficoltà economiche in cui gli operatori versano, si è pensato alla realizzazione dell’iniziativa “Cavalli in carcere”, selezionata per la raccolta di fondi sulla piattaforma “Eppela” e presente nell’apposita area “Pet Friends”. Tra l’altro il carcere di Bollate appare all’avanguardia circa il reinserimento sociale e lavorativo, tanto che negli ultimi dieci anni sono stati oltre 200 i detenuti pronti a seguire i corsi di formazione della durata di circa 3 mesi, insieme a docenti esperti in materia, imparando la professione di maniscalco o artiere. Vengono impegnati 5 - 6 ore alla settimana per 6 ore al giorno, essendo un impiego a tempo pieno durante il quale si occupano dei bisogni dei quadrupedi a 360 gradi. Mandare avanti la struttura ha dei costi importanti, sostenuti da donazioni private, mentre stalle, scuderie e maneggio risultano costruiti con materiale di recupero preso dai cantieri confinanti con l’istituto detentivo. Interessanti appaiono le parole di chi è al timone di tale iniziativa. Secondo gli organizzatori infatti, “i cavalli si trovano a loro agio perché sono animali estremamente sensibili, empatici e capaci di instaurare un profondo legame con le persone che si prendono cura di loro. I detenuti, dall’altra parte, appaiono persone con difficoltà psicologiche, private delle loro libertà, ma pure dei propri affetti. Stare a contatto con un animale che non ti giudica e con il quale costruire nel tempo una relazione basata sulla fiducia reciproca, rappresenta un percorso fondamentale di recupero”. Il progetto “Cavalli in carcere” è nato grazie alla sensibilità di Lucia Castellano, ex direttrice del carcere. Venezia: “Salvati” dalla bellezza, ex detenuti nelle chiese come custodi e guide di Andrea Rossi Tonon Corriere Veneto, 21 dicembre 2018 Il reintegro in società dei detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore potrebbe avvenire grazie alla cultura. A margine della tradizionale messa di Natale celebrata nella casa di detenzione lagunare, il patriarca di Venezia Francesco Moraglia ha annunciato “l’intenzione di coinvolgere più soggetti in un progetto che vedrà come capofila il patriarcato per aiutare le persone detenute a pensare al momento della pena accompagnandole e seguendole in termini culturalmente responsabili”. L’iniziativa, che interesserebbe anche il Comune di Venezia, alla cui amministrazione Moraglia ha rivolto un appello durante la cerimonia, prevedrebbe il coinvolgimento di alcuni detenuti in un percorso di formazione culturale e artistica che li aiuti a trovare un impiego una volta scontata la pena. “Magari qualcuno potrebbe fare il custode in una delle cinque chiese presenti a Rialto, e illustrare le opere ai turisti” ha accennato don Antonio Biancotto, cappellano del carcere, ricordando che l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) è già in contatto con la Curia e facendo seguito all’intervento di Matteo, giovane detenuto di Santa Maria Maggiore, che ieri ha raccontato nei dettagli l’Adorazione dei Magi di Domenico Tintoretto, opera datata 1587 ed esposta nella chiesa di San Trovaso, una cui riproduzione si trova nella cappella della casa circondariale. Il recupero dei detenuti - Il concetto del recupero dei detenuti è stato del resto centrale nelle parole pronunciate da Moraglia. “Una società cerca una forma di giustizia che intercetta le storie faticose di chi alcuni che hanno avuto un cedimento in un particolare momento - sottolinea il patriarca -. Lo fa attraverso una giustizia possibilmente celere, volta al recupero delle persone e alla loro responsabilizzazione”. Ai circa 70 detenuti che hanno partecipato alla celebrazione Moraglia ha parlato di coscienza, “il luogo più intimo di noi stessi, dove siamo soli con Dio e dove decidiamo chi siamo”. “La coscienza è la risorsa più grande che avete, dovete credere in voi stessi e dare valore alle piccole cose - continua il vescovo - Stare qui dentro è difficile, gli spazi sono chiusi e le persone sono sempre le stesse: per questo dovete valorizzare anche un piccolo sorriso e virtù come la pazienza, perché quella sarà una vostra vittoria, sarà il segnale che qualcosa sta cambiando”. Gli errori del passato - Una voglia di ricominciare e lasciarsi alle spalle gli errori del passato è emersa, forte, dalle testimonianze dei detenuti. Mauro, veneziano di 55 anni, ha curato il presepe della cappella: “Per una settimana mi ha aiutato a dimenticare dove sono - dice - Fuori realizzo maschere e spero di riuscire ad attivare un corso per insegnare questo mestiere all’interno del carcere con la speranza che per qualcuno si concretizzi in un lavoro una volta fuori, in modo da non stare sul groppone delle proprie famiglie”. “Io sono nauseato dalla vita del detenuto, voglio uscire e dedicarmi alle mie figlie e al lavoro, è un tarlo costante - racconta Andrea, 50 anni, originario della Riviera del Brenta - È per questo che oggi ho voluto metterci la faccia e compromettermi davanti a tutti: adesso che ho deciso di fare una vita normale non posso più tornare qui dentro”. Moraglia ha portato un messaggio anche ai lavoratori del petrolchimico di Marghera nella messa prenatalizia. “Dobbiamo avere fiducia e speranza, non dimenticando il valore del lavoro e, quindi, dell’opera che ognuno compie con onestà e professionalità” ha detto il patriarca, che ha quindi ricordato il triste primato del Veneto nell’incremento delle morti sul lavoro. Ferrara: Via Arenula chiarisce “nessuna rivolta dei reclusi” Il Dubbio, 21 dicembre 2018 Il Ministero sui fatti di domenica: “coinvolti solo in due”. “Con riferimento a diverse inesattezze riportate da alcune testate giornalistiche a proposito dei fatti avvenuti il 16 dicembre scorso alla Casa circondariale di Ferrara, è opportuno fare chiarezza su quanto effettivamente accaduto”. Inizia così la nota diffusa ieri dal ministero della Giustizia, secondo cui “non c’è stata alcuna rivolta. Sulla base delle relazioni e delle testimonianze riportate dal comandante e dal personale di Polizia penitenziaria immediatamente intervenuto”, via Arenula dà un’altra ricostruzione dei fatti. “I detenuti che hanno dato vita alla protesta sono stati soltanto 2 dei 44 presenti nella sezione Reclusione. Al momento dell’ingresso in sezione del comandante Annalisa Gadaleta accompagnata da diverse unità di personale, i due ristretti in questione, posizionati all’estremità di uno dei due lati del corridoio, hanno dato fuoco a due bombolette di gas in rapida successione. A quel punto, tutti gli altri detenuti sono stati fatti immediatamente defluire verso i passeggi e lì sono rimasti per il tempo necessario a spegnere le fiamme, disperdere i fumi, ripristinare l’ordine e la sicurezza e ripulire il corridoio della sezione: ovvero circa un’ora. Trascorsa la quale, tutti i ristretti sono rientrati nelle proprie camere di pernottamento ad eccezione dei due in protesta che, a seguito di certificazione sanitaria, sono stati sistemati in isolamento in una camera priva di elementi atti ad offendere”. I 42 detenuti della sezione Reclusione”, si legge ancora nel comunicato, “sono a tutt’oggi nelle proprie camere e non sono stati mai stati distribuiti in altre sezioni: per spegnere le fiamme sono stati usati due estintori e l’idrante in dotazione, tutti perfettamente funzionanti. Tanto che i vigili del fuoco, sopraggiunti ad incendio già domato e criticità già risolta, hanno soltanto controllato il corridoio della sezione”. Secondo il ministero “non è stata avviata alcuna inchiesta né all’interno dell’istituto né da parte del Dipartimento. Anzi, il direttore e il comandante hanno ringraziato tutti coloro che prontamente sono intervenuti per ripristinare l’agibilità della sezione, nonché l’intero reparto di Polizia penitenziaria in servizio per la dedizione e l’impegno svolto quotidianamente. Il Garante nazionale ed il suo team”, conclude la nota, “hanno fatto visita al carcere il giorno successivo, come già concordato in precedenza e non in conseguenza a questo episodio. Di quanto avvenuto, infine, è stata fatta prontamente relazione ai competenti uffici dipartimentali e informato il P della Procura della Repubblica di Ferrara già dalla sera stessa dei fatti. Venezia: “Complessità del sistema penitenziario, disagio psichico nelle criticità del sistema” venetonews.it, 21 dicembre 2018 Questo il tema del convegno promosso dal Garante regionale dei diritti della persona con l’Azienda Ulss 3 Serenissima. Si è svolto mercoledì mattina, presso l’Auditorium del padiglione Giovanni Rama dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, il convegno dedicato al tema “La complessità del sistema penitenziario: disagio psichico nelle criticità del sistema” organizzato nell’ambito dell’accordo di cooperazione tra il Garante regionale dei diritti alla persona, ovvero Mirella Gallinaro, confermata nel ruolo dall’Assemblea legislativa il 12 giugno scorso e promotrice dell’evento, e l’Azienda Ulss n. 3 Serenissima, rivolto agli operatori penitenziari, alla polizia penitenziaria e agli psicologi, agli infermieri professionali, agli educatori, agli assistenti sociali, agli avvocati, ai medici, alle associazioni di volontariato, con il coinvolgimento dei diversi garanti territoriali dei detenuti. Oggetto principale del Convegno, il sovraffollamento carcerario e il disagio psichico manifestato dalla popolazione detenuta e dagli attori che operano nell’ambito del sistema. Ha portato i saluti istituzionali il Presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti: “Il tema in discussione è strategico e si sofferma su un punto delicatissimo del nostro sistema penitenziario: il disagio psichico che, nelle varie accezioni, è tra le patologie più diffuse nelle carceri italiane, sebbene il numero medio di ore di presenza di psichiatri ogni 100 detenuti sia estremamente contenuto rispetto a quello di altri specialisti. Oggi si tocca dunque un tasto dolente di una struttura, quella detentiva, che, per molti motivi, avrebbe bisogno di una profonda riflessione e revisione in senso generale. Se da un lato la cittadinanza chiede, e non senza ragione, l’applicazione di giuste pene fatte scontare fino in fondo, dall’altro la carenza di strutture e di personale trasforma il carcere in una sfida quotidiana. In questa sfida, le tematiche psichiatriche hanno un ruolo centrale e io devo ringraziare i relatori odierni e la Garante che ha voluto questa iniziativa che idealmente collego a due anniversari importanti: l’adozione della legge 180 del 1978, la cosiddetta Legge Basaglia, poi riassunta nella legge 833 del 23 dicembre 1978, che sancì la nascita del Sistema sanitario nazionale chiamato a garantire a tutti i livelli assistenziali sanitari. Si tratta di due leggi fondamentali nella storia della Repubblica: molta strada è stata fatta da allora, molta ne rimane da fare. Nell’augurare un proficuo lavoro, colgo l’occasione per salutare la Garante, donna insostituibile e di rara sensibilità”. In rappresentanza dell’Azienda Ulss 3 Serenissima è intervenuto il Direttore dei Servizi socio-sanitari Gianfranco Pozzobon che ha sottolineato “La singolarità del Convegno che mette a confronto e accomuna in una riflessione unica tutte le criticità dei diversi attori del settore penitenziario, criticità che spesso vengono analizzate separatamente. Il carcere infatti non è un luogo, ma un sistema e richiede un approccio che sia in grado di analizzare le complessità di tutti gli elementi che lo compongono”. Ha aperto i lavori e introdotto il tema del Convegno, la Garante regionale Mirella Gallinaro; la sua analisi parte dai numeri, ovvero dagli oltre 2400 detenuti nel Veneto, a fronte di una capienza regolare attestata poco oltre la soglia di 1900, a fronte del dato complessivo, posizionato sulla soglia dei 60000 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 50000, e dallo stato di generale obsolescenza delle strutture carcerarie venete. “Si tratta di numeri e di condizioni preoccupanti: strutture non adeguate, alle volte vecchie per non dire fatiscenti, in condizioni spesso difficili da immaginare e da tollerare, provocano oggettivamente situazioni di disagio, un disagio che, unito al sovraffollamento, diventa inutilmente afflittivo. Nel Veneto, peraltro, vi sono anche situazioni di eccellenza: sul tema del lavoro, ad esempio, vantiamo buone percentuali; il polo universitario a Padova conta 45 iscritti, non sono pochi, si tratta di numeri importanti, e testimoniano la presenza di elementi di fiducia sui quali aggregare e intervenire. Le soluzioni: in parte sono inevitabilmente in mano alla politica, ma è decisivo avere un progetto carcerario, un progetto sul carcere che non può non tenere conto della nostra legislazione, laddove si riconoscono i diritti inviolabili e la dignità dei soggetti, e anche nel carcere non può mai venir meno il riconoscimento dei diritti inviolabili e della dignità di questi soggetti. E quindi bisogna operare per fare in modo che le pene siano il più possibile orientate al reinserimento sociale e alla rieducazione, tenendo presente che il territorio è molto importante nel creare le occasioni di reinserimento. Altro aspetto riguarda come operare dal punto di vista della quotidianità, e sotto questo punto di vista è necessario operare in sinergia con tutti gli operatori che devono convergere non già sul progetto esclusivamente securitario, ma che devono creare le condizioni per il reinserimento e l’educazione sociale del detenuto. Infine, esprimo la mia soddisfazione per la riuscita di questo primo convegno perché è stato realizzato dalla rete e contiamo di proseguire lungo questo percorso, con l’unico fine di recuperare le persone, senza perderle e abbandonarle”. Tagli al sociale. Manovra, a pagare è il non profit. Russo (Cei): penalizzati i deboli di Massimo Calvi Avvenire, 21 dicembre 2018 Sotto l’albero di Natale il non profit italiano trova la cancellazione dello sconto del 50% sull’Ires, l’imposta sulle società. Le parole del segretario della Cei. Sotto l’albero di Natale il non profit italiano - il mondo del sociale e della beneficenza in particolare - trova un “regalo” poco gradito: la cancellazione dello sconto del 50% sull’Ires, l’imposta sui redditi delle società. La cancellazione della mini-Ires “agli enti non commerciali” rientra tra i molti tagli introdotti per recuperare risorse a favore del Reddito di cittadinanza e Quota 100 alle pensioni senza incorrere nella Procedura europea. La misura secondo le previsioni del governo dovrebbe fruttare 118 milioni. L’Ires raddoppierà dal 12 al 24% per moltissime realtà considerate meritevoli da quasi mezzo secolo. Ad essere colpiti, come si era intuito ed è stato confermato dall’emendamento presentato dal governo, sono gli enti indicati nell’articolo 6 del Dpr 601 del 29 settembre 1973 (Disciplina delle agevolazioni tributarie), dunque, tra gli altri: gli istituti di assistenza sociale, le società di mutuo soccorso, gli enti ospedalieri, di assistenza e beneficenza, gli istituti di istruzione e di studio, i corpi scientifici, le accademie, le fondazioni e associazioni storiche, letterarie, scientifiche, gli enti ecclesiastici, gli Istituti autonomi per le case popolari. Non appena si è diffusa la notizia, qualche organo di stampa ha subito parlato di taglio delle agevolazioni alla Chiesa, in realtà i soggetti penalizzati tra chi interviene a favore dei poveri e dei più deboli o chi opera nella cultura e nell’assistenza sono moltissimi, alcuni legati al mondo cattolico, tanti altri invece laici. Russo (Cei): verrebbe penalizzato il volontariato - Il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Stiamo seguendo - come tutti - i contenuti della Legge di Bilancio, rispetto ai quali non mancano elementi di preoccupazione, che ci auguriamo di poter veder superati. Siamo consapevoli delle difficoltà in cui versa il Paese, come pure delle richieste puntuali della Commissione Europea. Nel contempo, vogliamo sperare che la volontà di realizzare alcuni obiettivi del programma di Governo non venga attuata con conseguenze che vanno a colpire fasce deboli della popolazione e settori strategici a cui è legata la stessa crescita economica, culturale e scientifica del Paese. In particolare, se davvero il Parlamento procedesse con la cancellazione delle agevolazioni fiscali agli enti non commerciali (con la soppressione dell’aliquota ridotta Ires), verrebbero penalizzate fortemente tutte le attività di volontariato, di assistenza sociale, di presenza nell’ambito della ricerca, dell’istruzione e anche del mondo socio-sanitario. Si tratta di realtà che spesso fanno fronte a carenze dello Stato, assicurando servizi e prossimità alla popolazione”. Il Forum del Terzo Settore: una misura assurda - Dura anche la reazione del mondo del sociale e del volontariato: “È assurdo che debba essere proprio il Terzo settore a pagare l’accordo con l’Europa. Un prezzo alto: da una prima stima, solo per il primo anno, il volontariato italiano andrà a versare 118 milioni di euro” ha affermato la Portavoce del Forum nazionale del Terzo Settore, Claudia Fiaschi. “Un provvedimento - continua Fiaschi - che ci sembra particolarmente penalizzante, soprattutto in relazione al periodo transitorio in cui si attende la piena entrata in vigore della Riforma del Terzo Settore”. Il Forum ha criticato anche gli “effetti paradossali” e penalizzanti del cambio delle norme sulla fatturazione elettronica per gli enti che hanno optato per il regime forfettario. Informazione. La propaganda dei due vicepremier e il taglio ai giornali di Matteo Bartocci Il Manifesto, 21 dicembre 2018 Edittoria (non è un refuso). La ghigliottina contro Radio radicale e 17 testate in cooperativa e non profit non fa risparmiare, fa capire il futuro che ci aspetta. È uno squarcio di futuro vedere il senato discutere a vuoto di una manovra top secret e i due vicepremier arringare i fan sui social network in un soliloquio h24 senza contraddittorio né mediazioni. Un parlamento umiliato e il selfie di un politico con la faccia sorridente che racconta la bellezza dei suoi provvedimenti, sconosciuti e che nessuno può controllare. Per i più duri di comprendonio, il succo del taglio ai fondi editoria è questo: persone potenti che parlano, parlano, mentre dietro le quinte fanno come gli pare. Invece che moltiplicare i punti di vista, la Rete li strappa verso l’alto, lasciando fuori campo il racconto contraddittorio, la verità dei fatti, il conflitto con chi la pensa diversamente da te. L’algoritmo, è cosa nota, premia gli uguali e punisce la differenza. Salvini e Di Maio disertano il Palazzo, che sia quello del senato o il Quirinale, e si precipitano su ogni media a disposizione per ripetere dal mattino alla sera che hanno vinto. Che lo scontro con l’Europa è stata una tattica negoziale o frutto di inesperienza (lo ha detto ieri a Roma il sottosegretario Giorgetti per rassicurare i giornalisti della Stampa estera alla fine di una lunga intervista). A che servono giornali che raccontano come stanno le cose o che le vedono diversamente? Salvini si sveglia e con la voce ancora impastata dal sonno interviene su Radiouno per attaccare Avvenire, dà cifre sbagliate sul fondo per il pluralismo, motivazioni risibili per il taglio. Lui è potente e può farlo, nonostante le puntuali domande del cronista. Mente ma non importa. Chi lo ascolta non ha gli stessi suoi strumenti per seguirlo. L’ascoltatore alla radio o il fan di Facebook non sa che i famigerati risparmi del taglio al pluralismo nel 2019 saranno di appena 10 milioni di euro e colpiranno in modo mirato “solo” 17 testate, tra cui la nostra, Avvenire, Libero, il Cittadino, il Corriere di Romagna, etc. più Radio radicale. Fortunatamente, infatti, il governo sembra aver salvato dalla ghigliottina almeno i giornali delle minoranze linguistiche, quelli dei ciechi e dei consumatori, le testate all’estero. E i tanti sotto al tetto dei 500mila euro di contributo fino al 2022 sono più o meno al sicuro. Dunque in tutta questa epica battaglia contro la “casta” dei “parassiti” dell’informazione alla fine gli unici feriti sono 17 giornali in cooperativa e non profit. Testate vere, importanti, senza scopo di lucro, che in qualche caso vendono anche molto. Con l’unica “colpa” di avere idee diverse da quelle di Lega e 5 Stelle su tante cose (immigrazione, sicurezza, politiche del lavoro, grandi opere, relazioni internazionali, etc.). Non è, infatti, con una motivazione economica che la propaganda giallo-bruna può alimentare la sua ghigliottina. La sostiene diffondendo il falso, come un virus, alimentando gli equivoci, cortine fumogene sui propri scandali, scalpi da esibire a un “popolo” sempre più in sofferenza, come le teste mozzate offerte dagli Aztechi a una divinità lontana e irascibile. Se per “abolire la povertà” servisse davvero donare le modeste pagine di questo giornale saremmo i primi ad offrirci, sarebbe un sogno comunista. I giornalisti a volte si sbagliano. Succede a chiunque. Criticare i giornali è giusto, sacrosanto. Ma non si possono criticare i politici agitando pollicioni o cuoricini su Facebook (come ha sostenuto Giorgetti con leggerezza alla Stampa estera). Questa estate oltre 300 quotidiani statunitensi hanno risposto agli attacchi di Trump chiedendo ai lettori di difendere insieme alle redazioni la libertà di stampa, che in quel paese ha radici antiche. Uno dei loro padri fondatori, Thomas Jefferson, alla fine del ‘700 scrisse che preferiva “giornali senza governo” a un “governo senza giornali”. Oggi i giornali sono cambiati, gli scoop viaggiano sui telefonini, gli schermi degli aeroporti, gli algoritmi. Difendendo tutte le testate possibili non è il mondo di ieri quello che difendiamo, ma quello di domani. Condividere responsabilità e ripensare Dublino, così l’Ue può sconfiggere il populismo di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 21 dicembre 2018 Una riflessione sul dilagare della xenofobia e delle estreme destre arriva dal Think thank German Foundations on Integration and Migration (SVR): “La globalizzazione ha portato al populismo e l’immigrazione è diventata la carta dei partiti per avvicinare gli elettori, ma l’Unione europea può fare qualcosa”. Riformare. È questo il punto di partenza per parlare di immigrazione nel contesto dell’Unione europea. Mancando una ricetta magica che possa dare risposte certe alla crisi dei valori europei, ripensare le politiche comunitarie su immigrazione e globalizzazione è di fatto un’urgenza che non si può posticipare. Non si può più ignorare infatti la sfida posta dall’insorgere di populismi e movimenti di estrema destra alle istituzioni democratiche europee, per questo può essere utile partire dalla base. Potrebbe essere riduttivo imputare questa deriva xenofoba al crescere dei flussi migratori verso il Vecchio continente. Altri fattori come la globalizzazione e la trasformazione sociale dovuta tra le altre cose anche alla digitalizzazione, hanno portato ad una crisi d’identità alimentata anche dalla crisi economica che ha ampliato la forbice sociale tra ricchi e poveri. La carta del migrante. Durante il seminario organizzato dall’Accademia europea di Berlino, abbiamo incontrato Jan Schneider, capo dell’unità di ricerca del SVR (think thank tedesco specializzato in immigrazione e integrazione). “Ritengo che le controversie tra gli stati membri dell’Ue - spiega Schneider - quindi la mancanza di risposte politiche coerenti a livello europeo dopo l’inizio della cosiddetta crisi dei rifugiati nel 2015 abbia sicuramente aggravato la situazione, perché ha dato modo ai populisti per “giocare la carta dell’immigrazione”. L’Europa nera. Dall’Ungheria di Orban, all’Austria dell’FPÖ, passando per l’Italia di Salvini alla Francia di Marine Le Pen. Negli ultimi anni i partiti di estrema destra hanno visto un incremento massiccio di popolarità, arrivando in alcuni casi ad arrivare al potere. Nonostante la differenza di programmi politici e dinamiche interne, i flussi dei migranti sono stati cavalcati da tutti i partiti in una campagna elettorale perenne che ha portato ad un incremento senza precedenti di xenofobia e atti di razzismo. L’Italia non è da meno. Al contrario, la scalata della Lega nelle elezioni del 2018 ha consacrato il partito nello scenario europeo avvicinandolo ad altre realtà come l’Ungheria di Orban nel discorso comune contro i flussi migratori. La lotta all’immigrazione è stato uno dei pilastri della campagna elettorale leghista e fin dal principio il ministro dell’Interno ha proclamato guerra all’immigrazione illegale con posizioni ai limiti del ruolo istituzionale. Il risultato è lampante. Guardando i numeri degli arrivi e confrontandoli con quelli dello stesso periodo del 2017 si ha la portata delle politiche applicate dal governo: se nel 2017 si contavano 118.914 sbarchi, nel 2018 il numero si ferma a 23.126. Una nuova rotta. I flussi migratori sembrano essersi spostati verso la rotta occidentale, quella verso la Spagna. Nei primi 6 mesi del 2018 gli arrivi in Italia e Spagna si sono quasi uguagliati: 16.600 la prima, 18mila la seconda. Ma se si considerano gli arrivi fino a settembre la differenza si acuisce: circa 21mila in Italia e più di 42mila in Spagna. “Individuare le ragioni esatte di un cambio di rotta è molto difficile - continua Schneider - Ma le ricerche confermano che se una rotta migratoria “tradizionale” viene chiusa o se viene applicato il controllo di frontiera o se i migranti vengono respinti, si creeranno delle deviazioni. Indubbiamente, le misure politiche introdotte dal governo italiano, in particolare l’esternalizzazione del controllo, anche in cooperazione con la Libia, hanno avuto effetti diversivi e hanno portato ad una maggiore frequenza sulla rotta del Mediterraneo occidentale verso la Spagna e le Canarie. Inoltre alle politiche e ai meccanismi di controllo, si sommano altri fattori come le condizioni meteorologiche o le attività dei contrabbandieri dato che spesso circolano voci sulle condizioni dei paesi di arrivo”. Il patto libico. Proprio l’accordo con la Libia è stato al centro della discussione. Scendere a patti con l’altra sponda del Mediterraneo infatti implica sorvolare sulle palesi violazioni dei diritti umani in atto nel paese instabile e senza un governo centrale consolidato. Si moltiplicano i racconti di migranti detenuti, violentati, torturati e venduti come merce nelle carceri libiche, ma il governo italiano spesso e volentieri è sceso a patti con queste realtà pur di limitare gli arrivi sulle coste meridionali. Riprendendo i numeri sugli arrivi, si evidenzia che nel 2017 sui 118.000 arrivi, 106mila provenivano dalla Libia. Nel 2018 dalle stesse rive sono arrivate appena 13mila persone. Come si sia riusciti e soprattutto sulla pelle di chi si sia riusciti a limitare questi arrivi è un tema spesso sollevato e raramente approfondito dal dibattito politico. Migranti. L’antidoto di Refugees Welcome Italia contro le leggi che negano i diritti Left, 21 dicembre 2018 “Sono 120 le convivenze realizzate, 200 gli attivisti e 18 i gruppi territoriali attivi in altrettante città italiane”. Questi i dati più significativi dei primi tre anni di lavoro di Refugees Welcome Italia, l’associazione che dal 2015 promuove un modello di accoglienza in famiglia, per rifugiati e titolari di altra forma di protezione, basato sul coinvolgimento diretto dei cittadini. A tre anni dalla sua fondazione, Refugees Welcome Italia ha presentato a Roma, il primo rapporto delle sue attività e le linee guida sull’accoglienza in famiglia allo scopo di sviluppare sempre più questa modalità di accoglienza e di inclusione sociale. Tra il 2016 ed il 2018, RWI ha realizzato 120 convivenze in diverse parti d’Italia: 31 sono attualmente in corso, di cui 8 sono diventate a tempo indeterminato. In 7 casi, dopo una prima convivenza, la persona accolta è stata inserita in una seconda famiglia. Le regioni che hanno accolto di più sono il Lazio e la Lombardia, mentre la città più ospitale è stata Roma, con ben 30 convivenze attivate. Le persone accolte sono per la maggior parte titolari di protezione umanitaria (58%), seguiti da rifugiati (20%) e titolari di protezione sussidiaria (16%): mediamente erano in Italia da quasi 3 anni al momento dell’inserimento in famiglia. Le famiglie “accoglienti” sono principalmente coppie con figli (30% delle convivenze), seguite da persone singole (28% dei casi), da coppie senza figli (23%) e da coppie con figli adulti fuori casa (11%). Il 2018 è stato anche l’anno che ha visto un boom di iscrizioni alla piattaforma come risposta alla politica dei porti chiusi: circa 150 famiglie hanno dato disponibilità ad ospitare un rifugiato nei mesi di giugno e luglio. Nei primi mesi del 2019 partiranno nuovi gruppi locali in Puglia, Campania, Umbria, Calabria, portando a 15 il numero di regioni in cui l’associazione è presente. Fra le centoventi convivenze realizzate dall’associazione, c’è anche quella di Laura Pinzani, suo figlio Riccardo - romani - e Sahal Omar, giovane somalo. “Abbiamo ricevuto tanto e riceviamo tanto da lui” racconta Laura. “Culturalmente, per noi è un arricchimento. Sahal gioca alla playstation con mio figlio, parlano, si scambiano esperienze e racconti di vita. Noi gli abbiamo dato la spensieratezza: è qualcosa che molti di questi ragazzi non hanno mai conosciuto. L’accoglienza in famiglia è un modo per permettere a Sahal, e a tanti altri come lui, di non vivere più nell’emergenza ma di pianificare”. RWI propone anche una riflessione pubblica su come sia possibile promuovere su larga scala percorsi di inclusione basati su autonomia, partecipazione delle comunità, rafforzamento dei legami sociali, e come la politica possa trarre ispirazione da questo tipo di esperienze, nate dal basso, per ripensare gli attuali sistemi di accoglienza e di welfare. Da qui l’idea delle linee guida, che sono il primo tentativo in Italia di descrivere, a livello operativo, l’accoglienza in famiglia. Il documento spiega, passo dopo passo, la filosofia e la metodologia di lavoro dell’associazione: come si selezionano le famiglie, i rifugiati e gli attivisti; come si individua l’abbinamento fra rifugiati e famiglie; come si seguono e monitorano le convivenze. Il testo fornisce anche un toolkit di strumenti pratici da utilizzare in ogni fase del processo. Altro aspetto innovativo delle linee guida è la possibilità di applicarle anche al di fuori dell’accoglienza dei rifugiati: il metodo di lavoro descritto, pur essendo focalizzato sul target prioritario dell’associazione, i titolari di protezione, è potenzialmente replicabile in altri contesti: convivenze solidali, madri sole, padri separati, persone con bisogni complementari. Le linee guida rappresentano una doppia sfida: la prima alle istituzioni che hanno la governance delle politiche di accoglienza e del welfare, senza le quali nessuna pratica può essere messa a sistema, la seconda al variegato mondo del Terzo settore spiega Fabiana Musicco, presidente dell’associazione: “Alle istituzioni e ai nostri partner del terzo settore chiediamo di leggere queste pagine, studiarle, copiarle, criticarle, riadattarle: l’accoglienza in famiglia non è e non vuol essere un’esclusiva di RWI, ma un modello da reinventare costantemente alla luce dei bisogni, delle esigenze e dei desiderata dei territori dove le diverse realtà lavorano. Per questo motivo, le linee guida saranno presto disponibili sul nostro sito refugees-welcome.it, per favorire la creazione di una community di addetti ai lavori, volontari, associazioni e gruppi informali che vorranno cimentarsi con questa esperienza”. Migranti. “Il Nobel per la Pace al paese simbolo dell’accoglienza” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 21 dicembre 2018 Centinaia di persone a Roma per ascoltare il sindaco di Riace Mimmo Lucano. Che glissa su una sua eventuale candidatura. “Mi porterò per tutta la vita il ricordo di questa giornata, di tutti voi, uno per uno”. Sudato, pallido, mentre a tratti si teneva la testa per una evidente emicrania, sulle labbra un sorriso appena accennato: Mimmo Lucano ieri sera ha reagito così al tributo quasi da rock star che gli ha riservato Roma e in particolare il quartiere “rosso” di Garbatella per il conferimento della cittadinanza onoraria dell’VIII Municipio, appunto, grande come una città di medie dimensioni (250 mila abitanti) e il contemporaneo lancio della candidatura a Premio Nobel per la Pace della sua Riace. Per lui, per ciò che rappresenta, applausi scroscianti a fiotti anche durante il suo intervento e un teatro Palladium stracolmo, sia in platea che nel loggione, tanto che si sono dovuti piazzare schermi all’esterno per chi non è riuscito a trovare posto dentro per l’intera serata, tre ore di interventi, proiezioni di foto di Riace, musica, preceduti da uno spettacolo teatrale bello e complesso degli alunni di una scuola media romana. “Mimmo! Mimmo!” in piedi a ritmare, fischi di approvazione, giovani dalla pelle scura che vanno a stringergli la mano, e lui lì sul palco con la sua faccia stanca, a raccontare di nuovo tutta la storia - “che vista da lontano, ora sono tre mesi che non posso mettere piede a Riace, sembra una favola” - del paesino spopolato della Locride dove un giorno “il vento” ha fatto arenare, alla marina, un veliero”, una barca alla deriva carica di fuggiaschi, in gran parte curdi. “Riace - racconta Lucano - ora è tornata a essere quella che era prima dell’arrivo della nave, sono rimaste in tutto un centinaio di persone, tra residenti e migranti, nell’incertezza e con poca speranza. Si sa che le cose hanno anche un inizio e una fine, ma la chiusura è stata tardiva, abbiamo dimostrato che un’accoglienza solidale, basata sull’incontro e non sulla diffidenza, è possibile”. Ora il modello Riace ha nuove gambe e non solo quelle della presentazione della candidatura a Stoccolma. Ieri mattina Lucano stesso ha partecipato alla conferenza stampa del progetto della Federazione Chiese evangeliche che conta di riattivare le strutture di Riace per l’accoglienza di nuclei di migranti in arrivo grazie ai corridoi umanitari attivati in collaborazione con la Comunità Sant’Egidio. Le Chiese evangeliche hanno attivato donazioni anche in Westfalia e Stati Uniti anche per potenziare le ricerche in mare dei barconi con l’ong Proactiva Openarms, SeaWatch e Pilotyes Volontaires e istituito borse di studio per i ragazzi che vivono nella baraccopoli di San Ferdinando e vengono schiavizzati dai caporali come braccianti nella piana di Gioia Tauro, non troppo distante da Riace. E anche il miraggio del Nobel, ha per sponsor - oltre alla rete di comuni solidali Re.Co.Sol, il presidente dell’VIII municipio Amedeo Ciaccheri e la rivista Left- dallo scrittore Erri De Luca, alla vice presidente del Parlamento greco. Inoltre Mimmo Lucano è diventato anche un simbolo, una bandiera. Non ha fatto alcun accenno a volersi c candidare alle elezioni europee, come non aveva escluso giorni fa durante il conferimento della cittadinanza onoraria del comune di Sutri dalle mani del sindaco Vittorio Sgarbi, ma è chiaro che la sua presenza richiama valori condivisi e passione in larga parte di una sinistra per altro verso frammentata e dispersa. Così, ieri al Palladium, mentre il presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti è stato tra i primi a parlare e ha espresso “sostegno totale” alla candidatura e al modello Riace, Mimmo Lucano, al pari di padre Alex Zanotelli, non hanno lesinato critiche all’ex altro candidato alla segreteria Pd, ex ministro dell’Interno Marco Minniti accusandolo di aver “aperto la strada al razzismo di Stato, alla persecuzione delle ong che fanno solidarietà”. “L’ex ministro - ha ricordato Lucano - ha detto di recente che stava dalla parte mia e di Riace, perché me lo dice dopo un anno? Mentre io celebravo un matrimonio, lui perché non mi aiutava e invece faceva accordi con capitribù libici perché arrestassero i migranti”. E difende ancora, invece, il presidente della Regione Calabria Mario Oliverio, recentemente coinvolto in una inchiesta di appalti finiti forse in mano alle ‘ndrine senza però alcun reato associativo contestato, arrivando anzi a pensare che Oliverio sia stato sottoposto a una procedura “del fango” proprio per il suo impegno diretto a eliminare la baraccopoli di San Ferdinando anche con l’aiuto del sindaco di Riace Lucano. Libia. Rapporto Onu: migranti detenuti in condizioni inimmaginabili jobsnews.it, 21 dicembre 2018 Omicidi, torture, arresti arbitrari, stupri di massa, schiavismo, lavoro forzato ed estorsioni. Migranti e rifugiati sono soggetti a “orrori inimmaginabili” dal momento stesso in cui mettono piede in Libia, durante la permanenza nel paese e, infine, nel tentativo di attraversare il Mar Mediterraneo. Lo si legge in un rapporto congiunto della Missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) e dell’Ufficio Onu per i diritti umani (Unhcr). Il documento, composto di 61 pagine, illustra nel dettaglio violazioni e abusi commessi da funzionari di Stato, gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti in un periodo di 20 mesi che arriva fino all’agosto di quest’anno. Vengono denunciati omicidi, episodi di tortura, arresti arbitrari, stupri di massa, schiavismo, lavoro forzato ed estorsioni. Il rapporto si basa su 1.300 testimonianze raccolte dal personale delle Nazioni Unite in Libia, in Nigeria o in Italia, tracciando percorsi di migranti “perennemente a rischio di serie violazioni di diritti umani e abusi”. Secondo l’Onu, “il clima d’impunità in Libia fornisce un terreno fertile per attività illecite come il traffico di esseri umani e il contrabbando”, lasciando migranti e rifugiati “alla mercé di predatori senza scrupoli che li vedono come elementi da sfruttare o da ricattare”. “La stragrande maggioranza delle donne e delle ragazze intervistate dall’Unsmil afferma di essere stata violentata da trafficanti e contrabbandieri”, si legge nel rapporto. Lo staff dell’Onu ha visitato undici centri di detenzione in cui sono raccolti migliaia di migranti e di rifugiati e all’interno dei quali sono stati documentati episodi di tortura, maltrattamenti, lavoro forzato e violenze sessuali. “Le donne sono spesso prigioniere in strutture nelle quali non ci sono guardie donne, cosa che aumenta il rischio di abusi sessuali. Le detenute sono spesso soggette a perquisizioni corporali condotte o assistite da guardie di sesso maschile”. Chi alla fine riesce a procurarsi un posto in un barcone diretto verso l’Europa viene spesso intercettato dalla Guardia costiera libica, la quale riporta i migranti in Libia e, di conseguenza, all’interno del circolo vizioso di violazioni e abusi. A partire dall’inizio del 2017 circa 29 mila migranti hanno subito tale sorte e sono stati trasferiti nei centri di detenzione gestiti dal Dipartimento per il contrasto alla migrazione illegale, nei quali migliaia di persone rimangono a tempo indefinito e in maniera arbitraria, senza poter consultare avvocati o servizi consolari. Le Nazioni Unite invitano quindi l’Unione europea e i suoi Stati membri a riconsiderare i costi umani delle loro politiche e ad assicurarsi che la cooperazione e l’assistenza alle autorità libiche si basi sul rispetto dei diritti umani, in linea con gli obblighi del diritto internazionale e con le leggi sui rifugiati. Libano. La guerra 50 metri sotto terra di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 21 dicembre 2018 Sul confine, dove 4 tunnel scavati da Hezbollah (“il partito di Dio”) sono stati scoperti da Israele. L’Unifil, a comando italiano, deve disinnescare l’emergenza. Chiamiamola la regione dei tunnel. Sono scavati qui sotto, lunghi centinaia di metri, cunicoli larghi almeno un metro e mezzo, alti mediamente uno e settanta, percorsi da tubi per l’aereazione, alcuni scavati con macchinari sofisticati a profondità che variano tra i 15 e quasi 50 metri. “Sono stati lavorati con perizia. Qui, a differenza dei tunnel palestinesi di Gaza, il sottosuolo non è sabbioso, ma dura roccia. Potrebbero essere stati scavati molti anni fa. Ciò potrebbe significare che oggi sono in disuso e dunque l’allarme sarebbe limitato, se non nullo. Ma potrebbero anche essere concepiti come armi dormienti, pronte all’uso quando necessarie, gallerie d’attacco potenziali. Vanno scoperte, valutate per capire se davvero attraversano la Blue Line (la linea di divisione tra i due Paesi, ndr) verso Israele e chiuse. Ci attendiamo ora risposte convincenti dalle autorità militari libanesi”, ci diceva due giorni fa Stefano Del Col, il generale italiano che comanda i circa 10.500 effettivi del contingente delle Nazioni Unite (Unifil) nel Libano del sud. Una situazione potenzialmente esplosiva, foriera di violenze legate alle crisi che si addensano tra Israele e Iran, passando per Damasco e alimentate dalle notizie riguardanti il prossimo ritiro dei circa 2.000 militari americani che sono a sostegno dei curdi siriani nella guerra contro Isis. Non a caso il Paese dei Cedri è tradizionalmente una cartina al tornasole molto sensibile delle tensioni che innervosiscono il Medio Oriente. Anche se per il momento dalla parte del confine libanese si vede solo un paesaggio bucolico, che la sera s’illumina di luci colorate degli alberi di Natale addobbati nei pochi villaggi cristiani. Colline verdi, umide di pioggia, coperte di pini marittimi e cespugli spinosi. Sono cresciuti negli ultimi anni, dopo che i 33 giorni di guerra tra Israele e Hezbollah (il “Partito di Dio” degli sciiti libanesi sostenuto dai radicali di Teheran) nell’estate del 2006 avevano trasformato le alture del confine in un deserto di cenere, tronchi bruciati, fattorie isolate sventrate dalle bombe e villaggi in macerie. Gli osservatori Unifil indicano quella di Ramyah come una delle zone di entrata dei tunnel. “Qui sotto passa almeno uno dei quattro scoperti dalle truppe israeliane e verificati dai nostri ispettori Onu come una ovvia violazione della Risoluzione 1701, che nel 2006 stabilì il cessate il fuoco e rafforzò Unifil”, ci dice il generale Diodato Abagnara, comandante dei circa 1.100 bersaglieri della brigata Garibaldi e dell’intero settore occidentale. Ramyah, come del resto il vicino abitato di Bent Jbeil, dodici anni fa furono rasi al suolo dai bombardamenti israeliani. Hezbollah vi aveva scavato una fitta rete di bunker e ricoveri da dove lanciare migliaia di missili e blitz di commando ben addestrati. Oggi tra gli edifici ricostruiti sventolano fitte le bandiere gialle del movimento. Sui muri sono ben visibili i ritratti dei “martiri” caduti in combattimento. Costituiscono la gran parte degli oltre 1.300 libanesi morti allora. Secondo Israele, i tunnel sarebbero la prova evidente che Hezbollah starebbe preparando un’altra offensiva. Non è però d’accordo il 62enne Hassan Dabuk, dal 2010 sindaco di Tiro e massimo rappresentante politico sciita locale. “Non vedo alcun segnale di guerra imminente. Qui siamo tutti concentrati sulla ricostruzione. Hezbollah sa bene che verrebbe messo all’indice dalla sua gente se causasse un’altra ondata di distruzioni”, afferma. Il generale Del Col chiede però che le autorità libanesi agiscano presto per disinnescare l’emergenza tunnel. “Gli israeliani mi hanno personalmente condotto a visitarli sul loro territorio. Ho visto i buchi scavati per individuarli. Almeno tre, ma potrebbero essere molti di più, si trovano nel nord-est, tra il villaggio libanese di Kafr Kila e la cittadina israeliana di Metulla. Ho anche visto quello di Ramyah. Noi abbiamo inserito i nostri sensori a raggi laser per verificare che davvero vengono dalla zona libanese. Non credo vi sia una vera uscita in territorio israeliano. Ora sto cercando di lavorare per individuare le entrate in Libano. Ma tra i limiti del nostro mandato c’è che non possiamo operare nelle proprietà private, dobbiamo sempre chiedere che l’esercito libanese lo faccia per noi”. La sua spiegazione illustra uno dei motivi delle tradizionali critiche israeliane: Unifil non avrebbe “i denti” per bloccare con efficienza l’aggressività di Hezbollah. D’altro canto, ciò vale anche per le infrazioni compiute metodicamente da Israele. Aggiunge il generale: “Israele invade continuamente lo spazio aereo libanese con droni e jet militari. Si tratta di incursioni quotidiane che violano la 1701. E così fa via mare, visto che ha posto arbitrariamente una linea di boe a delimitare le proprie acque territoriali non riconosciuta internazionalmente. Noi non possiamo reagire con le armi. Non sta nel nostro mandato di osservatori. Dobbiamo limitarci a denunciare al Consiglio di Sicurezza dell’Onu” Emirati Arabi. Difensore dei diritti umani detenuto in condizioni di salute preoccupanti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 dicembre 2018 Dagli Emirati Arabi Uniti giungono preoccupanti notizie sulle condizioni di salute di Nasser bin Ghaith, difensore dei diritti umani ed economista, che da 76 giorni non tocca quasi cibo. Nasser bin Ghaith protesta per le condizioni detentive e, soprattutto, per la condanna a 10 anni di carcere che sta scontando nella prigione di massima sicurezza al-Razeen, ad Abu Dhabi: una condanna ridicola, basata su accuse pretestuose, arrivata al termine di un processo iniquo nel quale il diritto alla difesa è stato ampiamente compromesso. Già finito in carcere da aprile a novembre del 2011 per “aver insultato pubblicamente” le autorità emiratine, bin Ghaith è stato arrestato il 18 aprile 2015, posto in isolamento, torturato e privato del sonno anche per una settimana. Il 4 aprile 2016 è arrivata la condanna, di nuovo per “insulti” attraverso post su Twitter, e per “aver comunicato e collaborato con membri di un’organizzazione messa al bando”, ossia il movimento riformista islamico al-Islah. La condanna è stata confermata in appello nel marzo 2017. Già prima dell’arresto, bin Ghaith soffriva di pressione alta e cardiomegalia, l’aumento abnorme di volume del muscolo cardiaco. Ora, con lo sciopero della fame e il diniego di cure mediche adeguate, la situazione è diventata allarmante. È sopraggiunto anche un principio di steatosi epatica, ossia l’eccesso di grassi nel fegato. Le organizzazioni per i diritti umani chiedono agli Emirati Arabi Uniti di rilasciare Nasser bin Ghaith e, intanto, di fornirgli immediatamente tutte le cure mediche necessarie.