Detenuto suicida, il Ministero va condannato al risarcimento dei danni informazione.it, 1 dicembre 2018 In favore degli eredi dopo che il detenuto si è tolto la vita se ha manifestato intenzioni suicide, non viene visitato dallo psicologo e non viene sottoposto a vigilanza speciale o in regime comune. Accolto dalla Cassazione il ricorso dei familiari di un recluso uccisosi in cella. Giustizia (forse) fatta per i parenti di un giovane suicidatosi in cella. Anche se nessuno potrà restituire il caro toltosi prematuramente la vita, ma la ricerca della verità davanti alla magistratura, con il conseguente ristoro economico delle sofferenze patite in conseguenza del tragico evento, a volte può incontrare un fine meno tragico. È questo che è accaduto con l’ordinanza 30985/18, pubblicata ieri dalla Cassazione civile, che nel ribaltare il verdetto della Corte d’Appello di Catanzaro, ha accolto il ricorso dei genitori di un detenuto che si era suicidato in carcere ritenendo che il ministero della Giustizia debba risarcire i familiari se prima del tragico evento lo stesso avesse manifestato propositi suicidi e non fu sottoposto ad alcuna visita dello psicologo ne sottoposto a vigilanza speciale o posto in regime comune. Nella fattispecie, i giudici della terza sezione civile della Suprema Corte hanno preso in esame la vicenda scaturita dal ricorso dei genitori e dei fratelli di un detenuto che all’atto di esecuzione del provvedimento restrittivo della libertà personale dichiarava di volersi suicidare e, nonostante la manifestazione di queste intenzioni, non fu sottoposto ad alcuna vigilanza speciale né posto in regime comune. In primo grado i prossimi congiunti si erano visti riconoscere dal Tribunale di Catanzaro un rilevante risarcimento, mentre in secondo grado, la Corte di appello, accogliendo l’appello del Ministero, aveva ritenuto l’evento né prevedibile né prevenibile. Per gli ermellini che hanno accolto tutte le doglianze contenute nel ricorso, al contrario, non si può “ragionevolmente” affermare che l’amministrazione penitenziaria abbia adottato “tutte le misure idonee ad evitare l’evento, né che non sussistessero obblighi derivanti da specifiche norme giuridiche”. L’articolo 23 del Dpr 230/00 dispone espressamente “un esperto dell’osservazione e trattamento effettua un colloquio con il detenuto o internato all’atto del suo ingresso in istituto, per verificare se ed eventualmente con quali cautele possa affrontare adeguatamente lo stato di restrizione”. Il risultato di tali accertamenti è comunicato agli operatori incaricati per gli interventi opportuni e al gruppo degli operatori dell’osservazione e trattamento di cui all’articolo 29. Nel caso in questione, il detenuto non fu sottoposto ad “alcuna osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto al momento dell’ingresso in carcere non c’erano né l’educatore né lo psicologo e questa pur decisiva circostanza non risulta oggetto di alcuna valutazione da parte della Corte territoriale”. Per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, si tratta di una decisione importantissima che non solo costituisce un significativo precedente per quanti, tra decine e decine di familiari di detenuti suicidatisi in cella, cercano Giustizia, ma anche un monito all’Amministrazione Penitenziaria e soprattutto nei confronti di “via Arenula” affinché si combatta efficacemente l’emergenza “carceri” attraverso misure che riportino al centro del dibattito la dignità e la salute psicofisica dei ristretti e la funzione di rieducazione della pena che è, purtroppo, inattuabile con l’attuale ordinamento. Manovra economica, stop a fondi per istruzione e sport nelle carceri genteditalia.org, 1 dicembre 2018 Stop ai fondi per istruzione, attività culturali e sportive in carcere. I relatori alla manovra in Commissione Bilancio alla Camera hanno, infatti, chiesto il ritiro, ottenendolo, dell’emendamento approvato in commissione Giustizia che stanziava 600mila euro (più 500mila per il prossimo triennio) a queste attività. Innalzare le pene per tutti i reati? Un vizio tipico degli Stati autoritari di Francesco Palazzo* Il Dubbio, 1 dicembre 2018 Si legge in una notizia d’agenzia del 29 novembre che il ministro dell’Interno, onorevole Matteo Salvini, si accingerebbe a presentare un disegno di legge per inasprire le pene contro gli spacciatori di stupefacenti, criminali da equiparare secondo il ministro agli assassini. C’era in effetti da stupirsi che questo reato e questi delinquenti non fossero stati ancora inclusi nella lunga lista di quelli per cui il governo “del cambiamento” ha suonato la grancassa dell’inasprimento sanzionatorio come panacea di tutti i mali. In ciò, ad onor del vero, inserendosi in una linea di politica penale non nuova, ancorché percorsa ora con più convinta determinazione e maggiore clamore. Nel “contratto di governo” si preannunciava già il rafforzamento repressivo per molti reati: si va dalla violenza sessuale (“è prioritario l’inasprimento delle pene per la violenza sessuale, con l’introduzione di nuove aggravanti ed aumenti di pena quando la vittima è un soggetto vulnerabile ovvero quando le condotte siano particolarmente gravi”) a taluni reati contro il patrimonio “particolarmente odiosi come il furto in abitazione, il furto aggravato, il furto con strappo, la rapina e la truffa agli anziani”. Ed ancora, oltre al solito scambio politico mafioso, sono apparsi meritevoli di un rafforzamento repressivo anche i reati ambientali e quelli nei confronti degli animali, “garantendo maggiore tutela rispetto a fatti gravi ancora non adeguatamente perseguiti e un maggiore contrasto al bracconaggio”. Indispensabile è poi considerato introdurre misure repressive per i reati di cyber bullismo. Nelle sue dichiarazioni programmatiche al parlamento il presidente del Consiglio ha avuto modo di sottolineare l’esigenza di un inasprimento sanzionatorio, sia penale che amministrativo, per gli illeciti tributari. Il decreto legge sulla sicurezza del 4 ottobre 2018, n. 113 ha rimodulato al rialzo il trattamento sanzionatorio di due reati “urbani” come l’invasione di terreni ed edifici e il blocco stradale. Come poteva mancare il reato di spaccio di stupefacenti? Stolto sarebbe lasciarsi sfuggire questa ghiotta occasione per fare ancora una volta la voce grossa, e perdere invece tempo ad interrogarsi, nel riflessivo impegno di una politica seria e lungimirante, sulle ragioni di una domanda ostinatamente sempre florida. A parte i prevedibili effetti che questo espansionismo repressivo, congiuntamente alla mancata riforma delle misure alternative e alla drastica riduzione delle ipotesi di permesso di soggiorno, produrrà sulla popolazione carceraria già in costante crescita, non c’è dubbio che l’inasprimento sanzionatorio sta mutando il vólto del sistema penale in senso ormai marcatamente autoritario. E questa torsione autoritaria non è una connotazione estrinseca, legata al semplice aspetto quantitativo della risposta sanzionatoria che sale. C’è molto di più e molto più profondo. L’inasprimento repressivo non solo urta col principio di proporzione costituzionalmente imposto e ribadito in sede europea, ma produce l’effetto di uniformare tendenzialmente verso l’alto le pene di una gran parte dei reati, e più precisamente di quelli che richiamano - volta per volta, giorno per giorno - l’attenzione del legislatore. Ne è un buon esempio la materia della corruzione, le cui fattispecie dopo il provvedimento “spazza corrotti” esibiranno dei massimi edittali tutti attestati intorno ai dieci anni. Ebbene, questa tendenza al livellamento verso l’alto rivela un’anima intrinsecamente autoritaria per ragioni profonde che, lungi dall’essere casuali, sono connaturate ad una visione del rapporto tra l’individuo e lo Stato fortemente sbilanciato a sfavore del primo. La storia mostra chiaramente come lo Stato assoluto tende ad un’uniformità sanzionatoria attestata sulle massime pene, e non per caso. L’assolutismo politico e l’autoritarismo penale che ne è figlio tendono infatti a considerare i singoli reati non tanto nel loro proprio e specifico disvalore empirico, fattuale e criminologico, quanto piuttosto nel loro significato “politico” di trasgressione e inosservanza dell’autorità sovrana: per il solo fatto di porsi contro la volontà statale il reo merita una pena che non può che essere massima e pressoché eguale per tutti i reati. Certo, oggi la trasgressione non è concepita tanto in chiave di inosservanza della volontà sovrana e di violazione delle prerogative regie. Oggi, quasi più pericolosamente, tutta una larga fetta di reati viene accomunata ed equiparata per l’attentato alla sicurezza del popolo che essi producono, per il (ri)sentimento di paura che suscitano nel popolo di cui si fa interprete e portavoce un capo carismatico o leader politico. Ma il risultato è lo stesso: la corsa senza freni all’inasprimento sanzionatorio e il tendenziale livellamento verso l’alto delle pene, a tutto discapito del principio di proporzione. C’è dunque una “sostanza” autoritaria in questo fenomeno, che è ben lontana dal vólto costituzionale del nostro diritto penale. E che è altrettanto lontana da quei tratti di proporzione, di misura, di equilibrio che non possono non essere proprî anche dello ius terribile e senza dei quali quest’ultimo cessa di essere ius per rimanere solo terribile. *Professore di Diritto penale e Criminologia università di Firenze Il Decreto sicurezza è figlio di molti padri di Tomaso Montanari Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2018 “Con l’approvazione del decreto Sicurezza si stravolge di fatto la Costituzione”. La voce dell’Associazione Nazionale Partigiani ancora una volta si leva per dire la verità. E la dura, triste verità è che festeggiamo l’ottantesimo delle leggi razziali con una legge francamente razzista. Non solo sul piano del colore della pelle, ma anche su quello sociale. L’aspetto più odioso della legge Salvini è forse proprio l’evidente odio verso i poveri. Torna la tassa (già introdotta dalla Lega nel 2009 e poi abrogata) sulle rimesse dei migranti. Sì: non sulle transazioni finanziarie, non sui grandi capitali. Ma sui soldi che i poveri mandano a casa. E poi L’idea di città, una città sicura solo per alcuni: i negozi etnici diventano diversi da quelli italiani; i vigili urbani col taser; i daspo urbani che si allargano; la perdita dell’asilo politico anche per i furti in appartamento; il raddoppiamento del tempo in cui i migranti possono essere inghiottiti nei non-luoghi dei Centri di permanenza per il rimpatrio; pene più severe per chi occupa immobili abbandonati; il carcere per chi chiede l’elemosina con insistenza, e per i parcheggiatori abusivi. È una condanna della marginalità sociale, una persecuzione del disagio. Il “degrado” delle città viene fatto coincidere con la povertà: che non si cura, ma si punisce. Fino al vertice simbolico dello smontaggio della stessa idea di cittadinanza, che ora si può revocare per terrorismo, ma solo a chi non l’ha acquisita per nascita. Colpire, nascondere, sorvegliare la città e la cittadinanza dei poveri: tenerla distinta e separata da quella dei ricchi, in una regressione secolare. Ora, tutto questo non si combatte con un “fronte repubblicano”, o comunque lo si chiami. Ed è per questo, che con tutta la mia devozione all’Anpi, non condivido l’appello “alle forze politiche democratiche” cui l’Associazione dice: “Basta divisioni, discussioni stucchevoli, rese dei conti”. Credo che l’egemonia culturale della destra salviniana - perché di questo si tratta - non si combatta con l’unità dei pochi militanti, ma con un discorso di verità. E la verità è che “l’Italia entra nell’incubo dell’apartheid giuridico” (così ancora l’Anpi) non oggi, col decreto Salvini. È una storia più antica, i cui protagonisti negativi sono in larga parte proprio quelli che oggi (del tutto strumentalmente) si affollano dietro la bandiera della resistenza civile alla barbarie. In un piccolo, prezioso libro di dieci anni fa (Lavavetri, Terre di Mezzo 2009) Lorenzo Guadagnucci ha raccontato come la retorica della sicurezza e del decoro urbano siano nate nella Firenze - largamente pre-renziana - del sindaco Leonardo Domenici e del suo assessore-sceriffo Graziano Cioni. Nel luglio del 2008 (nel pieno delle campagne sulla sicurezza del governo Berlusconi), la giunta “di sinistra” fiorentina varava un Regolamento di Polizia Urbana nel quale è possibile leggere in chiaro non solo la radice, ma un bel tratto della malapianta che oggi fiorisce grazie a Salvini. Guadagnucci racconta come il fiorentino Pier Luigi Vigna, allora procuratore nazionale antimafia, e la stessa Procura di Firenze furono costretti a intervenire smentendo l’amministrazione: nessuna reale esigenza di sicurezza giustificava la stretta anticostituzionale contro i lavavetri e i rom fiorentini. Mentre alcuni preti digiunavano sotto Palazzo Vecchio con cartelli che dicevano “bisogna combattere la povertà, non i poveri”, il governo Berlusconi varava il pacchetto sicurezza di Maroni, che ricalcava in larga parte quello lasciato dal governo Prodi e non approdato al Parlamento per la crisi dell’esecutivo. Nell’introduzione a quest’ultimo si leggeva che, pur diminuendo i reati, bisognava rispondere all’”insicurezza percepita”. Era il 2007 quando il segretario del Pd e sindaco di Roma Veltroni teorizzava che la sinistra doveva “rispondere al bisogno di legalità” con “fermezza e assoluta severità”. È qui che nasce l’egemonia culturale della destra: quando la sinistra smette di dire e di pensare che la sicurezza (di tutti, e non solo dei “salvati”) si costruisce con la giustizia sociale, non con la repressione. La cattiva strada era stata imboccata molto prima: per esempio con la legge Turco Napolitano del 1998, definita da Giuliano Amato “una sfida alla nostra coscienza e alla nostra stessa Costituzione”. È questa strada che porta fino all’abisso di Minniti, che togliendo (tra l’altro) ai migranti il terzo grado di giudizio sancisce formalmente quell’apartheid giuridica che oggi si denuncia. In sintesi: non esiste una soluzione di continuità, ma solo una terribile escalation tra Salvini e ciò che ha detto e fatto il centrosinistra quando ha governato le città e il Paese. O si capisce questo, e si agisce di conseguenza, o l’egemonia di Salvini durerà davvero a lungo. Per sconfiggerlo ci vogliono altri pensieri e altre parole: nessuna resistenza è possibile senza la verità. Decreto sicurezza, è scontro Fico-Salvini. “Mi dissocio”; “Ma l’ha letto tutto?” di Cesare Zapperi Corriere della Sera, 1 dicembre 2018 Il presidente della Camera si smarca dalla posizione ufficiale del Movimento e critica il provvedimento caro al leader della Lega. E sul global compact: “Va firmato”. Che il presidente della Camera Roberto Fico (M5S) non fosse proprio allineato alle posizioni di Matteo Salvini era noto. Le prese di distanze sono state diverse nei primi sei mesi di governo gialloverde. Ma ora arrivano due “siluri” piuttosto plateali su questioni di primaria importanza per il leader della Lega: il decreto sicurezza e il global compact. E immediata scoppia la polemica. Sul primo tema il presidente grillino non usa giri di parole per far capire che era ed è contrario. “Se la mia assenza al momento della votazione è stata interpretata come una presa di distanza dal provvedimento? Beh, avete interpretato bene” spiega Fico a margine del convegno sui beni comuni in corso all’accademia dei Lincei a proposito dell’assenza nel corso della votazione sul decreto sicurezza. “Non ne ho parlato prima perché sono presidente della Camera e rispetto il mio ruolo istituzionale. Rimango fedele al mio ruolo istituzionale ma - osserva ancora - se poi parliamo nel merito del provvedimento dopo che è stato approvato, quello è un altro discorso”. Salvini: “Ma l’ha letto?”. Fico: “L’ho letto, l’ho letto...” - Subito è arrivata la risposta di Salvini, che intervistato da Maria Latella su Skytg24 ha detto: “Non ho capito a) se lo ha letto, b) dov’è il problema, visto che aumenta la lotta a mafia e al racket”. Che poi aggiunge: “Tutto quello che stiamo facendo lo stiamo facendo insieme con Di Maio e Conte, abbiamo fatto un contratto. Qualsiasi cosa viene fuori, i provvedimenti, non è un successo di Salvini ma di tutto il governo”. La controreplica di Fico non si fa attendere: “L’ho letto, l’ho letto” dice sorridendo. “Ma ci sono tante cose che non avrei voluto leggere al suo interno...”. E Luigi Di Maio interviene a sostegno del collega di Movimento: “Che Roberto Fico non fosse d’accordo con il decreto sicurezza lo sapevamo, e da presidente della Camera apprezzo molto il fatto che abbia aspettato l’approvazione definitiva per poi dichiarare la sua contrarietà pubblicamente. Così fa un presidente della Camera che non è d’accordo ma rispetta la volontà del Parlamento”. “Global compact? Va firmato assolutamente” - E sul global compact, su cui Salvini ha messo il veto (facendo arrabbiare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte), il presidente della Camera assume una posizione altrettanto netta in risposta a chi gli chiede se l’Italia debba votarlo. “Assolutamente sì. Ritengo che l’Italia dovrebbe dire sì al global compact ed invito tutti a leggersi davvero il contenuto di questo accordo, perché, tra l’altro, ci consentirebbe di non restare soli nella gestione del fenomeno dell’immigrazione. Se si legge bene il testo si capisce che è una gestione globale con gli altri Paesi, quindi un’affermazione del multilateralismo sull’immigrazione. Serve all’Italia per non isolarsi, per non rimanere sola sulla questione migranti”. A proposito della calendarizzazione a Montecitorio, aggiunge: “È la Conferenza dei capigruppo che calendarizza, vedremo”. La replica di Salvini - Anche su questo tema a stretto giro di posta è arrivata la replica del ministro dell’Interno. “Faccia votare il Parlamento e il Parlamento deciderà. Io sono contrario perché mette insieme migranti regolari e irregolari”. Mascherin: “Attenti a imbrigliare i giudici con le leggi-sentenza” di Liana Milella La Repubblica, 1 dicembre 2018 Intervista a Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense. “Il governo non produca “norme sentenza” che imbrigliano il giudice col rischio di violare la Costituzione”. Dice così Andrea Mascherin, penalista e presidente del Consiglio nazionale forense, l’organismo che rappresenta tutti gli avvocati italiani. E dunque anche lei la pensa come Fico e magari è anche critico sul dl sicurezza? “La legge prevede misure molto severe sull’immigrazione e ritengo, seppur legittime, che quando si alza la soglia del rigore normativo è necessario riequilibrare un tanto con l’aumento delle misure di integrazione. Quindi auspico che ci siano al più presto norme che vanno in questo senso e che, di conseguenza, riequilibrino il decreto”. Lei vede un fumus di incostituzionalità nella stretta sugli immigrati? “Relativamente ad alcuni punti del decreto ci sono sicuramente delle criticità. Ma a questo punto è importante che l’Italia partecipi ai tavoli internazionali, come quello del Global Compact, anche se solo per portare il suo contributo critico. Noi l’abbiamo fatto, costruendo la rete degli avvocati del Mediterraneo proprio per affrontare il tema dell’immigrazione. Ovviamente do per scontato che il diritto di difesa dei più deboli, in questo caso i migranti, deve essere potenziato”. Ma il decreto sicurezza e la legittima difesa sono manifesti più che leggi sulla giustizia? “Dobbiamo partire dal principio costituzionale della separazione dei poteri. Da un lato bisogna garantire che il giudice non sia troppo creativo, tale da sconfinare con le proprie sentenze nel campo del legislatore; ma dall’altro è necessario che il legislatore, ponendo eccessivi vincoli alla discrezionalità del giudice, non finisca col produrre “norme sentenza” sostituendosi così all’esercizio della discrezionalità del giudice stesso”. Queste leggi stravolgono anche la vostra professione? “Mettono a rischio una corretta idea sia della professione di avvocato che di magistrato”. Molti parlano di Far West, Ezio Mauro scrive su Repubblica che siamo alla politica della paura, all’invito a farsi giustizia da sé. Condivide questi timori? “Viviamo nella società dell’incertezza. Vi è incertezza su tutto, sul futuro economico, su quello delle nuove generazioni. L’incertezza crea paura. Sarebbe opportuno che le forze politiche lavorassero insieme per restituire certezze a questa società”. Pacini, il gommista che spara ai ladri. Salvini lo chiama e fa propaganda alla sua futura legge sulla legittima difesa. Lei come la vede? “C’è un doppia lettura. Da un lato la reazione emotiva: di fronte a un lavoratore che subisce 38 furti ed è costretto a dormire in un capannone con la famiglia, avvertiamo un moto di solidarietà umana, comprendiamo la sua esasperazione, e la sua reazione. Ma dall’altro c’è lo stato di diritto, basato sul principio che nessuno può risolvere da sé i conflitti, prevedendo invece l’intervento dello Stato e del giudice”. La futura legge potrà evitare qualsiasi indagine? La difesa “sempre” legittima”, e quel “grave turbamento” che stoppa l’eccesso colposo, potranno liberare chi spara? “Sarà sempre necessario che il magistrato, prima il pm e poi comunque un giudice, accertino la dinamica dei fatti. Soprattutto per via della situazione psicologica del grave turbamento”. Non fare un’indagine sarebbe contro i principi del diritto? “Si violerebbe l’obbligatorietà dell’azione penale, che qui attiene alla legittima difesa”. Ha letto cosa dice la sua collega Bongiorno? Lei sta con chi spara e dice che la legge in vigore costringe la vittima a fare troppe verifiche prima di difendersi. “L’espressione “io sto con chi spara” non la condivido a priori come affermazione di principio, chiunque sia a sparare, un poliziotto, un criminale o una parte lesa, perché l’uso di un’arma dev’essere l’ultima ratio. Altro è chiarire meglio gli estremi della legittima difesa”. Condivide la futura legge? “Ha un problema sulla verifica del grave turbamento, perché sarebbe di natura prettamente psicologica, quindi difficile da fare. E poi va garantito il libero convincimento del giudice, la sua discrezionalità, per consentirgli di trattare i casi, che sono sempre diversi tra loro”. Trova corretto che Salvini telefoni a Pacini mentre la sua polizia indaga? Non è una sorta di sentenza in anticipo? “Qui il problema è di linguaggio. Salvini comunica una solidarietà emotiva. L’aspetto delicato è il ruolo che riveste e quindi il messaggio culturale che rischia di trasmettere. Il messaggio in realtà finisce con l’affermare il fallimento dello Stato rispetto a un cittadino costretto a difendersi da solo. Lo Stato di diritto non deve armare i cittadini, ma difenderli”. La Cassazione: “Non prevedibile la morte di Magherini” di franca selvatici La Repubblica, 1 dicembre 2018 Le motivazioni con cui la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza che aveva condannato i tre carabinieri che arrestarono l’ex calciatore. “Erano in grado i tre carabinieri, se non c’erano riusciti nemmeno i volontari del 118, di riconoscere la situazione di criticità in cui, in quei drammatici 13 minuti più volte evocati dall’1,31 all’1,44, si è venuto a trovare il Magherini, e che imponeva loro, secondo quanto affermato dai giudici di merito, di metterlo a sedere?”. La Corte di Cassazione sostiene che no, che la morte di Riccardo Magherini - l’ex calciatore di 40 anni che la notte del 3 marzo 2014 cessò di vivere in strada, in Borgo San Frediano, dopo che era stato ammanettato e messo faccia a terra dai carabinieri mentre era “in delirio eccitatorio” per “intossicazione da cocaina” - non era “prevedibile” perché all’epoca le forze dell’ordine non avevano le competenze specifiche per trattare in maniera corretta le persone arrestate in quello stato di delirio. Così i giudici della quarta sezione penale della Cassazione spiegano perché il 15 novembre scorso hanno annullato senza rinvio, “perché il fatto non costituisce reato”, la sentenza della corte di appello di Firenze che, come il giudice di primo grado, aveva condannato per omicidio colposo a 7 mesi il maresciallo Stefano Castellano e l’appuntato Agostino Della Porta e a 8 mesi l’appuntato Vincenzo Corni. I giudici di Cassazione ripercorrono le tappe dell’arresto di Magherini, non mettendone in dubbio la legittimità, perché era in condizioni tali da nuocere a sé stesso e ad altri. Riconoscono che da quel momento era scattato, per i militari, un obbligo di protezione verso l’arrestato. E ritengono corretto l’aver ricondotto la morte di Magherini a tre cause concomitanti: l’intossicazione acuta da cocaina, la immobilizzazione “pur senza alcuna compressione” e la posizione prona in cui era stato tenuto anche dopo che aveva cessato di invocare aiuto e di gridare disperatamente “sto morendo”, ed era rimasto immobile e silenzioso. Se in quei primi minuti fosse stato sollevato, se fossero state avviate tempestivamente le manovre rianimatorie, avrebbe forse potuto salvarsi. Ma, ad avviso della Cassazione, i carabinieri “avrebbero dovuto prospettarsi e prevedere in concreto un quadro di conseguenze dannose per l’organismo umano che solo il sapere scientifico entrato nel processo attraverso approfondite perizie mediche ha poi reso note”. Questo tipo di previsione “non era esigibile” dai carabinieri che intervennero “in quel ristretto arco temporale rispetto al quale si è fondato l’addebito omissivo e in cui si trovarono ad operare”. Solo il 13 marzo - dopo la morte di Magherini - divenne operativa la circolare dell’Arma, emanata in gennaio, che metteva al bando le “immobilizzazioni protratte”. La Cassazione esclude che esistano analogie fra la morte di Magherini e quella del giovane Federico Aldrovandi, deceduto a Ferrara il 25 settembre 2005. L’unica analogia - a loro giudizio - è che “anche in quell’occasione, dei rappresentanti delle forze dell’ordine furono richiesti di intervenire su strada, come purtroppo sempre più spesso accade nelle nostre città, perché c’era un giovane che dava in escandescenze sotto l’effetto di sostanze stupefacenti”. Ma a Ferrara “Aldrovandi venne aggredito fisicamente dai quattro poliziotti, i quali lo percossero ripetutamente con l’uso di manganelli e calci, schiacciandolo a terra”. Mentre a Firenze vi fu “un solo atto violento non giustificato”: i due calci sferrati dall’appuntato Vincenzo Corni, che però - scrivono i giudici - non ebbero alcun collegamento “con l’evento morte”. Per aiutare i familiari di Magherini a ricorrere alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, la giornalista Giulia Innocenzi ha lanciato una raccolta fondi su GoFundMe (gofundme.com/magherini). “Mio padre ammazzato ad Avola nella protesta dei braccianti. Dopo 50 anni nessun colpevole” di Fabio Albanese La Stampa, 1 dicembre 2018 a denuncia della figlia di una delle due vittime degli scontri con la polizia il 2 dicembre 1968. I manifestanti volevano un aumento di salario. Fu rimosso il questore ma non ci fu un processo e l’inchiesta del Viminale venne secretata. Il 2 dicembre del 1968, durante uno sciopero generale a sostegno della vertenza salariale dei braccianti agricoli di Avola, la polizia sparò sui manifestanti: due di loro morirono, altri 48 rimasero feriti, cinque in maniera grave. Per quelli che sono passati alla storia come “i fatti di Avola” non c’è mai stato un processo, non è mai stato individuato un colpevole. Avola si prepara a commemorare i cinquant’anni da quel drammatico episodio che fece poi da apripista all’approvazione dello Statuto dei lavoratori e alla legge sul disarmo delle forze dell’ordine durante scioperi e manifestazioni. Paola Scibilia, figlia di Giuseppe, una delle due persone rimaste sul terreno quel giorno, invoca giustizia per il padre che, quando morì, aveva 47 anni e tre figli da crescere, e per l’altra persona uccisa, Angelo Sigona, 29 anni: “Non ce l’ho certo con lo Stato - dice la donna, 59 anni - noi abbiamo sempre avuto fiducia nello Stato, mio figlio è un poliziotto, ma vorremmo sapere chi è stato, chi ha ucciso mio padre e perché”. Quel lunedì 2 dicembre di 50 anni fa Avola si era fermata. Da una decina di giorni i braccianti agricoli della zona sud della provincia di Siracusa, dove si coltivavano e si coltivano mandorle e olive, chiedevano agli agrari di equiparare la loro paga giornaliera di 3110 lire e l’orario di lavoro a quelli dei lavoratori della parte nord del Siracusano, dove si producono agrumi. Inutilmente, nonostante la mediazione della prefettura e nonostante la differenza fosse di 300 lire in più e di mezz’ora di lavoro in meno (da 8 ore a 7 ore e mezza). Un gruppo di manifestanti bloccava il transito sulla statale 115 alla periferia del paese, in contrada Chiusa di Carlo, lì dove ora sorge l’ospedale di Avola e dove un cippo e una lapide ricordano cosa accadde. C’era l’ordine di sgomberare e, come scrive lo storico locale Sebastiano Burgaretta che ai Fatti di Avola ha dedicato un libro e la vita, nonostante il tentativo di mediazione del sindaco dell’epoca, Giuseppe Denaro, che fu tra i testimoni, “intorno alle 14 il vicequestore di Siracusa dott. Samperisi dà ordine, e il reparto Celere fatto venire da Catania compie l’opera; dopo venticinque minuti di fuoco restano sul terreno due morti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48 feriti, tra cui i più gravi sono cinque: Salvatore Agostino, detto Sebastiano, Giuseppe Buscemi, Giorgio Garofalo, Paolo Caldarella, Antonino Gianò”. Sul terreno, disseminato di pietre lanciate dai manifestanti per difendersi, verranno raccolti oltre due chili di bossoli. L’accordo La procura di Siracusa aprì un’inchiesta, lo stesso fece il ministero dell’Interno che dopo poche ore destituì il questore di Siracusa. Il prefetto convocò subito i sindacati e gli agrari e la notte stessa fu siglato quell’accordo sul salario e l’orario di lavoro che fino a due giorni prima era stato negato. Ma poi non è accaduto più nulla. “Tutto insabbiato - dice Paola Scibilia - e noi non abbiamo mai avuto un sostegno, se si eccettua un piccolo vitalizio che la Regione Siciliana aveva accordato a mia madre, Itria Garfì, morta lo scorso agosto a cent anni sena vedere un po’ di giustizia”. Le denunce Dall’inchiesta, infatti, non è mai scaturito un processo e le carte dell’indagine amministrativa del Viminale non sono mai state rese pubbliche. Piuttosto, vennero denunciati i braccianti che avevano manifestato: “Ci consigliavano di fare una causa - ricorda la signora Paola - mia madre non li ascoltava ma stava male. Noi siamo gente modesta. Temevamo, se le cose fossero andate male, di perdere la casa frutto dei sacrifici di una vita di mio padre e dove mia madre da sola doveva crescere tre figli”. “Mio padre non era un rivoluzionario, era un lavoratore e un marito esemplare - racconta, ancora, la figlia di Giuseppe Scibilia - che amava i suoi figli e lavorava sacrificandosi. Lo hanno ammazzato come fosse un delinquente e ancora oggi c’è qualcuno che se lo porta sulla coscienza. Quel giorno io, che avevo 9 anni, lo aspettavo per pranzo sull’uscio della porta; l’ho visto agonizzante alla sera in un letto d’ospedale, con una grossa ferita di pallottola sul fianco destro. Sembrava già un cadavere, se ne andò durante la notte”. Ad Avola - dove nel bel teatro Garibaldi nei giorni scorsi si è tenuto un convegno sulla strage, il contesto in cui avvenne e il clima del ‘68 e nel municipio è in corso una mostra con i giornali dell’epoca - domenica prossima da Roma arriveranno i segretari generali di settore di Cgil, Cisl e Uil e da Palermo il presidente della Regione Nello Musumeci, per ricordare quel giorno terribile e dimenticato, una ferita aperta per gli avolesi, un semplice episodio della storia delle lotte sindacali del Dopoguerra per gli altri. Verranno portate, come ogni anno, corone d’alloro in contrada Chiusa di Carlo, poi verranno premiati i ragazzi delle scuole del paese che hanno partecipato a un concorso di scritti, disegni, lavori sui “Fatti”, infine il sindaco Luca Cannata aprirà un convegno- commemorazione, per ricordare che è passato mezzo secolo da quel giorno senza giustizia: “Dal sacrificio di mio padre hanno avuto beneficio tutti i lavoratori italiani grazie allo Statuto dei lavoratori che il ministro del lavoro Brodolini preparò dopo essersi precipitato ad Avola - osserva Paola Scibilia, la cui figlia Ivana vorrebbe ora dedicare ai Fatti di Avola la sua tesi di laurea - solo noi non abbiamo avuto nulla. Senza l’accertamento dei fatti noi non siamo riconosciuti come familiari di vittime di una strage. A noi neanche un risarcimento, un vitalizio o un lavoro è mai arrivato dallo Stato”. Firenze: “Sollicciano si sgretola ed è strapieno”. E i braccialetti elettronici? Non ci sono di Valentina Marotta Antonio Passanese Corriere Fiorentino, 1 dicembre 2018 Politici e penalisti visitano il carcere. Ermini, vicepresidente del Csm: “Intervenire subito”. “Nulla è cambiato a Sollicciano negli ultimi quattro anni. Il carcere si sta sgretolando ed è sempre più affollato: la capienza regolamentare è di 488 posti ma attualmente ospita 733 detenuti. Ma i braccialetti elettronici che potrebbero risolvere il problema del sovraffollamento sono solo 2.000 in tutta Italia”. È indignato Luca Bisori, presidente della Camera Penale di Firenze che ieri mattina in occasione della Festa della Toscana ha visitato la casa circondariale fiorentina accompagnato da una folta delegazione di magistrati e politici: David Ermini, vicepresidente del Csm, Antonio Pezzuti presidente della sezione Gip del tribunale di Firenze, il neo procuratore aggiunto Luca Tescaroli, Federico Gianassi assessore comunale alla sicurezza urbana e gli esponenti del Partito Radicale, guidati dalla ex parlamentare Rita Bernardini. Una lunga giornata che si è conclusa nell’aula 30 del Palazzo di Giustizia, in un incontro aperto alla città insieme alla Presidente della Corte d’appello Margherita Cassano e alla presidente del tribunale Marilena Rizzo. Ormai da quattro anni la Camera Penale di Firenze organizza una giornata di riflessione sulla condizione carceraria e sulla mancata attuazione della riforma che introdusse il braccialetto elettronico, il dispositivo di controllo a distanza per i detenuti ai domiciliari. La data è sempre la stessa: il 30 novembre. E non a caso. Ricorre l’anniversario (quest’anno, il 232) della promulgazione del codice Leopoldino, primo al mondo ad aver abolito pena di morte e tortura giudiziaria. Per tre ore, ieri mattina, la delegazione ha visitato celle e spazi comuni, per verificare le condizioni in cui vivono gli oltre settecento detenuti. “A Sollicciano abbiamo riscontrato i problemi di sempre: strutture fatiscenti, necessità di interventi sull’impiantistica e zone molto critiche - ha detto David Ermini - Per risolvere i problemi ci vogliono le risorse, perché senza quelle non si va da nessuna parte”. “La situazione è difficile - ha aggiunto Bernardini. D’altra parte se in un carcere progettato per un numero di persone ne metti il doppio tutto si rovina con più facilità. Poi per la manutenzione ordinaria sono previsti pochissimi fondi. Siamo fuori da ogni legalità”. E i braccialetti elettronici? Sarebbero utili per sfoltire Sollicciano, come altre carceri italiane, da detenuti condannati a pene non severe o in attesa di giudizio anche per reati lievi. Potrebbero essere uno strumento utile anche alle forze dell’ordine che eviterebbero così di controllare ogni giorno i detenuti ammessi ai domiciliari. Ma bisogna fare i conti con i numeri: i 2.000 i dispositivi a disposizione su tutto il territorio nazionale sono insufficienti. “La compagnia Fastweb ha vinto l’appalto e dovrebbe consegnare 12 mila braccialetti all’anno, ma il Ministero dell’Interno ha bloccato il collaudo”, spiega Bisori “così ancora oggi non si sa quando entreranno in funzione i nuovi apparecchi. Quattro anni fa, organizzammo la prima manifestazione di protesta per la mancata attuazione di quella che definimmo una riforma di civiltà. Siamo nel 2018 e non è cambiato nulla. Noi, però, siamo ancora qui a esprimere la nostra indignazione”. Intanto si allunga la lista dei detenuti che potrebbero abbandonare la cella per ordine del giudice. “Ma senza il braccialetto - conclude Bisori - continuano a restare in carcere”. Firenze: noi avvocati e le istituzioni nel dramma di Sollicciano di Luca Bisori* La Repubblica, 1 dicembre 2018 Si celebra oggi la festa della Toscana, nel 232° anniversario del Codice leopoldino, che nel 1786 fece del Granducato il primo Stato al mondo a bandire pena di morte e tortura. La codificazione di Pietro Leopoldo contiene anche altre innovazioni, meno note ma egualmente rivoluzionarie per l’epoca: tra queste, le norme finalizzate a migliorare le condizioni delle carceri. “Si abbia tutta la premura per la mondezza delle carceri; si estragghino i detenuti nelle carceri segrete almeno una volta alla settimana, e si custodischino in una carcere o stanza diversa per almeno un giorno, al fine di ventilarle e di ripurgarle”, recita il canone XXXI, che termina poi con un monito di grande attualità: “si osservino rigorosamente gli ordini che prescrivono ai Giusdicenti Criminali le frequenti visite delle carceri”. “Le istituzioni sappiano, vedano cosa è concretamente il carcere”, insomma: un precetto di civiltà che ancora oggi interroga la coscienza dello Stato. In questa ricorrenza dal così forte valore simbolico la Camera Penale di Firenze celebra ogni anno una giornata di riflessione sulla condizione carceraria, che si apre - in ossequio al monito leopoldino - con la visita a Sollicciano: il più grande carcere della Toscana, struttura straordinariamente fatiscente, insicura sia per chi ci vive e lavora sia per i cittadini (come le cronache di queste ore dimostrano), di fatto non ristrutturabile e che dovrebbe essere semplicemente demolita. Non ci soffermeremo però sulla soglia: entreremo dentro le celle, negli stessi spazi ove i detenuti sopravvivono in condizioni indegne di un paese civile. Quest’anno saremo accompagnati dai vertici delle più alte Istituzioni giudiziarie: il vicepresidente del Csm David Ermini, il presidente vicario della Corte d’Appello Barbarisi, il presidente dei Gip Pezzuti, il procuratore aggiunto Tescaroli, ed altre personalità pubbliche, come il professor Palazzo dell’Università di Firenze, l’assessore comunale alla sicurezza Gianassi, gli amici radicali guidati da Rita Bernardini. Per misurare il grado di civiltà di una nazione occorre visitare non i suoi palazzi ma le sue carceri, scrisse Voltaire: a costoro va dunque il nostro ringraziamento, per essersi fatti carico di questa presa di coscienza mettendo in campo le proprie responsabilità istituzionali, in nome dei principi di umanità e giustizia che mossero Pietro Leopoldo, due secoli orsono, a volgere lo sguardo dello Stato granducale verso la condizione dei suoi carcerati. *Presidente della Camera Penale di Firenze Bolzano: il carcere di via Dante tra i peggiori d’Italia di Paolo Campostrini Alto Adige, 1 dicembre 2018 Ieri l’ispezione delle Camere penali italiane: “Una discarica sociale in pieno centro, condizioni di vita inaccettabili”. Si sono prima guardati in faccia gli avvocati dell’osservatorio carceri. Come a capire se si era preparati ad ascoltare quello che avrebbero detto. Poi hanno cominciato: “Qui i detenuti non hanno neppure l’acqua calda in cella”, (Franco Villa, Cagliari). “Ci sono più di cento detenuti e un educatore, mai rilevata questa percentuale”, (Filippo Fedrizzi, Trento). “Nessuno che abbia un’attività all’esterno, solo due detenuti in semilibertà” (Ninfa Renzini). “I carcerati sono costretti a farsi da mangiare attaccati al water, non so se posso...” (Mara Uggè, Bolzano). E infine Gianluigi Bezzi, penalista bresciano: “Forse Bolzano non lo sa, ma devo dirvelo: avete una discarica sociale in pieno centro”. Ecco come sono usciti da via Dante i rappresentanti nazionali delle Camere penali italiane. “Avete qui i soldi per rifare il colore delle panchine tutte le settimane e accettate di tenervi in casa tutto questo” è stata una delle osservazioni più discrete e pietose. Stefano Zuccatti, il referente bolzanino delle Camere penali che ha accompagnato la delegazione ieri mattina in carcere ha voluto aggiungere (come hanno fatto lealmente tutti gli altri) che “il personale fa i salti mortali nelle condizioni in cui si trova, sono tutti molto preparati, c’è un’attenzione umana lodevole ma...”. Ma la realtà è quella che hanno potuto forse soltanto intravvedere nelle poche ore della visita. Celle da dieci persone, 112 detenuti, ma solo un mediatore (in effetti sono due, ma il secondo è ormai in pensione e il rimasto lo farà tra un anno...), spazi di socializzazione ridotti ad un luogo per il biliardino. Quando è stato detto che “il personale fa i salti mortali” volevano dire che anche la direttrice li fa. Organizzando attività alternative come corsi di computer, mostre fotografiche, artigianato. “Ma ciò che fanno quasi il 90% degli ospiti della struttura - hanno detto i delegati nazionali - è starsene tutto il santo giorno sdraiati sulla loro branda”. Magari con un detenuto alto due metri che si prende tutto lo spazio. O dovendo cucinare in mezzo a innumerevoli etnie, visto che gli italiani in via Dante sono soltanto 20 e gli altri di infinite nazionalità, africani, arabi, rumeni, albanesi... Con ritmi, cibi, usanze, culture che collidono ogni ora durante le attività. “C’è da dire che non abbiamo più avuto episodi gravi all’interno - ha rilevato la direttrice Anna Rita Nuzzaci - nessun alterco rilevabile, nessuna rissa. Naturalmente la struttura è quella che è”. Dovrebbe esserci subito, domani quella nuova. Ma bisognerà aspettare ancora diversi mesi per iniziare i lavori nella “location” individuata vicino all’aeroporto, zona elicotteri, e almeno altri tre anni per trasferire gli ospiti di via Dante laggiù. In un carcere che ne potrà accogliere almeno 220. “Ma che sarà lontano dalla città, impedendo allora possibili attività di iterazione col contesto sociale...”. L’avvocato Gianluigi Bezzi si è voluto poi togliere qualche sassolino: “Noi penalisti siamo sempre accusati di essere dalla parte dei condannati, ma la realtà è che il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio e solo per i più pericolosi. Perché la cella non è la sola risposta al delitto ma lo è ormai diventata. E se poi il carcere è quello di Bolzano, addio recupero del condannato come dice debba essere il fine per la nostra costituzione...”. Insomma in Italia, via Dante è una eccezione al negativo. “Se facciamo un paragone con tutte le strutture che il nostro osservatorio ha visitato negli anni, beh - hanno dichiarato in coro i delegati nazionali - Bolzano è nettamente al di sotto degli standard italiani”. Non se lo aspettavano, evidentemente, quello che hanno potuto verificare. È dunque un allarme sociale ma anche culturale molto netto, quello che è emerso. Una città con queste tradizioni di sostenibilità e tolleranza non si può permettere di avere nel suo corpo urbano un buco nero umano di queste dimensioni. Milano: Camere Penali “servono più braccialetti elettronici” askanews.it, 1 dicembre 2018 Servono con “urgenza” più “braccialetti elettronici” per favorire la concessione di arresti e detenzione domiciliare al posto della custodia cautelare in carcere. È l’allarme lanciato dalle Camere Penali del Distretto della Corte d’Appello di Milano che denunciano la scarsa applicazione dell’art. 275 bis del codice di procedura penale, quello che dovrebbe consentire un più vasto ricorso dei domiciliari grazie all’uso di strumenti di controlli a distanza conosciuti come “braccialetti elettronici”. La società che a maggio scorso di era aggiudicata la gara per la fornitura dei braccialetti elettronci ad agosto aveva annunciato che il servizio sarebbe partito a partire dal mese di ottobre. “Ma ancora oggi il problema non appare risolto”, lamentano le Camere Penali del distretto milanese che puntano il dito sui troppi casi di “mancata concessione della misura degli arresti domiciliari” dovuti proprio all’”indisponibilità dei sistemi elettronici di controllo. Nel frattempo la situazione delle nostre carceri continua a peggiorare. A fine ottobre si è sfiorata la quota di 60 mila detenuti con un tasso di sovraffollamento che si attesta intorno al 20%. Percentuale che addirittura si avvicina al 40% nelle carceri del distretto della Corte di Appello di Milano”. A rendere ancora più urgente un’immediata fornitura di braccialetti elettronici sono le norme contenute nel decreto sicurezza che hanno “ampliato la possibilità di applicare il braccialetto elettronico al destinatario di misure cautelari non detentive”. Ecco perché le Camere Penali del Distretto della Corte D’Appello di Milano auspicano “che il servizio possa trovare rapida attuazione a tutela della dignità umana di chi si trova a dover subire una reclusione in carcere che invece potrebbe essere evitata”. Modena: carcere sovraffollato, ma dei braccialetti elettronici non c’è più traccia modenatoday.it, 1 dicembre 2018 La denuncia di una situazione di stallo completo arriva ancora una volta da parte della Camera Penale di Modena. Nel carcere cittadino 489 detenuti a fronte di una capienza di 369 posti. In occasione della ricorrenza della IV giornata dei braccialetti elettronici, indetta dalla Camera penale di Firenze, la Camera Penale di Modena Carlo Alberto Perroux intende denunciare la parziale e minima applicazione del braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domiciliari e in detenzione domiciliare. La richiesta di braccialetti elettronici per i soggetti sottoposti al regime cautelare degli arresti domiciliari e che versano in stato di detenzione domiciliare ha ormai superato, da tempo, la disponibilità dei dispositivi. “Nonostante sia già stato aggiudicato il bando di gara per la fornitura, l’installazione e l’attivazione mensile, di 1.000 braccialetti - per un arco temporale di ventisette mesi - ciò già a partire, per quanto detto dall’azienda aggiudicataria, da Maggio 2018 - non si hanno ancora notizie in merito ai tempi di messa a disposizione di tali dispositivi. A seguito della carenza di braccialetti elettronici detenuti e ristretti restano in carcere in attesa che possa darsi concreta applicazione ai provvedimenti giurisdizionali”. A denunciarlo è la Camera Penale di Modena “Carlo Alberto Perroux”, che ancora una volta gira il dito nella piaga di un sistema che non è mai decollato. L’applicazione di questa soluzione tecnologica è di fatto ai minimi termini nel nostro paese, per una vicenda che purtroppo racchiude in sé molti degli stereotipi sul funzionamento della macchina pubblica. In particolare a Modena continua a registrarsi una grave situazione di sovraffollamento carcerario, situazione rimasta invariata rispetto all’anno precedente: al 31.10.2018 presso la Casa Circondariale di Sant’Anna, a fronte di una capienza regolamentare di 369 posti, erano presenti 489 detenuti. Gli avvocati penalisti incalzano: “L’utilizzo dei braccialetti elettronici, oltre a risolvere i cronici problemi di sovraffollamento carcerario, consentirebbe un miglior impiego delle forze dell’ordine che, non essendo oberate dal controllo diretto delle persone sottoposte a misura cautelare o ammesse a misure alternative, potrebbero svolgere maggior attività di prevenzione, così garantendo ulteriormente la tutela della collettività. Da ultimo si vuole ricordare, che tali dispositivi, se messi a disposizione, potrebbero essere utilizzati in caso di applicazione della misura cautelare dell’allontanamento dal nucleo familiare, assicurando, in tal caso, un’ulteriore tutela nei confronti delle vittime di reati quali, solo per citarne alcuni, quelli contro l’assistenza familiare e contro la libertà individuale, contenendo, altresì, il pericolo di gravi episodi di violenza che purtroppo, come i fatti di cronaca ci ricordano, a volte sfociano in vere tragedie familiari”. Proprio in ragione di una più ampia tutela dei legami familiari e di un’umanizzazione della pena, la Camera Penale di Modena Carlo Alberto Perroux, prendendo spunto dalla Carta dei figli dei genitori detenuti che riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità, si è posta l’impegno, attraverso una raccolta fondi, di poter solidificare il legame che di fatto esiste tra il carcere e la comunità esterna. Oggi, 30 novembre, presso la Mensa Ghirlandina la Camera Penale di Modena terrà una cena di raccolta fondi per il progetto “Peter pan - Essere genitori in carcere”, fondi che serviranno per ammodernare lo spazio di accoglienza dei figli all’interno della locale casa circondariale Brescia: braccialetti elettronici? Qui nessuno li ha mai utilizzati di Wilma Petenzi Corriere della Sera, 1 dicembre 2018 Più braccialetti, meno carcere. Un principio che vale ovunque, ma soprattutto per Brescia, dove i detenuti sono quasi cinquecento, mentre i braccialetti elettronici attualmente in uso sono zero. Nessun detenuto in questo momento sta usufruendo del braccialetto elettronico che consente di ottenere la misura degli arresti domiciliari spalancando le porte del carcere. Una misura cautelare decisamente meno afflittiva della detenzione. Che permette a chi deve scontare una pena di non essere isolato socialmente, né di essere sottratto agli affetti. Non comunque una vacanza: la detenzione si sconta in casa, dove viene installata una centralina elettronica che manda un immediato segnale d’allarme alle forze dell’ordine se il detenuto si allontana o tenta di forzare la cavigliera che permette la geo localizzazione costante. Un risparmio anche per le forze dell’ordine, chiamate in causa solo in caso di necessità e non costrette a controlli continui distogliendo personale e risorse ad altri impieghi: polizia e carabinieri accorrono solo quando il sistema indica un’anomalia e dopo che la telefonata prevista come prassi al detenuto non ha fatto rientrare l’allarme. Basterebbe analizzare il rapporto costi/benefici - tanto caro al movimento 5 stelle - per capire che il braccialetto elettronico può essere una soluzione per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri, ridare dignità ai detenuti, far crollare la percentuale di recidiva (68% se la pena si sconta in carcere, 19% con una misura alternativa), oltre che rispettare la vocazione della Costituzione (la libertà personale va limitata solo se è indispensabile). Tra i benefici, e non è una voce trascurabile, anche il risparmio di un sacco di quattrini. Di braccialetto elettronico si parla oggi a Firenze, nella quarta giornata dal titolo “12.000 braccialetti? siamo ancora alle “liste d’attesa” organizzata dalle Camere penali e dall’Osservatorio carcere. All’iniziativa aderisce anche la Camera penale di Brescia. Scopi e obiettivi della giornata sono stati presentati ieri dall’avvocato Andrea Cavaliere, presidente, con i consiglieri Michele Bontempi, Gianluigi Bezzi e Vieri Barzellotti, che hanno anche voluto ricordare l’agitazione dei penalisti, successiva ai quattro giorni di astensione, per sottolineare l’”approccio sbagliato di questa classe politica al tema giustizia. Il ministro Bonafede non nasconde che deve rispettare un mandato politico per accontentare l’elettorato: la “pancia” della gente chiede più carcere e pene più severe. E il governo si sta muovendo in questa direzione, le riforme previste sono tutte peggiorative”. Ma i penalisti sul tema braccialetto elettronico, come misura alternativa alla detenzione in carcere, non vogliono lasciar perdere anche se ammettono che spesso, a fronte di giudici che rispondono alle loro richieste con “i braccialetti non sono disponibili” hanno cominciato a rinunciare e a non avanzare nemmeno la richiesta. Il braccialetto elettronico, oltre che tutelare i diritti di tutti sarebbe anche un bel risparmio. “La realizzazione di un nuovo carcere (Brescia è tra le città in cui è previsto l’ampliamento di quello già esistente, il progetto è di allargare Verziano per poter chiudere Canton Mombello) costa almeno 35 milioni di euro - spiega Bezzi - Un detenuto costa 138 euro al giorno, 9 euro direttamente per il carcerato, mentre il resto è per le varie spese di amministrazione e gestione. I detenuti al 31 ottobre sono 59.803, di cui 10 mila in custodia cautelare e 21 mila con pene inferiori a tre anni: queste ultime due categorie potrebbero beneficiare della cavigliere e lasciare le celle. Ogni giorno la voce carcere costa allo stato 8 milioni abbondanti di euro, una cifra non trascurabile. Il costo del braccialetto è decisamente inferiore. Già in uso ce ne sono 2.000 (il prodotto dell’accordo del ministero con Telecom); nei mesi scorsi per 19 milioni di euro Fastweb si è aggiudicata l’appalto per fornire mille braccialetti al mese per un anno: dodicimila cavigliere che a conti fatti verranno a costare 1.500 euro l’una. Un affare se confrontati al costo di una giornata dietro le sbarre. Ma oltre all’aspetto economico è quello sociale che preme principalmente ai penalisti: “La legge per l’uso del braccialetto elettronico - precisa Cavaliere - è del 2001, ma le prime applicazioni sono del 2012”. “Ma si procede ancora troppo lentamente - conclude Bezzi - per ora non ci sono stati i corsi di formazione, nè nuove applicazioni: la nostra paura è che la nuova cultura direttiva cerchi di frenare questa svolta di civiltà, un cambiamento a difesa dei diritti di tutti”. Bollate (Mi): il carcere modello resterà senza direttore definitivo per un anno di Marco Procopio Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2018 I timori degli operatori: “Rischio frenata attività”. L’istituto penitenziario alle porte di Milano - considerato il più all’avanguardia in Italia - è affidato a un reggente dopo l’uscita dell’ex direttore Massimo Parisi, a settembre. La selezione del nuovo responsabile si concluderà “entro la fine del 2019”, dice il Dap. Diversi responsabili delle attività di recupero: “Il reggente sta facendo i salti mortali e Bollate è una macchina da guerra, ma c’è il timore che le attività rallentino”. Un anno e mezzo senza un direttore penitenziario definitivo. Un vuoto che, per motivi burocratici, spaventa chi lavora all’interno di un istituto come Bollate. Situato poco fuori Milano, è considerato da molti il carcere più avanzato d’Italia. Qui i detenuti sono liberi di muoversi senza scorta né sbarre, hanno i computer nelle stanze, possono dedicarsi ad attività ricreative come il teatro o la musica. E poi ci sono un vivaio, una redazione giornalistica, un ristorante aperto al pubblico. Attività che richiedono permessi, autorizzazioni e soprattutto qualcuno che ne conosca bene i meccanismi. Il precedente direttore di Bollate, Massimo Parisi, ha lasciato ufficialmente la carica il 24 settembre scorso dopo essere stato nominato Provveditore regionale della Calabria. Ma, come confermato da alcuni operatori del carcere, era già da diversi mesi che era costretto ad affiancare al lavoro a Bollate anche un altro incarico dirigenziale affidatogli presso gli uffici regionali della Lombardia. Soltanto da poco, quindi, la macchina del ministero di Giustizia ha iniziato a muoversi per individuarne il successore. Una nomina che, come confermato a Ilfattoquotidiano.it dal Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), arriverà “entro la fine del 2019”. Un carcere senza guida definitiva - “Bollate è una macchina da guerra che funziona a prescindere, anche indipendentemente da chi la dirige. Il problema è che tutte le attività necessitano di autorizzazioni e ora alcuni meccanismi sono rallentati”. A lanciare l’allarme è Susanna Ripamonti, volontaria che si occupa delle attività legate al giornale dei detenuti, CarteBollate. “Noi ad esempio facciamo anche un giornale radio e per fare le registrazioni devo chiedere dei permessi. Senza direttore, però, i tempi si allungano”. In realtà è stato nominato un direttore reggente, Fabrizio Rinaldi, ma il suo è un incarico pro tempore. “Bollate è un luogo grande e in un certo senso anomalo rispetto al panorama delle carceri italiane. Rinaldi sta facendo i salti mortali per capirne il funzionamento, è comprensibile che un dirigente non ne colga subito la visione”, spiega Roberto Bezzi, capo dell’area educativa. “Io per ora non vedo dei rallentamenti. Semmai i problemi ci saranno quando dovranno essere realizzati dei nuovi progetti per i detenuti”. Dal vivaio al ristorante, fino ai laboratori di sartoria e di lavorazione del cuoio, l’obiettivo di Bollate è quello di costruire per i reclusi dei percorsi concreti di reinserimento sociale. “Qui non facciamo niente di straordinario, semplicemente applichiamo la legge. Responsabilizziamo i detenuti e chiediamo loro di assumersi degli impegni. Molti dei servizi di cui godono sono aperti anche ai cittadini”, aggiunge Bezzi. Una visione confermata dai risultati: secondo una ricerca condotta dall’Università dell’Essex e dall’istituto Einaudi nel 2012, il tasso di recidiva dei detenuti che trascorrono del tempo a Bollate è molto più basso rispetto a chi è recluso in un altro penitenziario. “Il motivo è semplice - conclude Bezzi - Se nel carcere fai un percorso educativo e scopri un lavoro che ti piace e che ti permette di vivere nella legalità, non ci pensi nemmeno a tornare a fare delle rapine o a commettere altri reati”. La nomina del nuovo direttore - A dirsi preoccupata per il futuro è anche Silvia Polleri, responsabile di InGalera, il primo e unico ristorante in Italia realizzato in un carcere, aperto al pubblico e gestito dai detenuti insieme a un team di professionisti. “Per ora la nostra attività non è stata intaccata, ma non nascondo che la paura è tanta. Senza una guida certa che abbia memoria storica di quanto fatto negli ultimi 15 anni, rischiamo di sparire”. E a perderci sono solo le persone recluse. “Ridurre la recidiva è un obiettivo che tutte le carceri dovrebbero porsi, perché c’è un risvolto sociale ed economico. Il fatto di non avere ancora la nomina del nuovo direttore è follia pura”, aggiunge Polleri. “È come se un’azienda non avesse più un amministratore. Il reggente può reggere temporaneamente la situazione, ma a lungo termine è inimmaginabile andare avanti senza problemi”. Per arrivare a una soluzione definitiva, però, c’è ancora da aspettare. Contattato da IIfattoquotidiano.it, il Dap del ministero di Giustizia fa sapere che per individuare il nuovo direttore deve essere indetto un interpello “per incarico superiore” (una sorta di concorso interno) fra il personale ministeriale. Ma non succederà prima del primo trimestre 2019, perché prima devono essere conclusi altri due interpelli. Insomma, c’è una lista di attesa che deve essere svuotata. Soltanto dopo, e salvo ritardi o ricorsi, partirà l’iter per Bollate. Che prevede una procedura pubblica, la presentazione delle candidature, la valutazione dei titoli e l’assegnazione dei punteggi ai candidati, i colloqui e, infine, la graduatoria finale. Tradotto: la nomina arriverà (forse) “entro la fine dell’anno prossimo”. La lettera aperta di un detenuto - “Caro direttore, conti su di noi”. Si intitola così la lettera aperta pubblicata su CarteBollate e scritta da un detenuto pensando al futuro direttore del carcere. “Noi tutti vorremmo che lei portasse avanti il lavoro dei suoi predecessori, che non si facesse influenzare dalla metodologia di lavoro del carcere dal quale proviene, qualunque esso sia, e non si lasciasse intimorire dalla visione di una custodia attenuata”, si legge nel testo. “Venga nelle nostre stanze a vedere come viviamo, venga ai nostri colloqui per vedere come ci rapportiamo con i nostri familiari, venga a vedere dove e come studiamo, lavoriamo o passiamo il nostro tempo libero”. Un invito che ancora non potrà essere accolto. Ma che ha un obiettivo chiaro: “Insieme possiamo far crescere il progetto Bollate ed esportarlo in tutti gli altri istituti per dimostrare all’Italia che tutti meritano una seconda possibilità nella vita”. Cagliari: la strana morte di Mattia, era stato fermato dai carabinieri di Costantino Cossu Il Manifesto, 1 dicembre 2018 Divergono le prime versioni sul decesso. Aveva un figlio di quattro anni. Oggi l’autopsia, le associazioni per i diritti raccolgono le notizie sul trentaduenne. Poche righe di agenzia arrivate ieri mattina. Alle 11.25 l’Ansa batteva: “Un uomo di trentadue anni è morto all’alba di oggi mentre si trovava in viale Sant’Avendrace a Cagliari. Intorno alle 5,30 un’ambulanza lo ha incrociato in strada: era confuso e agitato. È subito stato richiesto l’intervento dei carabinieri. Il 32enne, alla vista dei militari, ha tentato di fuggire scavalcando il cancello di un cortile, ma durante la corsa si è sentito male accasciandosi a terra. Sul posto è arrivata un’altra ambulanza, questa volta del 118, chiamata dai carabinieri. I medici hanno tentato di rianimare l’uomo, ma non c’è stato nulla da fare. Sono in corso indagini per stabilire le cause del decesso”. Poco dopo il lancio dell’Ansa, arriva un post Facebook sull’account di Acad, Associazione onlus contro gli abusi in divisa: “Un ragazzo è morto a Cagliari durante un fermo di polizia quest’oggi all’alba. Stiamo cercando di chiarire cosa sia successo attraverso i nostri contatti. Chiunque avesse informazioni utili ci scriva, specie chi potrebbe trovarne vivendo in loco”. Sempre Acad, due ore dopo aggiunge su Fb. “Mattia Sau è il nome del ragazzo di 32 anni morto questa mattina tra le 5.30 e le 6.30 durante un fermo di polizia a Cagliari in viale sant’Avendrace. Il ragazzo è di Iglesias. Domani (oggi per chi legge ndr) verrà effettuata l’autopsia ed è assolutamente necessario aiutare la famiglia con la nomina di consulenti di parte fidati. Chiunque abbia notizie sulla storia di Mattia ci contatti con la massima urgenza su Facebook e attraverso il numero verde 800588605”. Insieme con Acad si muove l’Associazione Stefano Cucchi, che fa sapere: “La salma di Sau si trova al policlinico di Monserrato, a pochi chilometri da Cagliari. Il giovane aveva un figlio di quattro anni; sua madre si chiama Susanna Mastinu e suo padre Daniele Sau. Le forze dell’ordine dicono che è morto per arresto cardiaco, ma non significa molto: quando si muore il cuore si ferma sempre”. L’Associazione Stefano Cucchi aspetta di capire se alla famiglia Sau serva un supporto legale, pronta a intervenire. E chiede a chiunque possa chiarire i fatti di farsi sentire. Al momento le forze dell’ordine confermano la versione riportata dall’Ansa: davanti ai carabinieri Mattia Sau avrebbe tentato di fuggire, ma improvvisamente si sarebbe sentito male rovinando a terra. Oggi l’autopsia dovrebbe servire a chiarire. Arezzo: calano i reati ma cresce la paura, la metamorfosi dell’ex provincia felice di Laura Montanari La Repubblica, 1 dicembre 2018 Il cartello che aveva attaccato al cancello del giardino fino a pochi giorni fa, diceva: “In questa casa ci sono due cani, due pistole ed io. Entra se vuoi, ma per uscire raccomandati a Dio”. A scriverlo non è un gangster dal grilletto facile, ma Nello che di mestiere va in giro a vendere il panino con la porchetta a Monte San Savino. E Nello non vive nel Bronx, ma in una villetta della frazione di Santa Caterina. La paura è arrivata fino a qui, ha scalato le curve della strada in collina, lungo una campagna di olivi e di viti, la Toscana aretina dei casolari, della bio agricoltura e della vita slow. La paura, il barista del Karisma, disco bar nella piana industriale di Monte San Savino, la conosce: “Tredici furti negli ultimi anni, nemmeno li denuncio più, però la porta o la finestra scardinata la devo aggiustare io”, dice circondato da telecamere di sicurezza. Fredy Pacini del “Gomme Service” qui lo conoscono tutti, e quasi tutti sono dalla sua parte: ha sparato e ucciso uno dei due ladri entrati nell’officina-negozio di biciclette da corsa. “Fredy uno di noi” si legge su centinaia di volantini appesi alle vetrine o sui muri. “Prima di giudicare dovete conoscerlo: a 15 anni viveva già in officina con suo padre, una vita di sacrifici”, ricorda Paolo Caporali, macellaio, che con Fredy è cresciuto in paese. “Io la pistola non la voglio, ma capisco chi la tiene in casa” aggiunge, due furti in vent’anni. “Le sembrano pochi? I furti ti segnano per sempre”. Eppure qui tutta questa emergenza, dai dati della prefettura di Arezzo, non sembra esserci. I furti (dall’auto, al cellulare, ai negozi, alle case) scendono in provincia da 5.795 del 2015 a 4.551 del 2017 e quest’anno, dato aggiornato al 27 novembre, siamo a quota 3.675. A Monte San Savino passano dai 181 di tre anni fa ai 147 dell’anno scorso, agli 85 di quest’anno (dato provvisorio). E negli esercizi commerciali nel 2018 ne è stato registrato soltanto uno. Com’è allora che il sindaco di centrodestra di Arezzo, Alessandro Ghinelli, scrive alla prefettura perché vuole l’esercito nelle strade? “Perché cosi possono fare sorveglianza antiterrorismo e carabinieri e polizia concentrarsi sul territorio”, spiega. Il tema della sicurezza è diventato un ordigno ideologico molto prima del tweet di Salvini per Fredy, qui la Lega soffia sulle paure e sull’importazione della criminalità: “1 ladri vengono da fuori”, è il pensiero comune. La percezione della paura è un sentimento che esce dai grafici e dai binari delle statistiche, pesca nei ricordi, c’è chi parla di un furto di dieci anni fa come fosse ieri. L’ultima classifica sulla qualità della vita nelle città pubblicata da Italia Oggi, vede Arezzo al ventesimo posto recuperando 13 posizioni, su quella del Sole24Ore è al ventunesimo. Insomma da queste parti non si dovrebbe stare così male. “Qui si viveva con le porte aperte fino a vent’anni fa - spiega Giacomo Bischeri, impiegato comunale - la gente fa fatica a pensare di dover mettere gli allarmi per andare a dormire e chiede più rigore. Quello che è accaduto ci ha sconvolto, ci dispiace, in paese ci conosciamo tutti per nome...”. Le telecamere della videosorveglianza sono arrivate anche in agriturismi e coloniche: “Per forza, oltre ai raccolti, rubano gli attrezzi”, dice un pensionato che ammette di avere in casa un paio di fucili (“però li uso per i cinghiali”). Arezzo è una provincia adesso a trazione di centrodestra che la sinistra ha perso, ma a Monte San Savino la sindaca di area Pd, Margherita Scarpellini, è stata riconfermata due anni fa: “Quando facciamo le riunioni in prefettura ci spiegano che non c’è una emergenza criminalità”. Invece la gente si lamenta, dicono che nemmeno vanno più a presentare le denunce “tanto non servono”, “i ladri non li prendono” e “se li prendono, li rimettono fuori”. “Ho chiesto più volte rinforzi - riprende Scarpellini - ma la caserma dei carabinieri, per esempio, la sera chiude e se c’è un allarme devono venire da Cortona”. Cioè a 35 chilometri. Lì, la sindaca è Francesca Basanieri, 39 anni, del Pd: “È inutile guardare i numeri delle denunce e dire “state tranquilli”. Serve una nuova cultura della protezione sociale”. Gruppi WhatsApp di vicinato, più dialogo coi cittadini. “Le frazioni si spopolano, chi resta va aiutato. La paura nasce dalle insicurezze sociali ed economiche e ha molte radici. Abbiamo riaperto una vecchia scuola trasformandola in un circolo - racconta, chiediamo agli abitanti di prendersi cura dei giardini, dei canili, delle aiuole. Aiuta a tenersi in contatto, a recuperare un senso di comunità”. Quello che Fredy Pacini, rintanato nella sua stanza soppalcata, di guardia come una sentinella dentro l’officina di via Costituzione, in quella vita a rovescio e reclusa, forse non riusciva più a sentire. Milano: “Pugni chiusi” a Bollate, un progetto e un film di Valentina Stella Il Dubbio, 1 dicembre 2018 “Sveglia tutte le mattine alle 4.30. Venticinque chilometri di strada per andar a lavorare. Ore a guidare il camion della nettezza urbana. Un pranzo veloce e poi in carcere a Bollate (ndr, che da ieri ha un sito rinnovato carceredibollate.it). Incontro i nostri ragazzi, gli insegno a tenere la guardia alta, gli insegno perché il pugilato mi ha salvato. Far del volontariato mi fa star bene. Mi fa sentire utile e parte attiva della società. Dietro ad ogni pugile e ad ogni detenuto ci sono le persone e la cosa che hanno in comune tutte le persone, è la capacità di sbagliare. Questo è Pugni Chiusi”. Parliamo di un progetto pugilistico nato nel 2016, rivolto ai reclusi ospiti nel carcere milanese, nato da una idea, o meglio un sogno, di Mirko Chiari che così ha raccontato la sua giornata tipo: prima netturbino, poi insegnante di boxe ai detenuti. Dal 2016 si svolgono tre allenamenti a settimana, di un’ora ciascuno, per i carcerati - oggi in 20 sono coinvolti nel progetto - durante tre giorni fissi alla settimana, lunedì mercoledì e venerdì dalle 17 alle 19. Provengono dai quattro dei sette reparti presenti al carcere di Bollate, circa la metà hanno un’età compresa tra 19 e i 30 anni. “C’è anche qualche anzianotto di 51 anni che si difende molto bene”, scrive Mirko. “Parlare di pugilato è sempre difficoltoso, parlarne in termini di crescita umana e professionale ancora peggio - spiega Mirko, con cui collaborano anche il maestro Bruno Meloni e Valeria Imbrogno campionessa Mondiale Wbc, già nota alle cronache per essere stata la compagna di Dj Fabo, soprattutto quando devi raccontare a chi non ha mai preso uno schiaffo il perché la boxe può aiutare molte persone”. Dopo due anni di attività costante ora Mirko sta per coronare il suo sogno: preparare i detenuti più meritevoli, sia sotto l’aspetto sportivo che di condotta, a combattere all’interno del penitenziario contro pugili esterni, liberi. Ma vorrebbe che questa storia che narra come lo “sport possa essere una grande leva emotiva per riemergere e costruire un nuovo futuro” venisse raccontata a tante persone. L’iniziativa è stata raccolta dal film maker Alessandro Best che, dopo un periodo di studi presso la New York Film Academy, è tornato in Italia dove tuttora vive, lavora, avendo fondato una casa di produzione indipendente. “Mi sono chiesto - racconta Alessandro - come faccio a non raccontare la storia di un sognatore come Mirko, che affronta la complicata burocrazia e i pregiudizi?”. Così nasce l’idea di un documentario che ha l’obiettivo di mettere in contrapposizione la vita sportiva e sociale di un pugile detenuto con quella di un pugile “libero”. Tracciare un percorso emotivo che racconti le diverse sfaccettature di carattere personale e come queste si evolvano quotidianamente grazie allo sport, sia in un contesto di detenzione che in un contesto di vita ordinaria. Attraverso interviste a i tre istruttori, la direzione carceraria, ad diversi detenuti, alle loro famiglie e ad alcuni pugili “liberi” verrà costruita la narrazione che ha l’obiettivo di raccontare come lo sport posso plasmare le persone, e come la loro condizione di libertà o reclusione possa risultare sia un beneficio che un ostacolo”. Infinity-Rti Mediaset ha creduto in questo progetto dando la possibilità di accedere ad un fondo di 5000 euro per produrre questo documentario. La condizione perché Infinity eroghi questo budget è che attraverso una raccolta di donazioni si riesca a raggiungere un importo di 5.000 euro. Quindi adesso tocca a tutti noi dare corpo e voce al sogno di Mirko e di Alessandro attraverso delle piccole o grandi donazioni. La pagina da consultare è: www. produzionidalbasso.com/project/pugni- chiusi. Si ha tempo fino al 24 gennaio. Milano: all’Ipm Beccaria, il “teatro misto” di universitari e detenuti di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 1 dicembre 2018 Per la prima volta un’università, in questo caso la Statale, entra al carcere minorile Beccaria e forma una classe “mista”. Mescola cioè i suoi studenti con i ragazzi detenuti. Risultato, dopo un mese di lezioni e di prove, uno spettacolo teatrale che va in scena stasera nel teatro del penitenziario. “Recitiamo un vero e proprio processo, “Romeo Montecchi: Colpevole o innocente?”, partendo dalla tragedia di Shakespeare dove l’innamorato di Giulietta, sedicenne, uccide Tebaldo per vendicare la morte del suo amico Mercuzio”, spiegano Giuseppe Scutellà e Lisa Mazoni dell’associazione Puntozero. I ragazzi reclusi non sanno molto di giustizia minorile: “Per renderli più consapevoli, insieme a tre docenti della Statale (Lucio Carnaldo, Margaret Rose e Maria Cristina Cavecchi) abbiamo teatralizzato i vari passaggi giudiziari, ragionando sul concetto di riscatto e di colpa”. La colpa. A sentire queste parole, i ragazzi del Beccaria diventano improvvisamente silenziosi. “Intorno al giudizio degli altri è ruotata la mia vita finora - ammette uno di loro, sedicenne come Romeo. Continuano a dirmi che io non “coincido” con il reato che ho commesso, e che il reato esprime solo una parte di ciò che sono. Prima o poi me ne convincerò”. Non sono parole leggere e nella tragedia di Shakespeare emergono in tutta la loro drammatica potenza. Ad assorbirla sono anche gli studenti della Statale, per cui Io “stage” al Beccaria costituisce un credito formativo da inserire nel curriculum. Del resto i ragazzi “con la libertà parziale o nulla”, come qualcuno di loro dice di sé, sono entrati precocemente nel mondo degli adulti: “Con il laboratorio recuperano esperienze tipiche dell’adolescenza. Il gioco, la fantasia la meraviglia”, sottolineano ancora da Puntozero. Il sogno di tutti è aprire il teatro del penitenziario con un accesso diretto per il pubblico dei milanesi. “A dicembre 2016 era stata inaugurata in pompa magna una grande porta bianca con una chiave dorata, preziosa, che pareva essere risolutiva. Ma dopo due giorni abbiamo saputo che per poterla utilizzare manca un’altra porta, quella dell’uscita di sicurezza”, ricorda Scutellà. Realizzarla costa 70 mila euro, con il crowdfunding su Produzionidalbasso (#sognounteatro) ne hanno raccolti 40 mila. “Coraggio - si dicono i ragazzi, che da poco hanno un nuovo direttore, Cosima Buccoliero - ne manca meno di metà, ce l’abbiamo fatta”. Genova: Dori Ghezzi inaugura nel carcere di Marassi la sala per i bimbi di Beatrice D’Oria Il Secolo XIX, 1 dicembre 2018 Locali per gli incontri con i genitori in cella, allestiti dagli stessi detenuti. La cosa più bella che ho fatto da quando sono finito qui dentro. È un orgoglio unico poter contribuire alla realizzazione di un luogo dove sai che passerai i momenti più belli, quelli con i tuoi bambini”. Ivan ha un tatuaggio sul collo e lo sguardo da duro ma si scioglie mentre racconta con emozione cos’abbia significato per lui, detenuto, contribuire attivamente alla realizzazione dei nuovi spazi a misura di bambino all’interno della casa circondariale di Marassi. Sale colorate, piene di giochi e libri, con buffi animali disegnati alle pareti, dove i papà possono passare qualche momento spensierato insieme ai loro bambini: si chiama “La barchetta rossa e la zebra” il progetto inaugurato ieri mattina nel carcere maschile, cui seguirà presto un’iniziativa “gemella” anche in quello femminile di Pontedecimo, ancora in fase iniziale. A tagliare il nastro una madrina d’eccezione, Dori Ghezzi, tornata nella “sua” Genova ferita appositamente per l’occasione: “I bimbi meritano di vivere felicemente anche in questi momenti così drammatici come l’incontro con un genitore recluso - ha commentato la moglie di Faber. E questo è un grande atto d’amore che la mia Genova, e sono fiera di essere una genovese adottiva, ha fatto nei confronti dei suoi piccoli cittadini: state dimostrando di essere una città dal cuore enorme”. E se in Italia sono circa centomila i minori che varcano le soglie del carcere per incontrare i loro parenti detenuti, in Liguria sono 3.500 e nelle carceri genovesi di Marassi e Pontedecimo si registrano circa 100 ingressi al mese. “E spesso si tratta di bambini che portano dentro un segreto inconfessabile, una vergogna - aggiunge Maria Chiara Roti, vicepresidente della Fondazione Francesca Rava, la Onlus promotrice dell’iniziativa finanziata dal Bando Prima Infanzia e sviluppata con l’aiuto del Comune e delle associazioni del terzo settore con la partnership di Eco Eridania e Ikea - Quindi creare per loro un luogo bello e accogliente dove incontrare i loro papà è il primo passo verso una genitorialità più completa, anche all’interno delle mura del carcere”. Perché tutelare il rapporto con la propria famiglia è un elemento essenziale del trattamento penitenziario: “La più grande soddisfazione è stata vedere l’entusiasmo dei detenuti che hanno partecipato attivamente alla fase edile grazie a tre borse lavoro - conclude il direttore della casa circondariale di Marassi, Maria Milano. Ciò dà maggior senso al nostro mandato, cioè il reinserimento sociale come un valore aggiunto, riportare alla società qualcuno che sia effettivamente integrato”. Pesaro: il sole a scacchi? No! Giochiamo a scacchi viverepesaro.it, 1 dicembre 2018 “Vedere il sole a scacchi” è solo un modo di dire elegante per parafrasare una cattiva esperienza in carcere, ma “Giochiamo a scacchi” è una bella frase che potranno affermare molti detenuti della Casa Circondariale di Pesaro. Nell’ambito del progetto Coni “Sport in Carcere”, il Coni Marche, la Casa Circondariale di Pesaro e l’Associazione Sportiva Dilettantistica “Scacchi Pesaro”, hanno deciso, per la prima volta nella Regione Marche, di portare gli scacchi in carcere: uno degli ambiti più bistrattati e meno considerati della società. Perché gli scacchi in carcere? Gli scacchi, antico e nobile gioco, anzi per meglio dire sport, richiedono poco spazio e molto tempo libero: uno sport adattissimo per portarlo entro le quattro mura di un carcere. Gli scacchi, come affermano studi scientifici a livello mondiale, hanno un positivo impatto a livello pedagogico. Giocare a scacchi in maniera costante, allena a controllare l’impulsività, fa riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, insegna a raggiungere gli obiettivi seguendo le regole senza prevaricazioni o scorciatoie: un vero strumento di riabilitazione sia nel mondo della scuola, sia in quello carcerario. Inoltre, unire gli scacchi al progetto “Sport in Carcere” non è certo una novità assoluta: questa interessante iniziativa è stata già attuata in alcuni penitenziari italiani e con ottimi risultati. Dal mese di Dicembre 2018 fino all’estate 2019, gli istruttori F.S.I. dell’A.s.d. “Scacchi Pesaro”, Alessandro Cirelli e Roberto Terenzi, terranno un corso di scacchi per tutti i detenuti che desidereranno partecipare. Enrichetta Vilella, a capo degli educatori della struttura carceraria pesarese, ha fatto sapere che oltre un terzo dei 250 detenuti presenti hanno già aderito all’iniziativa e sono pronti a sfidarsi sulle 64 caselle. Sarà un’esperienza formativa ed educativa unica per i detenuti, ma certamente lo sarà anche per gli educatori, la polizia penitenziaria e per gli stessi istruttori di scacchi. Sarebbe bello e auspicabile che questo sano progetto si espandesse a macchia d’olio in tutto il Paese. Da A.S.D. Scacchi Pesaro Pesaro: “Arte Sprigionata”, visita dei detenuti nei luoghi della cultura della città pesarourbinonotizie.it, 1 dicembre 2018 Il progetto vuole attivare occasioni di incontro tra la comunità e la Casa Circondariale di Villa Fastiggi. Giovedì 29 novembre il progetto “Arte Sprigionata” ha fatto tappa nei luoghi della cultura cittadina. Un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Pesaro guidati dal personale di Sistema Museo, ha visitato le istituzioni culturali più rappresentative, seguendo il filo rosso di Rossini e della musica. Il percorso ha coinvolto: i Musei Civici di Palazzo Mosca, Casa Rossini, il Conservatorio Rossini, il Teatro Rossini. La possibilità di entrare in musei e monumenti, di ascoltarne la storia e di ammirare con i propri occhi i tesori che vi sono esposti, è stata un’esperienza emozionante per i partecipanti; anche perché la visita rappresenta la fase conclusiva di un ciclo di incontri sul patrimonio artistico, che si sono svolti tra settembre e ottobre a Villa Fastiggi e che sono stati l’occasione per conoscere le vicende del territorio nei diversi periodi storici ma anche per scoprire la vita del Cigno di Pesaro nell’anno delle celebrazioni per il 150esimo della sua morte. Incontri importanti perché la storia della città offriva lo spunto per potersi raccontare con libertà attorno ad un tavolo. Testimonianza concreta di una città inclusiva in cui la cultura è strumento di dialogo e civiltà, l’iniziativa del 29 novembre è promossa da: Ministero della Giustizia/Dipartimento Amministrazione Penitenziaria/Casa Circondariale di Pesaro, Comune di Pesaro/Assessorati alla Bellezza e alla Solidarietà, Sistema Museo, Rossini Opera Festival, i progetti “Crescendo per Rossini” e “Nati per leggere”, Biblioteca San Giovanni, Reparto senologia/Ospedale di Fano, Associazione Isaia/Pesaro, Liceo Classico Linguistico T. Mamiani/Pesaro, Istituto Comprensivo G. Galilei/Pesaro, Associazione Teatro Aenigma/Urbino, Associazione A braccia aperte/Pesaro, Ondalibera Tv/Fano, Web tv, Il Nuovo Amico, G.R. Arie di Sbarre, Penna Libera Tutti, Massimiliano De Simone. Progetto che ha compiuto ormai 15 anni, ogni mese di giugno, l’Arte Sprigionata propone una manifestazione che si svolge alla Biblioteca San Giovanni, luogo che diventa opportunità fisica di confronto tra carcere e città. Dopo aver toccato temi come la poesia, il viaggio e i migranti, nel 2018 un argomento particolarmente ricco di spunti: “Pesaro città che accoglie”. Attivare numerose occasioni di incontro tra la città e la casa circondariale scavalcando le mura che le tengono divise, è infatti obiettivo primario per la stessa istituzione penitenziaria ma anche per enti, associazioni di volontariato e scuole. Perché un carcere umano è lo specchio di una società civile. Il “Partito dei giusti” non ama la stampa libera di Luca Bottura La Repubblica, 1 dicembre 2018 Nel putinismo alla vaccinara dei Cinque Stelle c’è ancora, per fortuna, un retrogusto abbondante di grottesco. Ieri, ad esempio, la sottosegretaria Castelli, quella che dà lezioni di economia dall’alto di uno stage nell’ufficio di un tributarista, l’apologeta del “questo lo dice lei”, la balbettatrice seriale in risposta a domande semplici tipo “ste tessere del reddito chi le stampa?”, è riuscita a far chiudere un account Twitter che ne parodiava gli sfondoni. Comprensibile: la falsa Castelli risultava più credibile. Intanto sui social si affacciava l’hashtag #iononcicasco, destinato una volta in più a stornare i mal di pancia dei fan contro la stampa, il “Quarto potere”. Un epiteto lanciato dal blog dei Sovranos che pesca, chissà quanto scientemente, nel titolo italiano di “Citizen Kane”, filmone di Orson Welles su un magnate della manipolazione che usava i giornali per scendere in politica. Oggi, si varrebbe di troli, blog e pagine Facebook. Con le stesse dinamiche per cui una Srl di Milano governa un partito e un Paese, ma additai conflitti d’interesse altrui. Questo perché, nella retorica gentista, il MoVimento non è un potere: è il Giusto. E il Quarto Potere non è un contropotere, poiché figlio di editori impuri. Ne rappresenta dunque una propaggine, ne difende gli interessi, esegue ordini. Sempre. Con la conseguenza, come da testo sgrammaticato che accompagnava il cancelletto di cui sopra, che i giornali vanno controllati perché “non fanno libera informazione disinteressata”. Di qui la modesta articolessa, gli insulti, le minacce, la richiesta di Massima diffusione!, la blandizie classista del (sacrosanto) equo compenso per i cronisti: li faremo pagare meglio - il messaggio - perché siano finalmente liberi di raccontare la verità. La nostra. Ma sempre servi saranno. Funzioneranno a gettone. Proprio come, nel desiderio, i destinatari della social card una tessera annonaria di partito. Che comprerà consenso. Tipo il Venezuela di Pinochet, direbbe Di Maio. È la misantropia al potere. Di chi vede nei propri lettori/elettori l’imbuto ideale di plateali invenzioni, un tempo insufflate anche da Mosca (i siti di “informazione” di Casaleggio erano un minchione di pomate miracolose e link a portali russoffili) ché tanto poi si può sempre menare la stampa tradizionale. Spesso esecrabile, ma almeno - nei propri, molti, limiti - polifonica. Nella Fattoria degli Animali di Casaleggio uno vale zero e tutti hanno un prezzo. Quello dei giornalisti, il salario che ricevono. Quello dei grillini, i 250.000 euro di riscatto che dovrebbero pagare per cambiare opinione. Non si fidano neanche tra di loro, e vogliono indicarci di quali notizie fidarci noi. #cascatemale. Migranti, la grande espulsione. Quarantamila fuori dai Centri di Alessandra Ziniti La Repubblica, 1 dicembre 2018 I prefetti scrivono ai gestori delle strutture: resta soltanto chi ha ottenuto l’asilo. Mattarella: “La sfida riguarda l’Europa e il mondo, serve una responsabilità comune”. Fuori dagli Sprar, come prevede la legge Salvini, ma anche fuori dai Cas e dai Cara, secondo una “conseguenziale” interpretazione data dai prefetti di tutta Italia che, da qualche giorno, hanno cominciato a riunire i gestori dei centri comunicando loro che i titolari di protezione umanitaria dovranno lasciare anche le strutture di prima accoglienza. Tutti, comprese donne e famiglie con bambini. Già ieri 26 persone sono state invitate a lasciare immediatamente il Cara di Isola Capo Rizzuto in Calabria: tra loro una donna incinta e un bambino di cinque mesi, subito presi in carico dalla Croce Rossa. Tutti migranti regolari, tutti con documenti di identità e permesso di protezione umanitaria, tutti destinati alla strada come altri 40mila, questa la stima fatta dalle associazioni di settore, interessati dai provvedimenti dei prefetti che, chi con data perentoria chi con maggiore elasticità a difesa delle situazioni più vulnerabili, hanno così allargato a dismisura la portata della legge Salvini, di fatto privando di qualsiasi tipo di accoglienza i titolari di protezione umanitaria. E proprio nel giorno in cui da Verona il presidente della Repubblica richiamava ad un senso di comune responsabilità nell’affrontare il problema dell’immigrazione “un fenomeno che non è più di carattere emergenziale ma strutturale e quindi costituisce una delle grandi sfide che si presentano all’Unione europea e a tutto il mondo ed è un’esigenza che richiama alla responsabilità comune”. Mattarella, facendo appello all’Unione europea ad “assumere questo fenomeno che non va ignorato ma affrontato” ha implicitamente invitato il governo italiano (che non intende sottoscriverlo) a leggere il Global Compact delle Nazioni Unite “prima di formulare un giudizio perché non si esprimono opinioni e giudizi per sentito dire”. Migranti. L’offensiva contro i permessi umanitari, ora 15mila italiani rischiano il lavoro di Alessandra Ziniti La Repubblica, 1 dicembre 2018 I migranti sotto protezione umanitaria dovranno lasciare anche i Centri di prima accoglienza. Tutti, anche famiglie con bambini. La comunicazione arriva dalle Prefetture. Prime espulsioni in tutta Italia. Rischiano 40mila persone, 15mila operatori perderanno il lavoro. L’input è partito dalla Direzione libertà civili e immigrazione del Viminale, secondo una filosofia che era già stata esplicitata dalla prefetta Gerarda Pantalone quando aveva illustrato i criteri del taglio dei famosi 35 euro per la gestione dell’accoglienza di ogni singolo migrante: niente lezioni di italiano, niente formazione, niente servizi sociali per i titolari di protezione umanitaria, inutile investire risorse per integrare chi è destinato a non rimanere in Italia alla scadenza del permesso. E, a quanto pare, “inutile” investire persino per dare un tetto a chi, comunque, in Italia in questo momento è da regolare, con documenti di identità e un permesso che, sulla carta, potrebbe alla scadenza essere trasformato in permesso di lavoro. Se solo, naturalmente, si desse la possibilità di compiere un percorso in questo senso. E invece fuori tutti, donne e bambini compresi, nonostante le assicurazioni di Salvini. Le circolari inviate in questi giorni dai prefetti di tutta Italia ai gestori dei pochi centri per richiedenti asilo e dei circa 7.500 centri di accoglienza straordinaria non risparmiano proprio nessuno. Neanche chi, per paradosso, se dovesse trovarsi oggi davanti ad una commissione territoriale, si vedrebbe riconosciuto un permesso speciale perché vittima di violenza e che invece, con il “vecchio” permesso umanitario, non solo non potrà più accedere al circuito di seconda accoglienza degli Sprar ma deve lasciare anche l’alloggio che ha finendo in strada da un giorno all’altro. Leggiamo ad esempio la comunicazione con la quale la prefettura di Potenza ha invitato i gestori dei Cas a dare il benservito ai propri ospiti. Ricordando come la legge Salvini prevede che l’accoglienza negli Sprar sia riservata solo ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati, “si fa presente che cesseranno conseguentemente i servizi di accoglienza nei confronti di titolari di protezione umanitaria che dovranno pertanto essere invitati a lasciare le strutture. Questa prefettura non corrisponderà dal primo dicembre il pagamento delle somme per i servizi di accoglienza nei confronti dei suddetti stranieri che dovessero rimanere nelle strutture”. Il cavillo è tutto in quell’avverbio “conseguentemente”: come dire che, visto che la nuova legge non prevede il trasferimento dei titolari di protezione umanitaria nel circuito Sprar, non c’è motivo di sostenere neanche i costi della prima accoglienza di persone che, a scadenza di quel permesso che è di fatto stato abolito, riceveranno nella maggior parte dei casi un provvedimento di espulsione. “Un’interpretazione del tutto arbitraria quella dei prefetti - dice Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci, associazione che con la sua rete gestisce circa 120 centri di accoglienza - è come se una persona che va al pronto soccorso e che aspetta di essere ricoverata in un reparto, in assenza di un posto, viene cacciata via anche dal pronto soccorso. È una linea di estrema gravità quella del Viminale che si lava le mani del destino di migliaia di persone scaricando sui Comuni che, con le poche risorse che hanno, dovranno farsi carico dell’assistenza di un esercito di nuovi senza tetto. Tutto ciò si trasformerà presto in un disagio ben visibile sotto gli occhi di tutti con una raffica di conflitti e di interventi securitari che faranno comodo a chi ci farà su la campagna elettorale”. Da qualche giorno il numero verde 800905570 di assistenza ai migranti è preso d’assalto. Chiama Ibrahim, 20 anni, della Guinea Bissau. A lui il permesso umanitario lo hanno concesso da appena due mesi e gli scadrà nel 2020, ma gli hanno già notificato il provvedimento che gli intima di lasciare il Cas in provincia di Viterbo nel quale si era appena inserito. “Dove vado? Che devo fare? Ma io adesso sono in regola. Volevo cominciare a imparare un lavoro”. E come lui decine e decine di altri. La galassia di associazioni che gestisce i centri in cui si prevede già la perdita del posto di lavoro per circa 15.000 italiani ha avviato un monitoraggio e interessato i legali per capire se esistono i presupposti di un ricorso. “Ma tutto questo - osserva ancora Miraglia - ha anche una grande valenza sociale e politica. Mentre prima queste persone, nell’iter dai centri di prima a quelli di seconda accoglienza, avevano una chance di entrare nel mondo del lavoro, adesso per loro è finita. Saranno solo manovalanza criminale. Il governo dovrà assumersi la responsabilità di trasformare potenziali lavoratori in casi sociali, gente che avrebbe potuto presto mantenersi da sola in un peso sociale”. Caso Regeni, Fico costringe il governo italiano e il parlamento egiziano a reagire di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 dicembre 2018 Dopo la sospensione dei rapporti parlamentari, i deputati del Cairo definiscono la mossa unilaterale e ingiustificata. La Farnesina convoca l’ambasciatore egiziano, ma Moavero non tocca l’expo di armi. La sospensione dei rapporti tra Montecitorio e parlamento egiziano è comparsa solo in serata sui media governativi del paese nordafricano per riportare le reazioni del Cairo. Ieri il parlamento egiziano ha criticato la decisione del presidente della Camera Roberto Fico definendola “ingiustificata”: “Ha assunto una posizione unilaterale che va oltre le inchieste, non fa gli interessi dei due paesi né aiuta a giungere alla verità e alla giustizia”, scrive l’Assemblea che si dice stupita che la sospensione (definita un’ingerenza nelle indagini) sia giunta a poche ore dall’ultimo vertice tra procure sull’omicidio di Giulio Regeni. Eppure quel vertice si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto, a parte il solito “clima positivo” e “la volontà di collaborare” che i parlamentari egiziani ripetono, sulla falsa riga delle dichiarazioni stantie del presidente al-Sisi. Di certo la mossa di Fico ha provocato uno scossone nel governo italiano, investito da un atto simbolico ma dal forte valore politico. Ieri il ministro degli Esteri Moavero Milanesi ha convocato l’ambasciatore egiziano a Roma, Hisham Badr, per ribadire la necessità di giustizia e sottolineare che “gli esiti della riunione tra magistrati hanno determinato una forte inquietudine in Italia”. Ma non è intervenuto su una questione più stringente, la partecipazione di aziende italiane alla Egypt Defence Expo, il 3 dicembre: “Le aziende hanno un loro ambito di autonomia, ne parleremo a livello di governo - ha detto Moavero - Non c’è nessun paragone tra rapporti commerciali ed economici e la verità su un’uccisione così barbara”. Strano modo di vedere le relazioni diplomatiche: i rapporti restano gli stessi anche con un regime che ha ucciso un concittadino e che è violatore seriale di diritti umani. Interviene il vice premier Di Maio, chiamato in causa dal “collega” di partito Fico: “risposte efficaci” da parte egiziana o Roma trarrà “le conseguenze”. “Quello che si fa come aziende in Egitto - ha detto ieri - riguarda il libero mercato, ma è chiaro che in un quadro di relazioni che riguardano anche l’economia, tutto risentirà delle mancate risposte sull’omicidio di Regeni”. Chiude in serata il premier Conte dal G20, sibillino: “Non appena rientrerò ci confronteremo e il governo assumerà le sue decisioni”. Scozia: la sigaretta elettronica sostituisce il tabacco nelle carceri di Barbara Mennitti sigmagazine.it, 1 dicembre 2018 Entra oggi in vigore il divieto di fumo nelle carceri scozzesi. Ma, come avevamo anticipato lo scorso agosto su Sigmagazine, i detenuti fumatori potranno sostituire la sigaretta di tabacco con quella elettronica, con grande vantaggio della loro salute e della qualità dell’aria negli istituti di detenzione. Lo Scottish Prison Service, l’amministrazione penitenziaria scozzese, sta infatti distribuendo gratuitamente sigarette elettroniche a tutti i carcerati che desiderano optare per la riduzione del danno. Le vendite dei prodotti del tabacco, invece, sono cessate già la settimana scorsa, anticipando di sette giorni l’entrata in vigore del provvedimento. Dunque anche la Scozia si avvia sulla strada percorsa da molte carceri inglesi e, più recentemente, francesi. Quella di salvaguardare la salute non solo dei detenuti, ma anche di tutti gli operatori carcerari, offrendo uno strumento che migliori la qualità della vita per tutti. Secondo i dati dello Scottish Prison Service il tasso dei fumatori fra i detenuti tocca quasi l’80 per cento. Una percentuale esorbitante che, comprensibilmente, espone ai pericoli derivanti dal fumo passivo anche i non fumatori, compreso chi in carcere ci lavora. Prima dell’entrata in vigore del provvedimento, l’amministrazione penitenziaria ha organizzato una serie di servizi di sostegno per i fumatori, fra cui gruppi di counselling e, soprattutto, ha garantito l’accesso agli strumenti sostitutivi. E, ancora una volta, si punta prima di tutto sulla sigaretta elettronica. Infatti anche quando sarà terminata la distribuzione dei kit gratuiti, i prodotti per il vaping rimarranno comunque in vendita all’interno delle carceri. Il direttore dell’amministrazione penitenziaria Colin McConnell dichiara alla Bbc di essere certo che la misura “migliorerà significativamente la salute, la qualità della vite e il senso di benessere di chi è nelle carceri, contribuendo a ridurre le ineguaglianze sanitarie”. Un passo avanti che viene reso, se non possibile certamente meno traumatico, proprio dal ricorso alla sigaretta elettronica. Il carcere duro in Giappone che annichilisce le persone di Federico Giuliani occhidellaguerra.it, 1 dicembre 2018 Il Giappone viene considerato dall’opinione pubblica una sorta di paradiso in terra. Eppure, pur con un bassissimo tasso di disoccupazione e la terza economia migliore al mondo, anche il Paese del Sol Levante ha i suoi fantasmi. Se da un punto di vista politico ed economico Tokyo naviga in acque tranquille, i problemi si materializzano quando osserviamo la società nipponica e da più vicino. Il caso Ghoson - Una delle istituzioni sociali giapponesi finita nel mirino della critica è quella carceraria. Una notizia di pochi giorni fa ci offre la possibilità di analizzare il funzionamento delle carceri locali. Prima i fatti: Carlos Ghoson è stato arrestato lo scorso 19 novembre con l’accusa di frode e illeciti finanziari. Fautore dell’alleanza strategica tra Nissan, Mitsubishi e Renault e presidente di questa triplice alleanza, Ghoson era considerato uno degli uomini più importanti del settore automobilistico. Il tutto fino a pochi giorni fa, quando il manager è stato accusato di aver fornito false informazioni sul proprio reddito e aver manomessi bilanci aziendali. Le irregolarità di Ghoson sarebbero andate avanti per cinque anni. Il gruppo automobilistico, intanto, ha fatto sapere di aver rimosso l’ex patron di Nissan dalla carica di presidente, e che l’alleanza tra le parti non è in discussione. La prigione di Kosuge - In attesa che la giustizia faccia il proprio corso, Ghoson è stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Kosuge, non distante da Tokyo. Le condizioni in cui si trova l’imprenditore sono a dir poco severe, considerando che stiamo parlando di una delle prigioni più infernali del Giappone. L’uomo si trova in una cella di 6,5 metri quadrati ed è sottoposto a un regime duro. Guardie inflessibili e una lunghissima serie di divieti, oltre a un controllo sfrenato che annulla completamente la privacy dei detenuti. Non viene utilizzata violenza fisica, anche perché in un contesto così psicologicamente pressante sarebbe alquanto inutile. Le condizioni dei detenuti - Funziona così per tutti i detenuti, Ghoson compreso. La cella è munita di un tatami, un futon, un tavolo e un cuscino. Per evitare qualsiasi rischio niente specchi. La porta ha solo una piccola fessura per consentire l’ingresso dei pasti (riso e zuppa). Il detenuto, ogni giorno, è svegliato dalla musica, non può allungarsi sul futron o sedersi al di fuori del tempo concesso per il riposo notturno. La quotidianità dietro le sbarre - Come passano le giornate i carcerati? Seduti tutto il giorno in una certa posizione sul proprio cuscino. Come svago si possono leggere libri e giornali ed è prevista un’ora d’aria di trenta minuti. La passeggiata, da svolgere in fila indiana con gli altri detenuti sul tetto del carcere, si svolge lungo una linea bianca. Nessuno può muovere la testa a destra o sinistra; si può solo guardare per terra. Inoltre i detenuti hanno il diritto di vedere i rispettivi avvocati solo nelle apposite sedute e mai da soli. Le mogli o parenti possono essere incontrati saltuariamente e alla presenza delle guardie. Le comunicazioni devono avvenire rigorosamente in giapponese. Una tortura psicologica - In Giappone le leggi parlano chiaro. Ghoson è rimasto in carcere per 23 giorni, il limite massimo nella prima fase burocratica. In questo lasso di tempo il procuratore locale ha raccolto le prove e interrogato il sospettato. Attenzione però, perché qualora lo stesso procuratore decidesse di cambiare capo di imputazione per il manager, la pena detentiva dell’uomo verrebbe prolungata di altri 23 giorni, per un totale di 46. E così è stato. Il significato del carcere duro giapponese - In linea generale il modello carcerario del Giappone altro non è che un’estremizzazione della stessa società nipponica. I concetti culturali che orientano le persone nella vita di tutti i giorni sono amplificati al massimo, proprio per reintrodurre i detenuti all’interno della comunità. Chi ha sbagliato non può far altro che imparare dai propri errori e redimersi. I valori più importanti che i carcerati assimilano sono tre. Gerarchia, responsabilità collettiva e annullamento dell’individuo - Il primo è la gerarchia. Sul solco delle altre civiltà confuciane, in Giappone ogni individuo ha un proprio posto nella verticalità dei rapporti umani. Dietro le sbarre i detenuti devono quindi rispettare le guardie nel modo più assoluto. A seguire troviamo la responsabilità collettiva: i membri di una collettività sono responsabili per eventuali illeciti commessi non solo da se stessi, ma anche da uno o più di loro. Il percorso si conclude con l’annichilimento dell’individuo. L’io non conta niente se paragonato al noi. Il fine ultimo del carcere giapponese è quindi quello di annullare lo stesso individuo per reintrodurlo all’interno della comunità civile, organizzata secondo criteri prestabiliti. Pakistan. Sette anni dopo non c’è ancora un colpevole per l’omicidio di Syed Saleem di Claudio Gallo La Stampa, 1 dicembre 2018 Reporter di razza, aveva ottime fonti sia tra i taleban che nei Servizi segreti pachistani. Il sospetto che il delitto sia stato commissionato dagli 007 non è mai stato provato. Syed Saleem Shahzad, come firmava i suoi articoli per AsiaTimes.com, con il Syed che in India e Pakistan indica la discendenza diretta dal Profeta, è morto a quasi 40 anni, massacrato di botte, probabilmente ucciso dai servizi segreti pachistani. Saleem qualche anno prima di crepare a Islamabad dopo un’intervista televisiva, aveva cominciato a collaborare con La Stampa. Aveva delle ottime fonti sia tra i taleban sia nei servizi segreti, l’Isi, il vero potere occulto del Pakistan. Con il suo inglese dalle erre arrotondate diceva: “Dammi un paio d’ore” e riusciva sempre a scovare qualcosa. Aveva un filo diretto con Ahmad Gul: ex generale a tre stelle, ex capo dell’Isi durante il governo di Benazir Buttho, aveva visto nascere i taleban magari dando anche una mano. Se Gul avesse raccontato tutti i suoi segreti avrebbe scoperchiato il Paese Invece se n’è andato in silenzio, tre anni fa, con l’etichetta di “terrorista globale” affibbiatagli dai suoi ex alleati americani. Poco prima di sparire Saleem aveva lasciato una nota a Human Rights Watch: nel caso gli fosse accaduto qualcosa i responsabili andavano cercati nell’Isi. Probabilmente i sequestratori lo hanno torturato perché rivelasse le sue fonti. La mattina del 31 maggio 2011 il cadavere ancora in giacca e cravatta fu trovato sulla sponda di un canale a sud della capitale. La moglie Anita e i tre figli piccoli lo avevano atteso invano. Prima di lui in Pakistan erano stati uccisi 80 giornalisti senza che nessun colpevole fosse scoperto se non nel caso del reporter del Wall Street Journal, Daniel Pearl. Non stupisce quindi che a sette anni dalla scomparsa le indagini non abbiano fatto un passo. Nei giorni della sua morte in un’email intercettata da Wikileaks, un analista di Stratfor aveva cinicamente concluso: “Il povero bastardo è entrato nella tana del coniglio ed è stato neutralizzato”. Il New York Times scrisse che Washington aveva le prove: nella sua morte erano implicati alti ufficiali dell’intelligence pachistana. Saleem aveva cominciato a fare il giornalista a Karachi. Era uno dei pochi che poteva entrare nelle zone dei taleban nell’Helmand oppure nel Waziristan dove si diceva che avesse soggiornato Bin Laden. Una volta, nel mezzo di uno di quei viaggi, sparì nel nulla: i taleban lo avevano tenuto prigioniero sospettando che fosse una spia. Alla fine conclusero che era soltanto un giornalista. Era diventato molto noto, non soltanto in Pakistan, i suoi articoli comparivano anche su Le Monde Diplomatique. Decise di trasferirsi a Islamabad, a contatto con i centri del potere e questo gli portò male. Nella capitale ebbe una lite all’ingresso di una piscina con una guardia privata che gli sparò nello stomaco. Rischiò di morire ma si riprese. Dopo la pubblicazione del suo libro “Inside Al-Qaeda and the Taliban” aveva scritto un articolo in due parti per Asia Times dove, in riferimento al recente attacco terroristico alla base aero-navale di Mehran a Karachi, rivelava l’esistenza di un nucleo segreto di Al Qaeda tra gli ufficiali della Marina. Nel clima di polemiche e sospetti seguito in Pakistan all’uccisione di Bin Laden, le sue affermazioni furono una bomba. Nel servizio parlava un ufficiale sotto anonimato. Da un po’ di tempo, raccontava, “si notavano strani raggruppamenti in alcune basi di Karachi che sembravano tradire lo spirito della disciplina militare”. I servizi segreti scoprirono che il gruppo progettava attentati contro funzionari e militari americani. Una decina di graduati, in maggioranza di basso rango, finirono in prigione. Pare che l’esercito avesse accettato di cacciare gli ufficiali senza pene detentive in cambio di una tregua. L’uccisione di Bin Laden ribaltò il tavolo e i terroristi, con sicuri aiuti interni, cartine e informazioni precise, il 22 maggio attaccarono la base aero-navale di Mehran, uccidendo 5 soldati e distruggendo diversi mezzi. Cominciarono così ad arrivargli messaggi di morte. Nelle email di Statfor c’era scritto che era “agente doppio”, che cioè lavorare anche per la Cia. Ma Saleem era un grande reporter, i suoi articoli testimoniano per lui. Infatti, uno scoop è qualcosa che vede la luce nonostante un qualche potere non lo voglia, non una velina passata da chi comanda al giornalista a tutela dei propri interessi. Per una serie di ragioni complesse il giornalismo come quello di Saleem è sempre più fuori posto in un mondo dove molti preferiscono fare a meno della democrazia e quelli che la sbandierano non ci credono. Nonostante, come realisticamente scrive Seymour Hersh nella sua memorabile autobiografia “i giornali mainstream e le televisioni continueranno a ridurre i reporter, ridurre il personale e tagliare i fondi per il buon giornalismo investigativo, con i suoi costi alti, i risultati imprevedibili, la capacità di irritare i lettori e attrarre costose azioni legali” ci tocca sperare contro la speranza che qualcuno abbia ancora voglia di ascoltare verità scomode, se no la storia è davvero finita.