Nuove carceri? I soldi presi dalla riforma “fallita” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2018 L’edilizia penitenziaria è l’obiettivo del governo per risolvere il sovraffollamento. Investire nell’edilizia penitenziaria è la parola d’ordine del Governo per risolvere il sovraffollamento. Ma è realizzabile? Il decreto legge sulle disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione è in Gazzetta Ufficiale. L’articolo 7 è dedicato proprio alle misure urgenti in materia di edilizia penitenziaria. C’è scritto testualmente che al fine di far fronte all’emergenza determinata dal progressivo sovraffollamento delle strutture carcerarie e per consentire una più celere attuazione del piano di edilizia penitenziaria in corso, ferme le competenze assegnate al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti dalla normativa vigente in materia di edilizia carceraria, a decorrere dal 1° gennaio 2019 e non oltre il 31 dicembre 2020, al personale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono assegnate le seguenti funzioni: a) effettuazione di progetti e perizie per la ristrutturazione e la manutenzione, anche straordinaria, degli immobili in uso governativo all’amministrazione penitenziaria, nonché per la realizzazione di nuove strutture carcerarie, ivi compresi alloggi di servizio per la polizia penitenziaria, ovvero per l’aumento della capienza delle strutture esistenti; b) gestione delle procedure di affidamento degli interventi di cui alla lettera a), delle procedure di formazione dei contratti e di esecuzione degli stessi in conformità alla normativa vigente in materia; c) individuazione di immobili, nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali, dismessi e idonei alla riconversione, alla permuta, alla costituzione di diritti reali sugli immobili in favore di terzi al fine della loro valorizzazione per la realizzazione di strutture carcerarie. Ma i soldi? Nel decreto c’è scritto che per l’attuazione di tali disposizioni si provvede nel limite delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente destinate all’edilizia penitenziaria. Per capire quali soldi verranno utilizzati bisogna rifarsi alla relazione tecnica per la legge di bilancio del 2019 e nello specifico all’articolo 43 dedicato proprio ai fondi per l’ordinamento penitenziario. C’è scritto testualmente che le risorse non utilizzate per la copertura dei decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario, “possano essere destinate ad interventi urgenti di edilizia penitenziaria e manutenzione ordinaria e straordinaria sugli immobili dell’amministrazione penitenziaria e minorile”. La disposizione è tesa ad ampliare la possibilità di utilizzo degli stanziamenti del Fondo istituito dall’articolo 1, comma 475, della Legge 205/ 2017 per l’attuazione delle disposizioni di cui alla legge 23 giugno 2017, n. 103 in materia di riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario, anche ad interventi urgenti per assicurare la funzionalità degli istituti e servizi penitenziari e minorili. In particolare, una quota delle risorse del Fondo, pari a circa 10.000.000 annui a decorrere dall’anno 2019, consentirà il finanziamento di interventi di manutenzione ordinaria sugli immobili dell’amministrazione penitenziaria e minorile. Quindi si tratta di prendere i soldi non utilizzati per rendere operativa la riforma dell’ordinamento penitenziario originale, poi modificata dall’attuale governo. Il piano carceri, come già riportato da Il Dubbio, è stato fallimentare nel passato. Oggi le risorse risultano ancora più scarse, tanto che i fondi per l’edilizia vengono presi dal fondo istituito dal governo precedente per la realizzazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il Dap però rilancia: sì alle misure alternative di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2018 Appoggio all’esecutivo e ricerca di altre strade. scrivono: “è opportuno rifarsi a soluzioni di minor impatto finanziario, capaci di offrire risultati in un più breve periodo di tempo”. La soluzione ottimale per far fronte al sovraffollamento, anche per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in linea con il Governo, è la costruzione di nuove carceri. Ma, nello stesso tempo, non può fare a meno di contemplare soprattutto le pene alternative, perché è “opportuno rifarsi a soluzioni di minor impatto finanziario e soprattutto capaci di offrire risultati, comunque significativi, in un più breve periodo di tempo”. È ciò che viene indicato nelle recenti linee guida indirizzate alle direzioni degli istituti penitenziari. Il Dipartimento, di concerto con la Direzione Generale Minorile e con l’Ucai, ha istituito un gruppo di lavoro, col compito di predisporre una brochure illustrativa, da consegnare a tutti i detenuti italiani ed extracomunitari, nella quale verranno offerte le informazioni di base per permettere ai reclusi, che sono in possesso dei requisiti previsti dalla legge, di richiedere ed accedere ai benefici alternativi alla pena. Per il Dap, tale soluzione è apparsa necessaria “in considerazione dell’elevato numero di detenuti che attualmente si trovano negli istituti penitenziari, pur potendo godere della possibilità di una misura diversa dalla reclusione carceraria”. Il Dap spiega che cause di simile situazione possono principalmente correlarsi al difetto, da parte dei detenuti, delle conoscenze giuridiche e processuali necessarie. Sempre nelle linee guida, si sottolinea che non può trascurarsi la necessità di avere un controllo più mirato, a livello dipartimentale, della distribuzione percentuale della popolazione nei vari territori rispetto alla capacità recettiva degli Istituti penitenziari. Il capo del Dap Francesco Basentini spiega che ha potuto personalmente constatare come i valori percentuali di allocazione dei detenuti all’interno dei vari Provveditorati presenta molte incomprensibili differenze, passandosi dal 160% di “accoglienza detentiva” nel distretto di Puglia e Basilicata, al 145% nel distretto della Lombardia, fino al 98% del distretto della Sardegna. Anche in tal caso, la Direzione Generale Detenuti e Trattamento nonché gli stessi Provveditorati dovrà adottare tutte le necessarie determinazioni, affinché si evitino singoli e localizzati fenomeni di micro- sovraffollamento. Oltre a ciò il Dap sottolinea che occorre lavorare all’interno sul fronte dei sistemi di gestione penitenziaria da adottare nei confronti dell’intera popolazione detentiva, al fine di consentire ad essa migliori condizioni esistenziali. Due quindi sono i profili da prendere in esame: la qualità di vita del detenuto e l’affettività. Per ciò che concerne la qualità di vita, il Dap evidenza come essa dipenda sovente da esigenze quotidiane piuttosto elementari o comunque facilmente esauribili, senza un particolare onere dell’Amministrazione. Viene fatto l’esempio della visione “allargata” dei canali televisivi che “senza dubbio, può essere consentita almeno nei casi in cui non siano indispensabili interventi tecnici particolarmente costosi”. Sarà cura, quindi, di tutti i Provveditori attivarsi per consentire la fruizione dei canali televisivi “aperti” del digitale terrestre a tutta la popolazione detentiva che, in virtù dello status o della corrispondente classificazione, ne può avere accesso. Per quanto riguarda l’affettività il Dap invita a riflettere sulla possibilità di offrire ai detenuti più occasioni di dialogo e di comunicazione con i propri familiari, sfruttando in forma ottimale le possibilità offerte dalla tecnologia. In questo senso, il Dipartimento spiega di aver avviato nei mesi scorsi uno studio di fattibilità che porterà all’installazione nelle sezioni (che non offrano rischi) degli istituti penitenziari di personal computer, dotati di programmi di video- conversazione (come Skype), in grado di permettere ai detenuti di interagire con i prossimi congiunti, favorendo ed agevolando nuove ed ulteriori occasioni di contatto affettivo. Quella voglia matta di punire. La giustizia nell’Era della Stizza di Luigi Manconi Corriere della Sera, 19 dicembre 2018 Partiamo da un interessante dilemma, diciamo così, cognitivo: come si concilia il dato del calo del 77.9 per cento degli omicidi volontari in Italia tra il 1992 e il 2018, col fatto che, nello stesso arco di tempo, il problema della sicurezza costituisce il primo fattore di angoscia collettiva? La risposta va cercata in ciò che viene detta “percezione”. La cosa va presa alla lontana. La “scena del crimine” nella sua ricorrente rappresentazione mediatica richiama immediatamente due tipi di domanda. Il metodo degli interrogativi è lo stesso e i contenuti sono speculari. Il microfono sfiora le labbra del familiare della vittima (in genere la moglie del tabaccaio o dell’orefice, ferito o ucciso nel corso di una rapina) e implacabile arriva la domanda: “Che pena vorrebbe per quei criminali”? Stessa scena, stessi personaggi, stesso microfono. Cambia, ma solo un po’, la domanda: “Potrà mai perdonare quei delinquenti?”. Tanto è diventato frequente questo dialogo, nelle sue molteplici varianti, che sfugge pressoché a tutti il suo connotato, alla lettera, primitivo. L’amministrazione della giustizia - il punire o il condonare - viene affidata al giudizio della vittima (come, nelle società tribali, il corpo del reo alla vendetta dei familiari dell’ucciso). All’opposto, la giustizia moderna si fonda sul principio di terzietà: il suo esercizio è attribuito a istituzioni indipendenti, che sottraggono agli opposti contendenti il potere di giudicare e sanzionare. C’è una ragione anche di natura psicologica per questa fondamentale tappa del progresso delle società. L’atto del punire porta sempre con sé, inevitabilmente, un elemento di piacere. La consapevolezza che l’infliggere un castigo comporti comunque un fondo di sadismo ha costituito un incentivo alla civilizzazione di quello che rappresenta uno dei processi essenziali della modernizzazione. Ovvero la formazione di un sistema neutro della giustizia, sottratto alla passionalità dei soggetti direttamente coinvolti (vittime, autori di reato, testimoni), che ha contribuito in misura fondamentale alla realizzazione di uno stato di diritto. Ma se il sistema di diritti e garanzie di quella forma contemporanea e liberale di Stato viene scosso costantemente da domande di provvedimenti autoritari e illiberali e da tempeste emotive che ne contestano la presunta fiacchezza nella repressione del crimine, sulla base appunto di quella “percezione” alterata e deformata, evidentemente un problema c’è. Eccome se c’è. Ed è proprio quello che affronta l’antropologo e sociologo francese Didier Fassin nel suo Punire. Una passione contemporanea (Feltrinelli). Rapportarsi alla materia pericolosa e delicata del castigo e delle pene impone di fare i conti non solo con il sistema del diritto, ma anche con i meccanismi di funzionamento della psicologia sociale e della morale collettiva. Infatti, per capire come sia stato possibile che negli ultimi dieci anni nelle società democratiche e con i crimini in calo si sia registrata una recrudescenza della repressione e della punizione, occorre guardare non solo agli ordinamenti giuridici e ai codici, ma anche alle paure e alle ansie, alle inquietudini e alle debolezze che si agitano nel fondo della vita sociale. È allora che si avvia l’era del castigo, negli anni Settanta e Ottanta, ed è un fenomeno che riguarda tutti i continenti e, in particolare, quello europeo e quello americano. All’epoca, negli Stati Uniti le persone recluse nelle carceri federali erano circa 200 mila. Oggi raggiungono i 7 milioni: in questo incremento, un ruolo fondamentale è stato giocato dalla “guerra alla droga” che ha coinvolto prevalentemente individui maschi neri. In Europa - con l’eccezione di alcuni Paesi scandinavi - l’aumento della popolazione detenuta si registra ovunque, con un picco in Italia (più 180 per cento in quarant’anni). Secondo Fassin la spiegazione è da ricercare nella combinazione di due fattori, uno culturale (la crescente intolleranza verso comportamenti devianti e trasgressivi) e l’altro politico: ovvero il populismo penale delle élite al governo, che agitano, a fini elettorali, ansie e paure (ed è una delle cause di quella “percezione” di cui si è detto). Ecco un altro motivo di interesse: molto spesso i provvedimenti più criminogeni vengono presentati come destinati a tutelare il popolo: e invece - argomenta Fassin - molto spesso le scelte politiche selezionano chi deve essere punito, circoscrivendo le fasce sociali da colpire. Una maggiore severità, infatti, porta molto spesso a una maggiore diseguaglianza. E questo si manifesta in modo nettissimo nelle conseguenze della “guerra alla droga”. Nell’intento di elaborare una vera e propria antropologia del castigo, Fassin prende le mosse da un’analisi empirica e da un’ampia letteratura scientifica, fino a esplorare le radici profonde della volontà di punizione nei comportamenti individuali e collettivi. È qui che si ritrova ciò che Giuseppe De Rita e il Censis hanno definito rancore, quale motivazione più intensa di quella volontà così diffusa di rivalsa sociale. E senza dubbio la definizione è appropriata, dal momento che persino il suono del termine in italiano (quel ran e, poi, ancora una erre nell’ultima sillaba) fa echeggiare un brontolio, un rumore torvo, qualcosa che cova, nel profondo del corpo collettivo della società. Ma la categoria del rancore, che ha una sua grandezza, è composta e accompagnata da altri sentimenti per così dire “minori”. La stizza è uno di questi e in genere viene trascurata. In apparenza, una emozione molto ordinaria e domestica, inelegante e mediocre. Ma se assume la forma e la forza di una reazione collettiva, essa è destinata a lasciare un segno nella società. È un sentimento che ha una sua peculiarità perché si basa su motivazioni occasionali, estemporanee, in genere superficiali, ma che si addizionano e si alimentano vicendevolmente, dove il ritardo dell’autobus si somma alla cafoneria dell’impiegato delle poste, il colesterolo nel sangue all’aumento del prezzo della benzina, la legge Fornero sulle pensioni alla cacca dei cani sul marciapiede. È un dispetto, un’irritazione, un umore che non ha radici profonde. Ma che determina una risposta insofferente e una replica intollerante. Non a caso, il gesto di rabbia nel gioco del calcio si chiama proprio fallo di reazione. Che si vada, dopo quella del Castigo verso l’Era della Stizza? Qui interviene un’altra considerazione significativa. È opinione comune che a invocare punizioni e pene siano coloro che sanno di non meritarle e di non doverle subire (diciamo così, “le persone oneste, gli innocenti”). Ma probabilmente è vero l’esatto contrario: la voglia di punizione degli altri nasce da una sorta di bisogno di redistribuzione, diffusione capillare e condivisione della quantità di castigo meritata dalla cattiveria complessiva della società. Quasi un desiderio di risarcimento per quello che si sa di dover subire. Che nessuno sfugga alla punizione serve, al colpevole consapevole di esserlo, a sentirsi almeno un po’ alleviato nella propria espiazione. L’Anticorruzione è legge: la Camera dà via libera con 304 Sì. Ecco che cosa prevede La Stampa, 19 dicembre 2018 Il ddl anticorruzione incassa anche il terzo ed ultimo via libera da parte della Camera, e diventa legge. La maggioranza supera indenne due votazioni a scrutinio segreto su due emendamenti, di cui uno - sempre a prima firma dell’ex M5s Catello Vitiello - molto simile a quello su cui il governo fu battuto in prima lettura e relativo al reato di peculato. Diverse le novità introdotte dal provvedimento: dalla riforma della prescrizione, che prevede lo stop dopo il primo grado di giudizio senza distinzione tra sentenza di condanna o di assoluzione, e il cosiddetto “Daspo a vita” per i corrotti. Ma il disegno di legge, fortemente voluto dal Movimento 5 stelle e che ha creato, durante il suo iter, non poche frizioni con gli alleati della Lega, prevede anche una stretta in termini di trasparenza e controllo sui partiti, movimenti politici e fondazioni. Il testo, infatti, si suddivide in due parti: una relativa alle norme che hanno l’obiettivo di potenziare l’attività di prevenzione, accertamento e repressione dei reati contro la pubblica amministrazione. L’altra relativa ai partiti. - Daspo a vita per corrotti e corruttori: incapacità a vita di contrattare con la pubblica amministrazione (norma che vale per i soggetti privati, in particolare gli imprenditori) e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i pubblici ufficiali. Sono due delle misure più stringenti introdotte dal ddl. - Agente sotto copertura: viene introdotta la figura dell’agente “sotto copertura” per i reati di corruzione. Norma criticata dalle opposizioni, che l’hanno ribattezzato “agente provocatore”. In sostanza, le già previste operazioni di polizia sotto copertura vengono estese al contrasto di alcuni reati contro la pubblica amministrazione. L’agente sotto copertura non è punibile se, al solo fine di acquisire elementi di prova, mette in atto condotte che costituirebbero reato. Durante l’esame in prima lettura alla Camera, però, è stato raggiunto un accordo per escludere dalle cause di impunibilità l’agente che ha agito in difformità dell’autorizzazione o in violazione di norme di legge. - Inasprimento pene: Vengono inasprite le pene per il reato di corruzione impropria, che passano nei limiti minimi da uno a tre anni di carcere e nei massimi da sei a otto anni. Viene inoltre previsto un giro di vite sulla appropriazione indebita, prevedendo la reclusione da due a cinque anni e la multa da 1.000 a 3.000 euro. - Salta obbligo arresto in flagranza: previsto dal testo originario del ddl, dopo una mediazione all’interno della maggioranza ma anche con le forze di opposizione, la norma è stata soppressa. - Stop prescrizione dopo primo grado ma in vigore nel 2020: è una delle norme più contestate e prevede che la prescrizione viene sospesa dalla sentenza di primo grado o dal decreto di condanna. In sostanza, la prescrizione non decorre a partire dal primo grado di giudizio, senza fare alcuna distinzione, però, tra sentenza di condanna e sentenza di assoluzione. Dopo l’accordo raggiunto tra M5s e Lega, viene stabilito che la riforma entrerà in vigore dal 1 gennaio 2019. - Nessuna delega a governo per riforma processo penale: nel ddl non viene inserito e messo nero su bianco uno dei punti dell’accordo raggiunto tra alleati di governo che ha sbloccato la riforma della prescrizione, ovvero la più ampia riforma del processo penale, che dovrebbe essere contenuta in una legge delega. - Eliminato peculato attenuato: era la cosiddetta norma “Salva-Lega”, così ribattezzata dalle opposizioni. Con l’approvazione a scrutinio segreto di un emendamento presentato dall’ex M5s Catello Vitiello, su cui la maggioranza e il governo sono stati battuti in prima lettura, all’articolo 323 del codice penale sull’abuso d’ufficio viene inserito un comma che restringe e ammorbidisce il reato di peculato, ossia l’appropriazione o l’utilizzo di beni della Pubblica amministrazione. Al Senato è stato ripristinato il testo originario e, quindi, la norma è stata eliminata dal ddl. - Restituzione delle somme ricevute e non di quelle promesse: la sospensione condizionale della pena è subordinata alla restituzione dei soldi ricevuti per farsi corrompere o dei soldi dati per corrompere, ovvero la somma equivalente al prezzo o al profitto del reato. Il giudice, nella sentenza di condanna per specifici reati contro la Pubblica amministrazione, può decidere di concedere la sospensione condizionale della pena ma disporre che non estenda gli effetti anche all’interdizione dai pubblici uffici e alla incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. In sostanza, resta in essere il Daspo. Durante l’esame in commissione alla Camera in prima lettura è stata eliminata la norma che prevedeva la restituzione delle somme promesse e non di quelle effettivamente ricevute o date. - No pene alternative per corrotti: Non saranno possibili l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione per i condannati per reati contro la pubblica amministrazione come il peculato, la concussione, la corruzione. - pentiti e ravvedimento operoso: non è punibile chi si ravvede, si autodenuncia e collabora con la giustizia. Ma il ravvedimento deve avvenire entro 4 mesi dalla commissione del reato. Da questa norma è stato escluso il reato di traffico di influenze illecite, dopo un accordo raggiunto con le opposizioni che temevano ripercussioni sui sindaci e gli amministratori locali, che sarebbero potuti essere oggetto di delazioni. - Salva-Sindaci: è stato escluso l’abuso d’ufficio aggravato dall’elenco dei reati per i quali si prevede l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. L’emendamento era di Forza Italia ed è stato approvato da tutti i gruppi in commissione in prima lettura. - Riabilitazione più breve: Si accorciano i tempi per i corrotti per poter ottenere la riabilitazione. Si passa da 12 a 7 anni. Tuttavia, la riabilitazione non ha effetto sulle pene accessorie perpetue. La dichiarazione di estinzione della pena accessoria perpetua avviene quando sia decorso un termine di almeno sette anni e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta. - Utilizzo di trojan per le intercettazioni: si potranno intercettare le comunicazioni tra presenti nelle abitazioni o in altri luoghi di privata dimora attraverso i cosiddetti trojan. Viene abrogata infatti la norma che ne limitava l’uso solo quando vi era motivo di ritenere in corso l’attività criminosa. I trojan potranno essere utilizzati sui dispositivi elettronici portatili anche nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. - Trasparenza su soldi ma “salve” feste di partito: stretta sulle donazioni ai partiti e movimenti politici. Ogni donazione che supera i 500 euro annui deve essere trasparente e, quindi, il nome del soggetto che effettua la donazione deve essere pubblicato on line. Ma sono escluse tutte quelle attività “a contenuto non commerciale, professionale, o di lavoro autonomo di sostegno volontario all’organizzazione e alle iniziative del partito o del movimento politico”. Dunque, dovranno essere pubblicati e resi noti i nomi dei donatori che versano più di 500 euro complessivi all’anno. Inoltre, l’obbligo viene esteso alle liste o ai candidati a sindaco dei comuni superiori ai 15 mila abitanti. È vietato ricevere contributi, prestazioni o altre forme di sostegno provenienti da governi o enti pubblici di Stati esteri e da persone giuridiche aventi sede in uno Stato estero. - Stretta su dichiarazione redditi parlamentari e governo: Norme più stringenti sulle dichiarazioni dei redditi di parlamentari, esponenti del governo e tesorieri di partito, che dovranno rendere pubbliche tutte le donazioni ricevute di importo annuo superiore a 500 euro (anziché 5.000, come previsto dalla legge finora vigente), direttamente o attraverso comitati di sostegno; ne deve essere al contempo data evidenza nel sito internet del Parlamento italiano. Viene inoltre abbassato a 3.000 euro (rispetto a 5.000 euro, come previsto dalla normativa vigente) il tetto annuo di finanziamento o contribuzione al raggiungimento del quale è previsto l’obbligo di sottoscrivere una dichiarazione congiunta tra il soggetto erogante ed il beneficiario. - Giro di vite su fondazioni: Norme più stringenti per le fondazioni, che vengono equiparate ai partiti politici e, quindi, sottoposte agli stessi obblighi sulla trasparenza validi per i partiti e i movimenti politici. Norma duramente contestata dalle opposizioni, e ribattezzata “salva-Casaleggio”. - Stop soldi coop a partiti: Le cooperative non potranno più finanziarie i partiti politici. Prescrizione, penalisti in trincea: “Quella norma va cancellata” di Errico Novi Il Dubbio, 19 dicembre 2018 Il presidente Ucpi Caiazza alla manifestazione di Bari: “sarà un anno di battaglie”. “L’entrata in vigore posticipata al 2020 deve essere colta come un’occasione per rafforzare la lotta in difesa dei diritti”, dice il leader dei penalisti, “e serve l’intesa con l’Anm per stanare il Governo sulla riforma”. “Dite pure che ci chiudiamo nelle università. Ditelo. Ne siamo orgogliosi”. Gian Domenico Caiazza lancia la sfida proprio dall’aula magna di un ateneo, quello di Bari. È lì che il presidente dell’Unione Camere penali ha voluto riunire avvocati, magistrati e rappresentanti dell’accademia nella seconda delle due giornate di astensione “per il diritto alla ragionevole durata del processo”. È l’evento contro la “riforma” della prescrizione. E sulla norma che nelle stesse ore viene licenziata con nonchalance dal Parlamento, dentro l’incredibile ddl Spazza corrotti, l’avvocatura penale italiana decide di restare in trincea. “Ci troviamo di fronte alla rivendicazione di un modo rovesciato di intendere la legislazione in materia penale: proprio il fatto di ignorare il punto di vista dei giuristi diventa una sorta di certificato di purezza. In realtà, è un’idea barbarica”, dice il leader dell’Ucpi. Resta l’entrata in vigore posticipata al 1° gennaio 2019. Caiazza lo considera comunque “un risultato politico: nell’anno che ci aspetta daremo battaglia. Contiamo sulla forza millenaria delle nostre idee, della ragione di chi ha dalla sua parte la conoscenza, di un principio che esiste da secoli, in base al quale in un processo penale si può anche correre il rischio di assolvere un colpevole ma giammai si deve rischiare di condannare un innocente”. L’intervento è scandito da continui applausi, e torna più volte su un aspetto: “Noi avvocati penalisti siamo riusciti a far scoccare la scintilla da cui ora si sprigiona nel Paese un’energia positiva straordinaria, una mobilitazione intellettuale mai vista prima, soprattutto se si considera il coraggio con cui l’accademia rinuncia alla propria tradizionale prudenza”. L’Ucpi ha scelto Bari, e l’incontro di ieri mattina è introdotto dalle testimonianze di due vertici dell’avvocatura che si trascinano il trauma di una ferita terribile, quella della giustizia penale costretta, nel capoluogo pugliese “a peregrinare ormai fra 9 sedi diverse, disseminate anche fuori dalla città”. Si tratta dei presidenti dell’Ordine degli avvocati, Giovanni Stefanì, e della Camera penale, Gaetano Sassanelli. Scontano sulla propria pelle e su quella dei loro colleghi l’assurdo di un’edilizia giudiziaria in via di decomposizione. Il Palazzo dove avevano sede la Procura e le aule per il dibattimento è inagibile, destinato allo svuotamento definitivo, ma è anche il simbolo di una condivisione fra avvocati e magistrati che mai come a Bari si è realizzata nella sua forma più compiuta. “Ed è ad avvocati e magistrati che il ministro della Giustizia Bonafede dovrebbe dare ascolto”, ricorda Sassanelli. “Non lo fa, ed è grave. Perché la parola che andrebbe tenuta in considerazione, sul processo penale, non è quella che volteggia sul web, ma è il giudizio di chi, come tanti professori di diritto penale, ha il coraggio di uscire allo scoperto”. È d’altra parte a Caiazza, ricorda il vertice dei penalisti baresi, che “già si deve l’idea di un manifesto per la giustizia penale liberale sottoscritto da tanti autorevoli giuristi”. Adesso quella schiera è diventata un piccolo esercito. Guidato proprio dagli avvocati. “Che si battono nell’interesse dei cittadini”, dice Stefanì. E che, nota il presidente del Cnf Andrea Mascherin, “hanno la missione di portare in salvo l’arca dei diritti in questo diluvio universale che pare travolgere il nostro tempo. È sul piano culturale che è giusto condurre questa battaglia perché è nella testa dei cittadini che rischia di insinuarsi il messaggio di un sistema efficace solo se ci sono più carcere e più condanne”. Bari è anche la cornice giusta per mettere al primo posto il nodo delle risorse per la giustizia. “E noi, la nostra Unione Camere penali, non deve considerare questo tema con un atteggiamento quasi di superiorità: è invece centrale”, spiega ancora Caiazza nel suo intervento conclusivo, “perché con questa maggioranza poi i deficit nelle strutture te li fanno pagare in termini di garanzie”. Ed è su questo, appunto, “che dobbiamo trovare coesione tra avvocati e magistrati, rivolgerci con una voce al ministro Bonafede, al quale dovremmo proporre altre soluzioni condivise per cogliere l’obiettivo del tavolo sulla riforma penale, ossia arrivare alla ragionevole durata del processo”. Il presidente dell’Ucpi si rivolge in particolare a un autorevole rappresentante della magistratura associata, il segretario generale dell’Anm Alcide Maritati, che è seduto con lui sul banco dei relatori e contro il quale nel corso del dibattito si è scagliato con qualche eccesso polemico il deputato di Forza Italia (e avvocato) Francesco Paolo Sisto. A Maritati, Caiazza chiede di “andare insieme da Bonafede e dirgli che siamo d’accordo su tre punti: rafforzamento dell’udienza preliminare, estensione dei riti alternativi e una seria depenalizzazione”. In gran parte della platea scatta un riflesso immediato: ma se l’attuale governo se n’è infischiato di una dozzina di articoli della Costituzione sfregiati con lo “Spazza corrotti”, potrà mai accogliere proposte di riforma che guardano a pene meno alte e a meno reati da perseguire? “E noi proprio per questo dobbiamo mettere sul tavolo, noi avvocati insieme con l’Anm, tali soluzioni”, incalza il leader dei penalisti, “per costringere chi bluffa a venire allo scoperto”. Caiazza si guadagna un applauso anche su questo, e aggiunge una cosa determinante: “Nel confronto politico non si può pretendere di andare oltre la chiara denuncia dei danni provocati dalle politiche altrui. Ma in tal modo finalmente si costringe la controparte ad assumersi le proprie responsabilità”. Perché certo sarebbe clamoroso se, di fronte alla proposta di una “depenalizzazione seria” invocata ormai senza equivoci anche dal presidente dell’Anm Minisci e dal vicepresidente del Csm Ermini, la maggioranza rispondesse che non va bene perché non vuole depenalizzare neppure mezzo illecito. E non si può affatto escludere che sia questo il punto di caduta della discussione tra “comunità dei giuristi” (come preferisce ormai definirla Caiazza), da una parte, e maggioranza dall’altra. Se finisse così, resterebbe solo la politica della barbarie di cui parla Caiazza. E, contro, quei giuristi passati dal chiuso delle aule alla trincea. Il caso prescrizione. La giustizia creativa con le scarpe di cartone di Carlo Nordio Il Messaggero, 19 dicembre 2018 Dunque il decreto anticorruzione sta per diventare una Legge dello Stato. Con esso, sarà inserita quella mostruosità giuridica che prevede la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Non sono servite le proteste degli avvocati, dei professori universitari e degli stessi magistrati, né la clamorosa sintonia di Forza Italia e del Pd su di un tema - la giustizia - che li aveva sempre ferocemente divisi. Nemmeno il severo monito del ministro Giulia Bongiorno, che aveva definito questa novità una bomba atomica ha convinto il Guardasigilli a cambiare idea. La risposta di Bonafede è stata sempre la stessa: la riforma della prescrizione sarà accompagnata da quella, più organica, dell’intero processo penale, ed entrambe entreranno in vigore alla fine del prossimo anno. Peccato che della prima si sappia tutto, e della seconda non si sappia nulla. Nella peggiore tradizione italiana intanto si parte, e poi si vedrà: ancora una volta andiamo in Russia con le scarpe di cartone. Il lettore si domanderà - forse infastidito - perché si dia tanta importanza a questa piccola modifica: nella sua visione pragmatica, e in fondo giustificata, avrà capito che, nella sostanza non cambierà granché. I corrotti non si faranno certo intimidire dall’ennesimo aumento di pene, né dall’agente infiltrato, né dalle altre belle pensate di un legislatore confuso e confusionario. Quanto ai tempi del processo, sono già così intollerabili da rendere ininfluente anche un loro ulteriore allungamento. Annegare in due metri d’acqua di fiume o nell’abisso dell’oceano è la stessa cosa: e il nostro sistema penale è così sfasciato che un ennesimo colpo non aggrava un crollo già avvenuto. Questo, appunto, può pensare il disincantato cittadino. Ma in realtà le cose non stanno proprio così. Perché la gravità di questo provvedimento non consiste tanto nei difetti che contiene, ma in quelli che esso riflette ed esprime: l’inavvedutezza tecnica e l’ostinata preclusione alla riflessione critica e al confronto leale. Quando il Ministro della Giustizia ha detto di aver ascoltato tutti, ma che alla fine decide la politica, ha manifestato con incauto candore queste insufficienze. Perché è vero che il Parlamento è sovrano, ma lo è quando si sottopone al vaglio della ragionevolezza e della competenza, e non all’istinto di sensazioni emotive. Perché se davvero il Ministro crede di poter riformare il codice di procedura penale entro un anno, è in preda a un’esaltazione coribantica che ne altera la percezione della realtà. In dodici mesi non farà né un nuovo codice né tantomeno le assunzioni di personale necessarie farlo funzionare. Ma - e questo è il punto più grave - questa funesta approssimazione non è affatto isolata. Essa è purtroppo coerente con la confusione che sta emergendo nella legge di bilancio, un vero enigma dentro un indovinello avvolto in un mistero; e ancora, nelle oscillanti incertezze sulla sorte delle grandi opere, sulle autonomie delle regioni, e, più grave di tutte, sui rapporti con l’Europa. Nella sua beata speranza di coniugare la riforma della prescrizione con quella del codice, il ministro Bonafede esprime la complessiva fantasia creativa del Governo quando promette insieme pensioni, sussidi, investimenti e riduzioni fiscali: per gli inglesi è un “wishful thinking”, per i romani era un “putant quod cupiunt”. Per noi, è il Paese di Bengodi. Queste amare riflessioni non devono tuttavia risolversi in una polemica sterile o in una inerzia rassegnata. Nella Storia non c’è nulla di scritto a priori, ed esiste sempre la possibilità di un ravvedimento operoso. Per quanto riguarda la prescrizione, saremmo i primi ad esultare se il Ministro smentisse le nostre previsioni. Ora tocca a lui dimostrare con i fatti che il suo ottimismo era giustificato. Anche se non riuscirà a rifare il codice, semplifichi le procedure, inizi la depenalizzazione, colmi gli organici, incrementi le risorse, razionalizzi gli uffici e riordini le oltre ventimila leggi che rendono asfittico e incerto il nostro sistema giuridico. Vasto programma vero? Beh, non più arduo di quanto non sia conciliare il reddito di cittadinanza conia riforma delle pensioni e il tetto del deficit. Se il Governo vuole tagliare le opinioni di Sergio Rizzo La Repubblica, 19 dicembre 2018 Più della misura in sé, è il messaggio insito nel taglio ai fondi per l’editoria che inquieta. Lo stesso sottosegretario Vito Crimi, nel minimizzare la portata della sforbiciata, ora è costretto a demolire l’architrave della propaganda grillina contro i giornali che vivrebbero solo grazie a inesistenti finanziamenti statali. Ammettendo che “a fronte di circa 18 mila testate il contributo diretto dello Stato lo prendono 150 aziende”. Fra cui, per inciso, non ci sono quelli che loro amano chiamare “i giornaloni”, che da un decennio abbondante non percepiscono più (giustamente) denari pubblici. Vero è che nel laghetto dei sussidi scampati ai ridimensionamenti degli anni passati restano alcune storture, talvolta considerevoli. Grazie alle norme vigenti, per esempio, possono beneficiare dei contributi superstiti anche cooperative di comodo che gestiscono giornali di immobiliaristi, imprenditori sanitari e società editoriali quotate in Borsa. Storture che sarebbe necessario correggere per concentrare gli aiuti verso chi ne ha davvero diritto. Invece sopravvivono, con il risultato che il taglio orizzontale finirà per colpire soprattutto i più deboli. Compreso chi, è il caso di Radio radicale, da lunghissimo tempo svolge un servizio pubblico insostituibile. Poco importa. L’importante è dare il segnale che il Movimento onora la promessa di abolire ogni sostegno pubblico alla stampa, anche se si tratta di un impegno strampalato, visto che la stagione dei fondi statali ai “giornaloni” invisi ai grillini si è chiusa da un bel pezzo. Al contrario, i cittadini continuano a foraggiare abbondantemente la tv pubblica, di cui ora il nuovo potere a tinte gialloverdi si è impadronito, lottizzandola come al solito senza ritegno. E dopo le minacce di intervenire sulle inserzioni pubblicitarie delle imprese partecipate dallo Stato e sull’Iva agevolata di cui godono i giornali (semplicemente perché la nostra democrazia assimila la libertà di stampa ai generi di prima necessità), ecco una spallata simbolica a danno dei più deboli. Che contiene anche un cupo avvertimento in linea con la guerra dichiarata ai giornalisti dai regimi illiberali in tutto il mondo, e peraltro già serpeggiato nelle sortite pubbliche dei vari leader. “Vi mangerei per il solo gusto di vomitarvi” (Beppe Grillo); “Puttane” (Alessandro Di Battista); “Giornalisti di inchiesta diventati cani da riporto di Mafia capitale, direttori di testata sull’orlo di una crisi di nervi, scrittori di libri contro la casta diventati inviati speciali del potere costituito” (Luigi Di Maio). Parole che rivelano un pensiero lucido: la convinzione che la libera stampa, nel mondo ideale e distorto della democrazia diretta dai social media, ormai non sia più necessaria. In subordine, l’idea che i giornali debbano essere “imparziali”, dunque non avere opinioni, perché le opinioni sono soltanto quelle che difendono gli interessi del loro padrone. Il quale, non essendo quasi mai un editore “puro”, usa ovviamente i giornali soltanto per i propri loschi affari. Ragion per cui ora si promette un editto per punire gli editori “impuri”, arrivando così perfino a stabilire per legge chi può pubblicare un giornale. Una tesi del tutto simile a quella contenuta in un vecchio libro: “Con la libertà di stampa i giornali pubblicano solo ciò che vogliono vedere stampato le grandi industrie o le banche, le quali pagano il giornale”. Il libro si intitola Colloqui con Mussolini. Pubblicato da Mondadori nel 1932, è una lunga intervista al capo del fascismo, che pronunciò quella frase rispondendo a una domanda di Emil Ludwig. Benito Mussolini, i giornali, li chiuse o li asservì. Non pensò mai, invece, a una legge per misurare la “purezza” degli editori. "Mafie cancellate". Salvini straparla, mancano i fatti di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2018 Promette di eliminarle "in qualche anno", finora solo pericolose misure su beni confiscati e pagamenti cash. "Possono tener duro ancora qualche mese o qualche anno, ma mafia, camorra e ‘ndrangheta saranno cancellate dalla faccia di questo splendido Paese". È un Matteo Salvini da brivido, quello che annuncia in tempi brevi la fine delle mafie. "Lo Stato deve fare lo Stato, con le buone, dove è possibile. Con mafia, camorra e ndrangheta in ogni maniera permessa dal codice civile e penale". C’è da credergli? Il ministro dell’Interno è stato in questi mesi molto attivo ne i proclami antimafia. Ieri a Sorbolo, in provincia di Parma, dove ha consegnato alla Guardia di finanza due immobili sequestrati alla ‘ndrangheta. Un mese fa alla Romanina, dove ha voluto guidare, caschetto bianco in testa, la ruspa dell’esercito che ha abbattuto la villa confiscata alla famiglia Casamonica: "Ruspare la villa di un mafioso è qualcosa per cui vale la pena fare il ministro". Toni sempre molto roboanti: "Per i mafiosi e i camorristi la pacchia è finita", ha gridato il 1° luglio dal palco di Pontida. "Via. Via dalla Sicilia come dalla Lombardia. È l’inizio di una guerra che combatteremo con tutte le armi che la democrazia ci mette a disposizione". Gesti simbolici, come il tuffo del 3 luglio nella piscina di un’azienda agricola sequestrata ai mafiosi a Suvignano, nei pressi di Siena. Con apposito post fu Facebook: "Mafiosi e scafisti, per me siete le stesse merde. Non so se un ministro possa dire merda. Deve essere chiaro che in Italia voi avete finito di fare affari, per voi la pacchia è finita". Con qualche scivolata, come l’annuncio dell’arresto a Torino "di 15 mafiosi nigeriani" mentre l’operazione era ancora in corso, con il rischio di far fuggire quelli che la polizia non aveva ancora trovato. E con qualche dubbio di chi l’antimafia la fa da una vita, come Gian Carlo Caselli. L’ex procuratore di Torino ritiene che alle tante parole facciano da contrappunto pochi fatti: soltanto quelli contenuti nelle norme del decreto Sicurezza che riguardano la possibilità - molto criticata dall’associazione Libera - di vendere i beni confiscati alle organizzazioni criminali. "Intanto dobbiamo ribadire che le confische di beni, a cui il ministro dell’Interno è molto presente, non sono merito del Viminale, ma della magistratura", ricorda Caselli, "quanto alla vendita dei beni confiscati, il rischio è che la mafia se li ricompri. Se sono attività o immobili che lo Stato non riesce a gestire o ad affidare ad attività socialmente utili, va bene la vendita, ma almeno con qualche cautela: non basta chiedere al compratore il certificato antimafia, si dovrebbe impiegare il ricavato a destinazioni antimafia, come la costruzione di nuovi carceri, il rafforzamento del 41bis, il sostegno all’antiracket o alle vittime della mafia... Così i mafiosi non ci metterebbero i loro soldi". I magistrati e le associazioni antimafia colgono altri segnali che ritengono negativi nell’attivismo di Salvini. Le sue polemiche sulle scorte e sulla protezione a chi è minacciato dalle organizzazioni criminali. La diffidenza nei confronti delle cooperative e delle associazioni antimafia che in molti casi gestiscono i beni confiscati. Caselli, che ora si occupa di agro-mafie, ricorda che un compagno di partito e di governo di Salvini, il ministro delle Politiche agricole Gian Marco Centinaio, ha annunciato la su a volontà di cambiare la legge sul caporalato "che invece funziona bene e incide sulle connessioni tra caporalato e organizzazioni criminali". Ma il segnale più grave, di cono i magistrati antimafia, è l’innalzamento della soglia per il denaro non traccia - bile: "È un regalo ai boss". Braccialetto elettronico allo stalker di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2018 Possibile utilizzare il braccialetto elettronico anche per gli indagati dei reati di stalking e di maltrattamenti in famiglia. Lo ha previsto l’articolo i6 del decreto sicurezza, convertito dalla legge 132/2018. In sintesi, l’esecuzione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare potrà essere controllata da remoto per ampliare le tutele per le vittime e consentire una difesa più efficace nei casi in cui sussista la pericolosità effettiva del presunto autore dei fatti. La misura, infatti, è stata inserita per tutelare la sicurezza pubblica e si inserisce nell’ottica di un inasprimento complessivo di due reati che oggi destano particolare allarme sociale. Da ricordare che l’ultima riforma del codice antimafia aveva già esteso l’applicabilità delle misure di prevenzione anche al reato di stalking, così come la legge 172/2017 aveva sancito l’impossibilità di estinguere il reato mediante condotte riparatorie. Alla luce del quadro normativo oggi esistente, il vero problema consiste allora nella corretta valutazione da parte del giudice della pericolosità dell’indagato che in questa fase è ancora in attesa di giudizio. Per evitare pericolosi abusi degli strumenti introdotti, occorre che il giudice basi le proprie decisioni su fatti certi, dotati di gravità indiziaria concreta. Dovrebbero quindi essere escluse tutte le valutazioni soggettive, non supportate da riscontri fattuali oggettivi. Il solo racconto della parte offesa, ad esempio, se non supportato da ulteriori elementi di prova dovrebbe essere valutato con particolare attenzione, al fine di evitare la misura per soggetti meramente sospettati del reato. Toccherà alla difesa, poi anche attraverso il rafforzamento delle indagini difensive, introdurre elementi che possano evitare l’applicazione di misure eccessive e sproporzionate. La questione della indeterminatezza del reato di stalking era già finita davanti alla Corte Costituzionale che, con la sentenza dell’ii giugno 2014 n. 172, aveva avuto modo di ribadire l’importanza di accertare gli elementi costitutivi del reato, connotato da una condotta grave e tale da indurre effettivamente la vittima a temere per la propria incolumità fisica o di una persona cara, inducendola a mutare le proprie abitudini per proteggersi dal persecutore. Già prima della nuova norma, il Tribunale di Milano, con il decreto del 9 ottobre 2018, aveva stabilito che all’indagato per atti persecutori può essere applicata la misura di sorveglianza speciale per pericolosità sociale prevista dall’articolo 6 del Codice antimafia, anche in assenza di condanna in primo grado, estendendo di fatto le tutele già previste per la parte offesa. I problemi in fase applicativa poi possono derivare anche dalla concreta disponibilità dei braccialetti elettronici. Per giurisprudenza ormai costante, infatti, il giudice deve valutare anche la concreta disponibilità dello strumento di controllo presso la polizia giudiziaria e, in caso di esito negativo, dare atto della impossibilità di adottare tale modalità di controllo, applicando quindi altre misure cautelari ritenute idonee. Nel frattempo, il mantenimento in carcere dell’indagato dovrebbe essere adeguatamente motivato, oppure sostituito con una misura cautelare meno afflittiva, come la detenzione domiciliare. Il braccialetto elettronico, infatti - introdotto con la legge 4/2001 e periodicamente esteso a un numero sempre maggiore di reati - nella prassi è stato utilizzato di rado, proprio per la scarsa disponibilità degli apparecchi e per gli alti costi di gestione. Guida in stato di ebbrezza, il lavoro pubblico sospende la revoca della patente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 18 dicembre 2018 n. 56962. La sanzione accessoria della revoca della patente, per chi è stato condannato per guida in stato di ebbrezza, deve essere sospesa nel caso di applicazione della pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità. È questa la conseguenza cui arriva la Corte di cassazione, sentenza 12 dicembre 2018 n. 56962, superando due precedenti ed opposti orientamenti. Il caso era quello di un autista di tir messosi alla guida di notte (dopo le 22,00) con un tasso alcolemico accertato superiore ad 1,5 ml per litro. Era così scattata la condanna poi convertita in lavoro. Per il conducente però l’applicazione tout court della revoca delle patente mal si conciliava col “carattere premiale” della sanzione sostitutiva (art. 186, co. 9-bis) che peraltro regola esplicitamente soltanto le conseguenze per il diverso caso di “sospensione” della patente. Il comma 9-bis dell’art. 186 Cds, spiega la Corte, regolamenta la possibilità da parte del giudice di sostituire la pena detentiva e pecuniaria con un’attività lavorativa non retribuita a favore della collettività. All’esito positivo di tale attività consegue la declaratoria di estinzione del reato, nonché la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente nonché la revoca dell’eventuale confisca del veicolo sequestrato. Ma nulla è invece previsto per il caso della revoca. Secondo una parte della giurisprudenza, se l’esito del lavoro è positivo la revoca della patente si estingue. Secondo un altro filone invece il giudice dell’esecuzione, nel dichiarare l’estinzione del reato per il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, non ha il potere di provvedere alla revoca della patente disposta dal giudice della cognizione. Infatti, “in difetto di un’espressa disposizione in tal senso, non trovano applicazione in via analogica le previsioni dell’art. 186, comma 9-bis, cod. strada”, che riguardano unicamente la durata della sospensione della patente e la revoca della confisca del veicolo. In questo caso, “trattandosi di una sanzione accessoria più grave della sospensione, essa non sarebbe revocabile anche in caso di esito positivo dei lavori di pubblica utilità”. Del resto, sempre secondo questa lettura, sarebbe ingiusto ed illogico ritenere che la revoca della patente si estingua, mentre la meno grave sospensione della patente si riduca solo della metà. Per la IV Sezione però nessuno dei due orientamenti coglie nel segno. Infatti in caso di estinzione del reato per positivo svolgimento dei lavori di pubblica utilità, “in forza della norma generale di cui all’art. 224 cod. strada”, la competenza a provvedere sulla sanzione accessoria della revoca della patente di guida spetta al prefetto e non al giudice. Per cui il giudice dovrà necessariamente - in caso di esito positivo della attività in favore della collettività - dichiarare l’estinzione del reato e disporre, di conseguenza, la trasmissione degli atti al prefetto. In questo quadro, è da ritenersi “speciale/derogatoria” la norma che consente al giudice di provvedere direttamente sulla sanzione accessoria della “sospensione”. Nel caso di revoca dunque si potranno avere due scenari. Esito positivo del lavoro: il giudice dovrà dichiarare l’estinzione del reato e trasmettere gli atti al prefetto, competente in via esclusiva sull’eventuale applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente. Esito negativo, il giudice dovrà revocare la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, con ripristino della pena principale ed anche della sanzione accessoria che consegue ex lege. Per questi motivi, conclude la Corte, la sanzione accessoria della revoca della patente “non può avere immediata efficacia, trattandosi di sanzione in ordine alla quale il giudice stesso potrebbe, per cosi dire, “perdere” il potere di provvedere sulla stessa in via definitiva, nel caso di positivo svolgimento dei lavori di pubblica utilità, avuto riguardo all’estinzione del reato ed alla conseguente devoluzione al prefetto della competenza a provvedere sulla ripetuta sanzione accessoria”. Campobasso: Alessandro Ianno come Stefano Cucchi di Cristina Niro primonumero.it, 19 dicembre 2018 Per gli avvocati “il primo morto per abbandono, il secondo per le botte”. Ora i risarcimenti. "Se fosse stato fuori dal carcere sarebbe andato subito al Pronto soccorso, in cella invece non hanno capito la gravità della situazione né l’hanno compresa medici e infermieri, lasciandolo al suo destino", dicono i legali Tolesino e Veneziano che hanno inoltrato la richiesta di risarcimento al Ministero della giustizia, alla Casa di Reclusione di via Cavour e all’Asrem Molise. In sede penale il caso è stato archiviato. Ma quella porticina rimasta aperta per avere giustizia almeno in sede civile, i familiari di Ianno hanno intenzione di aprila tutta e tentare il possibile per vedersi riconoscere le ragioni che la giustizia ordinaria invece ha chiuso. Quindi dimostrare che “il carcere di Campobasso secondo quanto denunciato non aveva le attrezzature per far fronte al caso clinico in questione - spiega l’avvocato Silvio Tolesino che con il collega Antonello Veneziano sta curando il caso - e che non è stato consentito un rapido intervento che potesse salvargli la vita”. Da qui la scelta nei prossimi giorni di inviare al Ministero della Giustizia, al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alla Casa Circondariale e di Reclusione di Campobasso e all’ Azienda Sanitaria Regionale del Molise una richiesta di risarcimento danni per la morte di Alessandro Ianno, avvenuta il 19 marzo del 2015 nel carcere di Campobasso. I due legali rappresentano le istanze dei fratelli e della madre del detenuto. Alessandro Ianno aveva 34 anni. Era in carcere quando il 19 marzo di tre anni fa alle 17 (ora di constatazione del decesso da parte del personale del 118) a causa di un’ischemia cardiaca ebbe un arresto cardiocircolatorio. Ma il 34enne lamentava dolori “fin dalle prime ore della stessa mattinata come confermato dai numerosi altri detenuti entrati in contatto con il malcapitato”. A mezzogiorno di quel giorno “aveva chiesto aiuto al personale, il quale senza nessuna visita medica o richiesta di precisazione sulle caratteristiche dei sintomi lamentati, si limitava a recapitargli un farmaco per il trattamento dell’ ulcera duodenale e gastrica e della esofagite da reflusso”, spiega Tolesino. Alle 13.30 visto il dolore persistente Ianno chiese di nuovo aiuto. Questa volta al medico di turno, che assieme ad un collega controllò la pressione e la frequenza cardiaca “senza nessuna visita o raccolta anamnestica del dolore persistente”. Quindi ancora i dolori attorno alle 16. “Dolore al petto ed al braccio sinistro”, hanno raccontato gli altri detenuti. E una nuova visita infermeria. Ma proprio mentre lo stavano accompagnando in infermeria, Alessandro Ianno si accasciò a terra privo di sensi. “Il medico che lo aveva visitato poco prima diede allora corso alle manovre di rianimazione cardiopolmonare, senza tuttavia nessuna annotazione di somministrazione di farmaci, del ritmo cardiaco registrato, di un eventuale monitoraggio elettrocardiografico, di un elettrocardiogramma o di un Dc shock” spiega l’avvocato. E quando arrivò il personale del 118 le contrazioni ventricolari cardiache “purtroppo erano già in arresto e nemmeno la somministrazione da parte di questi ultimi sanitari di due fiale di adrenalina riuscì più a rianimarlo”. Alle 17, quindi, Alessandro Ianno fu dichiarato ufficialmente deceduto. L’anomalia? “A distanza di ben 5 ore dalla prima richiesta di aiuto e dall’esordio dei sintomi - spiegano i due legali leggendo la nota inviata per la richiesta di risarcimento -, dal diario infermieristico risulta una somministrazione insulinica risalente alle successive ore 18,30”. E citano anche che “a prescindere dalla loro figura di medici incaricati, medici tutti sono venuti meno entrambi agli obblighi di garanzia della salute dello sventurato, per i quali, invece, sono stati regolarmente retribuiti dalla Struttura di appartenenza che, pertanto, risponde del loro operato a titolo di responsabilità per fatto degli ausiliari (art. 2049 cod. civ.)”. Per i legali dunque l’unico dato oggettivamente assodato è quello relativo alle cause del decesso. E cioè che è “è stato accertato dal consulente tecnico del pm a seguito di esame autoptico che il detenuto moriva a causa di una sofferenza coronarica (evidentemente non improvvisa, alla luce del numero di ore trascorse dai primi segnali di allarme) che ha comportato un’aritmia ventricolare che, a sua volta, ha determinato l’arresto cardiocircolatorio in un soggetto già affetto da ipertrofia ventricolare sinistra” e quindi tutti “segnali avrebbero dovuto indurre i sanitari di turno a procedere, pur nell’indisponibilità di validi strumenti diagnostici di cui è chiamata a rispondere la struttura carceraria, ad accertamenti diretti sul paziente detenuto (visita con auscultazione) ovvero anche solo a richiedere l’immediato trasferimento esterno presso il pronto soccorso ospedaliero della città, al fine di rivelare l’effettiva causa (cardiaca, non già gastrica) del dolore sospetto segnalato e, quindi, dell’aritmia ventricolare che ha determinato l’arresto cardiocircolatorio”. Tolesino e Veneziano fanno presente che sia il consulente tecnico del Pm che i Gip in sede penale sono stati tratti in errore “sulla base dell’errata valutazione che trattasi di ‘una patologia asintomatica non desumibile dal solo bruciore allo stomaco’ (si legge testualmente), a fronte invece di una letteratura medica che, al contrario, individua nel descritto dolore (angina) il segnale premonitore sintomatico proprio dell’inizio di una sofferenza coronarica (non sempre evolvente in infarto)”. Quindi per gli avvocati la famiglia di Alessandro Ianno ci si trova, in definitiva “al cospetto di una condotta omissiva medica caratterizzata, a prescindere dalla sua rilevanza penale, da un evidente grado di colpa rispetto all’evento mortale oggetto di addebito, oltreché causalmente incidente sul verificarsi del detto epilogo, aggravata dalla indisponibilità degli indispensabili strumenti diagnostici e salvifici di cui la Struttura carceraria era priva”. Da qui la richiesta affinché (tutti gli interessati dalla raccomandata) provvedano, in via solidale e ciascuno per la propria responsabilità “all’immediato risarcimento del danno non patrimoniale risentito, identificabile nelle atroci sofferenze e nei patemi d’animo cagionati dalla prematura ed improvvisa perdita del caro fratello, immediatamente correlabili all’illecito descritto, oltre che nella lesione del diritto all’intangibilità delle relazioni familiari”. Se non avranno risposta entro trenta giorni “si procederà come per legge”. Potenza: “Così recuperiamo gli adolescenti reclusi” di Vito Salinaro Avvenire, 19 dicembre 2018 Dal carcere minorile di Potenza, un nuovo percorso riabilitativo. Che punta sull’attività psicofisica. Visitare i carcerati “è l’azione di misericordia più disattesa”. Rara almeno quanto lo è inventarsi un percorso totalmente nuovo e indirizzarlo alla riabilitazione dei minori reclusi. Un percorso che, in Basilicata, passa anche dall’ attività psicomotoria, intesa come una possibilità per aiutare gli under 18 a scoprire o a migliorare le relazioni con l’ambiente che li circonda. E con quello che li aspetta quando usciranno. È quanto ha proposto e realizzato con successo un’associazione lucana, "Ligustrum Leuc" - nata a Pisticci, in provincia di Matera, nel 2014 con la finalità di offrire cammini formativi a bambini e ragazzi seguendo gli Orientamenti pastorali 2010-2020 dell’episcopato italiano - che ha trasferito nell’Istituto penale minorenni di Potenza un progetto di "psicomotricità" chiamato "Talitakum-Rialzati!". “È stata la prima volta per un istituto di pena per minori italiano”, afferma Tiziana Silletti, responsabile dell’associazione lucana, che spiega le finalità della singolare iniziativa: “La psicomotricità è una disciplina che si interessa della persona attraverso la valorizzazione del corpo. Negli ultimi 50 anni si è trasformata proponendosi non solo come dimensione riabilitativa”, ma anche come “esperienza ad approccio psicoterapico e di tipo preventivo-educativo originale, dove i soggetti possano esprimersi e vivere la dimensione ludica, potenziando le proprie abilità motorie, sociali e comunicative”. Un campo di azione piuttosto vasto che, in questi anni, è stato prerogativa delle scuole e dei centri riabilitativi e socioeducativi. E che oggi entra per la prima volta nei penitenziari minorili. “La nostra équipe - aggiunge Silletti, dopo alcuni mesi di studio e di valutazione, ha voluto intraprendere questa nuova strada mettendo in relazione la psicomotricità con lo sviluppo dell’identità dei ragazzi, con l’espressione della loro vita emotiva, con la base dei processi cognitivi; approfondendo le possibilità della motricità in termini funzionale e relazionale”. È una disciplina che riguarda tutti, rileva la responsabile di "Ligustrum Leuc", “ed è relativa alla comprensione dell’uomo, indipendentemente dai problemi, nel suo rapporto vissuto, agito e rappresentato con lo spazio e gli oggetti, e con se stesso e gli altri”. Al termine del progetto, gli organizzatori, che si sono avvalsi di medici e operatori socio - sanitari, e del sostegno della Fondazione Carical (Cassa di risparmio di Calabria e di Lucania), hanno un entusiasmo addirittura maggiore rispetto alla fase iniziale: non solo i ragazzi detenuti, spiegano, hanno trovato un sensibile giovamento nel periodo detentivo, a partire dalla dimensione relazionale, e quindi nel rapporto con gli altri minori, con i parenti e con il personale educativo, “ma anche noi usciamo da questa esperienza profondamente arricchiti”. Tanto che, dopo aver contribuito, lo scorso mese, a far conoscere il progetto a Roma nel Concorso "Profetic Economy", che coinvolge associazioni ed enti che si occupano di sociale e salvaguardia ambientale, l’intento dell’associazione lucana è ora quello di poterlo portare in altri istituti di pena minorile. Partendo dagli ottimi riscontri ottenuti a Potenza. “Visitare un carcere - evidenzia Silletti - permette di conoscere e toccare con mano la sofferenza, talvolta intollerabile, dei detenuti e il travaglio dei parenti, spesso lontani migliaia di chilometri. La chiusura della prigione, la lontananza dai propri cari, la forzata restrittività, producono un grande disagio. Ci sono persone che versano in una condizione di "espulsione" dal tessuto sociale, dal contesto familiare e, soprattutto sono privi di una reale prospettiva di riabilitazione e di reintegrazione. Sono giovani e giovanissimi con un marchio di delinquente difficile da cancellare”. Ma se è vero che i delitti creano i carcerati, “spesso - conclude - i nostri pregiudizi creano forme di carcere, ghettizzano e rendono chi ne esce come un lebbroso che preferiamo tenere lontano da noi. Andare in carcere, intraprendere una relazione con un detenuto, occhi negli occhi, mano nella mano, ascoltarlo, soprattutto ascoltarlo, e dargli una carezza, non è solo fare un’azione di misericordia, ma per chi lo fa significa imparare ad amare”. Palermo: venerdì convegno nazionale su salute mentale, carceri e Rems blogsicilia.it, 19 dicembre 2018 “Salute mentale, carceri e Rems”. È il titolo del convegno nazionale organizzato per il prossimo 21 dicembre alla Sala Piersanti Mattarella di Palazzo dei Normanni, dal Garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, Giovanni Fiandaca. Un tema centrale nella gestione delle carceri e su cui da più parti, ad iniziare proprio dall’Isola, i Garanti regionali hanno più volte lanciato l’allarme. Dai dati ufficiali del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), aggiornati al 30 novembre 2018, risulta che i detenuti ospitati nelle carceri italiane sono 60.002 e di questi oltre 40.000 soffrono di disturbi psichici e depressivi. Una percentuale molto alta a cui il sistema non sempre riesce a dare risposte adeguate con un aumento del rischio suicidario all’interno degli istituti di pena. “Da qui - dice il Garante dei detenuti in Sicilia, Giovanni Fiandaca - l’esigenza di promuovere un confronto di conoscenze e di esperienze tra le varie realtà regionali in materia di assistenza psichiatrica agli autori di reato dentro le carceri e nelle Rems”. In Italia il salto di qualità è stato realizzato con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015, sostituiti dalle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Ma si tratta di verificare come questa riforma è stata finora attuata e come viene prestata oggi l’assistenza psichiatrica ai detenuti più fragili. A Palermo, quest’anno Capitale Italiana della Cultura, per l’occasione arriverà il Garante nazionale dei Detenuti, Mauro Palma. Attorno allo stesso tavolo si troveranno inoltre Garanti di varie regioni italiane ed esperti tra addetti ai lavori delle Rems, psichiatri e psicologi. Il convegno inizierà alle 9,30 con i saluti istituzionali del presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché; dell’assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza; del provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria; Giancarlo Trizzino, presidente del tribunale di Sorveglianza dei detenuti. Ad aprire i lavori sarà, invece, il Garante per la Sicilia dei diritti dei detenuti Giovanni Fiandaca. Due le sezioni previste: nella prima sarà data la parola ai Garanti, ad iniziare dal Garante nazionale Mauro Palma, per proseguire con il Garante del Lazio e dell’Umbria, nonché coordinatore della Conferenza dei Garanti territoriali, Stefano Anastasia; il Garante della Toscana, Franco Corleone; e il Garante del Piemonte, Bruno Mellano. Alle 11,40 avrà inizio la seconda sessione con gli interventi degli esperti. Prenderanno la parola: Giuseppe Nese, Direttore Uoc Tutela della salute in carcere e Coordinatore Gruppo regionale prevenzione e gestione Rems e salute mentale in carcere della Campania; Alberto Sbardella, Dirigente responsabile Uosd/Salute Mentale Penitenziaria e Psichiatria Forense Polo Rebibbia - Roma; Giuseppe Quintavalle, Direttore generale ASL RMF Civitavecchia Direttore Generale ASL Roma4; Franco Scarpa, direttore Dipartimento Salute mentale di Firenze; e Giorgio Serio, direttore Dipartimento Salute Mentale di Palermo. Il convegno proseguirà poi nel pomeriggio a partire dalle 14,30. Porteranno il proprio contributo: Antonio Francomano, Presidente sezione Sicilia S.I.R.P. Società Italiana Riabilitazione Psichiatrica; Nunziante Rosania, Direttore Casa circondariale Barcellona P.G. (ME); Paola Cavallotto, Psicologa-Psicoterapeutica Rems “San Michele” Bra (CN); e Salvatore Aprile, Direttore sanitario Rems Caltagirone (CT). Dalle 17 alle 18,30, spazio al question time e al dibattito. Civitavecchia (Rm): al carcere di Borgata Aurelia chiuso il corso Peer Supporter terzobinario.it, 19 dicembre 2018 Nella Casa Circondariale di Borgata Aurelia a Civitavecchia, nei locali della didattica, si è svolto l’ Incontro per la chiusura del III Corso di Peer Supporter, cioè il Progetto fortemente voluto dalla Asl Roma 4 teso sia alla crescita personale sia a i destinatari finali e cioè i detenuti in fase di fragilità psicologica o di effettivo disturbo psichiatrico. Diventare “coach” per sostenere i compagni detenuti più fragili è l’opportunità offerta ad alcuni detenuti che proprio oggi hanno portato la loro commossa testimonianza davanti a un pubblico fortemente coinvolto emotivamente che ha quindi compreso il grande valore terapeutico e etico di questo progetto. Si è trattato del momento di più alta emozione della mattina perché l’effetto del Progetto è quello di far emergere la parte migliore di noi che troppo spesso è nascosta nel più profondo inconscio e che riaffiora solo attraverso forti traumi e dove il ruolo di “Supporter” può anche arrivare a salvare una vita. “Il nostro Corso di Peer Supporter è un modello talmente efficace che è stato replicato non solo nel Lazio, ma anche a livello nazionale” ha dichiarato orgogliosamente il Direttore Generale della Asl Roma 4 Giuseppe Quintavalle “ e presto in questa Casa Circondariale arriverà un Camper per le Mammografie, un dermatologo per la mappatura dei nei e qualsiasi altra esigenza dermatologica e avvieremo una efficace prevenzione per il diabete. La Carta dei Servizi si traduce in fatti concreti e non parole: finalmente il detenuto è trattato come si deve ad un cittadino del nostro Paese”. “I risultati significativi e soddisfacenti di quello che si sta facendo sono il prodotto di un felice lavoro di squadra tra l’Amministrazione penitenziaria, la Asl, la Polizia Penitenziaria, il Dsm, il Centro Diurno, il Garante dei Detenuti della Regione Lazio e gli psicologi “ ha dichiarato Patrizia Bravetti, Direttore della Casa Circondariale, nel suo discorso di saluto che ha aperto l’Incontro odierno. “Da soli non si va da nessuna parte e con questa squadra abbiamo trovato la soluzione per occupare correttamente il tempo umano e detentivo che è anche, molto spesso, occasione di cura e recupero personale per chi ha problemi psicologici e psichiatrici“. L’Incontro è stato concluso dalla Responsabile del Progetto “Fortezza” con la Presentazione del Laboratorio Teatrale, cioè il teatro come strumento di prevenzione e riabilitazione del disagio psichico e dei disturbi da uso di sostanze negli Istituti penitenziari di Civitavecchia in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma 4 nella Sezione di Infermeria della Casa Circondariale e presso la Casa di Reclusione. Al termine della Presentazione è stato proiettato un trailer del lungometraggio “Fortezza” che dovrà promuovere l’integrazione e inclusione sociale e prevenire il disagio psicologico. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): carcere a misura d’uomo di Michele Vespasiano Quotidiano del Sud, 19 dicembre 2018 Conferito il premio alla memoria al direttore Forgione, il 21 la cerimonia. Fra qualche giorno, il prossimo 21 dicembre, sarà un anno dalla scomparsa di Massimiliano Forgione, il direttore della casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, che riuscì nell’intento di trasformare un luogo di detenzione e sofferenza in un’oasi felice nel panorama carcerario italiano. Un modello studiato in tutto il mondo, come ebbe modo di dimostrare un network televisivo asiatico, giunto in Irpinia per scoprire come mai i detenuti in attesa del giudizio definitivo rinunciassero a fare appello in quanto il carcere santangiolese offriva loro strumenti e opportunità di riscatto. Quali? “Semplicemente avviando i detenuti ad attività lavorative, - dice il sovrintendente capo Alessandro D’Aloiso, da sempre braccio destro del direttore Forgione -che sono occasioni formative e di reinserimento post detenzione”. E proprio a D’Aloiso, lunedì scorso, è stato assegnato la prima edizione del "Premio Massimiliano Forgione", istituito dalla Segreteria regionale del Sappe dell’Emilia Romagna, per rinsaldare il ricordo del dott. Forgione, che proprio in Emilia mosse i primi passi come dirigente. Francesco Campobasso, segretario regionale del sindacato della Polizia penitenziaria, ha chiarito le finalità dell’iniziativa: “Poiché la figura del dott. Forgione continua ad essere ancora oggi un preciso punto di riferimento per noi tutti, abbiamo inteso preservarne il ricordo legando il suo nome ad un premio, che di anno in anno riguarderà specifici temi sociali. Quello adottato per questa prima edizione è il valore dell’amicizia e nessuno meglio del sovrintendente capo D’Aloiso poteva meritarlo”. La manifestazione commemorativa si è svolta nella Casa Circondariale di Reggio Emilia alla presenza delle maggiori autorità regionali dell’amministrazione penitenziaria. A Sant’Angelo dei Lombardi, l’anniversario della morte di Forgione, sarà ricordato con due momenti distinti. Venerdì 21, alle 1S, sarà celebrata una messa di suffragio in Cattedrale voluta dalla famiglia. Mentre sabato mattina, nella Casa di Reclusione santangiolese, ci sarà la commemorazione istituzionale alla presenza del Direttore reggente, dott. Paolo Pastena, del comandante della polizia penitenziaria, dott. Giovanni Salvati. “Altro non avrebbe voluto - dice D’Aloiso - poiché non era nello stile del direttore Forgione comparire al proscenio. Non lo ha fatto da vivo, non lo vorrebbe ora che è morto. Nella sua breve vita ci sono sempre stati gli altri, sua moglie Elmerinda, i figli Anna e Federico e i detenuti. E tanto lo gratificava più di ogni cosa”. Catanzaro: Chiodo e Marziale in visita ai minori reclusi quicosenza.it, 19 dicembre 2018 Antonio Marziale, Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Calabria, e Teresa Chiodo, presidente del Tribunale per i minorenni di Catanzaro, hanno visitato i giovanissimi reclusi all’Istituto penitenziario minorile del capoluogo calabrese. “È per me un appuntamento frequente - ha detto il Garante ai detenuti - soprattutto nel periodo natalizio, intimamente avvertito, incontrarvi per potervi dire che fuori da queste mura vi stiamo aspettando e per farvi comprendere che il mondo non vi ha dimenticati e continua ad avere bisogno di voi. Se siete qui è perché avete sbagliato e, al cospetto degli errori, la società ci chiama doverosamente a pagarne le conseguenze e ciò accade anche quando di mezzo non ci sono reati. La vita ogni giorno ci chiede di operare scelte e non sempre optiamo per quelle migliori. Approfittate di questo tempo per ricostruire il tessuto delle vostre emozioni, per dare un orientamento alle vostre giovani esistenze e per prepararvi ad affrontare le difficoltà rifuggendo dalla violenza, che certamente non è la via maestra e voi ne siete la dimostrazione. Pensate ai vostri fratelli più piccoli, ai vostri amici più piccoli e quando tornerete in libertà siate maestri, per loro, indicando ciò che non si deve fare. Per quanto mi riguarda, a prescindere dal ruolo istituzionale, vi sarò sempre vicino”. “Studiate - ha detto Teresa Chiodo - perché il carcere non è condanna per sempre; è riparazione, è opportunità per sfuggire a tutto ciò che ha determinato il vostro ingresso qua dentro. La struttura che vi ospita è certamente una delle migliori, debitamente attrezzata ad offrirvi l’opportunità di riscattarvi, grazie all’infaticabile lavoro quotidiano di operatori e volontari. Alla base dei vostri errori vi sono certamente condizioni di degrado sociale dalle quali dovete smarcarvi. Le attività espressive, culturali e sportive, che questo luogo vi garantisce, sono orientate a favorire la vostra partecipazione sociale e per migliorare le competenze relazionali e comunicative, così come l’istruzione e la formazione professionale per aiutarvi, una volta concluso il periodo detentivo, a trovare lavoro. Nella filosofia del procedimento penale minorile italiano vi è, centrale, il concetto di recupero dei ragazzi, anche per i casi più gravi o eclatanti. Mi auguro con tutto il cuore che ognuno di voi ce la faccia”. Alla fine dell’incontro, alla presenza degli operatori carcerari ad ogni livello e di numerosi volontari, Chiodo e Marziale si sono intrattenuti per lo scambio degli auguri fra bibite e panettoni offerti dai ragazzi. Lucera (Fg): i detenuti ristrutturano la palestra del carcere, cerimonia inaugurazione di Lello Pellegrino immediato.net, 19 dicembre 2018 Attivati due corsi del Coni, con istruttori federati, per l’uso degli attrezzi in sala e per ginnastica a corpo libero. Messaggio di ringraziamento da parte dei ristretti agli operatori dell’Istituto e ai volontari. La Casa Circondariale di Lucera ha inaugurato, il 18 dicembre scorso, la nuova palestra destinata ai detenuti Realizzata con i fondi dell’Amministrazione Penitenziaria e con la manodopera dei ristretti, permette di svolgere attività sportiva con l’utilizzo di attrezzi. La cerimonia del taglio del nastro si è svolta dopo la celebrazione della messa, officiata dal Vescovo di Lucera Mons. Giuseppe Giuliano, alla presenza del Direttore Giuseppe Altomare, del Comandante Daniela Raffaella Occhionero, della Responsabile dell’Area Pedagogica dell’Istituto Penitenziario, Cinzia Conte e del Magistrato di Sorveglianza Clara Rita Goffredo. Nel corso della cerimonia, cui ha preso parte anche il Csv Foggia, i detenuti presenti hanno voluto leggere un messaggio di ringraziamento per le opportunità di formazione e di svago e per gli appuntamenti culturali che vengono periodicamente organizzati all’interno dell’Istituto dagli operatori, con il sostegno del mondo del volontariato. Il Direttore Altomare ha poi illustrato il progetto, curato dall’Area contabile, nella persona di Luciana Augelli e coordinato dal Capo Area Vincenzo De Troia. La ristrutturazione dei locali che ospitano la nuova palestra è frutto di un finanziamento della Cassa delle ammende, l’ente istituito presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, i cui fondi sono destinati a programmi di riabilitazione e reinserimento dei detenuti, in base all’art. 27 della Costituzione Italiana. I locali, ristrutturati grazie al lavoro di cinque detenuti, selezionati dopo un corso di formazione, sono strati attrezzati con panche, bilancieri, cyclette e tapis roulant, individuati con la consulenza del volontario referente per le attività sportive, Luigi Talienti. La palestra è stata poi messa in funzione grazie a una convenzione tra Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria e Coni. La sede provinciale del Comitato Olimpico Nazionale Italiano ha attivato due corsi, coordinati da propri istruttori federati, uno per l’uso degli attrezzi in sala e l’altro per ginnastica a corpo libero all’aperto che coinvolgono, con turni settimanali, l’intera popolazione detenuta. Dopo la benedizione dei locali da parte di Mons. Giuseppe Giuliano, che ha voluto donare panettoni alla popolazione detenuta e agli operatori, è stato realizzato e allestito un buffet dai ristretti che seguono i due corsi di “Addetto alla ristorazione”, coordinati dai docenti degli enti di formazione Irfip e Enaip. I corsi sono stati attivati nell’ambito dell’iniziativa sperimentale di inclusione sociale per le persone in esecuzione penale della Regione Puglia (Avviso pubblico n. 1/2017). Verbania: il valore del riscatto è nelle opere dei detenuti in mostra di Beatrice Archesso La Stampa, 19 dicembre 2018 “Il colore del riscatto: non solo fotografia”: possono riassumersi nel titolo scopo e valore della mostra che sarà inaugurata sabato a Villa Olimpia a Pallanza con opere dei detenuti del carcere di Verbania. Alle 15 il taglio del nastro porterà fuori dalla casa circondariale lavori finora rimasti all’interno, con l’obiettivo di dare voce all’invisibile, legare i detenuti alla città e dimostrare che il riscatto è possibile. La regia del progetto è di Giulia Meloni dell’associazione Camminare insieme, nata a Verbania nel 1996 su impulso di don Donato Paracchini, allora cappellano del carcere, per creare un gruppo di volontariato che desse aiuto pratico ai detenuti. “In mostra si troveranno lavori manuali, tra cui ricami, e una cinquantina di fotografie - dice Meloni -. È importante che la creatività dei detenuti vada oltre il carcere, l’entusiasmo che si è creato è positivo”. Si è partiti da qualche lezione di fotografia curata da Tonino Zanfardino. “Ho vissuto un’esperienza nuova, che in un primo momento mi aveva spaventato e invece si è rivelata profonda e costruttiva - racconta Zanfardino. È stato bello portare la fotografia all’interno del carcere, sebbene gli spazi dove scattare fossero limitati: la sala colloqui, il cortile, la biblioteca”. Una prima mostra è stata fatta all’interno. “Si è creata un’atmosfera di leggerezza e serenità emersa pure ai colloqui” dice Silvia Magistrini, “garante dei detenuti”. La mostra allestita a Villa Olimpia si potrà visitare fino al 27 dicembre. “Così il carcere non rimane una realtà staccata alla città” commenta il comandante della polizia penitenziaria Domenico La Gala. La presidente di Camminare insieme Annamaria Gadda aggiunge che è un modo per “dare un’occhiata dentro il carcere, senza pregiudizi”. Padova: nel segno dell’incontro, l’Antigone in carcere di Tam Teatromusica di Giambattista Marchetto paneacquaculture.net, 19 dicembre 2018 Antigone, ovvero una storia antica vecchia di 2500 anni, che gli uomini continuano a narrare e rappresentare, attraverso i secoli, a partire dal mito e dalla tragedia di Sofocle. Vicenda di fratelli e sorelle, di patti mancati, conflitti e ingiustizie, di potere, leggi e disobbedienze; vicenda di rituali e ciechi indovini. Parte da Sofocle ma appone un punto interrogativo dopo il nome Antigone?, creazione scenica nata nell’ambito del laboratorio teatrale a cura di Rosanna Sfragara e Flavia Bussolotto che TAM Teatromusica ha realizzato nella Casa Circondariale di Padova tra la fine del 2017 e il 2018. Dopo il debutto a inizio dicembre, verrà proposto (sempre in carcere) anche alle scuole. Il lavoro è firmato da Achille P., Benedetto A., Dorin P., Ferdinando C., Lawrence N., Nike M., Rabia S. e Yassine B. e si propone come “un tentativo umile e coraggioso di portare in scena frammenti di un denso, difficile vivido percorso umano e teatrale - dicono Sfragara e Bussolotto - un esperimento per provare a raccontare a modo proprio pezzetti di questa “storia infinita” e mostrare le risonanze che ha convocato; il desiderio di creare uno spazio in cui gli attori, le artiste che li hanno guidati e gli spettatori si facciano piccola comunità provvisoria che pone alla storia di Antigone una nuova domanda”. Ci siamo confrontati con Rosanna Sfragara e Flavia Bussolotto sul percorso di lavoro, oltre che sull’interlocuzione tra la realtà del carcere e la tragedia. GM: Innanzitutto, come nasce questo progetto? FB: Il Progetto di TAM Teatromusica nelle carceri di Padova (penale fino al 2013, circondariale dal 2014) ha avuto inizio nel 1992, sostenuto dal Comune fino al 2000 e dal 2001 dalla Regione Veneto. TAM è tra i fondatori del Coordinamento nazionale di teatro in carcere. Sin dall’inizio Tam lavora con convinzione al progetto, per costruire insieme ai detenuti percorsi espressivi e artistici che, raccontati dall’interno del carcere, parlano della condizione umana e del nostro tempo. Ho iniziato a collaborare con Tam per realizzare Medit’Azioni nel 1994, dialogo video tra un “dentro” e un “fuori”, un gruppo di detenuti e un gruppo di donne), a partire dagli affreschi della Cappella degli Scrovegni. Negli ultimi anni, anche se la mia creatività è prevalentemente rivolta all’infanzia, mi sono impegnata per mantenere vivo il progetto. Quello del Circondariale è un ambiente ancor più complesso, in cui è presente un flusso continuo di persone, condizione non facile quando immagini un percorso di lungo respiro. È un luogo caratterizzato dalla sosta e dalla sospensione, condizioni tipiche di coloro che sono in attesa di giudizio. Il progetto attuale è nato invece dalla collaborazione con Rosanna Sfragara, artista che ha incontrato il Tam con Parole e Sassi. La storia di Antigone. Da allora la collaborazione è diventata sempre più intensa - fino a condividere il nuovo progetto artistico Mibac per il triennio 2018/2020 - e Parole e Sassi è stato il punto di partenza del progetto all’intero della Casa Circondariale. Uno degli obiettivi è creare occasioni di incontro tra le persone detenute e realtà sensibili alle tematiche socio-educative, come supporto all’inclusione sociale della popolazione detenuta. GM: Perché il teatro in carcere? FB: Le attività culturali e artistiche in carcere sono considerate, dall’Istituto Superiore di Studi Penitenziari del Ministero della Giustizia, uno dei pilastri del trattamento rieducativo in Italia. I linguaggi dell’arte possono essere un’enorme opportunità per chiunque in quel lungo percorso che porta l’essere umano a giungere alla consapevolezza di sé. Ma tra le forme d’arte il teatro è la meno individuale, perché presuppone una creazione collettiva, mette in gioco la relazione. Noi entriamo in carcere da artisti. E incontriamo i detenuti in uno spazio di libertà, che è prima di tutto spazio d’incontro tra persone, ognuna con la propria storia di vita. Ci incontriamo a partire da una proposta che diventa metafora della vita di ciascuno di noi. Attraverso una tematica universale, com’è questa volta la storia di Antigone raccontata da oltre 2.500 anni, ognuno poi si racconta. Perché il teatro in carcere? Anche per contribuire al miglioramento della qualità della vita all’interno di quel luogo. E allora mi piace ricordare le parole scritte tempo fa da Pierangela Allegro e per me sempre valide: “In un carcere bene non si starà mai. E sarebbe aberrante. Si può tentare di stare un po’ meglio. Qualunque cosa aiuti a stare un po’ meglio è necessaria. Partiamo allora dal presupposto che il teatro in carcere sia necessario a chi è dentro, ma anche a chi sta fuori e diamo al Teatro Carcere il senso di questa necessità”. GM: Perché la scelta di un testo complesso come Antigone? FB: Negli anni abbiamo condiviso con i detenuti riflessioni a partire da temi importanti, come quelli contenuti negli affreschi di Giotto (Giudizio Universale, Vizi e Virtù) o quelli presenti in Otello di Shakespeare, o ancora in Aspettando Godot di Beckett, o nell’Inferno di Dante. Ci interessa un teatro fuori dagli ambiti abituali, un teatro fuori dal teatro, convinti che la cultura può vivere nei luoghi più insoliti e alimentarsi nelle situazioni più difficili. I temi che porta l’Antigone di Sofocle sono solo l’ultima tappa di questa interminabile riflessione rivolta potenzialmente a ogni essere umano. GM: Su quali processi di ricerca si è basato il lavoro? RS: Il percorso nasce dall’esperienza che i detenuti hanno fatto del racconto-laboratorio Parole e Sassi. Ora il pubblico, come al ritorno da un viaggio iniziatico vero per finta, cioè vero emotivamente anche se non reale, diventa protagonista e inizia una seconda “navigazione poetica” che lo porterà a indagare il proprio rapporto con questa storia antica e a sperimentare i principi essenziali dell’arte del Teatro. Il laboratorio con i detenuti è stato proprio questo: un indagare insieme dove e in che modo questa storia risuonava dentro di noi, e soprattutto quali domande ci attraversavano e generavano altre domande… E abbiamo cercato le possibilità di esprimersi attraverso l’uso del corpo e della voce ma anche la scrittura e il disegno. Abbiamo lavorato a lungo sugli elementi di Parole e Sassi e abbiamo sperimentato modi e forme individuali e corali di ri-raccontare la storia, usando le parole di Sofocle ma anche quelle di ognuno, soffermandoci soprattutto sulle questioni aperte, sulle contraddizioni, sugli ossimori che nascevano. Gli attori hanno lavorato a lungo su tutti i personaggi, cercando ogni volta di guardare da un punto di vista diverso. Solo più tardi ognuno ha liberamente scelto un personaggio su cui focalizzare il proprio lavoro. Gli esercizi più strettamente teatrali ci hanno aiutato ad allenare la capacità di concentrazione, la consapevolezza di sé e degli altri, il senso dello spazio, questione cruciale in carcere, nel senso più fisico oltre che simbolico. Abbiamo sperimentato insieme il tempo e il luogo del “teatro” come uno spazio di libertà, con tutte le questioni anche dolorose che la libertà pone, prime fra tutti quella della responsabilità. GM: Qual è il rapporto con la tragedia classica e il contemporaneo? RS: È una domanda molto complessa, a cui hanno già risposto pensatori e artisti. Io posso dire solo che quello che mi muove senza sosta è che la tragedia classica porta in sé - e in una forma talmente compiuta e alta - le domande universali sulla condizione umana. Per citare il mio maestro Theodoros Terzopoulos che al teatro tragico ha dedicato tutta la sua arte, “nel mondo odierno tutto ha dolore, niente gioisce. Quando vedi gente per strada, vedi un’espressione triste, immobile, un pianto muto, un lamento senza lamento. Che cos’è l’uomo? […] Noi gli autori di teatro, vogliamo ridefinire il valore dell’uomo. Con il corpo, lo spirito, le parole, l’energia, la trasgressione. È un appell o, un grido dinanzi a ciò che si sta perdendo, ma non è irrevocabilmente perso, perché il corpo porta la speranza. […] E l’attore, fin dall’antichità è per definizione corpo, è sinonimo del corpo, tempio delle situazioni, degli istinti e dei sensi”. GM: E con il carcere? RS: Ho imparato che in carcere le questioni che riguardano la vita, la condizione di noi umani non cambiano, ma risuonano così forti e appaiono così sferzantemente nitide che quasi sembrano nuove e diverse, si stagliano davanti come fosse la prima volta… E la potenza con la quale la tragedia dà loro voce apre strade inesauribili per riconoscerle e per attraversarle, in condivisione con altri, al di là delle proprie solitudini. Brindisi: in scena una nuova vita, detenuti e studenti attori insieme brindisireport.it, 19 dicembre 2018 Emozionante esperienza teatrale al Liceo scientifico Leonardo Leo di San Vito. Collaborazione tra Casa circondariale e scuola. Un’esperienza innovativa, accompagnata da emozioni forti, un vero ponte tra la realtà carceraria e la realtà formativa della scuola fatto di un cemento composto da volontariato, impegno dell’amministrazione penitenziaria, apertura e sperimentazione di un liceo. È stata tutto questo la performance teatrale di lunedì mattina al Liceo scientifico Leonardo Leo di San Vito dei Normanni, dove la collaborazione tra il Gruppo Teatro Aleph, la direttrice della casa circondariale di Brindisi, Anna Maria Dello Preite, e la dirigente scolastica Carmen Taurino ha consentito che fosse una inedita e temporanea compagnia composta da sei detenuti e tre allieve della scuola a portare in scena una piece liberamente tratta da “Il piccolo principe” di Antoine De Saint-Exupery, “L’essenziale e invisibile agli occhi”. Lo spettacolo è stato l’incontro del lavoro di due laboratori tenuti dagli attori del Gruppo Aleph (Luigi De Falco, Nicola Galateo, Carla Orlandini e Franco Miccoli): quello nella Casa circondariale di Brindisi, seguito da 14 persone detenute, e quello svoltosi in due mesi nello stesso Liceo scientifico Leonardo Leo. Lunedì mattina la sala era gremita di studenti ed insegnanti, ma c’erano anche le famiglie dei sei detenuti ai quali la direttrice della struttura aveva concesso il permesso di uscita per salire sul palcoscenico della scuola a San Vito dei Normanni, accompagnati da due rappresentati della direzione e dei servizi educativi. La rappresentazione è stata seguita in un silenzio degno delle più importanti platee teatrali italiane. E che quel silenzio fosse un segno di attenzione partecipata, lo si è compreso alla fine quando sono scoppiati gli applausi e l’emozione ha preso sul palco gli attori, e tra il pubblico i loro familiari. Come insegnano anche culture popolari che consideriamo lontane dalla nostra, il teatro è società e non fa distinzioni di condizione: ciò che contano sono la sensibilità personale, il sentimento, e lasciare che la propria vita scorra nel fiume delle vite altrui anche solo per la durata di una rappresentazione e della storia che racconta. Sono momenti in cui non ci sono muri e barriere. E tutto questo è un bene: quando l’essenziale diventa visibile agli occhi. Reggio Emilia: “Voci di dentro”, un incontro a più voci sul carcere comune.correggio.re.it, 19 dicembre 2018 “Voci di dentro” è un libro fotografico che racconta della vita ordinaria all’interno dell’Istituto Penitenziario di Reggio Emilia ed è stato realizzato da Pietro Menozzi, per quanto riguarda i testi, e Cristian Iotti per la parte fotografica. Lo presentiamo mercoledì 19 dicembre, alle 21, nella sala conferenze “A. Recordati” di Palazzo dei Principi. Insieme agli autori, intervengono don Matteo Mioni, cappellano del carcere di Reggio Emilia, Massimo Caobelli, educatore, responsabile del progetto “Semiliberi”, e Maria Pasceri, responsabile area educativa degli Istituti Penali di Reggio Emilia. Conduce l’incontro, il vicesindaco di Correggio, Gianmarco Marzocchini. “Voci di dentro” è un progetto durato quasi un anno, che ha permesso agli autori di approfondire il rapporto con i detenuti e affrontare temi come la percezione del tempo, il cambiamento d’identità individuale e di gruppo, la visione del futuro e l’immaginazione durante il periodo della detenzione. Foto e testi ritraggono l’ambiente carcerario e i detenuti durante il lavoro, la formazione e le attività quotidiane. Obiettivo è dare voce a una realtà marginale, ma comunque in stretto rapporto con la comunità esterna, come antidoto alla diffusione di dannosi luoghi comuni. 2018 anno nero per i giornalisti: 80 morti in tutto il mondo. Il rapporto di Rsf La Repubblica, 19 dicembre 2018 Il primato delle vittime lo detiene di nuovo l’Afghanistan: 15 morti solo quest’anno. È quanto riporta il bilancio annuale di Reporters sans frontières, organizzazione no-profit che promuove e difende la libertà di informazione e la libertà di stampa. Ne sono stati uccisi 80 in giro per il mondo, segnando un aumento dopo tre anni di calo. L’anno scorso hanno perso la vita 65 giornalisti, uccisi per aver esercitato la loro missione d’informazione. Tra le vittime di quest’anno, vi sono 63 giornalisti professionisti, con un incremento del 15%, 13 giornalisti non professionisti (contro 7 l’anno scorso) e quattro collaboratori dei media, ha spiegato l’Ong con sede a Parigi, denunciando la violenza "senza precedenti" contro la categoria. Time sceglie le "persone dell’anno" 2018: i giornalisti "guardiani" della verità, c’è anche Khashoggi - In totale - secondo Rsf - più di 700 giornalisti professionisti sono stati uccisi negli ultimi dieci anni. Oltre la metà dei reporter sono stati "deliberatamente presi di mira e assassinati", come l’editorialista saudita Jamal Khashoggi, ucciso il 2 ottobre scorso all’interno del consolato di Riad a Istanbul. E come il giornalista slovacco, Jan Kuciak, trucidato nella sua abitazione il 21 febbraio scorso. "L’odio verso i giornalisti proferito e persino sostenuto da leader politici, religiosi o uomini d’affari senza scrupoli ha conseguenze drammatiche sul terreno, e si traduce in un aumento preoccupante delle violazioni", avverte Christophe Deloire, segretario generale di Rsf, che mette sotto accusa anche i social. "Portano una pesante responsabilità in questo senso, questi sentimenti di odio legittimano la violenza e indeboliscono, ogni giorno di più, il giornalismo e con esso la democrazia". L’inferno dei reporter è di nuovo l’Afghanistan: nel 2018 qui hanno perso la vita 15 giornalisti, nove solo nel doppio attacco del 30 aprile scorso in cui sono stati presi di mira proprio gli operatori dell’informazione. Seguono Siria, con un 11 morti, Messico (9), India (6) e Stati Uniti (6 morti, di cui 4 nell’attacco alla redazione di Capitolo Gazette del Maryland). Nel rapporto si ricorda inoltre che negli Stati Uniti si contano sei vittime, quattro delle quali in un attacco a giugno contro il giornale Capital Gazette, in Maryland, dove ad aprire il fuoco era stato un uomo che si era sentito diffamato per gli articoli su di lui, condannato per stalking. Nel 2018 è aumentato anche il numero di giornalisti detenuti: sono 348 (nel 2017 erano 326). Oltre la metà dei reporter in prigione si trova in cinque Paesi: Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia e Cina. Il Papa: corruzione, xenofobia, razzismo, una vergogna per la politica di Salvatore Cernuzio La Stampa, 19 dicembre 2018 Il messaggio per la 52esima Giornata Mondiale della Pace del prossimo 1° gennaio 2019: “Insostenibili i discorsi politici che accusano i migranti di tutti i mali e privano i poveri della speranza”. “No a chiusure e nazionalismi”. Corruzione, appropriazione indebita di beni pubblici, strumentalizzazione delle persone, non rispetto delle regole comunitarie, arricchimento illegale, giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto della “ragion di Stato”, razzismo e xenofobia, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali, il disprezzo verso chi è costretto all’esilio. È un lungo elenco di “vizi” che oggi sfigurano il volto della politica quello che traccia Papa Francesco nel suo messaggio per la 52esima Giornata Mondiale della Pace dedicata proprio al tema della “buona politica”, che si celebrerà il prossimo 1° gennaio 2019. Il Papa non ci gira troppo attorno: questi vizi sono dovuti “sia ad inettitudine personale sia a storture nell’ambiente e nelle istituzioni”. Il problema è che essi “tolgono credibilità ai sistemi” entro i quali la vita politica si svolge, “così come all’autorevolezza, alle decisioni e all’azione delle persone che vi si dedicano”. “Questi vizi, che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale”, afferma Francesco nel testo firmato l’8 dicembre e pubblicato oggi, giorno dell’International day sulle migrazioni promosso dall’Onu. Ancora una volta il Papa pronuncia il suo stigma contro “il terrore esercitato sulle persone più vulnerabili” che contribuisce, peraltro, “all’esilio di intere popolazioni nella ricerca di una terra di pace”. “Non sono sostenibili - rimarca il Papa - i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza”. Va invece ribadito che “la pace si basa sul rispetto di ogni persona, qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del creato che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni passate”. Questa pace che, come affermava il poeta Charles Péguy, è “un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza”. “Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie”, annota Francesco. La politica è, o meglio, dovrebbe essere “un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo”; quando però “da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione”. Francesco richiama le parole di Paolo VI: “Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità”. In effetti, osserva, “la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto”. Solo così, cioè se “attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone” la politica può diventare veramente quella “forma eminente di carità”, come la definì sempre Papa Montini. “Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella polis”, rimarca il Pontefice questa volta citando il suo diretto predecessore Benedetto XVI. In questo “programma” si possono ritrovare tutti i politici, “di qualunque appartenenza culturale o religiosa che, insieme, desiderano operare per il bene della famiglia umana, praticando quelle virtù umane che soggiacciono al buon agire politico: la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà”. Come il grano e la zizzania, tuttavia, accanto a queste virtù crescono molteplici “vizi”: “la corruzione - nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto arbitrario della “ragion di Stato”, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio”, denuncia il Pontefice. Esorta allora a “tornare alla fonte e ai riferimenti che ispirano la giustizia e il diritto”: “Ogni rinnovo delle funzioni elettive, ogni scadenza elettorale, ogni tappa della vita pubblica” può essere un’occasione per farlo, in modo anche da tessere “un legame di fiducia e di riconoscenza” tra vecchie e nuove generazioni. A proposito di quest’ultime, il Papa sottolinea che peculiarità della buona politica è quella di promuovere “la partecipazione dei giovani e la fiducia nell’altro”: “Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società, senza possibilità di partecipare a un progetto per il futuro”. Quando, invece, “la politica si traduce, in concreto, nell’incoraggiamento dei giovani talenti e delle vocazioni che chiedono di realizzarsi, la pace si diffonde nelle coscienze e sui volti”. In questo senso la politica diventa strumento di pace “se si esprime nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona”. A partire da questa convinzione, cioè che “ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa”, che si possono “sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali”, assicura Bergoglio. Non è così scontato, evidenzia: “Tale fiducia non è mai facile da vivere perché le relazioni umane sono complesse”. E soprattutto in questi tempi vige “un clima di sfiducia” che si radica “nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi”, e si manifesta anche a livello politico, “attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno”. Non manca nel messaggio del Vescovo di Roma una denuncia della guerra, a cent’anni dalla fine del primo conflitto mondiale: “Mentre ricordiamo i giovani caduti durante quei combattimenti e le popolazioni civili dilaniate, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle guerre fratricide, cioè che la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura”, rimarca. “Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia”. La preoccupazione più grande del Papa è per i bambini che vivono nelle attuali zone di conflitto e per tutti coloro che si impegnano affinché le loro vite e i loro diritti siano protetti. “Nel mondo, un bambino su sei è colpito dalla violenza della guerra o dalle sue conseguenze”, sottolinea, “quando non è arruolato per diventare egli stesso soldato o ostaggio dei gruppi armati. La testimonianza di quanti si adoperano per difendere la dignità e il rispetto dei bambini è quanto mai preziosa per il futuro dell’umanità”. Infine richiamando la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, della quale si celebrano in questi giorni i settant’anni della firma, Papa Francesco rinnova l’invito alla pace - verso sé stessi ma anche verso l’altro: “il familiare, l’amico, lo straniero, il povero, il sofferente” - che “è frutto di un grande progetto politico che si fonda sulla responsabilità reciproca e sull’interdipendenza degli esseri umani”, ma che, al contempo, è “una sfida che chiede di essere accolta giorno dopo giorno”. Migranti. Lo Sprar resta, ma aumenta il numero degli irregolari di Adriana Pollice Il Manifesto, 19 dicembre 2018 Dossier del Viminale sugli effetti del decreto sicurezza. Allarme per i “vulnerabili”. Nella Giornata internazionale dei diritti dei migranti, il Viminale ha diffuso ieri un dossier per illustrare gli effetti del decreto sicurezza, voluto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Nonostante la riduzione dei flussi (meno 80% rispetto allo scorso anno) nel nostro territorio sono accolte più di 140mila persone - si legge - e sono in trattazione circa 110mila domande di asilo”. Il Viminale quindi spiega che “la strategia internazionale, volta al contenimento dei flussi migratori” va accompagnata da una “opportuna” stretta interna. La stretta, secondo l’Istituto studi di politica internazionale, provocherà in Italia, tra giugno 2018 e dicembre 2020, un aumento degli irregolari di almeno 140mila unità. Sommando la quota già presente, si arriverà intorno ai 670mila. “Ai ritmi attuali - conclude l’Ispi - per rimpatriare i migranti irregolari sarebbero necessari 90 anni”. Al Viminale non sono preoccupati e spiegano che per esaminare le domande l’importante è “tipizzare”, come fanno gli assicuratori: “Restano invariate le tutele per chi è perseguitato, per chi corre il rischio di condanne a morte o tortura, per chi rischia la vita per conflitti armati nel proprio paese”. E ancora: “Le vittime di tratta, di violenza domestica o di grave sfruttamento lavorativo, chi versa in condizioni di salute di eccezionale gravità, chi non può rientrare nel proprio paese per gravi calamità, chi compie atti di particolare valore civile, nonché coloro i quali rischiano gravi persecuzioni”. Bocciata in partenza la domanda di chi viene da paesi considerati sicuri, la protezione umanitaria viene concessa solo “in presenza di ben definite circostanze, a differenza del passato laddove veniva riconosciuta sulla base di generici ”seri motivi di carattere umanitario”. Un altissimo numero di permessi per motivi umanitari non ha portato all’inclusione sociale e lavorativa dello straniero”. Il Viminale fornisce le cifre: “Su circa 40mila tutele umanitarie in tre anni, poco più di 3.200 sono state le conversioni in permessi di lavoro e circa 250 in ricongiungimenti familiari. La gran parte degli immigrati sono rimasti inoperosi con il forte rischio di cadere nell’illegalità”. Così, seguendo la logica grillo-leghista, per evitare che “gli inoperosi” cadano nell’illegalità il governo toglie loro ogni possibilità di rientrare in un percorso legale. La rapidità con cui verranno analizzare le domande, giudicata da molti una lesione dei diritti dei migranti, nel dossier diventa una prova di efficienza. Anche sul pericolo di finire per strada per chi aveva il permesso umanitario il Viminale è sereno: “Chi ne è già in possesso continua a rimanere legittimamente nel territorio fino alla scadenza del titolo, potendo convertirlo in permesso per lavoro o per ricongiungimento familiare”. E qui l’ottimismo va a collidere con i dati precedenti, che mostrano quanto sia difficile ottenere un contratto regolare. Ma niente paura, il dossier aggiunge: “Lo straniero dovrà cogliere l’opportunità che gli viene offerta di integrazione” che si traduce in un lavoro a qualsiasi costo e a qualsiasi condizione, pena l’espulsione. Dubbi di costituzionalità? “Il diritto di asilo rimane integro” si legge, anzi tutte queste restrizioni hanno “un positivo effetto sul sistema di accoglienza, che va decongestionandosi. Una spesa di oltre 2,7 miliardi di euro a carico dell’erario”. Lo Sprar si trasforma in Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori non accompagnati): “Sono 877 i progetti finanziati, per 35.881 posti, con 1.825 comuni interessati e con più di 27mila persone in accoglienza. Potranno confluire anche i minori, in aggiunta ai 2.467 oggi presi in carico dai comuni, dai centri di prima accoglienza e temporanei”. Il Siproimi però è solo per chi ottiene la protezione internazionale o speciale. Per tutti gli altri ci sono i Cas senza alcun servizio, per il dossier si chiama “ottimizzare”: “Le modifiche introdotte - si legge - sono in linea con le raccomandazioni della Corte dei Conti”. Per chi commette reati (violenza, omicidio, spaccio, furto) ci sarà l’espulsione attraverso un iter accelerato. I rimpatri sono la via maestra ma, da giugno a novembre, sono stati solo 463 al mese. Il Viminale ha inviato ieri ai prefetti una direttiva per spiegare come applicare le norme contenute nel provvedimento. Dalla sua entrata in vigore, prefetture e comuni avevano chiesto chiarimenti per evitare l’espulsione in massa di migranti dai centri, costretti a finire in strada al freddo invernale. Oxfam fa i conti: rischiano di ritrovarsi esclusi dai Siproimi “oltre 12mila migranti vulnerabili con il permesso di soggiorno, mentre nei prossimi 2 anni circa 120mila persone sono destinate all’irregolarità tra permessi umanitari non rinnovati (circa 32.750), non rilasciati (27.300) e pratiche arretrate esaminate con le nuove disposizioni (70mila)”. A novembre sono state analizzate 7.716 domande d’asilo, l’80% ha ricevuto un diniego. Migranti Decreto sicurezza, stimati 120mila nuovi “irregolari” di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2018 L’entrata in vigore del decreto immigrazione e sicurezza - avvenuta il 5 ottobre scorso poi convertito con la legge 132/18- rischia nel prossimo futuro di lasciare molte persone per strada perché non si potrà più entrare in un Centro di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), dove avrebbe dovuto concludere il percorso di integrazione dei richiedenti asilo per protezione umanitari. In un rapporto diffuso in occasione della Giornata internazionale dei diritti dei migranti - dati riportati dall’agenzia Ansa- si stimano che nei prossimi 2 anni circa 120mila persone sono destinate a scivolare nell’irregolarità, tra permessi per motivi umanitari non rinnovati, non rilasciati e pratiche arretrate che saranno esaminate dalle Commissioni territoriali secondo le nuove disposizioni di legge. A questo nuova realtà il Sole 24 Ore dedica un corposo focus dedicato alle norme del Dl 113/18 intitolato “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del ministero dell’Interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”. Ecco le principali novità della normativa di cui anticipiamo alcuni passaggi salienti: premesso che per l’attuazione del decreto sicurezza serviranno 22 decreti (cinque con una scadenza ben precisa, gli altri senza nessun limiti temporale), le prime misure adottate riguardano la norme che un procedimento penale blocca la protezione internazionale e che in materia di rimpatri, disposti dal questore, devono essere convalidati dal giudice di pace mentre nei Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) il trattenimento sale fino a 180 giorni. Inoltre il permesso per motivi umanitari è stato sostituito dai “casi” speciali. Inoltre non sarà possibile iscriversi all’anagrafe con la sola richiesta d’asilo. In dettaglio - La nuova norma legislativa abroga il permesso di soggiorno per motivi umanitari, mantiene fattispecie eccezionali di temporanea tutela dello straniero per esigenze di carattere umanitario e punta a enumerare e tipizzare questi permessi di soggiorno di protezione speciale. Alcune di queste fattispecie - per vittime di violenza o grave sfruttamento, di violenza domestica, di particolare sfruttamento lavorativo - sono già previste dal Testo unico immigrazione e ricevono qui una ridefinizione. Altre fattispecie che non erano puntualmente disciplinate dal Dlgs 286/1998 ricevono ora una definizione e disciplina. Si tratta di: condizioni di salute di eccezionale gravità; situazioni contingenti di calamità nel Paese di origine che impediscono temporaneamente il rientro dello straniero in condizioni di sicurezza. Viene introdotto anche un permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile mediante l’inserimento di un articolo 42-bis entro il Testo unico immigrazione. Tra le altre novità raddoppia il termine di tempo per le pratiche di cittadinanza. Inoltre viene chiesta anche una conoscenza della lingua italiana non inferiore al livello B1 del quadro europeo “Qcer”. In dettaglio - L’acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio e per concessione di legge è subordinato al possesso da parte dell’interessato di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (Qcer). Il livello B1 prevede la capacità di sostenere conversazioni semplici su argomenti noti o di interesse, comprendere gli elementi principali in un discorso, di trasmissioni radiofoniche e televisive su argomenti di attualità o temi di interesse personale o professionale, di testi scritti di uso corrente legati alla sfera quotidiana o al lavoro, la scrittura di testi semplici su argomenti noti o di interesse. Tale conoscenza può essere dimostrata, all’atto di presentazione dell’istanza di cittadinanza, con il possesso di un titolo di studio rilasciato da un istituto di istruzione pubblico o paritario riconosciuto dal ministero dell’Istruzione e dal ministero degli Affari esteri, ovvero a produrre apposita certificazione della lingua, rilasciata da un ente certificatore riconosciuto dal ministero dell’Istruzione e dal ministero degli Affari esteri. I quattro enti certificatori riconosciuti sono: la Società Dante Alighieri, l’Università per stranieri di Perugia, l’Università per stranieri di Siena e l’Università degli studi Roma tre. Per l’accoglienza decisa la prima assistenza in hotspot, poi tocca ai “Cara” o ai “Cas” - Il Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) è una struttura per migranti appena giunti in Italia irregolarmente, che intendono chiedere la protezione internazionale. Sono stati istituiti con la riforma del diritto di asilo, recependo due direttive (Dpr 303/04 e Dlgs 25 del 28/1/08). Sono gestiti dall’Interno attraverso le prefetture che appaltano i servizi dei centri a enti gestori privati attraverso bandi di gara. Le convenzioni variano e lo Stato versa all’ente gestore una quota al giorno al richiedente asilo. La cifra deve garantire alloggio, pasti, assistenza legale e sanitaria, interprete e servizi psico-sociali. Spesso nei Cara esistono altri servizi come l’insegnamento della lingua italiana. I Cas (Centri di accoglienza straordinaria) sono immaginati per sopperire alla mancanza di posti nelle strutture ordinarie di accoglienza o nei servizi predisposti dagli enti locali, in caso di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti asilo. A oggi costituiscono la modalità ordinaria di accoglienza. Tali strutture sono individuate dalle Prefetture, in convenzione con cooperative, associazioni e strutture alberghiere, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici, sentito l’ente locale nel cui territorio la struttura è situata. La permanenza nei Cas dovrebbe essere limitata nel tempo strettamente necessario al trasferimento del richiedente nelle strutture di seconda accoglienza. Sui ricorsi sui permessi dei migranti, deciderà il tribunale collegiale ma con consistente taglio alle spese di giustizia. È infatti prevista la liquidazione dei compensi al difensore e al consulente tecnico di parte nei processi civili quando l’impugnazione è dichiarata inammissibile, non sarà più ammessa. Non possono essere liquidate neppure le spese sostenute per le consulenze tecniche di parte che già all’atto del conferimento dell’incarico apparivano irrilevanti o superflue ai fini della prova. Più controlli su figli di carcerate - Nel caso di fermo o arresto di madre con figli minorenni la polizia giudiziaria che lo ha eseguito dà subito notizia al pubblico ministero e al procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni. Copia dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere è comunicata al procuratore della Repubblica, così come l’ordine di esecuzione della sentenza di condanna. Controlli e ispezioni anche random dove i figli convivono con mamme carcerate Registrazione antiterrorismo per i clienti degli autonoleggi. Quando si stipula il contratto di noleggio” gli operatori dovranno comunicare telematicamente alla banca dati dei corpi di polizia (Sdi) “i dati identificativi riportati nel documento d’identità esibito dal soggetto che richiede il noleggio”. Lo Sdi verificherà automaticamente se a carico del cliente ci sono condanne, provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza (come diffide o divieti di recarsi in certi luoghi) o segnalazioni antiterrorismo. Se il riscontro è positivo, partirà una segnalazione per gli uffici di polizia competenti, che dovranno attivarsi per controlli. Potranno anche sottoporre l’interessato a rilievi segnaletici Cannabis light, per la Cassazione lo 0,2 è legale di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 19 dicembre 2018 Lo studio di tre ricercatori universitari, Carrieri (Catanzaro), Madio (York) e Principe (Salerno) prova a fare i conti di quanto il mercato della cannabis legale abbia influito su quello illegale. L’entrata sul mercato legale di quella light ha determinato una riduzione dell’11/12% dei sequestri di cannabis laddove esisteva un grow shop. Una interessante decisione della Terza Sezione Penale della Cassazione (12/2018) sembra portare un po’ di chiarezza sulla “cannabis light”. Per la Suprema Corte la vendita di prodotti derivati dalla cannabis industriale, ovvero quella “light” regolata dalla legge 242/2016, è possibile laddove il limite dello 0,2% del principio attivo psicotropo (Thc) sia rispettato. La Corte dice anche che per la contestazione dello spaccio non è sufficiente superare tale limite, ma è necessario che si superi “l’effetto drogante rilevabile”, fissato in giurisprudenza allo 0,5%. Le motivazioni forse potranno chiarire ancora meglio il quadro sugli usi consentiti per le infiorescenze. Si conferma comunque l’interpretazione (cfr. Bulleri, il manifesto del 30/5/2018) che sosteneva che il limite dello 0,6% fosse una semplice clausola di salvaguardia dalle conseguenze penali per il coltivatore che si fosse trovato, per le normali variazioni colturali della canapa, con piante che in campo superassero tale limite. Questo mette fuori dalla legalità i prodotti che in questi mesi di incertezza normativa avevano giocato sulla forbice 0,2/0,6% di Thc per stare sul mercato. È auspicabile che i ministri Salvini e Fontana, lanciatisi in questi mesi nell’insensata guerra anche al “canapone” rispettino la scelta della giurisprudenza. Salvini con una circolare di fine agosto ha dato il via a numerosi blitz e sequestri di canapa in tutta Italia con rischi di conseguenze tragiche come è accaduto a Genova a metà settembre durante una brillante operazione che ha provocato il ferimento di una ragazza e del suo cane per realizzare il sequestro di una pianta di canapa industriale. Per rafforzare il filone farsesco Fontana a metà ottobre ha rilanciato l’allarme dell’ex capo del Dipartimento antidroga Serpelloni rispetto alla possibilità di farsi una canna concentrando il Thc di 20/30 grammi di cannabis light. Usare un simile argomento è davvero incredibile. Secondo lor signori un giovane per farsi uno spinello del costo di 10 euro sul mercato nero, forse per amore della legalità, farebbe la scelta di spendere 200 o 300 euro per acquistare il quantitativo di cannabis light per raggiungere lo scopo. Per fortuna non sono i giovani a essere fuori di testa. Ma qual è il motivo del successo di un prodotto che pur essendo molto simile a quello illegale, non ha gli effetti psicotropi dell’originale? Si possono forse individuare in particolare due modelli di consumatori a lungo termine: coloro che usano la canapa light come succedaneo del tabacco insieme a quella illegale, e coloro che per età, per indole o per impegni lavorativi all’effetto “high” del The preferiscono l’effetto più rilassante del Cbd. Chi invece pensava di trovare “quella vera” nei grow shop[, è probabilmente già ritornato al mercato nero. Non è un caso che, dopo il boom iniziale, il mercato sia oggi in stallo. C’è però un interessante lavoro di tre ricercatori universitari, Carrieri (Catanzaro), Madio (York) e Principe (Salerno) che prova a fare i conti di quanto il mercato della cannabis legale abbia influito su quello illegale. Secondo lo studio, che ha confrontato i sequestri di sostanze derivate dalla cannabis prima e dopo l’entrata sul mercato legale di quella light, quest’ultima ha determinato una riduzione dell’11/12% dei sequestri di cannabis laddove esisteva un grow shop. Addirittura, il calcolo delle minori entrate per le narcomafie dovute all’effetto sostituzione arriva fra i 160 e i 200 milioni di euro. Al di là delle cifre, “questi risultati supportano la tesi che, anche se in un breve periodo di tempo e pur con un sostituto imperfetto, gli operatori criminali del mercato illegale delle droghe sono rimpiazzati dai negozi legali”. La decisione della Cassazione e lo studio sulla cannabis light online su Fuoriluogo.it. Brasile. Battisti è in fuga, possibile sia già fuori dal Paese di Emiliano Guanella La Stampa, 19 dicembre 2018 Ormai nessuno, anche in Brasile, ha dubbi; Cesare Battisti si è dato alla fuga, nessuno può dire quanto lontano si trovi dal paese di Cananeia, ma è chiaro che poco o nulla è stato fatto dalle autorità brasiliane per impedire che si dileguasse nel nulla. Come era stato riportato da “La Stampa” a fine ottobre, su di lui non c’era da tempo nessuna misura cautelare. Il braccialetto elettronico, che in Brasile viene applicato alla caviglia, gli è stato tolto già in aprile, non aveva più obbligo di firma in commissariato, il suo stato di residente permanente gli permetteva di circolare ovunque dentro il Brasile. Si è scoperto anche che la giustizia federale ha respinto due richieste di reintroduzione della cavigliera elettronica presentate dal procuratore Silvio Pettirossi Neto, che aveva parlato chiaramente di pericolo di fuga. Battisti, spiegava Pettirossi, aveva dato all’amico Magno de Carvalho la procura sul suo conto corrente e questo era un indizio sufficiente per pensare ad un piano per scappare. In due occasioni, il 5 agosto e poi a metà novembre, i giudici federali hanno respinto questa tesi. Non c’è mai stata nemmeno una vigilanza discreta su Battisti, come era stato suggerito dalla nostra rappresentanza diplomatica. Falliti due blitz - Sorprende anche la lentezza della polizia federale brasiliana dopo il mandato d’arresto spiccato dal giudice della Corte Suprema Luiz Fux il 13 dicembre. Gli agenti hanno cercato in due appartamenti a San Paolo e solo il giorno dopo sono arrivati sul posto, senza nemmeno entrare a casa sua perché non avevano un mandato di perquisizione. Domenica davanti gli occhi increduli dei giornalisti locali un amico meccanico e vicino di casa di Battisti è andato a controllare la sua auto che era ferma da almeno due mesi e con la batteria scarica. A Cananeia non si riesce a determinare con esattezza il giorno in cui Battisti è stato visto per l’ultima volta; si pensa a una settimana, dieci o quindici giorni fa, il tempo comunque sufficiente per allontanarsi parecchio e magari arrivare in Bolivia, Paraguay o anche (perché escluderlo?) in Uruguay. Possibilmente in barca, addentrandosi nelle isole che compongono l’enorme riserva marina di Guaraquecaba e di Bom Jesus, che aveva conosciuto andando a pescare con amici. Battisti potrebbe essere nascosto lì come l’ultimo samurai oppure già oltre confine, con in mano dei documenti falsi. Lontano, ormai, dal non brillante operato della polizia e della magistratura brasiliana. Egitto. Scarcerata Amal, la moglie di un consulente dei Regeni di Francesca Paci La Stampa, 19 dicembre 2018 Dopo sette mesi di custodia cautelare esce finalmente dal carcere Amal Fathy, attivista egiziana ma soprattutto consorte di Mohamed Lotfy, consulente della famiglia Regeni e direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf). Su ordine della Corte d’asside del Cairo la donna, accusata di “pubblicazione di notizie false su Facebook” ma anche di generica “appartenenza a un gruppo terrorista”, dovrà comparire in commissariato una volta alla settimana in attesa del 30 dicembre, data dell’appello di uno dei due processi a suo carico (i magistrati sostengono che abbia insultato dei funzionari di banca postando un video su Internet mentre Amnesty International insiste sul fatto che abbia solo condiviso sul noto social network la propria esperienza di molestie sessuali, un problema tanto diffuso quanto poco affrontato). La repressione di al Sisi La vicenda di Amal Fathy si è intrecciata sin dall’inizio alla storia del ricercatore friulano torturato e ucciso al Cairo quasi tre anni fa, perché nello stallo paludoso della collaborazione tra gli inquirenti italiani e quelli egiziani tutti gli avvocati e le Ong impegnate al Cairo nella ricerca della verità sono state messe a tacere dalle forze di sicurezza del governo al Sisi (Ahmed Abdallah, un altro avvocato della Rete del’Ecrf, ha passato diversi mesi in cella con accuse vaghe). Pur non avendo mai collegato pubblicamente Amal al caso Regeni, sono in molti a vedere nel lavoro di Mohamed Lotfy una spina nel fianco del regime. Sebbene ufficialmente le indagini vadano avanti alla ricerca della verità, le ultime settimane hanno visto rialzarsi la tensione tra Roma e il Cairo, già più volte vicine alla crisi diplomatica. Nei giorni scorsi, dopo il muro contro muro tra i due Parlamenti seguito all’annuncio della Procura capitolina di voler andare avanti da sola in assenza di un reale contributo da parte dei colleghi egiziani (il presidente della Camera ha assunto una posizione molto dura e in contrasto con la linea di dialogo dell’esecutivo giallo-verde), sono circolati in Rete rumors circa un presunto imminente richiamo in patria dell’ambasciatore egiziano in Italia. “Fantasie senza fondamento” replica oggi all’Ansa il portavoce del ministero degli Esteri Hamed Hafez, smentendo la ricostruzione del sito d’opposizione Mada Masr, un giornale online accusato dal governo di simpatizzare con i banditi Fratelli Musulmani. El Salvador: Imelda Cortez rilasciata dopo aver rischiato 20 anni di carcere amnesty.it, 19 dicembre 2018 Il 17 dicembre 2018, dopo oltre un anno e mezzo di detenzione preventiva, un tribunale di El Salvador ha rimesso in libertà Imelda Cortez, una ragazza di 20 anni che rischiava di trascorrerne altrettanti in carcere. Imelda era rimasta incinta dopo l’ennesimo stupro subito dall’anziano padrino, che la violentava sin da quando aveva 12 anni. Nell’aprile 2017, accortasi che era dolorante e stava sanguinando, la madre di Imelda aveva portato la figlia in ospedale. I medici del pronto soccorso, sospettando che si trattasse di un aborto, avevano chiamato la polizia e poi praticato un parto cesareo d’urgenza. La bambina era viva e in salute. Imelda, dopo una settimana di ricovero in ospedale, era stata arrestata per il reato di “tentato omicidio”. Il divieto assoluto d’aborto nel paese centroamericano causa la criminalizzazione e la persecuzione giudiziaria di molte giovani donne. A seguito delle campagne delle associazioni locali e delle organizzazioni internazionali per i diritti delle donne, negli ultimi anni diverse di loro sono state scarcerate. Panama. I confessionali per la Gmg? 250 e realizzati dai detenuti di Stefania Careddu Avvenire, 19 dicembre 2018 Chi non ricorda la distesa bianca del Circo Massimo, o quelli a forma di 4 vela del Parco El Retiro di Madrid o quelli che ricordavano il Corcovado a Quinta de Boa Vista, a Rio de Janeiro? Quest’anno i 250 confessionali che saranno collocati nel Parque Recreativo Omar di Panama saranno ispirati alle linee curve del logo di cui avranno anche i colori. Ma ciò che li rende speciali è il fatto che siano realizzati da trentacinque detenuti del penitenziario “La Joya”, impegnati in un vero “laboratorio di libertà”: tagliare il legno, rifinirlo, verniciarlo e pitturarlo infatti non è solo un lavoro di falegnameria, ma un’occasione per imparare, ritrovare fiducia in se stessi, fare squadra oltre che, ovviamente, far parte di un grande evento come la Gmg. “Anche se non potremo essere presenti, sentiamo che stiamo facendo qualcosa di importante, e ringrazio Dio per l’opportunità offerta a noi carcerati di poter dare il nostro contributo”, conferma Luis Dominguez. “Mi sento incluso e felice di lavorare per Dio”, gli fa eco Jesus Ramo s, che è stato scelto pur non essendo cattolico. Del resto, “a prescindere dalla fede che ciascuno professa, sono una squadra e sono consapevoli dell’importanza di partecipare a un progetto unico come questo”, sottolinea Sharon Diaz, vicedirettrice del penitenziario, come riportato dal sito ufficiale della Gmg panamense. I confessionali avranno dunque un significato del tutto particolare. Per i giovani che avranno modo di accostarsi al sacramento della Riconciliazione, per i detenuti che li hanno costruiti, seguendo le indicazioni della disegnatrice Lilibeth Bennet e lavorando con passione e professionalità per giorni, ma anche per la società e il mondo intero. Quei pezzi di legno, trasformati in postazioni della misericordia, saranno lì “a dimostrare il potenziale dei detenuti e il loro desiderio di essere persone diverse e utili”, afferma Alma de León, coordinatrice dei progetti del carcere. All’ingresso del Parco del perdono ci sarà la Grotta della Vergine, un luogo in cui si potrà fare l’esame di coscienza, in silenzio o con l’aiuto di strumenti audio e video. Per le confessioni, in tutte le lingue, saranno disponibili sacerdoti dalle 9 alle 16, e alcuni volontari saranno pronti a offrire il proprio aiuto a chi ne avrà bisogno. Nel Parque Omar sarà allestita anche la “Fiera delle vocazioni” con 150 stand dove gruppi, movimenti, associazioni e famiglie religiose presenteranno il loro carisma e le loro iniziative e i giovani, attraverso laboratori, momenti di preghiera e incontri potranno approfondire il tema del discernimento vocazionale. “Vogliamo che i ragazzi capiscano - sintetizza padre Jhassir Pacheco, coordinatore della Fiera - che la vita stessa è una ricerca, cioè andare verso ciò che Dio vuole. È un percorso di felicità che si concretizza nella vocazione, che può essere il matrimonio, la vita religiosa, il sacerdozio o il laicato impegnato”.