La scrittura riempie il vuoto del carcere di Stefano Rodi Sette - Corriere della Sera, 20 dicembre 2018 Lettere e racconti sono strumenti per comunicare con chi è fuori. la prigione è ancora un mondo sconosciuto dove, negli ultimi diciotto anni, è avvenuto un suicidio alla settimana. “dove gli uomini sono ombre, che vedono scorrere il tempo senza di loro”, ha scritto un ergastolano. Una delle prime cose che fa chi entra in carcere è scrivere. Quasi sempre una lettera: alla moglie, alla madre, a un fratello, a un avvocato. L’unico altro contatto possibile con il mondo fuori dalle mura dura il tempo di una sola telefonata alla settimana che non può superare, per legge, i 10 minuti. Quindi, chi non è analfabeta, prende carta e penna per cercare di non precipitare nel vuoto della solitudine. I social sono rimasti lontani. Ogni giorno attraversa i cancelli delle patrie galere un’umanità di ogni genere. In tutti i sensi; dagli analfabeti a persone con due lauree, dai colpevoli agli innocenti. Alcuni ci rientrano per l’ennesima volta, altri sono al debutto. E, tra questi ultimi, l’effetto sorpresa rimbomba in testa con il rumore dei cancelli che si chiudono alle spalle. “I racconti dei detenuti sulla vita carceraria di solito sono abbastanza monotoni”, osserva Edoardo Albinati, che insegna italiano nel carcere di Rebibbia da 25 anni, “ma questo dipende più dall’argomento che da uno scarso talento”. A volte gli è capitato di leggere racconti su episodi della loro vita da uomini liberi che lo hanno colpito, perché scritti bene. Anche con una vena ironica, pur viaggiando quasi sempre sul filo della possibile tragedia. “Per esempio quello di un detenuto che aveva messo a segno una rapina a mano armata in banca. Tutto era andato bene ma quando fuggiva, con l’adrenalina in gola, e con i soldi sulle spalle, ha cominciato a sentire delle piccole esplosioni all’interno del sacco, causate dalle cartucce di inchiostro che gli istituti di credito usano per rendere inservibili, o riconoscibili, le banconote rubate. Non so se questo episodio fosse avvenuto per davvero, ma era scritto bene. Ed era anche divertente. Quando ho avuto tra le mani racconti dei detenuti”, precisa il vincitore del premio Strega del 2016, “ho avuto conferma di una cosa che sapevo da tempo: non si scrive per ricordare, ma per mettere alle spalle. Per cancellare, o almeno chiudere in un cassetto”. In un piovosissimo sabato, poche settimane fa, in una sala della biblioteca CaNova di Firenze si sono trovati scrittrici e scrittori usciti per un giorno dalle loro celle. L’incontro intitolato i “Vagabondi delle stelle”, alla sua seconda edizione e ispirato dall’omonimo libro di Jack London, è stato organizzato da Giuliano Capecchi, un volontario dell’associazione Liberarsi che, da 30 anni, sta facendo di tutto per stare in carcere più tempo possibile, per tentare di difendere i diritti dei detenuti. A volte, senza bisogno di rileggere “Delitto e castigo”, si nota da vicino che il passo dalla realtà alla letteratura, e viceversa, può essere breve. Le vite di detenute e detenuti, al di là della loro capacità di metterle per iscritto, sono romanzi vissuti sulla pelle. Ogni episodio, anche piccolo, ormai può segnarla, e può diventare un racconto. Uno di loro, al telefono con la figlia di tre anni, e con di fronte la clessidra dei dieci minuti ormai ben oltre la metà, le chiese di passare il cellulare alla sorellina di sette. Si sentì rispondere: “Ti odio, non ti parlerò più visto che tu non hai mai tempo per me, neanche al telefono”. Paola (nome di fantasia), che viene dal carcere di Sollicciano, è una trentenne bionda, carina e vestita bene, non ha l’aspetto di una detenuta finita dentro per un tentato omicidio. Inizia a parlare con un sorriso malinconico e ironizza anche un po’: “Io ero una bigotta e una di quelle persone che pensavano che chi finiva in carcere se lo meritava e la doveva pagare il più possibile. Punto e basta. Poi ci sono finita io. Non avevo mai immaginato di come la vita potesse precipitare in poche ore. Scrivere mi sta aiutando a sopravvivere: è un modo per raccontare questo mondo estraneo. Dove, se non fai niente, diventi niente”. Fa una pausa, le si è spento il sorriso. Piange per un attimo, ma poi riprende a leggere il brano che narra il suo incontro con una nuova compagna di cella: due vite che si sono incrociate in nove metri quadri. A Sollicciano sono detenuti circa 700 uomini e 100 donne. Pochi mesi fa una detenuta è rimasta incinta durante le ore di scuola; lei è stata trasferita e tutte le altre hanno visto sospeso il diritto di frequentare le lezioni. I maschi invece continuano, neo-padre compreso. Carmelo Musumeci è entrato in carcere nel 1991, condannato all’ergastolo per omicidio. L’anno dopo trasferito all’Asinara, in regime di 41 bis, senza contatti con l’esterno per 18 mesi. “Una volta ho letto una frase scritta in un libro da un detenuto in un lager: “Sono qui e nessuno lo verrà mai a sapere”“. Ha avuto la stessa sensazione e invece che lasciarsi andare ha iniziato a leggere, studiare e scrivere. Si è laureato prima in giurisprudenza, poi in filosofia, con 110 e lode. Ha scritto sette libri, diari e migliaia di lettere. Una anche a Dio: “...diglielo tu agli umani che una pena che ti prende il futuro per sempre ti leva il rimorso per qualsiasi male che uno abbia commesso”. Un’altra a Cristo: “Gesù, non ho mai avuto paura dei cattivi, ci sono nato intorno a loro, piuttosto è da tanto tempo che sono i buoni che mi fanno paura”. In un’altra, indirizzata agli umani, scrive che “nelle carceri italiane ci sono uomini che sono solo ombre, che vedono scorrere il tempo senza di loro e che vivono aspettando di morire”. Adesso, da due anni, Musumeci è in libertà condizionale e lavora in una comunità per disabili: “In carcere si soffre per nulla, il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati, è difficile pensare al male che hai fatto fuori se ricevi male tutti i giorni”. Ornella Favero da 21 anni dirige Ristretti Orizzonti, un sito realizzato da una redazione di circa 30 persone all’interno del carcere di Padova che pubblica ogni giorno notizie e storie del mondo carcerario. Qui sono passati diversi scrittori e giornalisti. Albinati, Gianrico Carofiglio e lo storico direttore della Gazzetta dello Sport Candidò Cannavò, solo per fare tre nomi. “Scrivere è importante per chi è dentro, ma potrebbe essere prezioso per l’intera società se queste testimonianze dal carcere venissero conosciute e tenute in considerazione. Le pene che al male rispondono con altrettanto male, l’ozio forzato, la dignità non sempre rispettata, oltre che essere indegni di una società civile, non fanno che esasperare i detenuti allontanando il possibile reinserimento nella società”. Chi esce infatti spesso torna dentro: la recidiva in Italia, negli ultimi dieci anni, è attorno al 70%. Oltre che un fallimento sul piano umano lo è su quello economico: un singolo detenuto costa allo Stato 140 euro al giorno. La spesa totale prevista dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per il 2018 è di 2.797.513.453. Il sovraffollamento continua ad aumentare. I dati aggiornati a novembre 2018: nonostante si usino 5mila celle inagibili, su un totale di 60.002 reclusi, ci sono 9.240 detenuti in più rispetto alla capienza massima possibile. A luglio erano 7.882. In altri Paesi, come per esempio la Norvegia dove le carceri privano della libertà ma non della dignità, la recidiva è del 20%. “Se trattiamo le persone come fossero animali quando sono in prigione, è probabile che si comportino come animali. Per questo qui cerchiamo di trattare i detenuti come esseri umani” ha dichiarato Arne Nilsen, ex direttore del carcere di Bastøy, isola vicino ad Oslo, in un’intervista al Guardian. Le cifre contano, ma anche il buon senso ha un suo valore: un detenuto si incattivisce di più a stare in una cella minuscola, con altri cinque o sei compagni, in un carcere dove lo maltrattano, piuttosto che in un istituto dove siano riconosciuti dignità e diritti, e dove gli sia data la possibilità di lavorare, studiare, e preparare un’alternativa alla sua vita precedente. Tornando ai numeri ce n’è uno che gela l’animo in un Paese che si ritiene ancora civile: dal 2000 al 2018 nelle carceri italiane ci sono stati 1.030 suicidi. Uno alla settimana, nel silenzio. Sono molte le iniziative di volontari e associazioni, che selezionano e pubblicano gli scritti in carcere. O li premiano: Sognalib(e)ro, il concorso letterario ideato da Bruno Ventavoli, direttore del settimanale Tuttolibri della Stampa, in collaborazione con il Comune di Modena, è arrivato a coinvolgere ben dieci carceri. “Il passo che adesso bisogna fare”, dice Giuliano Capecchi, “è coordinare questo lavoro a livello nazionale, in modo da renderlo utile per stimolare una riflessione di tutta la società, alla quale conviene non ignorare le carceri”. “Un giorno. Un anno. Tanti anni. Finché gli occhi non sapranno più cos’è la luce e cos’è il colore”. E poi: “La giustizia mi è stata nemica. Avrebbe dovuto difendermi e garantirmi. Con i suoi errori, invece, ha portato a termine l’opera di devastazione innescata dai seguaci della lupara”. Sono due brani tratti da “Senza scampo”, di Carmelo Gallico, pubblicato nel 2013 da edizioni Anordest, che ha vinto numerosi premi letterari. Leggerlo aiuta a capire che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, come è scritto nell’articolo 27 della Costituzione. A 30mila detenuti servono i farmaci per l’epatite C di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 dicembre 2018 L’appello a Mattarella e al Ministro della Giustizia Bonafede. Non vedenti al 41 bis, invalidi con 3 bypass, tumori, infezioni dopo gli interventi. Centinaia sono i detenuti con gravissime patologie incompatibili con l’ambiente penitenziario che attendono, invano, il differimento della pena dalla magistratura di sorveglianza. Ci sono detenuti con il cancro, la leucemia, il diabete, l’Alzheimer, l’epilessia. Per non dire dei disabili. Ad allarmare sono anche i dati sulle malattie infettive. Secondo il professore Sergio Babudieri, Presidente del Congresso nonché Direttore Scientifico Simspe-Onlus (la Società italiana di medicina penitenziaria), “dal 30% al 38% dei carcerati ha gli anticorpi del virus dell’epatite C, ma di questi solo il 70% hanno il virus attivo. Dai 25 ai 30mila detenuti, quindi uno su tre, avrebbero bisogno di essere trattati con i nuovi farmaci altamente attivi contro il virus C dell’epatite”. Per tutti questi motivi è stato rinnovato l’appello per la scarcerazione dei detenuti con patologie gravi sottoscritto da associazioni (in primis Yairaiha Onlus che si occupa delle carceri), movimenti politici come Potere al Popolo e la Camera Penale di Cosenza. Nell’appello - rivolto al Presidente Mattarella, al Papa e al ministro della giustizia Alfonso Bonafede - viene denunciato che fra gli oltre 60.000 detenuti sono moltissime le persone affette da patologie analoghe a quella di Marcello Dell’Utri (fortunatamente scarcerato per incompatibilità carceraria) e anche più gravi: tumori, patologie psichiatriche, cardiovascolari, respiratorie, disabilità gravi, leucemie, diabete, morbo di Huntington. “Per la maggior parte, - sostengono i promotori dell’appello- gli istituti penitenziari non sono attrezzati per le cure necessarie ed anche negli istituti dove sono presenti centri clinici le cure sono per lo più inadeguate, e rischiano di determinare l’aggravamento delle patologie”. L’appello chiede che venga riconosciuta la sospensione della pena o la misura domiciliare a tutti i detenuti che presentano patologie analoghe o più gravi di quella riscontrata a Marcello Dell’Utri, che troppo spesso finiscono per morire in carcere perché “non hanno la possibilità economica di sostenere i diversi gradi di ricorsi, come è successo a Dell’Utri o, ancora, vedono le loro istanze valutate da magistrati in qualche modo influenzati da un’opinione pubblica sempre più incattivita”. L’associazione Yairaiha Onlus ha fornito a Il Dubbio una lista parziale di alcuni detenuti con gravi patologie. C’è Giuseppe P., detenuto al carcere di Siano, con una infezione in corso alla mano sinistra a seguito di intervento chirurgico: è in attesa da 2 mesi per un ulteriore ricovero per pulire e disinfettare la ferita e per ripetere l’intervento. Ad Alessandro G, detenuto al carcere di Voghera, invece gli è stato diagnosticato la sindrome da apnee ostruttive di lunga durata con desaturazione ossiemoglobinica fino al 90% in soggetto cardiopatico: in sede ospedaliera gli è stata prescritta una visita pneumologica e dotazione di maschera Cpap (per l’ossigeno), ma a distanza di tre mesi non è stata effettuata la visita specialistica e non gli sarebbe stata fornita la maschera. Infine c’è il caso di Nicola C., detenuto a Spoleto in regime di 41 bis, che non è vedente da anni e privo dell’assistenza di un piantone perché non ammesso nel regime del 41bis: questo comporta ulteriori privazioni che vanno dall’impossibilità di leggere la posta all’ulteriore mortificazione dei colloqui visivi con i familiari che, per la condizione di cecità, si riducono a colloqui uditivi. Ovviamente privi di tatto, visto i muri divisori previsti dal regime duro. Oppure c’è G. B., detenuto a Rebibbia in regime di 41 bis e precedentemente a Parma. Ha tre tumori in testa, pancreatite, versamento pleurico, infarto intestinale e 19 interventi chirurgici subiti. La richiesta di sospensione sarebbe stata accolta dal magistrato di sorveglianza, ma rimane in carcere in attesa del fine pena tra un anno. “Il diritto alla salute va garantito soprattutto a chi è in carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 dicembre 2018 I medici chiedono un incontro con il Ministro della Salute, Giulia Grillo. Con il passaggio delle competenze dal Servizio Sanitario Nazionale alle Regioni, nessuno sa come il sistema dell’assistenza penitenziaria venga svolto. “Governo e Parlamento avviino il monitoraggio sull’assistenza penitenziaria”. I medici chiedono un incontro con il ministro della salute Giulia Grillo, per monitorare l’assistenza sanitaria in carcere, e invitano le forze politiche e parlamentari ad avviare indagini conoscitive sullo stato di tutela dei diritti, specie quello alla salute, dei carcerati. “Il diritto alla Salute deve essere garantito a tutti, e in maniera particolare a chi sta in carcere e vede limitato il suo diritto alla libertà. Con il passaggio delle competenze dal Servizio Sanitario nazionale alle Regioni, il sistema dell’assistenza penitenziaria è stato trasformato ma nessuno oggi ha contezza di come venga condotto sul territorio nazionale. Mancano, in quest’ambito, i contratti di lavoro, mancano le definizioni dei ruoli, delle competenze”. Così il Presidente della Federazione nazionale degli ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, raccoglie, rilanciandolo, l’appello a lui rivolto sabato scorso durante il Consiglio Nazionale della Fimmg, la Federazione italiana dei Medici di Medicina Generale. La Fimmg aveva infatti richiamato “attenzione e disponibilità della Fnomceo, in presenza del Presidente Filippo Anelli, perché si apra immediatamente un confronto con il Ministero rispetto ai fabbisogni dell’area della Medicina Penitenziaria, considerata la particolarità della popolazione assistita, privata dalla libertà di scelta individuale ma non del diritto costituzionale alla tutela della salute, anche in considerazione della carenza di professionisti medici che come ovvio si verificherà prima sui settori meno attrattivi per i professionisti”. Per il presidente Anelli, “Serve con urgenza un monitoraggio per comprendere come il diritto alla Salute sia tutelato specie nei confronti di cittadini a cui è stata limitata ogni forma di libertà. Invitiamo pertanto le forze politiche e parlamentari ad avviare indagini conoscitive sullo stato di tutela dei diritti, specie quello alla salute, dei carcerati. Chiediamo inoltre al Ministro della Salute Giulia Grillo un incontro urgente per instaurare un dialogo sui fabbisogni dell’area della Medicina penitenziaria”. Conclude il presidente Fnomceo: “Non si tratta di un’opera di carità, ma di rispetto di prerogative costituzionali incomprimibili e che lo Stato ha il dovere di garantire, anche attraverso i suoi organi sussidiari, quali gli Ordini delle professioni sanitarie”. L’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta è di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Servizi sanitari regionali. Il trasferimento delle competenze sanitarie dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali è stato definito con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’aprile 2008. Con esso, assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Dal 2008, quindi, l’assistenza sanitaria nelle carceri è passata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che la gestiva, al Sistema sanitario nazionale. Ma il Ssn sulle carceri tende a risparmiare. Lo fa, ad esempio, sulle visite, ma anche sulle medicine, che in carcere non si trovano. Il personale sanitario risulta non di rado carente, con tanto di contratti precari e, come denunciato da alcuni sindacati, con turni “ai limiti di legge”. Carceri, si riparte dai “gruppi anti-rivolte” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2018 Il nuovo Dap. Tra le priorità di Basentini ci sono anche le videoconferenze e i reparti psichiatrici. Si è preso cinque mesi di tempo per capire e poi, il 5 dicembre, Francesco Basentini, da fine giugno capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha messo nero su bianco le sue critiche al sistema, che ha carceri senza direttori da anni o proposte come quella di istituire squadre speciali. Il Basentini-pensiero si legge nel documento riservato, che Il Fatto ha potuto visionare, sulle “linee programmatiche”. La prima cosa che salta all’occhio, a pagina 13, è proprio il progetto di costituire un nucleo speciale anti rivolte carcerarie. Un’iniziativa che fa tornare alla memoria i cinque agenti della polizia penitenziaria feriti nel carcere minorile di Catania il 5 settembre da detenuti furiosi per il trasferimento di un loro compagno. Il 17 settembre, neppure due settimane dopo, Basentini forma un gruppo di lavoro ad hoc per realizzare la sua idea: “Gruppi di intervento operativo, dotati di equipaggiamento idoneo ad affrontare ogni possibile evento critico, addestrati per l’utilizzo di tecniche operative, che tutelino la propria incolumità e quella dei detenuti”. Inoltre, il 20 settembre, ripristina i corsi di autodifesa “per la polizia penitenziaria impegnata in difficili e spesso rischiosi servizi”. Al nuovo capo Dap non piace l’andazzo delle nomine dei direttori dei penitenziari e dei Provveditorati. Sembra convinto che ci siano stati criteri che non hanno a che fare con il merito né con le reali necessità del Dap e creano vuoti pericolosi. Usa parole diplomatiche, ma il senso è chiaro: “Sono stati seguiti in molti casi criteri particolarmente singolari e non comprensibili. Ad esempio, alcuni istituti sono tuttora privi di comandante come Aosta, Saluzzo, Sondrio, Sassari mentre in altri penitenziari o presso i Provveditorati sono stati destinati diversi Commissari. In questo anomalo contesto generale è altresì accaduto che alcuni Commissari siano stati distaccati al Dap o ai Provveditorati o a uffici esterni”. Idem gli Ispettori. Quindi, ci vuole un cambio di rotta “urgente” e un “meccanismo premiale” per le “sedi disagiate”. Basentini punta il dito pure sui costi sempre crescenti della traduzione dei detenuti in tribunale per l’udienza di convalida e propone le videoconferenze, uno strumento molto caro all’ex Commissione presieduta da Nicola Gratteri (inascoltata) sulla Giustizia. “La previsione per fine anno - denuncia - è che il costo sarà di oltre 20 milioni di euro per circa 30 mila detenuti”. Il cambio di passo riguarda anche la comunicazione interna con la piattaforma “Calliope”: giro di vite sui destinatari perché “spesso è indiscriminata”. Altro punto dolente sono le cosiddette Rems, nate al posto degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Sono “insufficienti”, 30 con 600 posti complessivi, distribuite a capocchia. Risultato? Molti detenuti con problemi psichici sono in penitenziari comuni dove “si sono dovute attrezzare (e non sempre ci si è riusciti) articolazioni psichiatriche”. C’era già Basentini quando una detenuta di Rebibbia, il 18 settembre, ha ucciso in carcere i suoi due bimbi. Nella relazione il capo del Dap scrisse che la detenuta “era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti sintomatici di una preoccupante intolleranza verso i due piccoli” e il personale aveva sollecitato “accertamenti anche di tipo psichiatrico”. Ma il Dap, spiega oggi, può fare ben poco, dato che le strutture dipendono dalle Regioni: solo “attività di sensibilizzazione” contro “il torpore del sistema”. A proposito dei detenuti, rivela un fatto poco noto: “Un numero elevato resta in carcere pur avendo i requisiti di legge” per chiedere di uscire. A loro verrà data una “brochure informativa”. Basentini è anche convinto che ci voglia una maggiore rotazione del personale, almeno ogni 7 anni, per garantire “efficienza” e che non debba essere più il direttore del personale ad avere potere di nomina dei dirigenti. L’Altra cucina in 13 carceri italiane di Manuela Morandi Il Giornale, 20 dicembre 2018 Pranzo Stellato anche quest’anno per i detenuti di 13 carceri Italiane , una vera catena di solidarietà che vede aggiungersi Bari , Eboli, Siracusa, Lanciano e Ivrea. Il pranzo nel carcere di Fuorni a Salerno è stato preparato dallo chef Campano Giuseppe Iannotti, 1 stella Michelin che con il suo vice chef Eugenio Vitaliano, ha prearato un pranzo d’Amore per i detenuti, portando in tavola piatti speciali ed il dolce tiramisù che aveva in se un messaggio di solidarietà ai detenuti. La giornata è cominciata con uno spettacolo nel teatro del carcere, che ha visto la partecipazione di Alessandro Greco, che ha cantato portando sul palco l’atmosfera di Furore ed ha fatto emozionare con la canzone “ Je so’ pazzo “ di Pino Daniele, la bellissima Beatrice Bocci ex Miss Italia, oltre aver presentato con trasporto ed emozione, ha letto la lettera di Papa Francesco, in cui ha ricordato il messaggio d’Amore di Gesù, rivolto al perdono e l’augurio ai detenuti di riprendersi al più presto un posto nella società. Lo spettacolo è stato colorato dalle battute e dagli sketch di Marco Cristi che ha fatto divertire i 120 detenuti presenti in sala. Il Direttore del Carcere Stefano Martone, ha voluto ribadire, che questa giornata di solidarietà che vede riuniti allo stesso tavolo detenuti e volontari, ha lo scopo di avvicinare le persone e non farle sentire mai abbandonate in questo percorso di riabilitazione. I detenuti erano commossi per aver vissuto un “pizzico dello spirito del Natale” anche loro. Un detenuto ha chiesto di poter parlare, ricordando l’importanza della solidarietà da parte di tutti, che deve essere manifestata anche verso le istituzioni. Michele, trasportatore, sta scontando la sua pena, racconta di aver trovato la vera forza per vivere, proprio in Carcere il giorno di San Giuseppe 19 Marzo del 2017, quando un Ictus lo ha colpito nella sua cella, dopo i soccorsi e un lungo percorso riabilitativo, oggi era presente in prima fila a teatro e parlava della forza che ha trovato in Dio e nella sua famiglia, per superare questo momento e ricominciare a vivere. Tiziano, detenuto da già due anni, non ha voluto mai far venire i suoi bambini in carcere, ma ha ottenuto un permesso e potrà trascorrere, per Natale qualche giorno a casa con la sua famiglia, ha raccontato della sua telefonata con il figlio, il quale gli ha chiesto “quando torni papà?” e lui ha risposto “giovedì prossimo!”, a quel punto il bambino ha fatto cadere il telefono, per correre ad abbracciare la mamma. L’agente Nicola Amato, ha raccontato della difficoltà e del sacrificio degli agenti , che nonostante il numero di detenuti elevato e le poche risorse disponibili, sono riusciti a realizzare questa giornata. Tutto ciò è a dimostrazione, che la solidarietà arriva dalle istituzioni a chi è recluso e quindi non è stato abbandonato dalla società, terminato il suo percorso di pena avrà la possibilità di una nuova vita. Perché come ci ricorda Papa Francesco, tutti possono sbagliare e dobbiamo essere pronti al perdono. Prescrizione e Daspo, il Csm boccia il Ddl anticorruzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2018 Approvata da poche ore, la legge con le misure anticorruzione incassa una serie di fortissime perplessità da parte del Csm. In un parere votato ieri dal plenum a maggioranza, con la spaccatura della componente togata (Autonomia e Indipendenza con i suoi rappresentanti Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita si è dissociata), il Consiglio mette nel mirino due dei punti qualificanti dell’intervento. Sulla prescrizione il Csm sottolinea come il blocco del decorso dopo la pronuncia di primo grado, sia di assoluzione sia di condanna, rischia di avere l’effetto di allungare i processi, tenuto conto oltretutto del fatto che la stragrande maggioranza delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari. A venire compromesso sarebbe allora il principio costituzionale della ragionevole durata, come pure quello di difesa dell’imputato, visto che, ricorda il Csm, la ricerca delle prove è tanto più difficile quanto è più ampia la distanza dal momento del reato. E allora, un intervento sulla prescrizione ha un senso, conclude il Consiglio, solo se accompagnato da una riforma complessiva dei tempi del processo penale che dura ancora troppo (tra 707 e 534 giorni a seconda del rito in primo grado e 901 in appello). Ma a potere essere gravemente compromesse dall’eccessivo protrarsi dei procedimenti penali potrebbero essere , si preoccupa il Csm, le aspettative di ottenere giustizia da parte delle vittime dei reati. Lettura contestata da Davigo per il quale “è inutile fingere di non vedere: un sistema serio è un sistema che non ha né amnistia né prescrizione. Come si fa a dire che se la prescrizione viene bloccata si allungano i processi? Vediamo atteggiamenti dilatori continui. Per quanto mi riguarda non esistono né governi amici né nemici, ma la prescrizione fa disperdere enormi energie all’apparato giudiziario e di questo dobbiamo occuparci”. Il parere del Csm si sofferma poi sulle possibili ricadute economiche per l’Erario della dilatazione dei tempi. Per il solo anno 2017, i procedimenti potenzialmente a “rischio legge Pinto”, avverte il parere, sono stati individuati dal ministero della Giustizia in 224.602 per il primo grado e in 110.450 per il grado di appello. Criticità presenta poi, nella lettura del Csm, anche il daspo a vita per i condannati per corruzione con pena superiore a 2 anni. Una misura che potrebbe confliggere con il principio costituzionale della proporzionalità della pena. Tanto più alla luce di quanto affermato da pochi giorni dalla Corte costituzionale con la sentenza che ha dichiarato l’illegittimità delle sanzioni accessorie per bancarotta. Quanto agli effetti premiali della collaborazione, il Csm osserva che l’aspetto di criticità delle novità introdotte consiste nell’esclusione dei reati di peculato), di concussione, di corruzione aggravata, di traffico di influenze illecite dall’elenco di quelli per i quali la collaborazione può avere effetti premiali sulle sanzioni accessorie, rendendole temporanee. Questa esclusione, per il Csm, “da una parte determina un’irragionevole asimmetria del regime sanzionatorio accessorio tra fatti di analoga, se di non maggiore gravità (così il reato di corruzione non aggravato o quello di corruzione in atti giudiziari), dall’altro rischia di tradursi in un disincentivo a forme di collaborazione in settori in cui questa può risultare utile, almeno sotto il profilo del recupero delle somme e delle altre utilità trasferite”. Forti poi le perplessità espresse nel parere anche sul versante dell’esecuzione della pena, dove la contrarietà a una serie di benefici penitenziari non appare giustificata dalla gravità oggettiva di reati come il peculato, la concussione, alcuni casi di corruzione e l’induzione indebita. Il Csm boccia lo spazza-corrotti. La rabbia di Davigo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 20 dicembre 2018 Il plenum vota la bocciatura, appello al Colle da Ucpi e 100 giuristi. Ameno di 24 ore dal via libera definitivo del Parlamento sulla norma che abolisce la prescrizione dopo il primo grado, arriva un “doppio no” senza precedenti nella storia repubblicana. Il Csm approva il parere con cui stronca l’intero provvedimento, la legge cosiddetta Spazza corrotti, che contiene anche la modifica sull’estinzione dei reati. E sempre ieri mattina l’Unione Camere penali italiane consegna al presidente della Repubblica un appello sottoscritto da qualcosa come 110 professori di Diritto penale, il fior fiore dell’accademia giuridica italiana: a Sergio Mattarella, penalisti e studiosi espongono tutti i motivi di “illegittimità costituzionale” dello stop alla prescrizione, chiedono di non promulgare la legge e di “rinviare il testo alle Camere con messaggio motivato”. Una mobilitazione senza precedenti. Ora il Quirinale ha un mese di tempo per decidere. “È inutile votare un parere su un ddl quando questo è stato già approvato dal Parlamento”, ha annunciato ieri in apertura di Plenum il laico in quota M5s Fulvio Gigliotti. “No, il parere c’è ed ora lo votiamo”, la secca risposta del togato di Area Giuseppe Cascini, presidente della Sesta commissione del Csm, a cui spetta il compito di dare pareri sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario e l’amministrazione della giustizia. La votazione del parere, richiesto dal ministro della Giustizia ad ottobre, sul ddl “spazza corrotti” era prevista per ieri mattina a pizza Indipendenza. Un passaggio obbligato dopo che il parere era stato già approvato all’unanimità in Commissione la scorsa settimana. Soltanto che il calendario di Palazzo dei Marescialli non aveva fatto i conti con la fretta di Alfonso Bonafede di portare quanto prima a casa la norma bandiera del Movimento: il daspo a vita ai corrotti e lo stop della prescrizione. La votazione finale è quindi arrivata fuori tempo massimo, al termine anche dei festeggiamenti della sera prima in piazza Montecitorio da parte dei grillini al grido di “onestà, onestà!” e “bye, bye corrotti”. Un voto definito “intempestivo” per Gigliotti visto quanto accaduto in Aula il giorno prima. Il vice presidente David Ermini ha comunque deciso di tirare dritto ed ha fatto votare il Plenun. Il testo è stato così approvato a maggioranza, 17 voti a favore, 3 contrari e 3 astensioni. A favore hanno votato i togati di Area, Magistratura indipendente ed Unicost, e tre laici, Alessio Lanzi e Michele Cerabona di Forza Italia, ed Emanuele Basile della Lega. Un voto “pesante” quello dell’avvocato di Pavia, leghista della prima ora, molto vicino ai tempi ad Umberto Bossi. Contrari i due esponenti di Autonomia& indipendenza, Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, e il citato Gigliotti. Astenuti gli altri due laici dei 5Stelle, Alberto Maria Benedetti che in Commissione aveva invece votato a favore, e Filippo Donati, e l’altro laico della Lega Stefano Cavanna. Non erano presenti i due capi di Corte, il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone ed il pg Riccardo Fuzio. Nel parere, relatori i togati Michele Ciambellini (Unicost) e Paola Braggion (Magistratura indipendente), come già riportato nei giorni scorsi su questo giornale, si sottolineava che con il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione che di condanna, si rischierebbe un “allungamento dei processi”, e questo, di conseguenza, “aggraverebbe il vulnus al principio di cui all’articolo 111 della Costituzione” e “darebbe luogo ad una potenziale lesione del diritto di difesa dell’imputato garantito dall’articolo 24 della Costituzione”. Quanto al Daspo, “il limite di pena stabilito per l’operatività dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e il divieto di contrattare, in perpetuo, con la Pubblica Amministrazione, e cioè, la condanna alla pena della reclusione superiore a due anni potrebbe presentare profili di frizione con il principio, di valenza costituzionale, di proporzionalità delle pena”. Altre criticità erano state sollevate circa l’agente sotto copertura e sul possibile aumento dei risarcimenti ex legge Pinto per l’eccessiva durata dei processi. Sui paventati profili di incostituzionalità di alcune norme del ddl si segnala l’intervento di Cascini, secondo cui “ci siamo limitati a valutazioni sulle possibili ricadute e criticità con la Costituzione. È una funzione del Consiglio segnalare eventuali lacune, non un vaglio di costituzionalità”. A favore del ddl spazza corrotti, come prevedibile, Davigo. “La prescrizione in Italia ha il ruolo che per anni ha avuto l’amnistia, che svuota gli armadi dei Tribunali, buttando via procedimenti destinati a prescriversi. Un sistema serio non ha né amnistia né prescrizione, che incentivano i furbi, con intenti dilatori”, ha puntualizzato l’ex pm di Mani pulite. “Sarebbe servito un approccio radicalmente diverso nell’affrontare il tema della prescrizione - ha aggiunto introducendo deterrenze alle impugnazioni dilatorie: ridurre il numero dei processi, non aumentare le risorse, che comunque non sarebbero mai abbastanza”. A rincarare la dose, Ardita: “È chiaro che saranno necessarie molte altre riforme per far funzionare meglio la giustizia. Ma non può negarsi che sarebbe un pessimo segnale che il Csm su questioni così delicate e così sentite dia un parere unicamente critico senza sottolineare l’importanza e la necessità di queste riforme”. La Commissione, va ricordato, oltre ad avvalersi dell’Ufficio studi, aveva dato la possibilità a tutti i consiglieri del Csm di inviare propri contributi. In conclusione, una frecciata al legislatore da parte del togato di Mi Corrado Cartoni, secondo cui “sarebbe auspicabile, per una questione di correttezza istituzionale, che il Parlamento attenda il previsto parere del Csm prima di emanare la norma”. Ucpi e 100 giuristi a Mattarella: “Prescrizione, no allo scempio” di Errico Novi Il Dubbio, 20 dicembre 2018 Clamoroso appello al Colle firmato da penalisti e professori. Nella lettera consegnata ieri al Capo dello Stato le Camere penali e i maestri del pensiero giuridico chiedono di rinviare lo “spazza-corrotti” al parlamento: “quella norma è incostituzionale”. C’è un dettaglio piccolo piccolo, che però racchiude in sé l’enorme significato dell’appello sulla prescrizione consegnato ieri a Mattarella da Camere penali e giuristi. È in un rilievo proposto al plenum del Csm da un laico di area Cinque Stelle, Fulvio Gigliotti: il parere di Palazzo dei Marescialli che critica duramente il ddl “Spazza corrotti” sarebbe stato, ha sostenuto sempre ieri il consigliere, “intempestivo”. Visto che lo aveva chiesto il guardasigilli Alfonso Bonafede e visto che nel frattempo il ministro ha ottenuto dal Parlamento il via libera definitivo sulla sua legge, la funzione consultiva del Consiglio superiore sarebbe, sul punto, superata. A Gigliotti è però sfuggito un dato essenziale, tanto che poi il laico ha ritirato la sua mozione. Il dato è che il procedimento legislativo sullo “Spazza corrotti” non è ancora concluso. Serve la promulgazione da parte del Capo dello Stato. Non è scontata. Il presidente Sergio Mattarella ha un mese di tempo. Avrà dunque modo di valutare l’appello consegnatogli ieri mattina dall’Unione Camere penali italiane e dal meglio del pensiero giuridico del Paese. Quell’appello, sottoscritto da qualcosa come 110 professori di Diritto, esorta il Capo dello Stato a valutare “i profili di illegittimità costituzionale” della norma più controversa del ddl Anticorruzione: lo stop alla prescrizione dopo il primo grado. Il presidente, si legge nella lettera, valuti “l’ipotesi prevista dalle Sue prerogative istituzionali”, ossia quella di “rinviare il testo alle Camere con messaggio motivato”. Un fatto gigantesco per la democrazia, di straordinario valore e dalle conseguenze inimmaginabili. L’Ucpi si veste appieno della propria vocazione ad agire come vero soggetto politico. Espone nella lettera i motivi di “illegittimità incostituzionale” della norma che abolisce la prescrizione. Chiede ai professori di Diritto penale, al meglio del pensiero e delle università, di sottoscriverla. Raccoglie qualcosa come 110 adesioni. La mette nelle mani del presidente della Repubblica. Che ora si trova con un parere critico espresso da un organismo da lui presieduto, il Csm, e con una denuncia di incostituzionalità firmata dai migliori giuristi del Paese. Mattarella ha un mese per decidere, come stabilisce l’articolo 73 delle preleggi. Si trova davanti a una mobilitazione forse unica nella storia repubblicana, di cui va dato merito al presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza. L’aveva annunciata due giorni fa alla manifestazione tenuta a Bari, al culmine delle due giornate di astensione proclamate dall’Ucpi “per il diritto alla ragionevole durata del processo”. Ecco di seguito il testo dell’appello al presidente della Repubblica Mattarella firmato dall’Ucpi e dai110 professori, dei quali riportiamo i nomi. “Illustrissimo Signor Presidente, i sottoscritti Professori di diritto, unitamente all’Unione delle Camere Penali Italiane, La invitano rispettosamente a considerare con particolare attenzione i profili di illegittimità costituzionale sottesi alla disposizione del ddl S955 che interviene sull’istituto della prescrizione del reato. Come è stato autorevolmente rilevato nelle più diverse sedi, nonché evidenziato nelle varie audizioni di esperti in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, la sospensione sine die dei termini di prescrizione del reato, a seguito della pronuncia di primo grado - sia di condanna che di assoluzione - oltre a frustrare le diverse funzioni della pena che ispirano la ratio estintiva del trascorrere del tempo, si scontra a nostro avviso con diversi principi costituzionali e convenzionali, tra i quali si evidenziano, inter alia: a) la presunzione di innocenza (art. 27, comma secondo, Cost., art. 6/ 2 Cedu), anzitutto come regola di trattamento, giacché considerare l’imputato - persino se assolto in primo grado - quale “eterno giudicabile”, assoggettato ad una pretesa punitiva priva di termini temporali e sostanzialmente illimitata altro non significa che trattarlo alla stregua di un “presunto colpevole”, così trasformando il principio in dubio pro reo nel principio, illiberale, in dubio pro republica; b) il diritto di difesa, “inviolabile” ai sensi dell’art. 24, comma secondo, Cost., è nondimeno gravemente pregiudicato dalla riforma proposta: a distanza di molto tempo le possibilità di difendersi provando, nel contradditorio delle parti, si contraggono significativamente, essendo difficile non solo raccogliere eventuali prove a discarico, ma persino ricostruire compiutamente e correttamente i fatti; c) la durata necessariamente limitata e ragionevole del processo (art. 111, secondo comma, Cost.; art. 6/ 1 Cedu), perché quest’ultimo è di per sé una poena naturalis e la sua protrazione illimitata implica una sofferenza tanto più intollerabile in un contesto ordinamentale, quale quello italiano, dove i tempi della giustizia penale sono irragionevolmente lunghi; e dove - in assenza di una disciplina della prescrizione del processo - la prescrizione sostanziale rappresenta l’unico, estremo presidio garantistico a tutela dell’individuo contro un “processo senza fine”; d) la stessa funzione rieducativa della pena (art. 27, comma terzo, Cost.) è profondamente compromessa - e negata in radice - da una sanzione che intervenga a notevole distanza di tempo rispetto al fatto commesso, quando l’autore “non è più la stessa persona”, e potrebbe non necessitare più di alcun trattamento rieducativo. Per queste preminenti ragioni costituzionali, a cui potrebbero ben aggiungersi ulteriori considerazioni di sistema, chiediamo che l’intervento normativo in materia di prescrizione sia riconsiderato, nel quadro di una più articolata e complessiva riforma del processo penale, così come di una più ampia revisione del sistema punitivo ispirata ai principi di extrema ratio e del “minimo sacrificio necessario”, e a tutti i principi di ispirazione liberale che segnano il “volto costituzionale” del diritto penale. A tal fine sottoponiamo alla Sua prudente valutazione l’ipotesi prevista dalle Sue prerogative istituzionali di rinviare il testo alle Camere con messaggio motivato”. Paolo Aldrovandi, Giuseppe Amarelli, Enrico Amati, Maristella Amisano, Ennio Amodio, Enrico Mario Ambrosetti, Gian Marco Baccari, Roberto Bartoli, Elio Romano Belfiore, Filippo Bellagamba, Costanza Bernasconi, Alessandro Bondi, Carlo Bonzano, Giuditta Brunelli, Alberto Cadoppi, Michele Caianiello, Stefano Canestrari, Stefania Carnevale, Matteo Caputo, Giovanni Caruso, Donato Castronuovo, Mauro Catenacci, Daniela Cavallini, Francesco Centonze, Francesco Cingari, Cristiano Cupelli, Marilisa D’Amico, Marcello Daniele, Agostino De Caro, Andrea Deffenu, Rosita Del Coco, Alberto De Vita, Giacomo Di Federico, Ombretta Di Giovine, Filippo Dinacci, Massimo Donini, Luciano Eusebi, Paola Felicioni, Giovanni Fiandaca, Carlo Fiorio, Giovanni Flora, Desiree Fondaroli, Rossella Fonti, Luigi Fornari, Alberto Gargani, Alfredo Gaito, Tullio Galiani, Davide Galliani, Fausto Giunta, Tommaso Giupponi, Stefano Grassi, Giovanni Grasso, Maria Cristina Grisolia, Carlo Guarnieri, Roberto Guerrini, Gaetano Insolera, Roberto Kostoris, Giuseppe Losappio, Vincenzo Maiello, Stefano Manacorda, Vittorio Manes, Annalisa Mangiaracina, Adelmo Manna, Ferrando Mantovani, Luca Marafioti, Enrico Marzaduri, Oliviero Mazza, Nicola Mazzacuva, Alessandro Melchionda, Antonella Merli, Enrico Mezzetti, Luca Mezzetti, Dario Micheletti, Sergio Moccia, Lucio Monaco, Francesco Morelli, Andrea Morrone, Daniele Negri, Renzo Orlandi, Tullio Padovani, Francesco Palazzo, Gustavo Pansini, Pier Paolo Paulesu, Gaetano Pecorella, Marco Pelissero, Nicola Pisani, Oreste Pollicino, Stefano Preziosi, Andrea Pugiotto, Roberto Rampioni, Maurizio Riverditi, Bartolomeo Romano, Carlo Ruga Riva, Alessandra Sanna, Nicola Selvaggi, Filippo Sgubbi, Carlo Sotis, Giorgio Spangher, Alfonso Stile, Luigi Stortoni, Giovanni Tarli Barbieri, Paolo Tonin, Francesco Tundo, Cristiana Valentini, Elena Valentini, Gianluca Varraso, Francesco Vella, Vito Velluzzi, Francesco Vergine, Daniele Vicoli. Cinque ex bulli e un buon padre. Occhi giusti su una sentenza difficile di Mario Chiavario Avvenire, 20 dicembre 2018 Non andranno in carcere i cinque ragazzi novaresi -minorenni all’epoca dei fatti - accusati tra l’altro di avere contribuito, con ripetuti episodi del peggiore bullismo anche telematico, alla morte di una studentessa quattordicenne, suicidatasi il 5 gennaio 2013. Ma non si tratta di assoluzione: la loro pesante responsabilità emerge dalla stessa conclusione che è stata data al seguito giudiziario di questa tristissima vicenda. Nel 2016 i cinque erano stati sottoposti a una “messa alla prova”, con l’imposizione di prestazioni in favore di disabili, di anziani, di poveri, affiancate a un serio impegno scolastico e di ripensamento interiore. Ieri, con la sentenza, i giudici del Tribunale per i minorenni di Torino hanno tirato le somme, sulla scorta di quanto verificato e riferito da psicologi e altro personale incaricato di assistenza e controllo. E hanno dichiarato estinti i reati per e-sito positivo della prova, ritenendo che vi fossero dimostrazioni credibili dell’essersi avuta quella “rieducazione” che la Costituzione indica come obiettivo fondamentale dell’intero sistema di giustizia penale, e che può anche comportare l’impiego di alternative alle sanzioni strettamente afflittive. Così facendo quei giudici si sono sicuramente assunti una grossa responsabilità. E non solo e non tanto di fronte a quella parte, verosimilmente numerosa, dell’opinione pubblica, secondo la quale, in casi come questi, la giustizia esige senza eccezioni una pena detentiva. Soprattutto, è chiaro che la constatazione di quella resipiscenza del reo, che la legge presuppone perché, alla fine della “prova”, si eviti l’applicazione della pena, resta qui pur sempre appesa a una diagnosi d’immaturità quale base di certi comportamenti e a una prognosi di recupero, comprensivo di un uso pienamente consapevole del web: l’una e l’altra, com’è palese, frutti non di certezze assolute, ma di delicatissime valutazioni probabilistiche. E sarebbe un fallimento drammatico se, poi, vi fossero consistenti ricadute. Parole di larghissimo respiro sono però venute dal padre della vittima dei bulli. Dichiarando di non voler entrare nel merito della decisione del tribunale e sottolineando l’esigenza di “lavorare” affinché quanto patito dalla figlia, con un esito tanto sconvolgente, “non accada mai più”, ha tuttavia evitato che al suo incancellabile dolore si sovrapponessero sentimenti di vendetta. Anziché rammaricarsi per la mancata condanna degli imputati, ha preferito augurarsi che quei giovani, davvero, “abbiano compreso il gesto e siano pentiti”, nella speranza “che questo tempo sia servito per riflettere e dare un segnale forte”. Neppure si è scagliato contro la legge che ha consentito di mandare liberi quelli che altri avrebbero voluto veder marcire in galera: “L’importante è che si applichi la norma e che la rieducazione sia efficace”. Parole del genere non si possono pretendere da nessuno che abbia subito un dolore tanto cocente. Ma ci si allarga il cuore quando c’è chi, in tale situazione, le pronuncia. La cannabis legale non sdogana detenzione marijuana e hashish di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2018 La legge 2 dicembre 2016, n. 242, che stabilisce la liceità della coltivazione della cannabis sativa L per finalità espresse e tassative, non si riferisce anche alla commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione - costituiti dalle inflorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish) - e, pertanto, le condotte di detenzione illecita e cessione di tali derivati continuano ad essere sottoposte alla disciplina del Dpr 9 ottobre 1990, n. 309, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 56737/2018, confermando il sequestro probatorio di circa 200gr di marjuana e 160 gr di hashish rinvenuti presso i locali di una srl di Forlì attiva nella commercializzazione del cannabis sativa. Per il tribunale il vincolo era giustificato “sulla base della necessità di verificare la precisa corrispondenza della marijuana sequestrata alla specie di canapa legalmente commerciabile ai sensi della legge 242/2016 nonché, se anche così fosse, il rispetto del limite di principio attivo posto dall’art. 4 della medesima legge, dal momento che il superamento ai sensi dei commi 5 e 7 della citata disposizione consente alla A.G. di disporne la distruzione”. Una motivazione condivisa dalla Suprema corte secondo cui “la cannabis sativa L, in quanto contenente il principio attivo Delta-9-THC, presenta natura di sostanza stupefacente sia per la previgente normativa che per l’attuale disciplina (costituita dall’art. 14 Dpr 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dall’art. 1, comma terzo, Dl 20 marzo 2014, n. 36, convertito dalla legge 16 maggio 2014, n. 79), in cui l’allegata Tabella prevede solo l’indicazione della Cannabis, comprensiva di tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione, e riferibile a tutti i preparati che la contengano, rendendo così superfluo l’inserimento del principio attivo Delta-9-THC”. Dunque, prosegue la Corte affermando un principio di diritto, “l’introduzione della legge 2 dicembre 2016 n. 242, stabilendo la liceità della coltivazione della “Cannabis Sativa L” per finalità espresse e tassative, non prevede nel proprio ambito di applicazione quello della commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish) e - pertanto - non si estende alle condotte di detenzione e cessione di tali derivati che continuano ad essere sottoposte alla disciplina prevista dal Dpr n. 309/90, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile”. Ragione per cui, la Cassazione ha respinto il ricorso che prospettava un “error in judicando in ordine alla astratta conformità al tipo legale di cui all’art. 73 Dpr n. 309/90 della fattispecie materiale sottoposta a giudizio in relazione alla marijuana ed all’hashish sequestrati al ricorrente, delle quali - conclude la decisione - non è neanche allegata la provenienza da coltivazioni lecite nel territorio italiano, ma loro importazione da produzioni estere, cosi esulando anche dalla stessa prospettazione difensiva volta ad estendere la liceità della coltivazione della canapa alla commercializzazione dei suoi derivati marjuana ed hashish”. Uso privato dell’auto di servizio solo se autorizzato specificamente di Daniela Casciola Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 19 dicembre 2018 n. 57517. L’uso dell’auto di servizio a fini privati è in via generale vietato presumendo la sua esclusiva destinazione a uso pubblico, a meno che non ci siano provvedimenti che consentano deroghe “puntuali e documentate”. Provvedimenti la cui esistenza e i cui contenuti devono essere oggetto di specifica prova se non si vuole incappare nel reato di peculato. Con questo principio la Cassazione penale, con la sentenza n. 57517, depositata ieri, mette il punto sull’ennesimo caso di utilizzo personale dell’auto di servizio. La vicenda vede protagonista un dipendente della Asl di Napoli che, in qualità di sindaco di un Comune, si faceva scarrozzare tra posto di lavoro e municipio dall’autista con l’auto di rappresentanza. La Cassazione ha respinto il suo ricorso contro la sentenza del tribunale di Napoli prima e della Corte d’appello poi che lo avevano condannato per peculato. La non utilizzabilità dell’auto a fini privati è logica conseguenza della sua destinazione a fini pubblici che deve ritenersi esclusiva in mancanza di atti amministrativi che ne autorizzassero l’uso privato. Di fronte a questo principio non hanno molto peso le testimonianze a favore rese dall’autista o la mancanza di un danno patrimoniale apprezzabile. A parte il fatto che - sottolineano i giudici - tragitti di pochi kilometri, ma molto frequenti e reiterati, hanno avuto il loro peso sulle casse del Comune non solo perché distoglievano l’autista dai propri compiti istituzionali ma anche e soprattutto per l’usura causata al mezzo e la spesa del carburante. Roma: “Rebibbia, figli uccisi in modo consapevole” di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 20 dicembre 2018 Alice Sebesta lanciò i piccoli dalle scale il 18 settembre scorso. Per lo psichiatra nominato dal Gip “è da considerare imputabile”. L’incidente probatorio è stato fissato per il 9 gennaio prossime. La donna si è giustificata: “L’ho fatto per salvarli dalla mafia”. La mamma assassina di Rebibbia era capace di intendere e volere quando ha ucciso i suoi bambini. Si trovava solo in uno stato psicotico, legato soprattutto all’abuso massiccio di marijuana. A disegnare lo stato mentale di Alice Sebesta la detenuta tedesca che il 18 settembre ha ucciso nel carcere di Rebibbia i figlioletti Faith, una femminuccia di 6 mesi e Divine, il maschietto di 19 mesi, approfittando di trovarsi per qualche minuto sola nelle scale che dal giardino conducono alla mensa del braccio, è stato lo psichiatra Valerio Mastronardi, nominato dal gip, proprio per accertare le capacità, l’eventuale imputabilità e la pericolosità della detenuta. Nella perizia, appena depositata, l’esperto ha specificato che la detenuta un mese prima del raccapricciante duplice delitto avrebbe abusato di sostanze stupefacenti, ma non potendosi ritenere una tossicomane cronica, il caso non si inquadrerebbe nell’incapacità a priori. Lo psichiatra, anzi ha parlato di “deliberata assunzione di sostanza stupefacente in dose massiva per un mese prima del fatto reato”. E quindi, a suo parere, è da considerare imputabile. Le conclusioni, appena depositate a palazzo di giustizia, verranno discusse nell’incidente probatorio fissato per il 9 gennaio davanti al gip Alessandra Minunni. Sarà un appuntamento complesso e delicato. La perizia infatti cozza con quella iniziale depositata dal consulente della procura, lo psichiatra Alessio Picello. L’esperto, che per l’occasione depositerà una seconda relazione, aveva ritenuto la detenuta incapace di al momento dei fatti, per un grave disagio mentale. Anche il difensore di Alice Sebesta, Andrea Palmiero, ha sempre evidenziato il dramma psicologico della donna, risultata ricoverata per anni in ospedali psichiatrici in Germania. E sul punto ha nominato un tecnico di fiducia, Gabriele Mandarelli. “Li ho uccisi per salvarli dalla mafia e dai pedofili”. “In Paradiso saranno al sicuro”. Alice Sebesta per giorni aveva pianto e, in maniera confusionale, si era giustificata così davanti al pm Eleonora Fini e all’aggiunto Maria Monteleone che l’avevano interrogata. Era stata proprio la procura evidenziando il comportamento della detenuta, anche prima dell’uccisione dei bambini, a sollecitare approfondimenti sul tema. Alice Sebesta, che era stata arrestata a fine agosto perché trovata in possesso di dieci chili di marijuana nascosti persino nella borsa dei pannolini, nelle due settimane di carcerazione aveva rubato più volte il latte di altri bimbi reclusi nel nido del carcere per berlo lei. Una volta, invece, aveva nascosto la pappa dei suoi piccoli e si era ostinata a non farli mangiare. Mentre in una mattinata in cui era particolarmente nervosa aveva fatto battere “involontariamente la testa contro una porta alla figlioletta più piccola”, così almeno aveva riportato in una relazione di servizio della polizia penitenziaria. Nessuno, però, aveva certificato la sua instabilità. La psichiatra della Asl RM2 che, incaricata dalla direzione del carcere di visitarla, infatti, non l’avrebbe mai incontrata, e ora è finita indagata per omissione di atti di ufficio. Dei due bambini, la più piccola era morta sul colpo. Per l’altro accertata la morte cerebrale era partito l’iter per l’espianto. La madre, però, non aveva potuto dare l’assenso: è stata ritenuta dal giudice non idonea, per le sue condizioni mentali. Monza: un’agente del carcere si toglie la vita. Sappe: “il ministero è assente” Il Giornale, 20 dicembre 2018 Il sindacato denuncia: “Benvoluta da tutti Governo senza strategia contro il disagio”. Tragedia privata nel carcere di Monza. Ieri una 41enne assistente capo del corpo di polizia penitenziaria, originaria della provincia di Messina e dal 1998 in servizio nel carcere di Monza, si è tolta la vita nella notte, sparandosi con la pistola d’ordinanza. La notizia è stata diffusa dal Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “La donna ha terminato il turno di servizio in carcere ieri alle 20 ma il marito, non vedendola tornare a casa, verso le 21 si è recato nel penitenziario - spiega il segretario generale Donato Capece - La donna, però, si era già allontanata e, nei pressi di un’area industriale adiacente la struttura detentiva, si sarebbe tolta la vita in macchina, dove è stata ritrovata cadavere”. “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei quattro Corpi di Polizia dello Stato italiano - commenta Capece -. Siamo sconvolti. La donna era benvoluta da tutti, molto disponibile, solare ed era sempre a disposizione degli altri. Per questo risulta ancora più incomprensibile il suo terribile gesto, tanto più se si pensa che era mamma di un bimbo di 10 anni”. Capece non entra nel merito delle cause che hanno portato l’assistente capo a togliersi la vita, ma invita a “evitare strumentalizzazioni”, mentre reputa “fondamentale e necessario comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto”. E sottolinea: “Non può essere sottaciuto, ma deve anzi seriamente riflettere la constatazione che negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 40 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 100. Non sappiamo se era percepibile o meno un eventuale disagio che viveva la collega. Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari l’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia sono in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta”. Per questo Capece chiede un incontro urgente al ministro della Giustizia Alfonso Bonafade e ai sottosegretari Jacopo Morrone e Vittorio Ferraresi chiedo un incontro urgente “per attivare serie iniziative di contrasto al disagio dei poliziotti penitenziari”. “È luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese - continua e conclude il segretario generale del Sappe: il fenomeno colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette “professioni di aiuto”, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e al gruppo di appartenenza, spesso come in Lombardia in condizioni di lavoro difficili aggravate dall’endemica carenza di agenti”. Aversa (Ce): pazienti maltrattati all’Opg, chiesti due anni di carcere per i medici imputati pupia.tv, 20 dicembre 2018 È terminata la requisitoria del pubblico ministero Ida Capone, dinanzi al giudice Orazio Rossi del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, a carico di 16 tra medici psichiatri e medici di guardia dell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Aversa. Per tutti, senza alcuna distinzione, l’accusa ha avanzato la stessa richiesta di condanna: 2 anni e 2 mesi di carcere ciascuno, senza la sospensione condizionale della pena. Tra i medici l’ex direttore sanitario Adolfo Ferraro, difeso dall’avvocato Domenico Ciruzzi. Imputati anche il dottor Cristofaro Diana (difeso dall’avvocato Salvatore Vitiello) e il dottor Francesco Pisauro (difeso dagli avvocati Raffaele Crisileo e Gaetano Crisileo). Oltre a Ferraro, Diana Cristofaro e Pisauro sono imputati i medici Nugnes, Borrelli, Andriani, Iaccarino, Principe, Pommella, Signoriello, Vassallo, Di Tommaso, Ruocco, Petrosino, Cristiano, Zagaria, Cappiello. Sono accusati tutti dei reati di maltrattamenti e di sequestro di persona ai danni di 27 ex internati nella struttura. I fatti contestati risalgono al periodo 2006-2011. Secondo il pubblico ministero, le vittime, alcune costituite parti civili, sarebbero state costrette a restare a letto per un periodo superiore a quello consentito e qualcuno sarebbe addirittura rimasto fermo nel letto per un diversi giorni senza che alcuno si prendesse cura di loro. Questa richiesta di condanna è stata basata su testimonianze acquisite, su consulenze tecniche e prove documentali e partì da una interrogazione parlamentare del senatore Ignazio Marino, cui segui una ispezione ministeriale e poi una inchiesta giudiziaria. L’Opg di Aversa, come gli altri manicomi giudiziari, non è più operativo da oltre tre anni e con legge dello Stato le sue competenze sono state trasferite alle Residenze per le misure di sicurezza (Rems) della Regione Campania. Per i primi di gennaio del prossimo anni ci sarà l’inizio delle arringhe dei difensori. Nel collegio difensivo anche gli avvocati Luigi Ciocio e Alessandro Motta. Ferrara: sottoscritta una convenzione per il reinserimento sociale dei detenuti estense.com, 20 dicembre 2018 Approvato dalla Giunta l’accordo per i lavori socialmente utili che verrà sottoscritto da carcere, Asp e Comune. Punta a favorire il reinserimento sociale delle persone detenute, attraverso il lavoro gratuito e volontario in progetti di pubblica utilità, la convenzione che è stata approvata dalla Giunta comunale e che sarà sottoscritta dal Comune di Ferrara, dall’Asp - Centro Servizi alla Persona di Ferrara e dalla Casa circondariale di Ferrara. Secondo il testo dell’accordo, la Casa Circondariale di Ferrara individuerà tra la popolazione detenuta un numero di soggetti per i quali sussistono le condizioni per l’ammissione al lavoro all’esterno per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, ed in particolare le persone prossime alla scarcerazione e le persone in semi libertà. Il Comune di Ferrara e l’Asp metteranno a disposizione dei detenuti opportunità di inserimento sociale per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, sia all’interno dei propri servizi, sia all’interno delle organizzazioni del Terzo Settore con le quali sono in atto accordi e convenzioni. Il Comune di Ferrara e Asp predisporranno, previo accordi con la Direzione dell’Istituto, il programma e il tipo di attività, il calendario, il luogo di svolgimento dell’attività, il funzionario responsabile per l’impiego proposto e il tutor che affiancherà e coordinerà le persone nello svolgimento delle azioni gratuite e volontarie. Il Comune di Ferrara, inoltre, attraverso la collaborazione con l’Asp, si impegna a garantire: la copertura assicurativa dei soggetti inseriti nei progetti di pubblica utilità, gli oneri relativi agli spostamenti dei detenuti e il rimborso per il pasto giornaliero. Grosseto: progetto “Togheter in rose”, nel carcere un percorso per uscire dalla violenza maremmanews.it, 20 dicembre 2018 Al via il percorso realizzato da Sam, lo spazio di ascolto per uomini maltrattanti gestito da Coeso SdS e Asl nell’ambito del progetto “Togheter in rose”. “Per contrastare la violenza sulle donne è necessario rieducare gli uomini”, spiegano i promotori. Sono cominciati mercoledì 12 dicembre gli incontri organizzati dal centro di ascolto Sam Grosseto all’interno del carcere, per incontrare alcuni detenuti che hanno aderito all’iniziativa. L’obiettivo è quello di poter aiutare gli stessi soggetti offrendo loro il servizio di consulenza e ascolto per uomini che agiscono violenza. Lo sportello Sam è aperto dal marzo 2018 e offre questo servizio anche alla popolazione attraverso uno spazio di ascolto nella palazzina di psicologia, nel centro direzionale della Asl Toscana Sud Est a Villa Pizzetti il venerdì pomeriggio. Sam, spazio ascolto uomini maltrattanti, nasce dal progetto “Together in rose: rafforzamento e potenziamento dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza e ai loro figli e per il rafforzamento della rete dei servizi territoriali”, che vede il Coeso Società della Salute capofila, l’Asl Toscana sud est e la rete Codice Rosa, le ex SdS Amiata Grossetana e Colline Metallifere, la Provincia di Grosseto e l’associazione Olympia De Gouges insieme per promuovere azioni a sostegno delle donne maltrattate. E proprio nei giorni scorsi, i professionisti di Asl e Coeso hanno fatto un primo incontro con il personale del Carcere e i detenuti che hanno deciso di aderire al percorso. “Abbiamo riscontrato una grande disponibilità - hanno spiegato Rita Mattafirri, psichiatra dell’Azienda Usl Toscana sud est insieme agli operatori dello sportello - da parte delle persone che hanno partecipato in maniera molto attiva. L’incontro è stato stimolante e interattivo. Adesso continueremo con i colloqui individuali per conoscere meglio le singole persone e calibrare le modalità di intervento, mentre da gennaio si prevede l’attivazione degli incontri di gruppo”. Per contrastare la violenza sulle donne, infatti, è fondamentale anche intervenire e coinvolgere gli uomini che agiscono violenza nelle relazioni affettive attraverso dei programmi volti a una responsabilizzazione. “Una maggiore consapevolezza da parte degli uomini violenti - ha detto Renza Capaccioli, responsabile dell’Unità funzionali servizi sociali residenziali e territoriali del Coeso SdS - determina la possibilità di cambiamento. È fondamentale inoltre poter riflettere e conoscere sulle conseguenze e la sofferenza che comporta una relazione violenta sulla donna ed i figli, sia nel breve che nel lungo periodo”. Anche per questo i programmi destinati agli autori di comportamento violento sono inseriti nell’ambito delle azioni di prevenzione sul tema della violenza contro le donne secondo quanto stabilito dalla convenzione di Istanbul del 2011. “La collaborazione con lo sportello Sam - ha sottolineato Maria Cristina Morrone, direttore della Casa circondariale di Grosseto - è un’occasione importante di confronto e di riflessione per i detenuti che ne fanno parte. Grazie a questo progetto si crea un ponte con il territorio grossetano e i suoi servizi, con il duplice obiettivo di far conoscere agli uomini uno spazio di ascolto specifico, che potranno frequentare anche quando avranno lasciato il carcere, ed entrare a far parte della rete di contrasto alla violenza di genere compiendo una vera opera di prevenzione a 360 gradi”. Lo sportello SAM Grosseto è aperto ogni venerdì dalle 15 alle 19, ed è collegato a un servizio di assistenza telefonica dedicata. Per informazioni è possibile telefonare al numero 337.1395542 o scrivere all’indirizzo mail: samcoeso@gmail.com. Venezia: i detenuti guide d’arte nelle chiese di Nicola Munaro Il Gazzettino, 20 dicembre 2018 Il progetto del Patriarcato per chi esce dal carcere. Moraglia: “Serve ripensare la pena e il suo percorso”. Ci sono le mezze parole guardinghe, tipiche del caso per un progetto che se ancora non è già stato messo nero su bianco, ha comunque le linee guida ben definite. Svelate direttamente ieri mattina dal patriarca Francesco Moraglia, a chiusura della visita al penitenziario maschile di Santa Maria Maggiore. E il luogo - come spesso capita - non è frutto del caso: perché l’idea è quella di trovare un accordo con le altre istituzioni cittadine per far lavorare i detenuto e gli ex detenuti nelle chiese e nei luoghi d’arte come custodi o - in certi casi - anche come guide. Un progetto di cui si è fatto alfiere il Patriarcato, nel tentativo di fare da collettore con le altre istituzioni della città e garantire un futuro a chi è appena uscito, o sta vivendo il carcere. “Vogliamo coinvolgere più soggetti possibili per aiutare a pensare il fine della pena e il suo accompagnamento in termini responsabili dato che ci sta a cuore il recupero delle persone”, ha commentato monsignor Moraglia lasciando il carcere dov’era arrivato con la direttrice Immacolata Mannarella. “C’è un progetto in buona fase di realizzazione, aspettiamo la risposta del sindaco che, in quanto persona di buona volontà, sono sicuro accetterà la nostra proposta”. Più nello specifico era entrato il cappellano della casa di reclusione, don Antonio Biancotto, prendendo spunto dalla spiegazione della tela dell’Adorazione dei Magi del Tintoretto da parte di un detenuto. “Si potrebbe trovare un accordo con l’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna, ndr) per far lavorare gli ex detenuti come custodi delle chiese”, si era lascito sfuggire il cappellano. “Questo appuntamento apre le celebrazioni del Natale nella nostra città - ha esordito Moraglia nell’omelia a cui hanno assistito una cinquantina dei 246 detenuti rinchiusi a Venezia - Ci fa dire che questo deve essere un Natale di speranza e di pace, magari l’ultimo lontano dalle vostre famiglie. Con voi - ha proseguito - voglio parlare della coscienza, che è dentro di noi in cui arriviamo soltanto noi e Dio. È lì, amici, che si annida la nostra storia e la nostra possibilità di scegliere: quando vediamo che una cosa è cattiva, non la dobbiamo fare anche se è impopolare. La coscienza è la nostra grande risorsa, credete in voi stessi”. A chiudere la celebrazione, una borsa a tracolla (con i colori dell’Inter, di cui è tifoso) regalata dai detenuti a monsignor Moraglia e una busta con 180 euro per un’adozione a distanza. Un messaggio il patriarca l’ha riservato anche ai lavoratori del Petrolchimico nella messa prenatalizia dedicata a loro: “Deve esserci responsabilità sociale nel lavoro”. Siena: disabilità, le voci dei detenuti negli audiolibri Redattore Sociale, 20 dicembre 2018 Il progetto “Le voci di dentro” alla casa circondariale della città toscana. I detenuti registrano audiolibri sulla storia e sulla cultura della città a beneficio dei non vedenti del territorio. I detenuti del carcere di Siena fanno gli audiolibri per i non vedenti. È il progetto che vede coinvolte, ormai da un paio d’anni, la Casa Circondariale di Siena e l’Unione Italiana Ciechi, il cui progetto si chiama “Le voci di dentro”. Di fatto, i detenuti registrano audiolibri sulla storia e sulla cultura della città di Siena a beneficio dei non vedenti del territorio. Gli audiolibri, che nel nostro Paese stanno trovando una diffusione sempre più ampia, costituiscono uno strumento culturale essenziale per le persone con disabilità visiva: tutti i grandi classici della letteratura sono reperibili in versione audio, ma non così il patrimonio librario riguardante la città di Siena. Di qui l’idea di creare una vera e proprio audioteca by Siena. La voce narrante è quella dei detenuti: ai non vedenti poco importa se il lettore abbia un’inflessione dialettale o il timbro della sua voce non sia impostato come quello di un attore teatrale. Ciò che rileva è la possibilità di disporre di uno strumento di conoscenza a costo zero. L’attrezzatura per la realizzazione del progetto (un dispositivo di registrazione, un microfono e poco più) l’ha fornita l’Unione italiana ciechi; la voce è quella dei detenuti che spendono parte della loro giornata in carcere per registrare libri. L’iniziativa si colloca nell’ambito delle attività di solidarietà di cui si rendono protagonisti i reclusi della Casa Circondariale. Non secondaria è la portata culturale del progetto utile a mantenere una pratica ormai in disuso, quella cioè della lettura ad alta voce con la quale, è noto, si stabilisce un’interrelazione cognitiva più intensa. “L’obiettivo più rilevante del progetto - ha spiegato il direttore del carcere Sergio La Montagna, che ha fortemente voluto questa iniziativa - è la condivisione di un impegno ben noto sia ai detenuti che ai non vedenti: l’abbattimento delle barriere (non solo quelle fisiche). Reggio Calabria: “Le voci di dentro”, conversazioni in carcere su giustizia e legalità Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2018 “Alessandro Manzoni avrebbe forse detto che era stato l’intervento della Divina Provvidenza, che fornisce il modo per spezzare il circolo che aggiunge male al male, appresa la notizia della scarcerazione delle due bambine di appena uno e tre anni, che da oltre undici mesi si trovavano innocentemente recluse nel carcere “G. Panzera” di Reggio Calabria con la propria madre. Ad appena un paio di giorni dalla testimonianza drammatica di quella stessa madre nigeriana resa in carcere alla presenza dei tanti magistrati, tirocinanti, professori, esperti di settore, detenuti e detenute, educatori, volontari, agenti di polizia penitenziaria ed i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria dell’istituto di reclusione e del Dap della Calabria, infatti, le bambine e la mamma sono uscite dal carcere, a seguito del provvedimento adottato presso il Tribunale di Lamezia Terme. Era lunedì 17 dicembre scorso, ed il carcere era affollato per la prima visita in occasione dell’inizio del progetto “Le voci di dentro: Conversazioni in carcere su Giustizia e Legalità”, promosso dal Garante Comunale dei detenuti, dall’Anm reggina e dal DiGiES dell’Università Mediterranea. Un incontro autentico, intenso, vero. Per quasi cinque ore ci si è dedicati a “vedere” il carcere, le persone detenute, gli spazi di vivibilità dei luoghi di detenzione e poi il dialogo alternato, serrato, sincero, fra magistrati, detenuti, detenute, docenti universitari, Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria, Garante. Conversazione fra persone, prima di tutto. La cifra di fondo dell’iniziativa può davvero riassumersi nel suo titolo. Questo è risultato evidente in tutti gli interventi: persone che vivono condizioni e ruoli differenti eppure persone che nel rispetto della dignità della pienezza umana si sono reciprocamente sforzate di parlarsi chiaramente, ufficialmente, proponendo le rispettive recriminazioni o aspettative per il futuro o rivisitazione del proprio passato o, al contrario, la necessità dell’intervento giudiziario, della sanzione penale, della privazione della libertà personale, della doverosa punizione dei fatti di reato, ma su tutto e tutti si è stagliata la persona umana, che accomuna tutti e tutti distingue a seconda delle scelte e delle responsabilità che si è chiamati ad assumere. Una lunga e faticosa elaborazione sui temi delicati della salute in carcere, della funzione rieducativa della pena, delle effettive possibilità di reinserimento sociale una volta usciti dal carcere, dello stigma, l’etichettamento, che un cognome, una parentela, una condanna, recano con sè, spesso, fino all’esclusione irreversibile dalle concrete possibilità di cambiare vita, di svolgere un lavoro onesto, di riprendere in mano le redini della propria esistenza. Eppure le buone provocazioni non sono mancate, specie quando si è “sfidato” benevolmente i detenuti a fare una scelta di legalità, di giustizia autentica, per smettere di ammorbare questa nostra terra dal cancro della criminalità che la soffoca e la impoverisce, costringendo i suoi figli migliori a dover andare via per potersi realizzare. O quando, nei loro diversi interventi, i detenuti dell’Alta Sicurezza, che hanno redatto un articolato documento, sottoponendo all’attenzione dei magistrati, dei docenti, del Garante e dell’Amministrazione Penitenziaria, molteplici problematicità connesse alla detenzione ed al generale sistema dell’esecuzione penale, hanno singolarmente sviscerato le loro personali sensazioni, argomentazioni, riflessioni sul tema del carcere e dell’uomo detenuto e dei rispettivi familiari, che spesso incolpevolmente pagano conseguenze di cui non sono responsabili. O, quando, ancora, i magistrati che sono intervenuti numerosissimi (circa cinquanta fra giudicanti, inquirenti e tirocinanti) hanno, con le rispettive sensibilità, espresso con forza il senso del loro essere persone che giudicano, condannano, assolvono, inquisiscono con l’alto senso della funzione esercitata, eppure senza mai dimenticare che si giudicano i fatti di reato, ma che i diritti delle persone, specie se detenute, vanno tutelati alla stregua della più esemplare delle sanzioni penali. Non sono mancati i primi frutti dell’iniziativa, in particolare alcune proposte concrete: ad esempio, l’istituzione del Polo penitenziario presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria; o ancora l’attivazione di uno sportello legale curato da tirocinanti del Master in Diritto e Criminologia del Sistema Penitenziario (promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane insieme al Garante); o la sottoscrizione di un protocollo d’intesa per la valutazione delle istanze, specie, in tema di colloqui anche telefonici, fra le persone detenute ed i loro familiari, avanzata dai rappresentanti dell’ANM; o, ancora, la possibilità, finalmente, di avviare il lavoro in carcere in maniera strutturale, anche per le detenute donne, magari attraverso l’attivazione della “Bottega di Michelangelo”, il laboratorio di marmi mai entrato in funzione, e rispetto al quale il Provveditore Parisi ha dato la più ampia disponibilità. Insomma un incontro davvero proficuo, oltre che autenticamente umano. Un incontro che comincia a scardinare quel muro che un detenuto ha definito “invisibile” e che separa i detenuti ed il resto della società. Un muro che, al contrario, un altro giovane detenuto vuole abbattere, cambiando vita: “io ho sbagliato tante volte nella mia vita” - ha detto recitando a memoria una lettera idealmente inviata ai suoi coetanei - “perché non ho voluto e non ho saputo dare ascolto a chi mi diceva che con il mio atteggiamento avrei fatto una brutta fine. E quella brutta fine poi l’ho fatta davvero finendo in carcere e rimanendoci per diversi anni. Fra poco finirò la mia detenzione. Ora qui sto lavorando e spero che quando uscirò potrò trovare un lavoro onesto e riprendermi gli anni che il carcere mi ha tolto. Eppure il carcere mi è servito. Qui ho capito di avere sbagliato. Voglio cambiare vita. Non commettete anche voi il mio stesso errore”. I tanti e profondi interventi che si sono alternati, in particolare da parte dei diversi magistrati intervenuti, purtroppo, per evidenti ragioni, non possono essere riportati. Ragion per cui si segnala per tutti l’intervento del dott. Gerardo Dominijanni, quale Presidente dell’ANM di Reggio Calabria. Vale comunque la pena di evidenziare che tutti i partner del progetto hanno partecipato sentendosi coinvolti e partecipi di un’iniziativa davvero arricchente, tanto professionalmente che umanamente. Il “muro invisibile” evocato dal detenuto, ora, pare farsi sempre più visibile, nel tentativo risoluto di cominciare ad abbatterlo. Gela (Cl): l’ergastolano al 41bis che studia diritto “mi hanno sequestrato i libri” di Rosario Cauchi quotidianodigela.it, 20 dicembre 2018 Ergastolano e sottoposto a regimi carcerari di massima sicurezza, il sessantunenne Antonio Rinzivillo è da decenni ormai ritenuto a capo dell’omonima famiglia di cosa nostra. Un comando gestito insieme al fratello Crocifisso, a sua volta ergastolano. Con l’inchiesta “Extra fines-Druso” è emerso il ruolo anche di un altro fratello. Per gli inquirenti, sarebbe Salvatore Rinzivillo il nuovo capo, “delegato” proprio da Antonio e Crocifisso. Nonostante il carcere a vita, Antonio Rinzivillo ha comunque fatto delle scelte. Non ha mai collaborato con la giustizia, ma studia diritto e adesso sostiene gli esami del corso di laurea dell’università di Sassari. È attualmente detenuto proprio nel penitenziario della città sarda. Un particolare emerso durante l’udienza del giudizio “Extra fines”, tenutasi davanti al collegio penale del tribunale. Tra gli imputati, c’è proprio il boss che ha voluto rendere dichiarazioni spontanee. “La mia cella è stata perquisita e mi sono stati sequestrati i libri - ha detto in video-collegamento - sto preparando l’esame di diritto penitenziario ma non ho più i libri”. Attraverso il suo legale di fiducia, l’avvocato Flavio Sinatra, ha avanzato direttamente in udienza la richiesta di dissequestro. Una perquisizione che risale ad alcuni giorni fa e che ha indotto il boss a chiedere di fare dichiarazioni spontanee dopo l’apertura del dibattimento. Civitavecchia (Rm): i detenuti diventano “coach” a sostegno dei compagni centumcellae.it, 20 dicembre 2018 Nella Casa Circondariale di Borgata Aurelia a Civitavecchia, nei locali della didattica, si è svolto l’incontro per la chiusura del III Corso di Peer Supporter, cioè il Progetto fortemente voluto dalla ASL Roma 4 teso sia alla crescita personale sia a i destinatari finali e cioè i detenuti in fase di fragilità psicologica o di effettivo disturbo psichiatrico. Diventare “coach” per sostenere i compagni detenuti più fragili è l’opportunità offerta ad alcuni detenuti che proprio oggi hanno portato la loro commossa testimonianza davanti a un pubblico fortemente coinvolto emotivamente che ha quindi compreso il grande valore terapeutico e etico di questo progetto . Si è trattato del momento di più alta emozione della mattina perché l’effetto del Progetto è quello di far emergere la parte migliore di noi che troppo spesso è nascosta nel più profondo inconscio e che riaffiora solo attraverso forti traumi e dove il ruolo di “Supporter” può anche arrivare a salvare una vita. “Il nostro Corso di Peer Supporter è un modello talmente efficace che è stato replicato non solo nel Lazio, ma anche a livello nazionale - ha dichiarato orgogliosamente il Direttore Generale della ASL Roma 4 Giuseppe Quintavalle - e presto in questa Casa Circondariale arriverà un Camper per le Mammografie, un dermatologo per la mappatura dei nei e qualsiasi altra esigenza dermatologica e avvieremo una efficace prevenzione per il diabete. La Carta dei Servizi si traduce in fatti concreti e non parole: finalmente il detenuto è trattato come si deve ad un cittadino del nostro Paese.” “I risultati significativi e soddisfacenti di quello che si sta facendo sono il prodotto di un felice lavoro di squadra tra l’Amministrazione penitenziaria, la Asl, la Polizia Penitenziaria, il Dsm, il Centro Diurno, il Garante dei Detenuti della Regione Lazio e gli psicologi” ha dichiarato Patrizia Bravetti, Direttore della Casa Circondariale , nel suo discorso di saluto che ha aperto l’Incontro odierno. “Da soli non si va da nessuna parte e con questa squadra abbiamo trovato la soluzione per occupare correttamente il tempo umano e detentivo che è anche, molto spesso, occasione di cura e recupero personale per chi ha problemi psicologici e psichiatrici”. L’incontro è stato concluso dalla Responsabile del Progetto “Fortezza” con la presentazione del Laboratorio teatrale, cioè il teatro come strumento di prevenzione e riabilitazione del disagio psichico e dei disturbi da uso di sostanze negli Istituti penitenziari di Civitavecchia in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale della ASL Roma 4 nella Sezione di Infermeria della Casa Circondariale e presso la Casa di Reclusione. Al termine della Presentazione è stato proiettato un trailer del lungometraggio “Fortezza” che dovrà promuovere l’integrazione e inclusione sociale e prevenire il disagio psicologico. Mantova: in carcere si insegna a fare il perfetto caffè espresso cronachedigusto.it, 20 dicembre 2018 L’arte di fare il caffè come possibilità di riscatto. È questa la visione alla base del progetto di sostegno promosso dall’Associazione volontari “Centro Solidarietà Carcere” di Mantova al quale ha recentemente preso parte La San Marco Spa, storica azienda di Gradisca d’Isonzo (GO) produttrice di macchine da caffè, macinadosatori e altre attrezzature professionali per bar a ristoranti, tra le più conosciute al mondo. Avviato lo scorso mese di ottobre, con una prima edizione che ha riscosso grande successo sia da parte degli organizzatori che dei partecipanti, il progetto ha coinvolto 11 detenuti della Casa Circondariale di Mantova in un corso accelerato di caffetteria suddiviso in tre diverse giornate, per una durata totale di 18 ore. Alla guida del corso, la trainer Renata Zanon, vincitrice della tappa Espresso Italiano Champion 2018 di Conegliano (TV), che ha accompagnato i partecipanti alla scoperta delle regole d’oro per l’estrazione di un buon caffè espresso e delle tecniche fondamentali per la creazione di gustosi cappuccini e Latte Art. Al termine delle lezioni, ciascun partecipante è stato sottoposto ad un piccolo esame finale ed ha ottenuto un attestato di frequenza che potrà essere esibito ai fini del reinserimento nel mondo del lavoro. Il progetto, patrocinato da Giuliano Bianchi della Lubiam srl di Mantova, ha visto l’esclusiva fornitura di un modello automatico 100 Touch La San Marco con il quale alunni e insegnante hanno potuto cimentarsi in entusiasmanti prove pratiche e dimostrazioni. “Poter far pratica utilizzando una macchina La San Marco ha significato molto per i ragazzi.” - racconta la Zanon - “Il modello utilizzato, infatti, non solo li ha proiettati in una dimensione professionale reale, simile a quella che mi auguro possano trovare una volta usciti dal carcere, ma ha anche permesso loro di comprendere l’importanza di lavorare con una macchina affidabile e sicura, in grado di garantire la massima qualità del prodotto in tazzina”. Venezia: come sensibilizzare la comunità sul tema del recupero di “chi ha sbagliato”? di Selina Trevisan voceisontina.eu, 20 dicembre 2018 Incontro a Zelarino dei cappellani, religiosi, rappresentanti dei volontari che operano nelle strutture carcerarie del Nordest. Si sono incontrati nuovamente nei giorni scorsi a Zelarino (Venezia) - alla presenza dell’arcivescovo di Gorizia mons. Redaelli, delegato per tale ambito dalla Conferenza Episcopale Triveneto - i cappellani, le religiose e i rappresentanti dei volontari che operano nelle strutture carcerarie maschili e femminili del Nordest. Al centro della riunione la riflessione e il dialogo tra i presenti su come sensibilizzare le comunità cristiane di questo territorio sul tema del recupero e del reinserimento sociale di “chi ha sbagliato” e, nello stesso tempo, come comunicare meglio e in modo più incisivo i segni di speranza e la “spinta evangelica” che muove l’azione pastorale della Chiesa in tale contesto per riuscire a toccare maggiormente le menti e i cuori della gente e quindi riuscendo anche ad intervenire e ad influire così sulla “mentalità corrente”. Si è osservato, nel corso del dialogo, che il Vangelo e le opere di misericordia corporali e spirituali hanno sempre una forza e un’autorevolezza proprie - che spesso percorrono “altre vie” e modalità rispetto al comune sentire - e hanno perciò una loro rilevanza che va valorizzata lasciando che “parli” alle menti e ai cuori. Per il coordinatore triveneto dei cappellani delle carceri don Antonio Biancotto si tratta - soprattutto di fronte a questioni “calde” come la sicurezza, l’integrazione e le stesse preoccupazioni per l’identità nazionale - “di comprendere meglio le istanze e le paure che portano talora una parte della nostra gente ad avere una mentalità non pienamente evangelica. Bisogna riuscire ad entrarci dentro e poi magari si potrà aprire qualche porta e prospettiva nuova, dall’orizzonte evangelico più ampio”. L’incontro ha poi ripreso ed approfondito anche i temi rilanciati dal recente convegno nazionale - tenutosi a Montesilvano (Pescara) alla fine dello scorso mese di ottobre con la presenza di cappellani, religiose, operatori pastorali e volontari dell’intero Paese - a partire specialmente dalla questione della giustizia “riparativa” o “riconciliativa” e della relativa attività di “mediazione penale”. Le azioni in tal senso - più sviluppate sinora con i minori che non con le persone adulte - sono particolarmente delicati perché si tratta di operare favorendo forme di incontro, dialogo, vicinanza e riconciliazione tra vittime e colpevoli; c’è da consolare e toccare il cuore delle vittime purificandolo dall’astio o dal risentimento e c’è da agevolare la presa di coscienza del male arrecato in chi lo ha commesso (con la necessità di un recupero e di una riparazione da percorrere). E anche qui c’è, inoltre, un lavoro costante di sensibilizzazione da svolgere all’interno della comunità cristiana e nel più ampio contesto sociale. La riunione triveneta di quanti operano nelle strutture carcerarie del Nordest è, infine, proseguita con uno scambio di esperienze e testimonianze su alcune iniziative realizzate localmente, di particolare impatto, e che hanno portato ad incrementare la conoscenza e i contatti delle comunità cristiane con le persone in carcere. Terni: iniziative della Caritas a favore dei detenuti umbriajournal.com, 20 dicembre 2018 Caritas, Iniziative a favore dei detenuti del carcere di Terni La solidarietà, l’accoglienza e la vicinanza ai poveri e bisognosi della città vede sempre impegnate, in particolare modo nel periodo natalizio, la Caritas diocesana e l’associazione di volontariato San Martino. In occasione del Natale, sono stati donati alla Casa Circondariale di Terni 300 panettoni della pasticceria Sant’Angelo per il pranzo di Natale e per quello del nuovo anno. Inoltre, come ormai da diversi anni i volontari della Caritas, che durante l’anno attraverso il centro di ascolto hanno un continuo contatto per dare aiuto materiale e spirituale ai detenuti, organizzano momenti di festa insieme con il concerto della corale “San Francesco” di Terni il 28 dicembre, con le tombolate del 27 dicembre, 2, 3 e 4 gennaio 2019 alle 14 con tanti premi utili alle esigenze dei detenuti. Una solidarietà estesa che si avvale del contributo di tanti benefattori che anche quest’anno per il Natale hanno effettuato raccolte alimentari, come gli studenti universitari, quelli del liceo artistico a favore degli Empori solidali di Terni e Amelia. È giunta al sesto anno la raccolta promossa dal Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi di Perugia sede di Terni fra le studentesse, gli studenti, gli ex-studenti, i docenti, tutto il personale, in occasione del Natale, a favore della Caritas diocesana di Terni-Narni-Amelia e della San Vincenzo dè Paoli. Una raccolta di generi alimentari a lunga conservazione ed una raccolta di beni destinati ai bambini (matite, penne, colori, quaderni, libri di fiabe e di divulgazione scientifica, giocattoli anche usati, animali di peluche, strumenti musicali giocattolo) che saranno consegnati il 20 dicembre alla presenza del vescovo Piemontese, dal professor Loris Nadotti e dalla professoressa Cristina Montesi, ai responsabili delle associazioni caritative. Gli studenti e docenti del liceo Artistico di Terni, per il quinto anno, hanno effettuato la raccolta di prodotti da destinare all’emporio solidale della Caritas diocesana che saranno consegnati il 22 dicembre al direttore della Caritas Ideale Piantoni. Anche gli immigrati dei corridoi umanitari accolti a Capitone, Sambucetole e Amelia sono stati visitati in questi giorni dal direttore della Caritas che ha portato doni e dolci natalizi. In questo periodo invernale di emergenza freddo, come avviene da diverse anni, la Caritas diocesana e l’associazione di volontariato San Martino offrono ospitalità nelle proprie strutture di accoglienza e in alcuni locali appositamente predisposti, alle persone che si trovano in difficoltà e senza fissa dimora. Tutti possono accedere, previo colloquio nei centri di ascolto e accettando i regolamenti interni alle case riguardo alla civile e normale convivenza. La Chiesa ha offerto sempre accoglienza di emergenza e anche nei prossimi mesi, oltre all’alloggio è possibile avere pasti caldi presso la mensa San Valentino che è aperta in orario prolungato durante i mesi invernali. Milano: “GrandeAle” e San Vittore contro le leucemie infantili di Paola Fucilieri Il Giornale, 20 dicembre 2018 La onlus intitolata al piccolo mancato nel 2014 entra in carcere e coinvolge la polizia penitenziaria. “Ale è stato da subito un bambino speciale, dotato di una sensibilità particolare che lo rendeva attento agli altri e desideroso di aiutarli. Durante la sua malattia sognava di trovare la formula magica per aiutare i dottori a guarire tutti i bambini malati come lui, ma andando anche oltre, desiderava venisse scoperto il modo per evitare che altri piccoli potessero ammalarsi. Il vuoto che ci ha lasciato non è raccontabile, ma quello che è successo dopo di lui dà un senso alla sua breve vita: noi e la sua sorellina Sofia Maria abbiamo fatto del suo sogno il nostro”. Luisa Mondella e Giorgio Maria Zancan, genitori di Alessandro Maria, sorridono sempre e guardandoli, sentendoli parlare del loro bambino - mancato nel 2014 all’età di dieci anni dopo due di lotta contro una grave e rara forma di leucemia, la linfoblastica acuta di tipo T - si comprende che per salvarsi da un dolore che annienta, come quello della perdita inspiegabile e sconvolgente di un figlio, non c’è altra strada che fare del bene e mettercela tutta per realizzare quelli che erano i suoi desideri e le sue speranze. Senza mai smettere di donare amore. È così che questi due genitori e la loro figlia hanno fondato la onlus GrandeAle (@fond.alessandromariazancan) come il bambino era solito soprannominarsi durante l’ultimo periodo della sua vita, che opera principalmente all’interno del San Gerardo di Monza, tra i più importanti centri europei per la cura delle leucemie pediatriche e dov’è stato ricoverato il loro piccolo. “Quello che è successo dopo di lui dà un senso alla sua breve vita” ha spiegato Luisa Mondella qualche giorno fa alla messa natalizia all’interno della sala polivalente del carcere di San Vittore a cui, oltre a tutto il personale della polizia penitenziaria e al suo comandante Manuela Federico, hanno partecipato il provveditore regionale alle carceri Luigi Pagano, il direttore della casa circondariale, Giacinto Siciliano e diversi operatori civili. Un incontro casuale tra questa madre coraggio e la Federico, infatti, ha portato la storia del piccolo grande Alessandro e il suo messaggio di speranza che travalica la vita e la morte anche all’interno delle mura del carcere più noto d’Italia. Dove non solo la comandante ha organizzato una raccolta fondi tra il personale della Penitenziaria vendendo oltre 150 deliziosi braccialetti d’argento placcati oro rosa della fondazione, ma è andata personalmente con una decina di poliziotti nel reparto del San Gerardo dove vengono ricoverati questi piccoli malati, portando loro un regalo natalizio e momenti di divertimento. Cosa rende speciale la GrandeAle Onlus è presto detto: tutti gli obiettivi che il piccolo Alessandro si era prefisso, come mission, fanno continuamente progressi. Anche grazie al contributo e all’impegno costante ed entusiastico dei suoi famigliari, del dottor Giuseppe Gaipa, del presidente del comitato scientifico Momcilo Jankovic (“guru in materia di leucemie e un vero angelo tra i bambini malati e i genitori” spiega Mondella) la ricerca e la prevenzione sulle leucemie linfoblastiche acute ha già fatto in questi anni notevoli passi in avanti con un abbassamento della percentuale dei casi resistenti alle cure. Inoltre la Onlus, proprio come avrebbe desiderato Ale, finanzia fortemente il supporto ludico e psicologico dei piccoli ricoverati attraverso il lavoro apprezzatissimo di Francesca Ieva, l’animatrice e della psicologa infantile Emanuela Schivalocchi, quindi, grazie al Fondo GrandeAle e alle specifiche indicazioni di una assistente le famiglie dei piccoli malati vengono aiutate a risolvere le situazioni più disagiate. Infine la fondazione, dopo aver ottenuto il permesso del Comune e di tutte le famiglie, sta sistemando il campo 74, cioè il campo dei bambini del cimitero Maggiore, dove riposa anche Ale, in parte comprensibilmente trascurato da quei genitori che, dopo la terribile perdita del loro bimbo, non ce l’hanno più fatta a far visita al luogo dov’è stato deposto. L’Onu ha approvato il Global Compact sull’immigrazione. L’Italia si è astenuta La Stampa, 20 dicembre 2018 I voti a favore sono stati 152, Stati Uniti contrari con altri quattro Paesi; 11 non si non si sono espressi. L’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato il Global Compact sull’immigrazione al quale la scorsa settimana avevano aderito i 164 Paesi partecipanti alla conferenza di Marrakech. Nella votazione al Palazzo di Vetro, l’Italia si è astenuta, insieme ad altri 11 Paesi, mentre sono stati 152 i voti a favore, e cinque quelli contrari, tra i quali quelli di Stati Uniti ed Ungheria. Oltre a Stati Uniti ed Ungheria hanno votato contro Israele ed altri due Paesi della Ue, Repubblica Ceca ed Ungheria. Tra gli astenuti oltre all’Italia, l’Austria, l’Australia, la Svizzera e la Bulgaria. Il Belgio ha votato a favore nonostante ieri il premier Charles Michel si sia dimesso a seguito della crisi del suo governo provocata dalle dimissioni dei ministri della Nuova Alleanza Fiamminga, usciti dal governo contestando il sì del premier al Global Compact sull’immigrazione. Il governo italiano decide di non decidere e rinvia sine die il Global Compact e la conta all’interno della maggioranza. Come da previsioni la Camera ha dato il via libera alla mozione di Lega e M5S, che impegna il governo a decidere sulla firma o meno dell’accordo proposto dall’Onu, dopo aver riferito all’assemblea e dopo un approfondito dibattito parlamentare. Non è tutto. L’esecutivo, prima di firmare o meno il documento che stabilisce alcune linee guida nella gestione dell’immigrazione in tutto il mondo, intende valutare i primi mesi di applicazione per gli altri paesi già firmatari. Bocciati i documenti proposti da Fratelli d’Italia (contrari alla firma), Pd e Leu (favorevoli). Al di là del merito dell’intesa, che non è vincolante, il Global compact for migration rischia di essere un terremoto nell’esecutivo gialloverde. Salvini non ha dubbi: “La posizione mia e della Lega è assolutamente contraria, perché sono scelte che spettano ai singoli Stati”. Il governo italiano, secondo il titolare dell’Interno, “ha fatto una scelta precisa: a Marrakesh non c’era e non ha firmato quel testo. Mi auguro che l’intera coalizione resti compatta su questo tema”. Più cauto il premier Giuseppe Conte (che in precedenza aveva espresso parere favorevole): “L’importante è entrare nel merito. Il Global compact non è lo strumento per valutare se l’Italia è nel consesso dei grandi”. Fondamentale, ribadisce, è non parteciparvi “emotivamente” altrimenti “si rischia la crisi come in Belgio”. Il vero problema resta quindi nel Movimento 5 Stelle, diviso profondamente sul tema, con l’ala più vicina a Roberto Fico indiscutibilmente a favore dell’accordo, mentre l’altra più propensa a condividere la posizione della Lega. “Per forza dobbiamo sederci al tavolo con tutti gli altri Paesi del mondo per affrontare questa problematica” dei migranti, ricorda il presidente della Camera. “Ed è chiaro che a quel tavolo ci devi stare e firmare un patto che affronti il fenomeno migratorio con un approccio globale, che poi è la posizione dell’Italia. Ogni Stato deve fare la sua parte”, pungola la terza carica dello Stato. Critiche le opposizioni con in prima linea Giorgia Meloni, firmataria della mozione per il “no”: “Fratelli d’Italia si batterà fino alla fine perché l’Italia dica no al Global Compact e continuiamo a non capire la posizione della maggioranza e in modo particolare della Lega che finora ha sempre detto di voler difendere i nostri confini”. “Anche sul Global Compact il governo è allo sbando - twitta Maurizia Martina - maggioranza chiede di rinviare il voto. Giocano la loro propaganda sulla pelle del Paese ancora una volta”. “L’Italia non può permettersi questa totale assenza di credibilità”, tuona Francesco Lollobrigida (Fdi). Guterres: bene voto Onu, auspico nuove adesioni - Il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres ha dato il benvenuto all’adozione da parte del Global Compact per la Migrazione auspicando che i paesi che hanno scelto di rimanere fuori dal processo ne riconoscano il valore e rivedano la loro posizione. “Il Global Compact è un accordo non legalmente vincolante che riafferma i principi fondamentali della nostra comunità globale, tra cui la sovranità nazionale e i diritti umani universali, indicando allo stesso tempo la strada verso una azione umana e ragionevole a beneficio dei paesi di origine, transito e destinazione e degli stessi migranti”, ha detto il capo dell’Onu. Passa mozione M5s-Lega, Italia rinvia - Mentre l’Assemblea generale dell’Onu approva il Global compact con l’astensione dell’Italia, la maggioranza rinvia ogni decisione. L’Aula della Camera ha approvato la mozione di M5S e Lega che impegna il governo a “rinviare la decisione in merito all’adesione dell’Italia” “in seguito ad una ampia valutazione con riferimento alla sua effettiva portata” al “Patto globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare”, adottato il 12 dicembre dalla Conferenza Intergovernativa di Marrakech in Marocco con i “si” di 164 paesi e presentato come la più ampia iniziativa strategica di revisione dei flussi migratori e della loro gestione. Bocciate, invece, tutte le altre mozioni, che prevedevano di impegnare il governo da subito a sottoscrivere o meno l’accordo. L’opposizione protesta per questa scelta attendista, decisa dalla maggioranza per sopire le divisioni al suo interno tra la Lega che si oppone alla firma e una parte del Movimento Cinque Stelle che, a partire dal presidente della Camera Roberto Fico, chiede che l’Italia si sieda al tavolo dell’accordo, “per collaborare e poter firmare un patto che renda il fenomeno migratorio culturalmente con approccio globale che è la posizione dell’Italia”. Migranti. No al Global compact. Fico si scaglia contro Lega e M5S di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 dicembre 2018 Il via libera Onu sui migranti riapre lo scontro, Roma congela l’adesione. E Tunisi ferma i rimpatri. Il presidente della Camera: “L’Italia collabori e firmi per la gestione globale dei migranti”. La replica di Salvini: “Lega contraria, sono scelte che toccano agli Stati”. Una mozione congiunta Cinque Stelle-Lega per prendere tempo e occultare le divisioni interne alla maggioranza in materia di immigrazione. A leggere le dichiarazioni dei leader dei due schieramenti è questa la sensazione che si ricava dopo la scelta di rinviare ogni decisione sul Global compact, il Patto per una migrazione sicura approvato il 12 dicembre durante la conferenza di Marrakech da 164 Paesi, al quale l’Italia finora ha scelto di non aderire. E un nuovo problema per il governo arriva dalla Tunisia, con la comunicazione che non saranno più accettati “rimpatri forzati da parte dei Paesi di accoglienza”. Dunque torna piena di ostacoli la strada - che secondo il ministro dell’Interno Matteo Salvini era stata spianata - di far rientrare migliaia di irregolari sbarcati negli ultimi anni e poi rimasti. Global compact - La questione Global compact è stata riaperta dall’Assemblea generale dell’Onu che lo ha approvato con l’astensione dell’Italia. Ieri si è però deciso di “impegnare il governo a rinviare la decisione in merito all’adesione in seguito ad una ampia valutazione con riferimento alla sua effettiva portata”. Le opposizioni hanno protestato, ma il vero nodo da sciogliere appare quello interno ai due partiti che sostengono l’esecutivo. Mentre il presidente della Camera Roberto Fico chiede che l’Italia si sieda al tavolo dell’accordo, “per collaborare e poter firmare un patto che consenta di affrontare il fenomeno migratorio con un approccio globale che è la posizione dell’Italia”, Salvini chiude in maniera drastica: “La posizione mia e della Lega è assolutamente contraria, perché sono scelte che spettano ai singoli Stati. Critico chi mette tutti i migranti sullo stesso piano. Bisogna mettere delle regole. Il governo italiano ha fatto una scelta precisa: a Marrakech non c’era e non ha firmato quel testo. Mi auguro che l’intera coalizione resti compatta”. In mezzo il premier Giuseppe Conte, secondo il quale “abbiamo parlamentarizzato la discussione, l’importante è entrare nel merito”. I rimpatri - E una crisi rischia di aprirsi tra Roma e Tunisi. Ieri mattina il ministro degli Affari sociali, Mohamed Trabelsi, ha dichiarato che i 200 mila migranti tunisini illegali che si trovano all’estero “hanno il diritto di accedere a servizi e integrarsi nei Paesi di accoglienza”, quindi “il nostro governo è pronto a rimpatriarli se lo vogliono, ma denuncia le misure unilaterali di alcuni Paesi di accoglienza”. Un messaggio fin troppo esplicito all’Italia, che attualmente ne riporta indietro circa 50 a settimana ma vuole aumentarli perché aveva spiegato Salvini, “per riportarli a casa ci vorranno 80 anni”. E invece adesso dovrà fare i conti con questa nuova linea. Una maratona con 34 mila nomi di migranti morti di Luca Kocci Il Manifesto, 20 dicembre 2018 Ci vogliono ventinove ore consecutive per leggere tutti i nomi dei 34.361 uomini, donne, bambini e bambine morti nel Mediterraneo, sui sentieri di montagna o lungo le strade e le ferrovie tra il 1993 e il 2018 nel tentativo di raggiungere l’Europa dall’Africa e dal Medio Oriente. Verranno proclamati ad alta voce in piazza Grande, a Modena, dalle 8 del mattino di sabato 22 dicembre fino alle 13 di domenica 23, senza sosta, anche di notte, in una lunga staffetta di voci che si alterneranno in una inedita “Maratona dell’umanità”. Ci sarà il sindaco Gian Carlo Muzzarelli, l’arcivescovo mons. Erio Castellucci, la parlamentare europea Cecile Kyenge (che il senatore leghista Roberto Calderoli paragonò ad un “orango” e che ora andrà a processo per diffamazione dopo che la Corte costituzionale ha sentenziato che l’ex ministro non può godere della “insindacabilità sugli insulti”), i Modena City Ramblers, i rappresentanti delle comunità straniere sul territorio, il mondo della scuola, dell’informazione, dello sport, del terzo settore e tutti i cittadini e le cittadine che vorranno aggiungersi, anche all’ultimo momento. Molte le associazioni coinvolte, laiche e cattoliche, coordinate dal Centro servizi per il volontariato di Modena: le Acli, Amnesty International, gli scout dell’Agesci, i partigiani dell’Anpi, l’Arcigay, la Cgil, il Coordinamento per la democrazia costituzionale, le Donne in nero, Emergency, Libera, Mani Tese, il Movimento nonviolento, diverse parrocchie e scuole del territorio. Tutte insieme per “riconoscere dignità a ognuna delle persone morte nel mare Mediterraneo o ai confini d’Europa, nominandole una a una, per fermare l’emorragia di umanità che sta abbrutendo la nostra società”. Non solo numeri (appunto 34.361, che frattanto sono diventati molti di più), ma nomi - quelli pubblicati dal manifesto, lo scorso 22 giugno (e da Internazionale, dal britannico Guardian e dal tedesco Tagesspiegel) con un inserto speciale di 56 pagine della lista curata dall’associazione olandese United for Intercultural Action - e soprattutto storie di donne e uomini che non ce l’hanno fatta, respinti dalla Fortezza Europa. C’è chi è annegato nel Mediterraneo; chi ha tentato di attraversare a nuoto il fiume Evros, tra Turchia e Grecia, ed è stato risucchiato dalla corrente; chi è soffocato nel cassone di un camion o congelato sul tetto di un treno; chi è morto di freddo attraverso le Alpi oppure lungo la Balkan Route. “La maratona dell’umanità è una testimonianza, una sfida a recuperare il senso dell’essere umani e una denuncia della tragedia infinita” provocata dalle politiche dei muri e dei respingimenti, spiegano gli organizzatori. “Un lungo elenco, ma ancora parziale, che prende avvio nel 1993, e attraversa quindi diversi anni e diversi governi, e provoca una vertigine ad ascoltarlo. Per questo vogliamo leggere tutti i nomi della lista, perché nessun uomo è un’isola, e la morte di questi uomini, donne e bambini ci sminuisce. Tutti”. In Italia 103 profughi sottratti ai lager libici. Tra loro una neonata di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 20 dicembre 2018 Nuovo “volo umanitario” organizzato dal governo italiano insieme all’Acnur. L’atterraggio nell’aeroporto militare di Pratica di Mare (Roma): 51 andranno in strutture della Papa Giovanni XXIII. La prima a scendere la scaletta dell’aereo è stata una giovane famiglia eritrea. Papà, mamma e una neonata di appena 12 giorni, Solinia, nata sul suolo libico a ridosso della data di partenza. I due sposi, con lei in attesa della piccola, sono stati per 8 mesi rinchiusi nelle carceri libiche. Una gravidanza sofferta, portata avanti, in una cella senza luce e senza finestre, dalla giovane eritrea con fede e coraggio, lontano dal marito (rinchiuso nel braccio riservato agli uomini). Suo marito non è stato meglio. Alla domanda su cosa gli sia accaduto dentro quella prigione, abbassa lo sguardo e scuote la testa: “La Libia è brutta”, dice soltanto. Entrambi coccolano la piccola Solinia, il loro tesoro, venuta alla luce quando erano già fuori da quel lager, affidati alle cure del personale dell’Acnur della struttura di Tripoli, aperta dal 4 dicembre. Il “volo umanitario” che li ha portati in Italia è atterrato alle quattro di pomeriggio su una pista dell’aeroporto militare di Pratica di Mare, nei pressi di Roma, con un paio d’ore di ritardo rispetto all’orario ipotizzato. Stavolta, a differenza del primo aereo giunto dal Niger a metà novembre, il volo è partito direttamente da Tripoli. A bordo, 103 richiedenti asilo (il doppio rispetto ai 51 arrivati la volta scorsa) originari per lo più dello Yemen, del Sudan e del Corno d’Africa, dilaniati da conflitti. La famigliola eritrea verrà ospitata, insieme ad altri 49 profughi, dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Saranno suddivisi in piccoli gruppi in alcune delle 201 case della realtà fondata da don Oreste Benzi (12 case si trovano a Rimini, 5 in provincia di Ravenna e 34 in provincia di Massa-Carrara). Gli altri richiedenti asilo dovrebbero trovare posto in altre realtà d’accoglienza nel territorio nazionale. “Con questo corridoio umanitario abbiamo salvato interi nuclei familiari: donne, uomini e bambini provenienti da Sudan, Etiopia, Eritrea e Yemen strappate dalle prigioni libiche” spiega Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità. Adesso, aggiunge,”saranno accolti nelle nostre case dove potranno ricevere il sostegno necessario per superare i traumi subiti ed iniziare una nuova vita”. Gli operatori della Papa Giovanni XXIII lavoreranno “per l’integrazione di queste famiglie, inserendo i bimbi a scuola e cercando un lavoro per loro”. Non è semplice, osserva Ramonda, “ma non si può parlare di vera accoglienza, senza una reale integrazione”. A metà novembre, accogliendo dopo l’atterraggio il precedente gruppo di richiedenti asilo provenienti dal Niger e per lo più di nazionalità sudanese, etiope e somala (fra loro, c’erano diversi nuclei familiari e alcuni disabili), il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva annunciato che ci sarebbero stati presto altri arrivi: “Intendiamo spalancare le porte dell’Italia a chi scappa dalla guerra - aveva detto il ministro -. L’unico arrivo possibile per donne e bambini disabili è in aeroplano, i barconi no, sono decisi dai criminali che comprano armi e droga”. Amnesty ed Element AI accusano Twitter: “livelli-shock di attacchi online contro le donne” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 dicembre 2018 Dopo la denuncia dello scorso marzo, Amnesty International - questa volta insieme ad Element AI, azienda produttrice di software per l’intelligenza artificiale - torna ad accusare Twitter per i livelli-shock di attacchi online contro le donne. Grazie a Troll Patrol, un progetto finanziato dal basso che ha coinvolto oltre 6500 volontari di 150 stati nell’analisi di megadati, sono stati presi in rassegna i tweet inviati nel corso del 2017 a 778 donne che svolgono la professione politica o giornalistica nel Regno Unito e negli Usa. Le esponenti politiche statunitensi e britanniche seguite nello studio provengono da diversi schieramenti. Le giornaliste sono state selezionate da vari organi d’informazione dei due paesi, tra cui The Daily Mail, The New York Times, Guardian, The Sun, GalDem, Pink News e Breitbart. Ecco i principali risultati. Le donne nere sono risultate prese di mira in modo sproporzionato, avendo l’84 per cento di probabilità in più di essere, rispetto alle donne bianche, menzionate in tweet offensivi o problematici. Il 7,1 per cento dei tweet inviati alle donne seguite nello studio sono risultati offensivi o problematici: questa percentuale si traduce in 1.100.000 tweet riferiti a 778 donne in un anno, ossia un tweet ogni 30 secondi. Le donne di colore (nere, asiatiche, latinoamericane e di origine mista) hanno il 34 per cento in più di probabilità di essere menzionate in tweet offensivi o problematici rispetto alle donne bianche. Le offese online contro le donne non conoscono frontiere politiche: sono state prese di mira esponenti politiche e giornaliste liberali e conservatrici, di destra e di sinistra. La conclusione è drastica: Twitter è uno spazio in cui a razzismo, misoginia e omofobia è permesso di proliferare praticamente incontrastati. Amnesty International chiede da tempo a Twitter di rendere noti i dati sul numero e la natura delle offese pubblicate sulla piattaforma, ma finora non ha ricevuto risposte. Ciò nasconde la dimensione del problema e rende difficile predisporre soluzioni efficaci. Twitter ha risposto alla ricerca di Troll Patrol chiedendo chiarimenti sulla definizione di “problematico”, “rispetto alla necessità di proteggere la libera espressione e di assicurare che le politiche [dell’azienda] siano chiaramente e rigorosamente definite”. I contenuti offensivi, che peraltro violano le stesse regole che Twitter si è data, sono tweet che promuovono o minacciano violenza sulla base della razza, dell’etnia, dell’origine nazionale, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere, dell’affiliazione religiosa, dell’età, della condizione di disabilità o di gravi malattie. Un contenuto problematico è ostile e ferisce, specialmente se ripetuto più volte nei confronti di una o più persone, ma è di intensità minore rispetto a un contenuto offensivo. Pakistan. Pena di morte, già 500 esecuzioni dalla fine della moratoria Avvenire, 20 dicembre 2018 La reintroduzione della pratica, nel dicembre 2014 dopo l’attentato di Peshawar, ha portato sempre più detenuti davanti al boia. Sono 4.688 i condannati nel braccio della morte. Sono già 500 le esecuzioni di condannati a morte in Pakistan dal dicembre 2014, dopo che è stata eliminata la moratoria sulla pena di morte. Lo riferisce Justice Project Pakistan (JPP), una Ong che si occupa della difesa dei condannati alla pena capitale e secondo cui al momento ci sono 4.688 detenuti nel braccio della morte. Il Pakistan aveva introdotto nel 2008 una moratoria alle esecuzioni, poi cancellata in seguito all’attacco terroristico in una accademia militare a Peshawar in cui morirono 140 persone. JPP ha sottolineato che il Pakistan “ha un numero di detenuti condannati a morte fra i più alti del mondo. Ciò accade in parte perché c’è un’alta quantità di reati per cui è prevista la pena capitale, quali blasfemia, sequestro di persona e reati legati alle droghe”. Brasile. Ipotesi libertà per l’ex presidente Lula grazie a una sentenza dell’Alta Corte di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 20 dicembre 2018 Luiz Inácio Lula da Silva potrebbe tornare in libertà. Il consigliere del Tribunale Superiore Federale Marco Aurelio Mello ha emesso un verdetto preliminare che accoglie un ricorso di alcuni detenuti esponenti del PcdoB, il Partito comunista del Brasile. Secondo l’ingiunzione, tutti gli imputati condannati in secondo grado, in attesa di sentenza definitiva e con un ricorso pendente davanti alla magistratura possono essere rimessi in libertà condizionale. È il caso dell’ex presidente, condannato in appello a 12 anni e 1 mese per corruzione passiva e riciclaggio e spedito in carcere dopo che il plenum del TSF, a stretta maggioranza, aveva deciso di far scontare la pena in carcere. La notizia è stata data con enorme risalto da tutti i media del Paese. Gli avvocati di Lula hanno già fatto sapere che faranno un’istanza per aderire al provvedimento.