Carceri, tutto da rifare di Filippo Giordano* e Luigi Pagano** Corriere della Sera - Buone Notizie, 18 dicembre 2018 I dati sulla “detenzione”: sovraffollamento, costi, recidiva al 70 per cento. La soluzione? Ampliare i percorsi di recupero e le sinergie con l’esterno. “Non buonismo ma sicurezza, reinserimento significa meno pericolo”. È convinzione radicata nella nostra società che il sistema giudiziario non possa rinunciare al ruolo centrale del carcere perché considerato l’unica misura in grado di garantire la certezza della pena, offrire rassicurazioni in termini di sicurezza sociale, rappresentare un deterrente per il crimine. Stante queste premesse dobbiamo allora chiederci quanto oggi il carcere, servizio che noi cittadini sosteniamo attraverso le tasse, sia realmente conveniente sotto il profilo sociale ed economico e rimedio efficace per il raggiungimento degli obiettivi dichiarati. L’analisi dei dati fornisce significative risposte dando conto di almeno due rilevanti disfunzionalità, ormai cronicizzate: il sovraffollamento degli istituti penitenziari e l’alto tasso di recidiva, due patologie strettamente legate tra di loro. L’indice di recidiva, in Italia stimato intorno al 70%, dà atto di un sostanziale fallimento dei tentativi di (re)inserire nel tessuto sociale il condannato, mentre il sovraffollamento determina un generale peggioramento delle condizioni di vita nei penitenziari, quindi anche delle iniziative volte al recupero, i cui effetti negativi ricadono non solo sui detenuti, ma anche sulla qualità di vita e di lavoro del personale che presta la propria opera in istituto. Il richiamo al senso di umanità rappresenta un avvertimento dei padri costituenti sul rischio che l’ingresso di una persona nel circuito penale, con destinazione finale carcere, possa comportare un cedimento a prassi di natura degradante con negazione di diritti e garanzie. E a ben vedere, forse il più grosso ostacolo sulla strada del reinserimento è proprio questo: la pena carcere che dovrebbe rieducare alla legalità non è in grado, spesso, di assicurare il rispetto di diritti stabiliti a favore delle persone detenute. Dobbiamo allora ammettere che le condizioni delle nostre carceri da troppo tempo non rispondono pienamente all’idea di una pena non contraria al senso di umanità e finalizzata al positivo rientro in società del reo una volta scontata la pena così come recita l’art. 27 della Costituzione. Ciò dovrebbe portare a una seria riflessione sul ruolo egemone che il carcere ha assunto nel sistema penale e se non sia opportuno oggi pensare anche a modi diversi di punire che non siano la detenzione. Ma sino a che il carcere esiste non possiamo esimerci dal migliorarne la funzionalità applicando semplicemente quanto stabilito dalle normative esistenti. Al 15 novembre 2018 a fronte di una capienza regolamentare di 50.616 posti le carceri italiane ospitavano 59.862 detenuti. Di questi il 25% è tossicodipendente, 10.158 sono in attesa di giudizio, 9.631 scontano pene al di sotto dei 3 anni, 18.241 pene inferiori a 5 anni. È questa una situazione singolare laddove la legge prevede la detenzione domiciliare per pene fino a 2 anni, l’affidamento in prova ai 4 anni, 6 per i tossicodipendenti. Anche sottraendo da questo rilevante numero coloro che magari “non meritano” benefici, si può essere sicuri che ne rimarrebbero comunque diverse migliaia che potrebbero per esempio scontare la pena lavorando all’esterno in progetti di pubblica utilità. Sono molte le persone, invero, che rimangono in carcere per mancanza di servizi territoriali, come i malati psichiatrici o tossicodipendenti, o perché privi di offerte di lavoro o di un domicilio, presupposti fondamentali per ottenere le misure alternative alla detenzione. Questo comporta un’ingente dispersione delle risorse disponibili e un impiego delle stesse a fini meramente assistenziali più che all’implementazione di attività volte al recupero. Il carcere così si snatura e perde le funzioni a esso attribuite restituendo alla società persone con problemi ben maggiori di quando sono entrate e che, come dimostrano gli indici di recidiva, per buona parte tornano a delinquere. Sostenere e ampliare i percorsi che accompagnino il detenuto verso un positivo rientro nella comunità sociale, facilitando sinergie tra istituzioni e società civile, rappresenta l’unica soluzione per ridare efficienza ed efficacia al sistema, non quindi esercizio di buonismo bensì un investimento in sicurezza perché ogni persona recuperata è un pericolo in meno per tutti. *Professore di Economia Aziendale Università Lumsa e Research Affiliate Icrios - Bocconi **Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia Bonafede: “Più fondi e 1.300 nuovi agenti, così cambiamo il sistema penitenziario” Il Messaggero, 18 dicembre 2018 Più fondi, interventi per l’edilizia e nuove assunzioni: Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha tracciato la via per il futuro del sistema penitenziario. “Fin dal decreto sicurezza abbiamo investito circa 196 milioni di euro per i prossimi anni dedicati al mondo penitenziario - ha detto il ministro che, con il capo del Dap Francesco Basentini, ha effettuato una visita a sorpresa al carcere fiorentino di Sollicciano che per diversi giorni è stato senza riscaldamento - è prevista l’assunzione di circa 1.300 agenti di polizia penitenziaria nel 2019. In più abbiamo sbloccato le risorse per il piano carceri che erano bloccate da anni. Non chiedete a me il perché fossero bloccate. Si parla di almeno 70 milioni di euro ma potrebbero essere molti di più perché ci sono dei progetti che stiamo decidendo se rivisitare o meno”. “Al ministero - ha sottolineato - abbiamo costituito una task force e nell’ambito del Decreto semplificazione che permetta l’edilizia penitenziaria agevolata, e che permetta anche di individuare, ad esempio, caserme dismesse che possano diventare istituti penitenziari, magari per nuovi tipi di reato o di detenzione”. “A differenza del passato, quando ci si poneva il problema del sovraffollamento soltanto in presenza di una sanzione europea e allora si faceva misure come svuota-carceri che non risolvevano però il problema, adesso l’impegno del governo è a 360 gradi - ha sostenuto il Guardasigilli - per cercare di risolvere questi problemi a livello strutturale, e anche dove possibile nel breve termine”. Secondo Bonafede, rispetto al sovraffollamento “non si può ragionare di città in città. Di certo in Italia abbiamo bisogno di nuove carceri, su questo non ci sono dubbi. Poi qualcuno dice che se investi in nuove carceri poi non investi in percorsi alternativi alla detenzione. Non c’entra assolutamente nulla, c’è un problema di sovraffollamento e abbiamo bisogno di nuovi posti carcere”. Il valore (da resuscitare) della clemenza di Maria Brucale Il Dubbio, 18 dicembre 2018 Un saggio a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto. I detenuti nelle nostre carceri sono ormai più di sessantamila. Circa 18.000 persone sono ristrette in attesa di una sentenza definitiva di condanna. I suicidi sono in costante aumento. Le condizioni di sovraffollamento sono drammatiche per tutta la popolazione degli istituti di pena: i detenuti, gli agenti. La riforma dell’ordinamento penitenziario con il suo vento di cambiamento si è spenta sotto la scure impietosa della paura e ha lasciato il posto alle spire dell’insicurezza sociale, fomentate con slogan di immediato impatto emotivo che parlano alla pancia, ovattano la coscienza della gente e supportano la contrapposizione al sé di qualcosa di altro, diverso dal sé, la depauperazione dei diritti dell’estraneo appannaggio dei propri. È la squallida, grigia e mai così attuale scena dei capponi manzoniani, legati insieme per le zampe e diretti allo stesso patibolo ma capaci solo di beccarsi l’un l’altro e di ferirsi mentre la stessa disgrazia li accomuna. Gli istinti dominano, impellenti, rabbiosi e chiedono una gogna alla quale scagliare i propri sassi. E a loro parla la politica di governo ed offre pronto ristoro. Il nirvana è lo stesso di sempre, cerbero, il tintinnar di manette, sangue e stridore di denti. In un clima simile, il libro “Costituzione e Clemenza - Per un rinnovato statuto di amnistia e indulto”, a cura di Stefano Anastasia, Franco Corleone e Andrea Pugiotto, appare un atto rivoluzionario. Il testo racchiude i contributi di giuristi e studiosi ed esprime lo sforzo condiviso di giungere a una riforma dell’art. 79 della Costituzione che renda la norma, ormai riposta in un cassetto polveroso, di nuovo vitale e serva a “restituire agibilità, costituzionale e politica, agli istituti di clemenza collettiva (amnistia e indulto) e individuale (grazia e commutazione della pena)”, in un’ottica di “pacificazione, giustizia e deflazione”. Sono strumenti di politica criminale che la Costituzione mette a disposizione del legislatore, sottratti per volontà del Costituente a referendum abrogativo “al riparo dal facile populismo penale”. Amnistia, indulto, grazia e l’evocazione icastica della clemenza che tutti li accomuna e descrive non trovano spazio, spiega Andrea Pugiotto, se impera il primato della pena esclusivamente retributiva, revival della legge del taglione; se il concetto di “certezza della pena” è declinato nel senso distorto che la pena sarà espiata per intero e in tutto il suo rigore. Eppure, dopo la riforma del 1992, che ha aumentato rendendolo inarrivabile il quorum per l’accesso alla misura indulgenziale, il sistema giustizia ha accusato il colpo incancrenendosi, incapace di gestire un insormontabile appesantimento del carico di lavoro negli uffici a fronte di risorse umane e materiali sempre inadeguate. La tendenza sempre più marcata al panpenalismo, a dispetto del principio di residualità del diritto penale, ha contribuito a determinare uno stato comatoso della giustizia penale in aperto conflitto con il criterio della ragionevole durata dei processi che informa l’art. 111 della Costituzione e l’art. 6 Cedu. Sovraffollamento carcerario e irragionevole durata dei processi “sfregiano il volto costituzionale del diritto punitivo”. Può, allora, rivelarsi necessario l’utilizzo di strumenti di clemenza collettiva la cui natura deflattiva contribuisca a “chiudere una drammatica falla nel sistema delle garanzie e dei diritti” ed a “restituire funzionalità a un sistema in condizioni di anormalità tali da mettere a repentaglio la sua stessa legalità costituzionale”. “Clemenza di giustizia”, secondo la definizione del Prof. Vincenzo Maiello come “adattamento del diritto” o come “correzione del diritto”, con la “vocazione ad operare quale mezzo di chiusura del sistema ed a salvaguardia della sua coerenza complessiva”, quali “risorse di un sistema penale liberale”. Certo, occorre, ricorda Pugiotto, sottrarre il ricorso alla clemenza alla arbitrarietà politica sottoponendola a precisi vincoli costituzionali di scopo e ricomporre amnistia e indulto, grazia e commutazione della pena “entro l’orizzonte finalistico tracciato in Costituzione dall’art. 27, 3° comma” e, dunque, secondo l’insegnamento della Consulta: “allo scopo di favorire il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale” del reo. “Se il vincolo teleologico della risocializzazione del reo accompagna la pena in tutta la sua vicenda ordinamentale, fino a quando in concreto si estingue, ad esso non sono estranei neppure gli strumenti di clemenza, individuale e collettiva, che quella pena possono cancellare o ridurre o commutare. Grazia e commutazione della pena, indulto e amnistia, sono modalità attraverso le quali il diritto si confronta con l’azione del tempo e con i dati della realtà rimediando a situazioni dove l’applicazione o l’esecuzione della pena non risponde più al suo autentico significato costituzionale”. La parola clemenza però fa paura a fronte di un concetto di giustizia, sempre più in osmosi con quello di pena e di pena in carcere, sospinto da malcelate pulsioni di vendetta privata. È urgente una battaglia politico- culturale, è il monito di Stefano Anastasia e di Franco Corleone “contro l’uso populistico della giustizia penale e per il diritto penale minimo, contro la confusione tra giustizia penale e giustizia sociale”, che veda “impegnate tutte le energie morali e intellettuali che abbiano a cuore la cosa pubblica”. “Ridare dignità agli strumenti giuridici della clemenza, attraverso quello che Andrea Pugiotto immagina come un loro rinnovato statuto costituzionale, rappresenta lo sforzo di rendere lo Stato più autorevole, forte e consapevole, capace di usare con senso della misura tutti gli strumenti di una politica criminale sagace. Essere passati dalla bulimia all’astinenza è stato invece un atteggiamento debole, subalterno agli umori mutevoli della piazza”. Occorre, per usare le parole di Marco Pannella, che con inarrestabili intensità e passione ha invocato l’amnistia per il ripristino di una condizione di legalità nelle nostre carceri, “impegnarsi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna) lo è davvero” La voce degli ergastolani: spazio dedicato alle persone condannate alla pena perpetua di Carmelo Musumeci e Daniel Monni agoravox.it, 18 dicembre 2018 “Il nostro pensiero va a chi, benché condannato ad un silenzioso oblio, ogni giorno vive con un’idea di libertà... ed a chi, chiudendo gli occhi, evade dalle proprie condanne”. D. Abbiamo pensato che la galera è un luogo statico, fermo, bloccato. Le idee che mettono in movimento i cicli vitali dell’esistenza e della trasformazione vengono annullate per mancanza di dinamicità. È vero, galera vuole dire chiuso, ristretto, legato, bloccato. A noi non interessa sapere perché un uomo è in galera, ci interessa il perché della galera, della sua esistenza come strumento d’isolamento degli uomini dagli altri uomini, come strumento di spersonalizzazione, di perdita di identità. Ecco il perché di questo spazio che chiameremo “La voce degli ergastolani”: un ambiente che dovrebbe, come una lima, segare le sbarre delle loro celle. Daremo soprattutto spazio e voce alle persone condannate alla pena perpetua per farvi sapere come vivono e cosa pensano e per dare un senso alla loro vita poiché riteniamo che una vita senza senso non meriti di essere vissuta. La società civile spesso ignora gli ergastolani...forse anche perché i media non offrono notizie reali delle loro condizioni. Da qui l’idea di realizzare un sito che consenta di portare all’esterno i pensieri, le emozioni, le capacità degli ergastolani e dei detenuti ma soprattutto che possa dare voce a chi una voce non ce l’ha. Vogliamo dare fiato a chi “vive” il carcere per aiutare quelle persone a trasformare il buio delle loro celle in luoghi di speranza e luce. Come dicevamo daremo spazio soprattutto ai detenuti condannati all’ergastolo, al “fine pena mai”, o, se preferite, al “fine pena 9999”, come è scritto sui loro certificati di detenzione (quindi usciranno tra 7981 anni...!?). Perché riteniamo illegittimo l’ergastolo? Perché l’art. 27 comma terzo della Cost. dichiara “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e ci chiediamo: che senso ha la rieducazione di un detenuto che non uscirà mai!? Perché non dargli una speranza? Ecco! Noi vogliamo dargli, più modestamente, un po’ di voce. La voce degli ergastolani: www.lavocedegliergastolani.it, e-mail: lavocedegliergastolani@gmail.com Meloni (Carceri e Sicurezza): per migliorare situazione agire su custodia cautelare Agenpress.it, 18 dicembre 2018 “La soluzione al problema del sovraffollamento e dei suicidi nelle carceri italiane, per un elementare senso di giustizia, per un minimo senso di rispetto che si deve anche alle persone offese dai reati, per un dovere di ascolto del profondo bisogno di sicurezza dei cittadini, e per fare anche un passo in avanti rispetto ai provvedimenti meramente dettati delle emergenze che si sono succeduti nel tempo, non può essere, certamente, un ulteriore e ciclico provvedimento che improntato ad una manifesta o nascosta logica clemenziale, e caratterizzato da un’ampia o più ridotta portata, provochi uno svuotamento dei nostri penitenziari. Allo stesso tempo, però, sebbene la questione non susciti un particolare interesse nell’opinione pubblica, la soluzione del problema risulta essere della massima urgenza; non è tra due anni, ma è in questo momento che i detenuti si stanno togliendo la vita, è in questo momento che è a rischio la dignità umana dei ristretti, e, quindi, la stessa soluzione non può certamente consistere nella costruzione di nuovi istituti di pena, benché questo rimedio, in condizioni in cui non vi sia una particolare emergenza, rappresenti una opzione del tutto legittima e meritevole del massimo rispetto. Anche qualora l’indirizzo politico dovesse stabilire che la privazione della libertà personale, debba rappresentare il modello di pena, e che, quindi, debbano ridimensionarsi se non abbandonarsi del tutto le idee di pena diverse dal carcere, potrebbe, comunque, pensarsi, al fine di lenire il sovraffollamento dei nostri penitenziari e di migliorare in genere le condizioni di vita dei detenuti, di agire sulla disciplina della custodia cautelare in carcere, in modo tale da limitare fortemente il ricorso a tale misura. Al riguardo, vi è da rammentare che l’Italia è il quinto paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare e che nel 2017 i detenuti ancora in attesa di sentenza definitiva erano il 34,4 per cento. L’intervento sulla disciplina della custodia cautelare, tra l’altro, risulterebbe essere una iniziativa pienamente conforme a quel dettato costituzionale che all’art. 27 recita che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Così in una nota Giuseppe Maria Meloni, già responsabile dall’anno 2006 all’anno 2014 del Movimento Clemenza e Dignità, e oggi portavoce dell’iniziativa denominata Piazza delle Carceri e della Sicurezza del cittadino. Anelli (Ordine Medici Fnomceo): sia garantito il diritto alla salute dei detenuti quotidianosanita.it, 18 dicembre 2018 “Governo e Parlamento avviino monitoraggio assistenza penitenziaria”. Chiesto incontro al ministro Grillo “Serve con urgenza un monitoraggio per comprendere come il diritto alla Salute sia tutelato specie nei confronti di cittadini a cui è stata limitata ogni forma di libertà. Invitiamo pertanto le forze politiche e parlamentari ad avviare indagini conoscitive sullo stato di tutela dei diritti, specie quello alla salute, dei carcerati. Chiediamo inoltre al Ministro della Salute Giulia Grillo un incontro urgente per instaurare un dialogo sui fabbisogni dell’area della Medicina penitenziaria”, così il presidente Fnomceo Filippo Anelli. “Il diritto alla Salute deve essere garantito a tutti, e in maniera particolare a chi sta in carcere e vede limitato il suo diritto alla libertà. Con il passaggio delle competenze dal Servizio Sanitario nazionale alle Regioni, il sistema dell’assistenza penitenziaria è stato trasformato ma nessuno oggi ha contezza di come venga condotto sul territorio nazionale. Mancano, in quest’ambito, i contratti di lavoro, mancano le definizioni dei ruoli, delle competenze”. Così il Presidente della Federazione nazionale degli ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, raccoglie, rilanciandolo, l’appello a lui rivolto sabato scorso durante il Consiglio Nazionale della Fimmg, la Federazione italiana dei Medici di Medicina Generale. La Fimmg aveva infatti richiamato “attenzione e disponibilità della Fnomceo, in presenza del Presidente Filippo Anelli, perché si apra immediatamente un confronto con il Ministero rispetto ai fabbisogni dell’area della Medicina Penitenziaria, considerata la particolarità della popolazione assistita, privata dalla libertà di scelta individuale ma non del diritto costituzionale alla tutela della salute, anche in considerazione della carenza di professionisti medici che come ovvio si verificherà prima sui settori meno attrattivi per i professionisti”. Per il presidente Anelli, “Serve con urgenza un monitoraggio per comprendere come il diritto alla Salute sia tutelato specie nei confronti di cittadini a cui è stata limitata ogni forma di libertà. Invitiamo pertanto le forze politiche e parlamentari ad avviare indagini conoscitive sullo stato di tutela dei diritti, specie quello alla salute, dei carcerati. Chiediamo inoltre al Ministro della Salute Giulia Grillo un incontro urgente per instaurare un dialogo sui fabbisogni dell’area della Medicina penitenziaria”. “Non si tratta di un’opera di carità - conclude il presidente Fnomceo - ma di rispetto di prerogative costituzionali incomprimibili e che lo Stato ha il dovere di garantire, anche attraverso i suoi organi sussidiari, quali gli Ordini delle professioni sanitarie”. Politica e magistratura, fermate l’andirivieni di Glauco Giostra Corriere della Sera - La Lettura, 18 dicembre 2018 Tra le ragioni che minano i rapporti tra questi mondi, c’è anche la promiscuità e di funzioni e di mentalità di chi si toglie la toga per indossare (ad esempio) la fascia tricolore e poi torna indietro. Impedire questo disordine fa bene al Paese. Se il rispetto della politica per la magistratura può considerarsi un affidabile termometro della salute democratica di un Paese, il nostro non se la passa molto bene. Non si tratta soltanto della tendenza a considerare le inchieste giudiziarie “sacrosante” o “persecutorie” a seconda che riguardino, rispettivamente, gli avversari o i militanti del proprio schieramento. È una tentazione, questa, cui pochi nostri rappresentanti hanno saputo resistere. Preoccupante è il manifesto proposito di delegittimare la magistratura: irridendone l’azione, disconoscendole l’autorità di pronunciarsi in nome di un popolo da cui non è stata eletta, dubitando della sua imparzialità per i trascorsi politici di alcuni suoi esponenti, concionando sul fatto che la realtà non può attendere i tempi della giustizia e che quindi è necessario prescinderne. Andrei ultra crepidam se cercassi di inquadrare il fenomeno nelle sue coordinate storico-culturali, per stabilire in che misura ciò possa dipendere dal vento di un arrogante autoritarismo che sta soffiando gelido a diverse latitudini e longitudini del pianeta. Posso al più tentare di analizzare se nel nostro Paese ci siano peculiari fattori ordinamentali predisponenti. Risulta assai difficile non rispondere affermativamente. Da un lato, la tutela della funzione politica è da noi degenerata al punto, nelle norme e nella prassi, da assicurare aree di sostanziale impunità o, almeno, di pretesa di impunità; dall’altro, ai magistrati è consentito un inaccettabile pendolarismo dall’ufficio giudiziario ad attività di natura politico-amministrativa, che non può non ripercuotersi sulla credibilità della funzione giurisdizionale svolta. Sul primo versante. La nostra Costituzione prevedeva originariamente l’istituto dell’autorizzazione a procedere, che doveva servire al Parlamento per preservare la funzione della rappresentanza politica da indebite iniziative giudiziarie volte ad alterarne il fisiologico esercizio. L’indecoroso utilizzo di tale garanzia da parte del Parlamento, che ne ha fatto uno scudo per mettere i suoi componenti al riparo di ogni azione giudiziaria, ha poi indotto alla sua soppressione. Si è pensato di sostituirla con un sindacato della Camera di appartenenza dell’indagato sulla esperibilità di determinati atti investigativi: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene nessun membro del Parlamento può essere sottoposto” a perquisizione personale o domiciliare, a intercettazione di conversazioni o comunicazioni, a sequestro di corrispondenza (art. 68 della Costituzione). Si tratta all’evidenza di una facezia normativa, che sfregia la credibilità di una fonte così autorevole come la Costituzione. L’autorità giudiziaria, prima di procedere al compimento di atti investigativi che ripongono tutta la loro efficacia nel fattore sorpresa, dovrebbe avvertire - oltre all’indagato - più di trecento e talvolta più di seicento suoi colleghi, affinché valutino se la richiesta obbedisca effettivamente a fini investigativi. Ad esempio, il pubblico ministero per intercettare le conversazioni di un parlamentare dovrebbe ottenere prima il disco verde dalla Camera di appartenenza; dopodiché, verosimilmente, dovrebbe sperare che non gli venga concesso, ben sapendo quali risultati controproducenti potrebbe sortire una intercettazione con preavviso. Ma anche là dove la guarentigia costituzionale è in sé ineccepibile, la prassi si è incaricata di trasfigurarla in insopportabile privilegio. La Costituzione giustamente pretende che l’autorità giudiziaria, per poter privare della libertà personale un parlamentare, debba ottenere il nulla osta con cui la Camera di appartenenza escluda l’esistenza di un intento persecutorio vòlto ad alterare il fisiologico atteggiarsi degli equilibri politici. Il Parlamento, invece di avvalersi di questa prerogativa negli eccezionalissimi casi in cui l’iniziativa giudiziaria avesse esondato dall’alveo legale, ha usato il potere di non autorizzare l’arresto come insuperabile riparo ordinario del parlamentare contro l’azione giudiziaria, strumentalmente adducendo - tranne rarissimi casi che si contano sulle dita di una mano rispetto a decine e decine di richieste - l’asserita presenza del fumus persecutionis. Insomma: tanto fumus, poco arresto. Sul secondo versante. L’attuale sistema consente al magistrato, assolte le sue funzioni, di togliersi la toga e di andare a indossare i panni di sindaco o di assessore in un Comune adiacente rispetto alla circoscrizione nella quale amministra giustizia (o anche ad assumere cariche elettive in una regione diversa). È difficile accettare l’idea che la mera distanza chilometrica consenta al magistrato-sindaco di liberarsi sulla strada di ritorno delle convinzioni politiche che lo hanno indotto ad assumere determinate decisioni amministrative e, indossata nuovamente la toga, di esercitare imparzialmente le funzioni di magistrato. Ancor più improbabile è che i soggetti da lui giudicati non dubitino della sua serenità di valutazione, specie se la loro attività o la res iudicanda abbia collegamenti più o meno diretti con la politica. Tuttavia, non vi è soltanto un problema di sostanziale o anche soltanto di apparente perdita di imparzialità. Politica e giurisdizione hanno statuti metodologici opposti. Secondo la nota distinzione luhmanniana, infatti, l’agire politico segue un programma di scopo, che si orienta a certi effetti desiderati e cerca i mezzi più idonei per conseguirli; mentre l’attività giurisdizionale deve obbedire a un programma condizionale, che ha a che fare con dati legati al passato e opera secondo lo schema “se è accaduto questo... allora...”. Il giudice, proprio affinché la sua attività sia sottratta alla critica politica, deve rispondere esclusivamente della corretta applicazione della legge sostanziale e processuale al caso di specie, non essendogli non solo richiesto, ma neppure consentito di farsi carico delle conseguenze della decisione. Ebbene, il magistrato che “torna” a esercitare la giurisdizione dopo essersi impegnato in un’attività politico-amministrativa non può non averne assorbito metodi e finalità: fatalmente avrà un approccio più attento al risultato che alla legalità del procedere e del decidere. Sarebbe quindi opportuno pretendere che per svolgere tali attività il magistrato debba essere posto fuori ruolo e che, terminato l’impegno politico, non possa tornare a svolgere funzioni giurisdizionali in senso stretto. E un tale divieto dovrebbe riguardare, a più forte ragione, anche il magistrato che abbia svolto un mandato parlamentare o assunto incarichi di natura politica (si pensi ai ruoli apicali nei ministeri). In sintesi: la promiscuità di funzioni e di abiti mentali talvolta pregiudica metodo e imparzialità dell’azione giudiziaria; più spesso incrina la fiducia della collettività nella giustizia; sempre espone la funzione giudiziaria ad attacchi e insinuazioni strumentali. Impedire tali contaminazioni tra magistratura e politica forse può frustrare qualche comprensibile aspirazione dei magistrati, ma fa bene all’autorevolezza della funzione svolta e questa, oggi più che mai, fa bene alla democrazia. Nel contesto attuale, infatti, in cui le ragioni si pesano in base ai voti, in cui siamo arrivati a un tale punto di analfabetismo democratico che un ministro ritiene di poter contestare a un magistrato l’autorità di giudicarlo perché non eletto, avere una giustizia autorevole e inattaccabile significa offrire alla società forse l’ultimo punto di riferimento condiviso, senza il quale si schiuderebbero orizzonti poco rassicuranti. Screditata ed esautorata la giurisdizione, i cittadini cercherebbero altrove un’autorità che sappia imporre il rispetto delle regole; si rivolgerebbero ad altri poteri (politici, economici, corporativi, se non, talvolta, criminali), ritenuti più forti e affidabili per la soddisfazione delle loro rivendicazioni e per la tutela dei loro interessi. Una china quanto mai democraticamente scivolosa per uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della provvidenza. Giustizia, appello “bipartisan” contro la riforma della prescrizione di Mara Rodella Corriere della Sera, 18 dicembre 2018 Insieme per “la tutela delle garanzie costituzionali”. Insieme. A confronto. E dalla stessa parte, a “combattere” una battaglia per il rispetto “dei diritti fondamentali e le garanzie” dei cittadini, indagati o imputati che siano. Quelli che, a parere dei penalisti, il Guardasigilli Alfonso Bonafede (in quota Cinque Stelle) sta annientando con la riforma sulla prescrizione - passato con la fiducia al Senato - cioè l’emendamento per cui nessun reato, né processo quindi, possa “scadere” per il troppo tempo trascorso, dopo la sentenza di primo grado. Ieri e oggi la seconda tranche di astensione dei penalisti, che al Palagiustizia hanno organizzato un incontro sul tema. Perché “questa pretesa di allungare la prescrizione ci sembra solo un’ammissione di responsabilità da parte delle istituzioni dell’incapacità di garantire un giusto processo”, affonda subito Emilio Gueli, presidente della Camera Penale della Lombardia orientale. Il quale esorta a “recuperare i principi fondamentali della nostra Costituzione e il senso di responsabilità”. Al suo fianco, il presidente della Corte d’appello Claudio Castelli parte da un presupposto imprescindibile: la struttura del sistema penale, che definisce “ipertrofica”, dal momento in cui “non riusciamo a definire tutte le cause che ci arrivano”. E non importa se in Corte si registra “solo” il 13% delle prescrizioni: “Il problema drammatico del penale deriva dalla carenza di amministrativi. Se così non fosse in un anno e mezzo, con udienze straordinarie riuscirei a esaurire tutto l’arretrato. Ma è inutile produrre se poi le sentenze non vengono redatte”. In attesa di notifica abbiamo circa tremila procedimenti. E se sul fronte prescrizione gli uffici bresciani migliorano, i numeri restano sopra la media nazionale: (dal 1 luglio 2016 al 30 giugno 2017) l’incidenza della prescrizione è pari al 14,35% sul totale di procedimenti a carico di noti nelle procure del distretto; il 20,5% negli uffici gip; il 6,67% nei tribunali in fase dibattimentale. Il presidente propone quindi, in primis, “una rivisitazione seria e sistematica del sistema penale” senza che si metta mano all’esercizio dell’azione penale. Gli fa eco il procuratore generale Pier Luigi Maria Dell’Osso: “La prescrizione è un istituto dal quale non si può prescindere. Quello su cui dobbiamo discutere è il modo migliore affinché non provochi gravi danni collaterali, soprattutto alle persone offese”. Questa riforma tanto contestata un lato positivo però ce l’ha, e a sottolinearlo è il presidente dei penalisti bresciani, Andrea Cavaliere: “Compattarci qui. A cercare risposte”. Come “aumentare i poteri dei gip o il ricorso ai riti alternativi, e studiare una sorta di depenalizzazione che possa aiutare il sistema giustizia”. Che non abbia partecipato al dibattito per difendere la politica, “anzi”, lo precisa Alfredo Bazoli, deputato bresciano del Pd in Commissione giustizia alla Camera. “Il tema della prescrizione, delicatissimo, è stato brutalmente aggredito dal governo: non ci piace come è stato affrontato né nel metodo, né nel merito”. E cioè “con un emendamento fuori tempo a una legge anticorruzione che riguarda tutt’altro e in violazione dei principi fondamentali perché, semplicemente, allunga a dismisura i tempi del processo”. In quattro parole: “Un colpo di mano. Una bomba a orologeria innescata sulle garanzie dei diritti delle persone in cambio di una riflessione seria con chi i processi li vive quotidianamente”. Una vita sotto processo non è degna di un paese civile Il Tirreno, 18 dicembre 2018 Il Governo ha deciso che una persona possa restare appesa al suo processo senza limiti di tempo, inserendo un emendamento al disegno di legge “spazza-corrotti” e decidendo che la prescrizione rimanga sospesa dopo la sentenza di primo grado. Con quali conseguenze? Si può progettare una vita sapendo di essere sotto giudizio ma senza sapere quando questo giudizio terminerà? 0 non si ha, invece, il diritto di essere giudicati in un tempo ragionevole? La risposta è sì, ed è scritto nella Costituzione. Già oggi i processi per reati che si prescrivono in tempi più dilatati vengono celebrati lentamente. Perché è fisiologico che - a fronte di un carico di lavoro elevato - il magistrato sia portato a prediligere la trattazione di quei processi con prescrizione vicina. Ma allora perché questa ennesima norma manifesto? Perché illudere gli elettori e le elettrici che solo sospendendo la prescrizione sine die possa essere resa giustizia alle vittime del reato? Questo Governo, più di altri, indulge nella pericolosa speculazione demagogica della tutela a tutti i costì della vittima. Ma è una menzogna: una sentenza che arriva dopo anni non risarcisce nessuno. Ma le menzogne si sprecano: è per colpa degli avvocati “azzeccagarbugli” - è stato detto - che i processi si prescrivono. Colpa delle loro tattiche dilatorie. Sappiate che quando una parte privata chiede un rinvio del processo penale la prescrizione si sospende. Tutti quelli che parlano di “tecnicismi” del difensore sono in palese malafede visto che proporre appello contro una sentenza ritenuta ingiusta non può essere considerata una manovra dilatoria, ma un diritto irrinunciabile. Facciamo parlare i dati: nel 2012 le prescrizioni sono state 113. 057, di queste ben oltre 70.000 sono intervenute nel corso delle indagini: 67.252 sono state archiviate, 4.725 dichiarate con sentenza da parte dell’ufficio Gip/Gup. Le rimanenti 43.000 sono state dichiarate nel corso delle successive fasi del processo. Dal 2005 al 2008 l’Unione delle Camere Penali ha condotto, con Eurispes, indagini dalle quali è risultato che una bassissima percentuale di rinvii fosse determinata da impedimenti e da istanze difensive. Ma la verità è che se esiste la prescrizione i processi vanno più veloce. Nonostante le critiche del mondo forense, dell’Accademia e della magistratura, si è in fretta e furia confezionato un emendamento scellerato e sganciato da una seria e ponderata riflessione sulla riforma del sistema penale per inserirlo nel corpo della legge “spazza corrotti”, a sua volta deprimente, una cloaca di slogan inutili mirati a diminuire il livello di garanzie e a sovvertire i principi basilari dello Stato di diritto, messo in crisi anche da ulteriori indecorose iniziative: la previsione di una vera e propria licenza di uccidere (riforma della legittima difesa) e il decreto (in)-sicurezza, che apre una pagina vergognosa sul trattamento riservato a chi tenta, raggiungendo l’Italia, di fuggire da una vita di disperazione. Sono riforme che avversiamo con forza. Ecco perché oggi e domani gli avvocati penalisti di tutta Italia si asterranno dall’attività di udienza. Il direttivo della Camera penale di Livorno Censis: 7 italiani su 10 pensano che il sistema giudiziario non garantisca tutela dei diritti di Mauro Rotellini ilpopulista.it, 18 dicembre 2018 Nel 52° Rapporto dell’Istituto di ricerca socio-economica presieduto da Giuseppe De Rita, pubblicato il 7 dicembre scorso, risulta anche che solo il 42% della popolazione ha fiducia nell’Unione europea, mentre la maggioranza “si ricostituisce nell’idea di una nazione sovrana supponendo che le cause dell’ingiustizia e della diseguaglianza siano tutte contenute nella non-sovranità nazionale”. Sul sito del Centro Studi Investimenti Sociali (Censis) da qualche giorno il sunto dell’annuale indagine sullo stato della nazione. Ne andiamo a leggere il paragrafo relativo alla giustizia italiana. In maniera non proprio sorprendente, il paragrafo s’intitola: “Ingiustizia è fatta”. Leggiamo che sono 15,6 milioni (pari al 30,7% della popolazione adulta) gli Italiani che, nell’ultimo biennio, hanno rinunciato a intraprendere un’azione giudiziaria volta a far valere un proprio diritto. Si tratta di un comportamento diffuso trasversalmente nella popolazione, ma che si presenta con più intensità nel Sud del Paese (37,5%). Tra i motivi troviamo al primo posto i costi eccessivi (29,4%), poi la lunghezza dei tempi necessari per arrivare a un giudizio definitivo (26,5%). C’è quindi una percentuale non irrilevante che individua una sfiducia complessiva nella magistratura e nel funzionamento della giustizia: 16,2%. Evidentemente - continua il Rapporto - non è diffusa la consapevolezza degli sforzi che si stanno facendo per migliorare qualità e ed efficienza del nostro sistema giudiziario. Il 38,2% degli Italiani ritiene che nell’ultimo anno la giustizia sia peggiorata (nel Mezzogiorno la quota sale al 41,1%). Solo il 5,7% è convinto invece che la situazione sia migliorata. Il 52,6% ritiene che non ci siano stati cambiamenti. Il risultato è che 7 italiani su 10 pensano che il sistema giudiziario non garantisca pienamente la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo (solo il 18,2% ritiene che tali diritti siano assicurati). Uno sfacelo. Ma si capisce facilmente da dove origini questa sfiducia. Facciamo solo qualche esempio. Il 6 dicembre il sito Blasting News ha pubblicato la notizia dell’arresto di un magistrato che aveva stabilito un vero e proprio sistema di vendita delle funzioni giudiziarie con dirigenti della locale ASL. Ad ottobre il giornale “Positano News” ha denunciato un sistema corruttivo diffuso intorno all’ufficio del giudice di pace di Torre Annunziata. Sempre nel mese di ottobre, la testata on line Affari italiani ha riportato la notizia che, il Consiglio Superiore della Magistratura, in esito ad uno scandalo scoppiato tre anni prima, ha dato finalmente il via al bando di concorso per il reclutamento di giudici onorari minorili, quelli che decidono per intendersi a quali Istituti affidare i minori allontanati dalle famiglie a seguito di gravi provvedimenti giudiziari. La cosa nasce dalla scoperta che molti dei giudici onorari in servizio avevano interessi economici diretti in quegli Istituti che, per ogni minore, ricevono rette da parte degli Enti locali! Pensate se fossero stati politici invece che magistrati cosa sarebbe successo... Che dire infine della prima conclusione avuta nel febbraio di quest’anno riguardo allo scandalo denunciato dall’Espresso per la corruzione in atti giudiziari della Procura di Siracusa? In pratica si era scoperto che la corrente di sinistra Magistratura Democratica ha sostenuto la campagna pro-immigrazione insieme al partito Potere al Popolo, Cgil, Arci, Rifondazione Comunista ed altri (compresa l’associazione Baobab Experience che aveva fatto “rifugiare” gli sbarcati della Diciotti). Con saluti cari e sentiti ai principi costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura! Ma senz’altro dovrà avere ragione il ministro della giustizia Alfonso Bonafede che, commentando i dati sulla “mala-giustizia” riportati nel Rapporto del Censis ha detto che, in Italia, “possiamo vantare una classe di magistrati ai vertici d’Europa come indici di produttività, per non parlare dell’alta qualità di avvocati e cancellieri”. Evidentemente sono i cittadini Italiani che proprio non capiscono. È diventato reato fare politica? Cosa non torna nell’indagine sugli appalti pubblici in Calabria di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 dicembre 2018 L’indagine per abuso d’ufficio nei confronti del presidente della Calabria Mario Oliverio, obbligato alla residenza coatta nel suo paese di residenza, susciterà molto interesse, alimentato anche dalla retorica un po’ enfatica del procuratore capo Gratteri che ha parlato del “fallimento della ricostruzione della Calabria, che continua a essere, purtroppo ahinoi, l’Africa del nord”. A questo virtuosismo verbale, però non corrisponde una altrettanto cristallina costruzione giuridica dell’accusa, soprattutto nei confronti di Oliverio. Nell’ambito delle attività calabresi delle aziende legate a un imprenditore considerato connesso con i clan malavitosi locali, Oliverio, che non era in carica quando i lavori erano stati appaltati, avrebbe favorito la realizzazione dell’impianto sciistico di Lorica, cui era interessato come presidente della regione, a detrimento di quelli per il rifacimento di piazza Bellotti a Cosenza, cui era invece ovviamente interessato il sindaco di centrodestra della città. Quest’ultimo poi si è dimesso e quindi avrebbe perso interesse alla conclusione di un’opera che sarebbe stata inaugurata da altri. Ci sono i segnali di una contesa politica che può far storcere il naso: ma dove sono i reati? Che il presidente di una regione cerchi di far realizzare un’opera regionale sulla quale la sua giunta si è impegnata non è certo un reato, così come non è un reato avvalersi di un’azienda che in precedenza e durante un’altra amministrazione aveva ottenuto l’appalto dei lavori. Chiamare abuso d’ufficio l’esercizio di un minimo di discrezionalità politica vorrebbe dire che è la politica in quanto tale ad essere abusiva. Oliverio ha scelto di protestare contro “il polverone” con lo sciopero della fame. È una scelta sua. È invece un obbligo della procura esibire almeno indizi di reato e non solo una censura moralistica dei comportamenti politici. Negare la fisioterapia al detenuto al 41 bis è in astratto contrario alla Cedu quotidianogiuridico.it, 18 dicembre 2018 Cassazione penale, sezione I, sentenza 21 novembre 2018, n. 52526. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva confermato quella del magistrato di sorveglianza primo grado, dichiarando inammissibile il reclamo proposto da un detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen. avverso la decisione reiettiva della domanda di ristoro del pregiudizio da detenzione inumana o degradante, la Corte di Cassazione (sentenza 21 novembre 2018, n. 52526) - nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui l’omissione delle necessarie terapie sanitarie può e deve essere oggetto di valutazione ai fini previsti dal legislatore, potendo configurarsi trattamento inumano o degradante, non potendosi ritenere violato l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nel solo caso di sovraffollamento - ha infatti ritenuto ammissibile la doglianza - ferma restando la valutazione dei suoi contenuti in rapporto alla complessiva qualità dell’offerta trattamentale oggetto di verifica - dovendo la stessa essere valutata nel merito, posto che il richiamo, contenuto nella disposizione regolatrice, ai contenuti dell’art. 3 della Cedu, come interpretato dalla Corte Edu, implica la rilevanza del tema dell’offerta di prestazioni sanitarie adeguate. Scudo della Cassazione dai maltrattamenti di Debora Alberici Italia Oggi, 18 dicembre 2018 Dalla Cassazione massima tutela per le unioni civili. Scatta il reato di maltrattamenti in caso di vessazioni e abusi da parte del partner che ha reso la dichiarazione di fronte all’ufficiale del Comune. Con una decisione garantista per le coppie omo ed eterosessuali la Corte di cassazione - sentenza n. 56673 di oggi - ha confermato la condanna a carico di un uomo reo di abusi sessuali e vessazioni sulla compagna. Lui ha chiesto l’assoluzione usando come grimaldello il limitato lasso di tempo di convivenza, solo un mese. Nulla da fare per la terza sezione penale che ha reso definitivo il verdetto spiegando che agli approdi elaborati dalla giurisprudenza penale ai fini della stessa configurabilità del delitto di cui all’art. 572 del codice penale, deve aggiungersi, quale elemento ancor più pregnante, la valenza probatoria che inequivocabilmente riveste nell’attuale ordinamento la dichiarazione resa dalla coppia innanzi all’ufficiale del Comune di Bollate ai sensi della legge 20/5/2016 n. 76 (contenente la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze) che, sebbene costituisca una semplice variazione anagrafica, priva di qualunque formalità, costituisce il presupposto per l’accertamento della stabile convivenza come espressamente disposto dal comma 37 dell’unico articolo di cui si compone la citata novella. Infatti, la legge 76/2016, invero, nel recepire la da tempo auspicata esigenza di tutela delle relazioni di coppia al di fuori dal matrimonio, ha regolamentato da un canto le unioni civili, configurabili solo fra soggetti dello stesso sesso, e dall’altro le “convivenze di fatto” fondate su uno stabile legame affettivo. Riciclaggio, basta il dolo eventuale di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 56633. Una sentenza della Cassazione pubblicata ieri (la 56633/18), fissa due importanti principi di diritto sull’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio di apparente segno opposto: imputabilità anche sulla base del dolo eventuale e insufficienza delle presunzioni semplici ai fini della prova della sussistenza dell’elemento psicologico. Nel caso esaminato, infatti, è stata considerata sufficiente, ai fini della contestazione del reato di riciclaggio, la costituzione di una società londinese, anche se poi tale società non era servita allo scopo per cui era stata creata. La Cassazione ha ritenuto sufficiente il semplice dolo eventuale, perché la costituzione della “società schermo” londinese era stata effettuata al solo scopo di far rientrare illecitamente i capitali in Italia e di ciò era prova l’incarico conferito all’imputato dai clienti. La Cassazione sul punto ha annullato la sentenza impugnata, affermando che per dimostrare la sussistenza del reato presupposto del riciclaggio sarebbe stato necessario provare l’omessa dichiarazione dei redditi e l’evasione dell’imposta relativamente all’anno in contestazione, ossia il reato tributario presupposto degli stessi clienti. Quanto sopra poiché da dichiarazioni testimoniali risultava che le somme erano detenute in Svizzera da oltre venti anni. La Corte tuttavia ha precisato che il motivo dell’annullamento non è nell’intervenuta prescrizione del reato tributario presupposto, ma nella mancata raggiunta prova da parte della pubblica accusa della condotta delittuosa da parte dei clienti dell’imputato. Altro elemento degno di nota è la valutazione dell’elemento soggettivo che la Cassazione dà del riciclatore. In questo caso, infatti, la Cassazione ribadisce attualizzandolo il principio secondo cui si ha dolo eventuale di riciclaggio quando chi agisce ha presente la concreta possibilità e quindi ne accetta consapevolmente il rischio della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito. Da considerare anche la condanna dell’imputato per emissione e utilizzo di fatture per prestazioni inesistenti (articoli 2 e 8, Dlgs 74/2000): infatti il complesso “marchingegno” così come indicato dalla Suprema Corte sarebbe consistito nella classica triangolazione tra società italiane ed estere giustificate da fatture attive e passive inesistenti. Nel caso in questione, un’accurata indagine della Guardia di Finanza aveva appurato che le due società italiane che avevano emesso e utilizzato fatture per prestazioni inesistenti non erano operative e quindi non avevano potuto aver svolto alcuna attività, inoltre avevano il medesimo oggetto sociale ed erano state amministrate entrambe dal medesimo imputato. Le conclusioni che si possono trarre dal caso esaminato dalla Cassazione saranno utile strumento di interpretazione anche per i tecnici. Il monito dei giudici è, infatti, chiaro: ai fini del reato di riciclaggio è sufficiente la consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro anche se prova del reato presupposto, in questo caso, deve essere fornita dall’accusa. Ai fini della dichiarazione dello stato di latitanza. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2018 Misure cautelari - Esecuzione - Latitanza - Verbale di vane ricerche - Ricerca all’estero - Esclusione. Ai fini della dichiarazione dello stato di latitanza, tenuto conto della incompatibilità di tale condizione con quella della irreperibilità, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria, pur dovendosi svolgere in modo esaustivo allo scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità di procedere all’applicazione della misura restrittiva per la non rintracciabilità dell’imputato volontariamente sottrattosi alla sua esecuzione, non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, neanche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169, comma quarto, dello stesso codice. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 6 dicembre 2018 n. 54653. Latitanza - Ricerche fuori del territorio nazionale ai sensi dell’art. 169 comma quarto cod. proc. pen.- Applicabilità per analogia alla dichiarazione di latitanza - Esclusione - Ragioni. L’accertata assenza del ricercato nel territorio dello Stato è, di per sé, circostanza sufficiente per la dichiarazione della latitanza, che cessa soltanto con l’arresto e non anche con la giuridica possibilità di eseguire notificazioni all’estero in base a indicazioni circa il luogo di residenza del destinatario latitante. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 7 maggio 2014 n. 18822. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Latitanza - Volontarietà della latitanza - Conoscenza dell’avvenuta emissione del provvedimento restrittivo - Necessità - Esclusione. Ai fini dell’accertamento della volontarietà della sottrazione a un provvedimento restrittivo della libertà personale, che costituisce il presupposto psicologico della declaratoria di latitanza, non occorre dimostrare la conoscenza della avvenuta emissione di tale provvedimento, ma è sufficiente che l’interessato si ponga in condizioni di irreperibilità, sapendo che quel provvedimento può essere emesso. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 28 ottobre 2013 n. 43962. Notificazioni - All’imputato - Latitante - Esecuzione della misura coercitiva - Specifiche prescrizioni per le ricerche da parte della polizia giudiziaria - Esistenza - Esclusione - Idoneità delle ricerche - Riserva al giudice che emette il decreto di latitanza - Configurabilità. L’articolo 295 c.p.p. non detta specifiche prescrizioni per le ricerche, con la conseguenza che la polizia giudiziaria non è vincolata all’osservanza dei criteri tipizzati per le ricerche previste in tema di irreperibilità, mentre è rimesso al giudice che emette il decreto di latitanza l’apprezzamento della idoneità in concreto delle ricerche medesime. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 27 giugno 2012 n. 25315. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Latitanza - Assenza accertata del ricercato del territorio dello stato - Dichiarazione di latitanza - Sufficienza. L’accertata assenza del ricercato dal territorio nazionale, costituisce circostanza di per sé sufficiente ai fini della dichiarazione dello stato di latitanza, che cessa soltanto con l’arresto, mentre non ha alcuna influenza sulla permanente condizione di latitante l’eventuale accertamento della giuridica possibilità di eseguire notificazioni all’estero presso il luogo di residenza del destinatario. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 aprile 2010 n. 15410. Calabria: nuova legge sulla violenza alle donne, apprezzamento Osservatorio regionale strettoweb.com, 18 dicembre 2018 Apprezzamento per l’iniziativa della terza Commissione consiliare sanità e politiche sociali di varare una nuova legge sulla prevenzione ed in contrasto alla violenza alle donne è stato espresso da Mario Nasone e da Giovanna Cusumano, rispettivamente coordinatore e vice coordinatore dell’osservatorio regionale sulla violenza di genere. La regione Calabria infatti ha una legge, la n.20 del 2017, ormai datata, che non tiene conto dei mutamenti avvenuti in questi dieci anni, della sua continua crescita, delle diverse forme di violenza, dei cambiamenti della normativa internazionale e nazionale. L’audizione concessa ai referenti dell’osservatorio dalla Terza Commissione, guidata dal Presidente Michele Mirabello, ha offerto ai commissari la possibilità di valorizzare il lavoro svolto da questo organismo di cui il Consiglio regionale si è voluto dotare per avere una fotografia del fenomeno e delle criticità da affrontare. In questa occasione è stato presentato alla commissione il documento contenente le proposte emerse in occasione della prima conferenza regionale sulla violenza alle donne dell’ottobre scorso frutto dei contributi dei diversi attori istituzionali e sociali che hanno partecipato. In particolare, oltre a quanto positivamente previsto dal progetto di legge 285/2017, si è proposto il rafforzamento della rete dei centri anti violenza attivandoli in tutti gli ambiti territoriali inter-comunali e garantendo loro accreditamento e finanziamenti stabili, l’aumento della case rifugio, misure per garantire con tempestività sostegno alloggiativo ed economico alle donne che denunciano e a quelle che escono dalla case di accoglienza per dare loro autonomia, azione di monitoraggio congiunta tra osservatorio, regione, Istati ed Università calabresi, coinvolgimento dell’osservatorio in tutti i tavoli dove si programmano gli interventi su questo versante. Sulla copertura economica della nuova legge si auspica un incremento consistente degli stanziamenti attraverso un conseguenziale aumento del fondo regionale per le politiche sociali e la previsione di un capitolo di bilancio dove fare confluire tutti i fondi regionali, nazionali. In particolare si è rilanciata la proposta emersa da più parti nella conferenza di utilizzare in modo consistente i fondi comunitari attraverso un piano regionale organico di prevenzione e di contrasto al fenomeno finora sottovalutato della violenza alle donne. Firenze: il ministro Bonafede “Sollicciano, un penitenziario nato male” di Alessandro Di Maria La Repubblica, 18 dicembre 2018 Il Guardasigilli visita il carcere: “In Italia ne servono di nuovi, anche in ex caserme”. Improvvisa. È quella che ha fatto ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede al carcere di Sollicciano, che nei giorni scorsi ha subìto la rottura del riscaldamento creando non pochi disagi al suo interno: “C’è stato un problema molto grave - ha dichiarato al di fuori della struttura penitenziaria il Guardasigilli - abbiamo preso in mano la situazione sabato e già domenica il riscaldamento è stato ripristinato. I detenuti si lamentano che ci sono ancora dei problemi di acqua nelle docce, ma stiamo intervenendo e abbiamo il monitoraggio completo della situazione”. In una struttura dove i problemi di certo non mancano e non sono mai mancati: “Stiamo facendo tutto il possibile e ho voluto fare questa visita senza preannunciarla a nessuno perché mi fa piacere vedere la realtà quotidiana delle carceri. Ho trovato grande collaborazione e devo dire che è un viaggio che fa sempre male, perché si tocca con mano la situazione grave in cui versano i penitenziari italiani e anche questo in particolare. Sollicciano è una struttura nata male”. Ma l’incontro con il ministro Bonafede è stata anche l’occasione per parlare di un altro dei tanti problemi di Firenze, quello relativo alle grandi opere, in particolare la Tav e la nuova pista di Peretola. Soprattutto sull’aeroporto martedì scorso c’è stata la dura presa di posizione del sindaco Nardella con la richiesta di dimissioni del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: “Dell’aeroporto se ne sta occupando il ministro competente, Nardella chieda ciò che vuole, non rispondo alle polemiche, come non rispondo a quelle portate volutamente avanti nei giorni scorsi dal presidente della Regione Rossi su Sollicciano. So che lui verrà in visita al carcere venerdì. Già da domenica la situazione del riscaldamento è stata ripristinata. Non mi interessa polemizzare perché questo non interessa ai cittadini”. Si passa alla Tav: “Sono sempre stato contrario al sotto-attraversamento di Firenze. Sono consapevole che ci sono degli stadi di avanzamento del progetto che impongono una riflessione del Mit e il ministro Toninelli questa riflessione la sta facendo in maniera accurata per verificare il piano costi benefici. Già un mese o due fa il ministro aveva mostrato particolare attenzione per il sotto-attraversamento Tav”. Si torna a parlare di carceri e della situazione difficile in cui si trovano molte strutture in Italia, non solo quella di Sollicciano: “Fin dal decreto sicurezza abbiamo investito circa 196 milioni per i prossimi anni dedicati al mondo penitenziario ed è prevista l’assunzione di circa 1300 agenti di polizia penitenziaria nel 2019. In più abbiamo sbloccato le risorse per il piano carceri che erano bloccate da anni, ma non chiedetemi il perché. Si parla di almeno 70 milioni, ma potrebbero essere molti di più perché ci sono dei progetti che stiamo decidendo se rivisitare o meno. Al ministero abbiamo inoltre costituito una task force che permetta l’edilizia penitenziaria agevolata, e che possa anche individuare, ad esempio, caserme dismesse che possano diventare istituti penitenziari”. Infine la manovra del governo: “Si lavora di ora in ora. Direi che stiamo portando avanti una manovra, dialogando con l’Europa, che guarda ai cittadini senza fare un millimetro di passo indietro rispetto a quello che abbiamo promesso prima del voto e poi con il contratto di governo”. Opera (Mi): l’uomo col casco, solo e umiliato. “Ma questa è una pena rieducativa?” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 dicembre 2018 Si fa sempre più grave il quadro clinico (e umano) di Ezio Prinno. La denuncia dell’avvocato. Non ha solo una grave epilessia con un ambiente carcerario non consono al suo stato psicofisico. Non solo si trova costretto a possedere un casco in testa giorno e notte. Il Dubbio, tramite il suo avvocato Gianpiero Verrengia del foro di Milano, ha potuto approfondire ulteriormente la condizione di Ezio Prinno all’interno del carcere milanese di Opera. Come già detto, il 42enne napoletano, con una lunga carcerazione dietro le spalle, prima per associazione mafiosa, poi per associazione finalizzata allo spaccio, è ristretto nella sezione AS3 del carcere. Indossa, ventiquattro ore su ventiquattro, una sorta di casco per evitare che si faccia male durante i suoi frequenti e fortissimi attacchi di epilessia, talmente violenti che alcune volte è stato soccorso con un massaggio cardiaco. Ma non solo. Ezio è claustrofobico, fotofobico, ha il disturbo della personalità, obeso, asmatico, cardiopatico, allergico a diversi farmaci e mezzi di contrasto, ernia iatale, ernia discale, plurime fratture con deviazione del setto nasale. La malattia epilettica e psichiatrica è particolarmente grave (è stato riconosciuto invalido al 100%) e dai tratti decisamente umilianti: ha crisi molto ricorrenti (in genere plurisettimanali, ma ci sono stati periodi peggiori) e durature (anche 30/ 50 minuti) nel corso delle quali cade, si contorce, sbatte, si ferisce, rilascia gli sfinteri (urine, se va bene) sporcandosi, rischia blocchi respiratori (nel dicembre 2015 fu necessario sostenere la sua attività cardiorespiratoria, con cannula e massaggio cardiaco). Il tutto davanti ai propri compagni di detenzione, che fanno di tutto per aiutarlo, pur non essendo formati per intervenire. Nei confronti di costoro, Ezio nutre sensi di colpa, spesso vergogna, umiliazione. “L’Amministrazione penitenziaria - spiega l’avvocato Verrengia - è a conoscenza dell’ordinanza del Tribunale del riesame di Napoli del 25/ 3/ 2014, nella quale è scritto chiaramente di “mettere a disposizione del detenuto una cella priva di spigoli, in modo da ridurre al minimo i pericoli in caso di caduta; di valutare l’opportunità del trasferimento del detenuto in altra sede, possibilmente più vicina all’ambito familiare, attesa la componente psichiatrica del quadro clinico presentato dal detenuto”“. All’epoca Prinno era detenuto a Torino. “Nessuna di queste indicazioni è stata mai recepita”, denuncia il legale. Viceversa, è stato consegnato al detenuto, con due anni di ritardo, un casco fatto di telo e spugna. L’avvocato spiega che dal 2014 (e prima) al dicembre 2016 (data di consegna del casco) Prinno ha continuato a sbattere la testa, il mento, gli zigomi, il naso, procurandosi ferite e fratture. Come se non bastasse, il casco risulta un inutile dispositivo afflittivo perché non è idoneo ad assorbire traumi e nemmeno ad evitare ferite o fratture, soprattutto in caso di caduta frontale (zigomi, mento, naso) e all’indietro. A questo si aggiunge che il casco è divenuto elemento di spersonalizzazione: Prinno è ormai etichettato come “quello col casco”. “Il casco - sottolinea l’avvocato Verrengia - è divenuto anche l’unità di misura per addebitare le responsabilità di eventuali ferite al paziente, laddove l’Amministrazione dovrebbe guardare ai propri doveri di custodia”. Due sono gli esempi che inquadrano la drammaticità di questa detenzione e l’uso del casco come alibi. “È capitato che Prinno non aveva indossato il casco perché di notte, sul letto, non è proprio comodo e, d’estate, con quaranta gradi e senza idonea areazione, non è proprio un piacere - racconta l’avvocato - ed ha avuto una crisi, a seguito della quale, ha riportato ferite. Sul referto medico è prontamente stato segnalato “non indossava il casco”. Il secondo esempio è emblematico. “È capitato che Prinno abbia avuto crisi e si sia procurato traumi anche con il casco, poiché, come detto, inidoneo; il referto, lungi dal segnalare l’insufficienza del dispositivo di protezione, ha invece esposto il fatto in termini dubitativi, indicando “indossava il casco, sarebbe caduto e si sarebbe ferito”“. Il detenuto lamenta di non essere ben assistito come il fatto che spesso gli avrebbero somministrato una terapia sbagliata. Ma la denuncia più grave è recente. Il 19 novembre scorso Prinno doveva essere finalmente trasferito in ospedale per l’attesa operazione chirurgica all’ernia; giunto nei pressi dell’ufficio casellario per prendere documenti e bagagli di cui aveva bisogno, è stato perquisito. Nel corso della perquisizione gli agenti hanno aperto le lettere personali del detenuto ed avrebbero iniziato a leggerle a voce chiaramente udibile. “Cosa vietata - denuncia l’avvocato - poiché il detenuto non è sottoposto a sorveglianza particolare, non è sottoposto a censura ed anche laddove lo fosse, quegli agenti non erano delegati a svolgere il compito di censura, che comunque si svolge riservatamente, non leggendo le lettere personali a voce alta”. Tale comportamento ha fatto innervosire Prinno, già nervoso e preoccupato per l’intervento al quale doveva sottoporsi, scatenando una crisi comiziale: è caduto a terra, con il casco, ferendosi alla testa; si è rotto un metatarso della mano ed è dovuto intervenire il medico per provare a risolvere la crisi. Le condizioni sono apparse inizialmente preoccupanti, tanto da mettere in dubbio il ricovero e l’intervento chirurgico. Fortunatamente l’allarme è poi rientrato. “Tutti gli agenti sono a conoscenza dell’equilibrio psichiatrico instabile del Prinno - sottolinea sempre l’avvocato -, sono a conoscenza che egli necessità di grande tranquillità (per prescrizione medica) soprattutto nei momenti più delicati (interventi chirurgici, comunicazioni di giustizia, notizie preoccupanti). Forse non era proprio il caso di provocarlo nel giorno in cui doveva essere ricoverato. I familiari avrebbero voluto assistere il loro congiunto ricoverato e dargli conforto. Purtroppo la distanza da Napoli e le disastrose condizioni economiche non hanno permesso altro che un colloquio (all’ospedale) di un’ora e mezza”. Dopo l’operazione ora il detenuto è nuovamente in carcere, ma non riesce a camminare e quindi si trova sulla sedia a rotelle. Tutto questo succede, ad Opera, da oltre tre anni, in una cella di 10 mq lordi da dividere in due. Al netto, tolti gli arredi fissi ed il bagno, restano circa 2 mq a testa. Tra un letto e l’altro c’è una distanza di 70 centimetri circa. È giusto che una persona, al di là dei crimini commessi, viva in queste condizioni? Difficile parlare di trattamento dignitoso quando si vive con un casco, si deambula a fatica in spazi stretti e ci si urina addosso anche davanti ai compagni di detenzione. L’avvocato Verrengia - così come la madre che a causa delle condizioni del figlio soffre di una pesante depressione fino ad aver tentato di suicidarsi - pone diversi interrogativi. Uno su tutti: “Si può ancora seriamente parlare di finalità rieducativa della pena?”. Padova: laurearsi in carcere, in 45 ci stanno provando Il Gazzettino, 18 dicembre 2018 Trasformare il tempo di detenzione in tempo di qualità e favorire il recupero e il reinserimento sociale dei carcerati usando come strumento la cultura: sono questi due degli obiettivi che hanno spinto la Fondazione Cariparo a sostenere il Polo universitario in carcere. L’iniziativa è stata avviata nel 2003 dall’associazione patavina Gruppo operatori carcerari volontari. Questo ha permesso a 31 carcerati di conseguire la laurea. La Fondazione, riconoscendo l’importanza che gli studi universitari possono ricoprire rispetto alle finalità rieducative e di reinserimento sociale, sosterrà anche quest’anno il progetto con un contributo all’Università per le spese relative alle tasse universitarie e al materiale didattico necessario agli studi. Il Polo universitario in carcere offre a chi sta scontando una condanna la possibilità di poter studiare e laurearsi, accedendo alla didattica e sostenendo gli esami. Attualmente sono iscritti all’Università di Padova 45 detenuti, distribuiti tra i corsi di laurea di Lettere e Filosofia, Scienze Politiche, Scienze della Formazione, Giurisprudenza e Ingegneria. All’interno della Casa di Reclusione Due Palazzi è stata creata una sezione specifica il polo universitario dedicata allo studio e dotata di strumenti informatici e di una biblioteca. I detenuti che non vi possono accedere per motivi legati alla pena che stanno scontando, hanno la possibilità di studiare all’interno delle proprie celle. Inoltre gli studenti sono seguiti direttamente da tutor che li affiancano nel percorso formativo. Francesca Vianello, Delegata del Rettore per il Progetto Università in carcere, dichiara: “Il Progetto Università in carcere, attivo nella Casa di reclusione, coinvolge 45 detenuti iscritti all’Università. Grazie al progetto i detenuti hanno la possibilità di partecipare all’obbligatorio test di ingresso ai diversi corsi di studio e, una volta ammessi, essere affiancati da un tutor nello svolgimento degli studi, fruire di corsi di sostegno e sostenere gli esami di fronte a regolari commissioni. I risultati ci sono stati: negli ultimi anni, diverse lauree triennali e magistrali regolarmente raggiunte”. Gilberto Muraro, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e di Rovigo, dichiara: “Portare l’Università in carcere, permettendo ai detenuti di studiare e di laurearsi, significa offrire alle persone che vivono in stato di detenzione una nuova opportunità di realizzare il loro potenziale e di riscattare il proprio futuro”. Milano: Forza Italia “è ora di trasferire il carcere, rischio ricorsi su ecomostri” di Chiara Campo Il Giornale, 18 dicembre 2018 De Pasquale sul Pgt: “A San Vittore arte e giovani”. “Più coraggio e meno burocrazia”. Dovrebbero essere i due cardini del Piano di governo del territorio secondo Forza Italia che ha depositato circa la metà dei 318 emendamenti al Pgt su cui da ieri è partita la discussione in consiglio comunale. Un dibattito che proseguirà anche a gennaio e si preannuncia lungo visto che il capogruppo di Milano Popolare, Matteo Forte, ha giocato il “jolly” previsto dal nuovo regolamento d’aula: ogni gruppo nell’arco del mandato può chiedere che i tempi di una delibera non siano contingentati. Il capogruppo di Fi Fabrizio De Pasquale premette che il nuovo Pgt firmato dall’assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran “è già molto meglio di quello prodotto durante l’ex giunta Pisapia, meno ideologico e i cambi di destinazione d’uso diventano più semplici”. Nella richiesta di avere “più coraggio” rientra però, ad esempio, la proposta - su cui tante volte negli anni si è aperto e chiuso il dibattito - di “trasferire in nuove aree in via di sviluppo il carcere di San Vittore, a Porto di Mare o piazza d’Armi, liberando e valorizzando una preziosissima area del centro che non è di proprietà di fondi arabi o altro, ma dello Stato”. Tante parti del carcere come la Rotonda sono sottoposte a vincolo, non si possono demolire. “E quegli spazi - spiega - vanno destinati a funzioni per i giovani, culturali, parte dell’area attrezzata per manifestazioni all’aperto, fiere e sagre di buon livello. Potrebbe diventare come Les Halles a Parigi”. Con gli emendamenti taglia-burocrazia Fi chiede di eliminare o alleggerire le certificazioni ambientale, l’imposizione di materiali eco-sostenibile “che ancora si fa fatica a trovare sul mercato”. La battaglia di Sala e Maran agli “ecomostri” rischia di essere stoppata dai ricorsi. Le regole inserite del nuovo Pgt dicono ai proprietari di edifici abbandonati che o presentano un piano e iniziano i lavori entro 18 mesi, o procedono negli stessi tempi alla demolizione e “congelano” le stesse volumetrie da utilizzare in futuro lì o in altro luogo secondo le regole oppure, se alla scadenza non hanno fatto nulla, il loro diritto edificatorio scende all’indice minimo (0,35 mq/mq) e il Comune si riserva di demolire e chiedere il rimborso. “Qualora la regola fosse applicata verrebbe impugnata fino alla Corte costituzionale - avverte De Pasquale, lede il principio di proprietà privata”. Padova: pasticceria del Due Palazzi, sfornati in carcere 60 mila panettoni “targati” Giotto di Felice Paduano Il Mattino di Padova, 18 dicembre 2018 Anche quest’anno i panettoni, sfornati dalla pasticceria del carcere Due Palazzi, stanno ottenendo uno strepitoso successo: sino ad oggi ne sono stati prodotti 60 mila, per tutti i gusti, da quello tradizionale con i canditi e l’uvetta a quello con il moscato passito Kebir di Pantelleria, a quello con le albicocche. I panettoni vengono venduti a singoli pezzi in tantissimi punti vendita a cominciare dallo shop di via Eremitani, che fa diretto riferimento all’Officina Giotto, e vengono acquistati da tante aziende per regalarlo ai propri dipendenti. Tra quelle che hanno scelto il laboratorio della solidarietà, aperto dal 2005 nel carcere, ci sono anche la trevigiana De Longhi e la Bosch Italia. Come al solito anche quest’anno un po’ di panettoni sono stati inviati a Papa Francesco e al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sono 40 i pasticcieri-detenuti che lavorano dietro le sbarre, spesso anche a ciclo continuo pur di onorare le numerose commesse che arrivano, ormai, da ogni parte del mondo. In occasione del Natale 2018 i carcerati, tutti professionalizzati al massimo livello, producono non solo panettoni, ma anche torroni prelibati, praline, biscotti e le deliziose brioche che finiscono, ogni mattina, anche sui banchi dei bar più rinomati della città e della provincia. D’altronde sia il panettone che la colomba, firmati Giotto, sono stati già premiati più volte dal Gambero Rosso, dall’Accademia della Cucina e durante le giornate del Merano Wine Festival. “I consumatori comprano il nostro panettone non solo per effettuare un gesto di solidarietà a favore di chi ha sbagliato nella vita e ha deciso di riscattarsi attraverso il lavoro e l’impegno quotidiano, ma anche e specialmente perché i nostri dolci sono veramente buoni e sicuri dal punto di vista alimentare”, osserva con orgoglio Matteo Marchetto, dirigente dell’Officina Giotto. Padova: Klaus Davi a confronto con i detenuti reggiotv.it, 18 dicembre 2018 È avvenuto ieri un faccia a faccia tra il massmediologo Klaus Davi, Antonio Papalia, Tommaso Romeo e numerosi altri detenuti nel carcere di Padova. L’incontro era stato chiesto al massmediologo proprio dai detenuti calabresi colpiti dalle dichiarazioni del massmediologo, che hanno manifestato il desiderio alla dottoressa Ornella Favero, promotrice e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, di vederlo di persona. Ieri l’incontro è avvenuto. Un confronto serrato sui temi caldi della criminalità ma anche sul ruolo dello Stato, sulle condizioni dei detenuti, sull’educazione, sulle tossicodipendenze. Alla presenza di psicologi, volontari e assistenti sociali il dialogo è stato sereno e costruttivo. La scena - ed era inevitabile - è stata dominata da due pesi massimi del crimine organizzato quali Antonio Papalia, fratello di Rocco, appartenente a uno dei casati più criminalmente blasonati, e Tommaso Romeo, secondo le accuse affiliato ai Serraino, entrambi ergastolani. Intenso anche lo scambio con due ragazzi di Rosarno come Biagio Vecchio e Giuliano Napoli, il primo condannato a 22 anni di carcere e il secondo all’ergastolo. Non sono mancati interventi di detenuti cosiddetti “comuni”. A coadiuvare il tutto, l’attivissima Ornella Favero. Klaus ha preannunciato un ritorno a Padova e un’iniziativa itinerante, Dap permettendo. “Mi piacerebbe coinvolgere anche Paolo Liguori, che tanto sta facendo per dare visibilità a questi temi”, ha commentato il noto massmediologo. Napoli: corsi alla Federico II “Sanità Penitenziaria, la salute nelle carceri” Il Roma, 18 dicembre 2018 La salute nelle carceri è sempre più un tema centrale. Non a caso durante i lavori del convegno nazionale “Qualità in sanità tre equità e sostenibilità” tenutosi tra il 13 e 14 dicembre (organizzato da Maria Triassi) sì è svolta la cerimonia dì chiusura del corso di perfezionamento universitario in “Sanità Penitenziaria”. Un corso unico per ora in Italia, organizzalo dal dipartimento di Sanità pubblica della Federico II, in accordo con il direttore generale dell’ Asl Napoli l centro Mario Forienza e il presidente dell’associazione Conosci (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane) Sandro Li-bianchi, da 20 anni “sul campo” per la tutela della salute in carcere e per le misure alternative in qualità di Responsabile Medico Dipendenze Istituti Penitenziari di Rebibbia. Nel corso della cerimonia sono stati consegnati gli attestati ai 54 partecipanti del corso. Il percorso didattico, da febbraio a novembre, è stato caratterizzato dall’ incontro e dal confronto dei diversi operatori attivi nei contesti penitenziari - medici, infermieri, psicologi, agenti di polizia penitenziaria - ma anche magistrati, docenti, direttori degli Istituti Penitenziari (Poggioreale, Secondigliano, Airola per ì minori) secondo una strategia multidisciplinare che è da tempo una peculiarità dei corsi post-laurea organizzati dalla Triassi. Il risultato, in termini di partecipazione e di entusiasmo, è incoraggiante: si prevedono future edizioni di questo percorso didattico. Milano: tra canti di Natale e testi in milanese va in scena il Coro della Nave di Sara Bernacchia La Repubblica, 18 dicembre 2018 A San Vittore i detenuti si esibiscono davanti a 200 persone. La mostra del reparto in Triennale fino al 20 gennaio. “Scegliamo noi di salire sulla nave, firmiamo un patto di responsabilità con il quale ci impegniamo a rispettare i compagni e i luoghi comuni, a frequentare i corsi e a non avere pregiudizi”. Vincenzo si trova nel carcere di San Vittore da nove mesi, gli ultimi cinque li ha vissuti sulla Nave, il reparto del terzo braccio del carcere nel quale 60 detenuti in cura per diverse dipendenze seguono un percorso di rieducazione e reinserimento che prevede lo svolgimento di varie attività. Vincenzo, detenuto per spaccio, fa parte del Coro della Nave, che ieri sera si è esibito alla festa di Natale del reparto. Sette canzoni, un mix tra classici del Natale e della tradizione milanese, eseguiti sotto la direzione di Paolo Foschini. Dall’inizio composto e un po’ intimorito con “Everybody Needs Somebody to Love” all’atmosfera più rilassata di “El purtava i scarp del tennis” di Jannacci, con i 45 del coro che saltavano e ridevano. La canzone più bella, però, è “Finirla di nuotare”, che sulla musica di “Bella ciao” inserisce un testo dedicato a La Nave. L’atmosfera è quella del grande evento con circa 200 ospiti, che dopo il concerto cenano al buffet cucinato dai “marinai” nelle loro celle. E la festa non si conclude a San Vittore, poiché il progetto Ti porto in prigione, oltre all’esibizione del coro, all’esposizione “Gianni Maimeri. La musica dipinta”, che decora le pareti del primo braccio del carcere, e altre iniziative, prevede una serie di eventi in Triennale. Oggi alle 18 Daria Bignardi, che figura anche tra le voci del coro, intervista un ex detenuto per raccontare le difficoltà di coloro che, usciti dal carcere, cercano di reinserirsi nella società. Sempre in Triennale, fino al 20 gennaio si può visitare “In transito. Un porto a San Vittore”, la mostra che raccoglie 60 scatti del fotogiornalista Nanni Fontana che raccontano la “vita sulla Nave”. “Da anni ho concesso l’uso del mio archivio per la realizzazione de L’Oblò, il mensile de La Nave. Per il 15esimo anniversario dall’apertura del reparto, a luglio dell’anno scorso, ho chiesto di poter raccontare la vita al suo interno” spiega Fontana. Le fotografie, scattate tra marzo 2017 e il 2018 nel corso di circa 50 visite, sono organizzate in quattro Macro-temi: la vita in reparto, le attività svolte all’interno, l’aria (che comprende anche i momenti dedicati allo sport) e il coro. “È stata un’esperienza estremamente interessante - sottolinea Fontana, il carcere è un mondo che non si ha modo di visitare e del quale, a volte, ci si fa un’immagine sbagliata”. L’obiettivo di Ti porto in carcere è proprio questo: mostrare a chi è fuori cosa c’è dentro e insegnare a chi è dentro come tornare a vivere bene fuori. Castrovillari (Cs): teatro in carcere, venerdì lo spettacolo conclusivo abmreport.it, 18 dicembre 2018 Il teatro entra in carcere con lo spettacolo BarConLando che si terrà venerdì prossimo con inizio alle o 9,30 presso la Casa Circondariale di Castrovillari. Lo spettacolo è l’atto conclusivo del progetto “Et Voilà, teatro in carcere”, creato, diretto e coordinato dall’Istituto Professionale per i Servizi dell’Enogastronomia e dell’Ospitalità Alberghiera (Ipseoa) di Castrovillari nell’ambito del Piano di Intervento Nazionale per la “Scuola in Carcere” e prodotto dall’Associazione Itineraria Bruttii onlus in collaborazione con Emergenti Visioni. “Un’esperienza laboratoriale senz’altro positiva per i detenuti che hanno avuto l’opportunità, attraverso il teatro, di mettersi in gioco e questo grazie al Dirigente Scolastico Franca Anna Damico, alla disponibilità della Direttrice della Casa Circondariale di Castrovillari Maria Luisa Mendicino e alla preziosa collaborazione di tutto il personale operante nell’Istituto Penitenziario”. La drammaturgia, originale, è stata interamente creata dai detenuti con la supervisione delle docenti Anna Maria Rubino e Rosetta Maiorana. Il tema del bar rappresenta il fil rouge del percorso che i detenuti hanno imparato a raccontare insieme. Emergono così spaccati di vita e caratterizzazioni che permettono di mettere in scena i loro conflitti e la loro visione della realtà dietro i personaggi e insieme sperimentano soluzioni creative per mettere da parte i traumi sociali attraverso una metaforica “via di fuga” per un recupero di fiducia. “Il percorso si è compiuto con la validissima guida di due esperti di Teatro sociale, Alma Pisciotta e Giovan Battista Picerno, che hanno portato gli alunni ad acquisire le nozioni basilari del muoversi in scena, dell’impostare e modulare la voce non solo per comunicare ma anche per emozionare. Et voilà! hanno tirato fuori dal cilindro l’elemento di magia che comunichi e sorprenda”. Napoli: calcio e basket, la grande festa a Poggioreale di Angelo Rossi Il Mattino, 18 dicembre 2018 Antonio indossa una maglia della Juventus, è dentro per rapina, dovrà restarci 14 anni. “Prima ero tifoso del Napoli ma non vincevo mai niente, sette mesi fa sono diventato bianconero”. Erminio invece mostra con orgoglio la tuta del Napoli, quella ufficiale tappezzata dai loghi degli sponsor, porta gli occhiali ed è in attesa di giudizio per tentata estorsione. Dentro le mura di Poggioreale non è la diversità della fede calcistica a separare i detenuti, sarebbe un lusso troppo grande permettersi una sciocchezza del genere. Così Antonio ed Erminio passeggiano e giocano insieme, calcetto e basket, per onorare la festa dello sport voluta dal laboratorio “Ex Ducere” ed organizzata dal “Progetto IV Piano”, rivolta ai tossicodipendenti detenuti del padiglione Roma presso la casa circondariale napoletana. Due calciatori del Napoli di ieri, Gianni Improta e Nicola Mora, oltre ad alcuni cestisti del Napoli Basket, hanno tenuto a battesimo l’iniziativa di ieri mattina: il “Progetto IV Piano” è diretto da Stefano Vecchio delle Strutture Intermedie del dipartimento dipendenze della Asl Napoli 1 centro (in stretta collaborazione con la direzione della casa circondariale di Poggiorele) che da quattro anni opera con i detenuti seguiti dal Serd dell’area penale. “Attualmente - ha sottolineato Marinella Scala, che dirige l’unità operativa dipartimentale delle strutture intermedie - gestiamo sette laboratori di attività che spaziano dalla musica alla scrittura, dallo sport al teatro, dalla costruzione di manufatti all’apprendimento della lingua per i migranti”. Il Comune di Napoli era rappresentato dall’assessore allo sport Ciro Borriello che ha auspicato “nuove e più complete forme di collaborazione per agevolare il reinserimento dei detenuti nella vita sportiva e sociale della città”. L’idea di Maria Luisa Palma, direttrice della casa circondariale, è invece ambiziosa: “Ho chiesto al nostro Ministero la gestione completa dell’ex aula bunker dove in passato si sono svolti i maxi-processi: un’area immensa da ristrutturare per regalare spazi molto più ampi e destinarli alle attività sportive”. Non solo, la direzione di Poggioreale intende dedicare l’intero padiglione Roma a tutti i detenuti tossicodipendenti per trasformarlo in una custodia attenuata con orientamento verso la socio-riabilitazione e verso misure alternative alla detenzione. Bologna: nasce il Circolo dei lettori della Dozza: si parte con Sciascia Redattore Sociale, 18 dicembre 2018 L’idea nasce da docenti e studenti di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna che, da tempo, seguono la formazione dei detenuti iscritti all’ateneo. Al progetto parteciperanno 20 detenuti e 18 volontari. Al via dal 23 gennaio, con appuntamenti mensili. “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia sarà il primo testo con cui si confronteranno i detenuti che parteciperanno al nuovissimo Circolo dei lettori della Dozza. Il progetto, che rientra tra quelli proposti nell’ambito del Patto per la lettura adottato dal Comune di Bologna, è stato promosso dai docenti, tra cui Paola Italia, e dagli studenti del Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna che, da tempo, collaborano con il carcere di Bologna, seguendo i percorsi dei detenuti iscritti all’ateneo (84). “Da un anno collaboro con il Polo universitario penitenziario come tutor per i detenuti che devono preparare l’esame di Letteratura italiana per il corso di Storia - racconta Laura Fugazza - Finora ne ho seguiti 3, è davvero una bella opportunità”. Il progetto del Circolo dei lettori ha avuto l’autorizzazione della direttrice del carcere, Claudia Clementi, e partirà il prossimo 23 gennaio con appuntamenti mensili. I detenuti, una ventina quelli che parteciperanno al Circolo dei lettori, leggeranno i libri in autonomia, “i volumi sono già stati inviati al carcere”, e poi ne discuteranno insieme ai volontari (18 quelli coinvolti) nell’incontro mensile che si terrà nella Biblioteca centrale del carcere. “Al progetto parteciperanno autori e curatori dei volumi scelti, in video o di persona”, precisa Fugazza. Per Sciascia, sarà presente Paolo Squillacioti, curatore dell’opera completa dello scrittore. Oltre a Sciascia, i libri scelti (e inviati gratuitamente dagli editori) sono “Fine pena: ora” di Elvio Fassone (20 febbraio), “Le notti chiare erano tutte un’alba” a cura di Andrea Cortellessa (20 marzo), “La notte ha la mia voce” di Alessandra Sarchi (17 aprile), “L’impostore” di Javier Cercas (15 maggio), “Le parole rubate” di Roberto Gramiccia e Simone Oggionni (19 giugno), “Un prato in pendio” di Pierluigi Cappello (17 luglio). Taranto: fuori dal carcere, il presepe. Il riscatto è oltre le sbarre di Marina Luzzi Avvenire, 18 dicembre 2018 Nella Città vecchia di Taranto, gioiello incastonato tra due mari, isola fisica e spesso anche sociale, la consuetudine è dividere gli amici, i conoscenti, i parenti, tra “chi sta dentro” e “chi sta fuori”. Perché nella comitiva d’infanzia, tra i compagni di scuola o addirittura in famiglia, c’è sempre chi ha tirato dritto e chi ha preso una “brutta strada”. Gianni, 49 anni, 3 figli maschi e due nipotini di 5 anni e di appena un mese, “dentro” ci sta da parecchio. “Già a 16 anni ero nei clan - racconta. Gli studi li ho fatti in galera. Mia moglie per me è la cosa più importante. Stiamo insieme dal 1990. Lei lavora, io fra due mesi finisco (di scontare la pena, ndr) e mi metto a fare volontariato in parrocchia. Anche se penso spesso che se dal carcere si esce, dalla condanna no. Dal dolore che ti porti dentro, dal giudizio degli altri, non si esce mai”. Si confida Gianni, mentre sistema la paglia nel presepe monumentale che sta allestendo insieme ad altri detenuti e a Damiano, Angelo, Vincenzo, Francesco e Giuseppe, cinque giovani volontari del quartiere. Lavorano nei locali adiacenti alla storica chiesa di san Domenico, che custodisce la Madonna dell’Addolorata, veneratissima in città. “Il progetto di far collaborare i detenuti all’allestimento di questo grande presepe che resterà fisso e visitabile per tutto l’anno - spiega don Emanuele Ferro, parroco del Duomo di san Cataldo e cuore pulsante di un progetto fortemente voluto dall’arcivescovo della diocesi ionica Filippo Santoro - è nato dall’incontro con i figli di queste persone che sono in carcere. Il periodo delle feste, per chi ha un parente detenuto, è sicuramente il più difficile. La direttrice del carcere, Stefania Baldassari, ha sposato l’idea”. Così ogni giorno, per tutta la mattinata, si lavora all’allestimento del grande presepe, appartenuto al signor Montanari, un ufficiale dell’aviazione in riposo, oggi deceduto. Si trovava nella sua casa ed i figli hanno voluto donarlo alla chiesa locale, perché la passione del padre diventasse patrimonio comune. “Ai bambini - prosegue don Emanuele - si dà la possibilità di vedere che il padre non sarà sempre tra le sbarre ma può essere come tutti gli altri papà, che si spendono per la propria comunità, per la parrocchia”. Il permesso straordinario dura fino alle ore 16, così “dopo la mattinata di lavoro, ci raggiungono le famiglie e pranziamo tutti insieme in casa canonica. Questo incoraggia i detenuti, a cui viene data una possibilità e una grande fiducia da parte di chi gestisce la loro riabilitazione e poi solleva le stesse famiglie, che respirano una condizione di normalità”. L’iniziativa, che si vorrebbe replicare in altre zone della città di Taranto, è diventata presto, oltre che un’occasione di riscatto per chi ha sbagliato, anche un segno di attenzione rivolto dalla comunità a chi sta percorrendo la via non facile del riscatto dopo gli errori commessi. “Il mio sogno è trovarmi un lavoro e tornare a stare accanto alle mie bambine - afferma Giovanni, 29 anni, padre di tre figlie piccole - e pensare che se dal lavoretto al minimarket e con il peschereccio ho iniziato a delinquere, era proprio per garantire un futuro meno precario a loro”. “È la prima volta che sono fuori, dopo tanto tempo. All’inizio mi sentivo spaesato - confessa Nicola 34 anni, da 3 in carcere - ma è bello vedere la famiglia tutti i giorni. Mi piacerebbe tanto tornare a stare a casa e ricominciare ad andare per mare”. Augusta (Sr): “I mercanti del tempo”, progetto in carcere di Rotary e coop L’Arcolaio augustanews.it, 18 dicembre 2018 I partner promotori dell’iniziativa sono partiti dal presupposto che turisti e operatori del settore siano alla costante ricerca di oggetti artistici in grado di richiamare simboli ed immagini significative del patrimonio storico locale in grado di documentarne il viaggio e di consentirne la condivisione di ricordi ed emozioni. Coniugare arte, lavoro e cultura con lo scopo primario del recupero sociale delle persone detenute. È da queste premesse che è partito il progetto “Mercanti del tempo” promosso dalla cooperativa L’Arcolaio in collaborazione con il Rotary e finalizzato all’insegnamento a un gruppo di detenuti della Casa di reclusione di Augusta delle abilità necessarie per produrre piccoli oggetti artistici in terracotta. I risultati del progetto sono stati presentati sabato 15 dicembre al carcere di Augusta, dove i detenuti e l’équipe di formatori hanno illustrato ai rappresentanti de L’Arcolaio e dei Rotary club del territorio il frutto di settimane di studio e lavoro. Gli ospiti sono stati ricevuti dal direttore della casa di reclusione dottor Antonio Gelardi e dal suo staff nel laboratorio di ceramica. Nel salutare i presenti il direttore ha evidenziato che il progetto si pone in continuità con le attività condotte con i club service cittadini quali l’Inner Whell (cena galeotta per finanziamento di attività risocializzanti e il ritorno al Castello Svevo, ultimo momento di riapertura del monumento) e Rotary (corso caseario seguito da un Aperi-cella, e corso per pizzaiolo seguito da una pizza galeotta per ospiti esterni) e ha lodato l’iniziativa, che ha visto la partecipazione entusiastica da parte dei detenuti; la parola poi è passata a Giovanni Romano, responsabile de L’Arcolaio che ha sottolineato il valore dei progetti di inclusione che abbassano la recidiva e contribuiscono ad evitare il ritorno in carcere. Infine, Last but not Least i rappresentanti del Rotary club nel confermare il loro impegno in attività di servizio hanno dato la loro disponibilità per contribuire alla commercializzazione dei prodotti. Protagonisti assoluti della mattinata i detenuti che hanno frequentato il corso, che hanno illustrato tutte le fasi di lavorazione dei manufatti e si sono intrattenuti a lungo, informalmente con gli ospiti. Vi è stato poi, nella attigua aula del corso alberghiero, un momento di degustazione dei prodotti de L’Arcolaio. Il progetto è durato circa due mesi ed è stato articolato in dodici incontri settimanali, durante i quali i formatori hanno coinvolto undici detenuti nelle varie fasi di produzione di oggetti in terracotta. I manufatti realizzati sono copie liberamente ispirate a oggetti simbolo del patrimonio storico artistico siciliano. Il progetto è stato reso possibile grazie alla sinergia avviata tra i soggetti coinvolti. A farne parte, la cooperativa sociale L’Arcolaio di Siracusa, i club Rotary finanziatori (Augusta, Lentini, Siracusa, Siracusa Monti Climiti e Siracusa Ortigia), l’equipe di formatori, la direzione della Casa di reclusione e gli operatori dell’area trattamentale della Casa di Reclusione di Augusta. I partner promotori dell’iniziativa sono partiti dal presupposto che turisti e operatori del settore siano alla costante ricerca di oggetti artistici in grado di richiamare simboli ed immagini significative del patrimonio storico locale in grado di documentarne il viaggio e di consentirne la condivisione di ricordi ed emozioni. Un valore educativo, quindi, il progetto avviato, ma anche lavorativo. Si è cercato di formare operatori capaci di produrre piccoli manufatti artistici per poi avviare un’attività lavorativa che possa proseguire nel tempo con la vendita sul mercato dei prodotti. Attività che può rappresentare grande beneficio al percorso riabilitativo e di reinserimento sociale dei detenuti. L’equipe di maestri d’arte e formatori che hanno tenuto il corso iniziale e seguito l’attività produttiva è stata formata da Gerlando Pantano, restauratore del museo Paolo Orsi di Siracusa, Federica Marchesan, Salvatore Melita e Samantha Intelisano. Informazione. Oltre 250 giornalisti incarcerati nel 2018 a causa del loro lavoro primaonline.it, 18 dicembre 2018 Cpj: di natura politica le principali accuse. Nel 2018 sono 251 i giornalisti incarcerati a causa della loro professione. Lo certificano le stime al primo dicembre pubblicate dal Commitee to Protect Journalists. Se da un lato il numero registra un calo dopo due anni di crescita costante (nel 2017 erano 262, nel 2016 259), dall’altro si tratta comunque di una cifra importante, soprattutto se confrontato con quanto registrato nel 2000, quando i cronisti rinchiusi erano poco meno di un terzo (80). E non ha caso infatti il Time ha scelto di scegliere Jamal Khashoggi e con lui i giornalisti in carcere come ‘persone dell’anno’. Cina, Egitto e Arabia Saudita sono i paesi in cui sono stati incarcerati più giornalisti rispetto all’anno scorso, mentre la Turchia resta la nazione con il maggior numero di arrestati. Secondo i dati, tra i principali capi di accusa (70%) ci sono questioni di natura politica, come quella di appartenere a gruppi terroristici, o legate alla difesa dei diritti umani. Il 98% sono giornalisti locali arrestati dai governi del loro paese. In crescita il numero di giornaliste messe dietro le sbarre: oggi sono 33, pari al 13% del totale, in aumento dell’8% sul 2017. Invariato il numero di freelance arrestati, pari al 30%. I dati, precisa l’analisi, prendono in considerazione solo i reporter nelle carceri governative, e non quelli di cui si sono perse le tracce o che si trovano nelle mani di organismi para statali. In questo caso al numero ufficiale, secondo le stime di Cpj vanno aggiunte dozzine di giornalisti scomparsi o sequestrati tra il Medio Oriente e il Nord Africa. Migranti. Storia di Suruwa Jaithe, bruciato a 18 anni Roberto Saviano L’Espresso, 18 dicembre 2018 La baracca dove dormiva è andata a fuoco. E alla sua morte non è stato dedicato né un minuto, né un pensiero, né una lacrima. In una manciata di chilometri accade che ci si possa fare un’idea molto chiara della differenza che esiste tra buona e cattiva accoglienza. In Calabria, in un fazzoletto di terra, in un triangolo i cui tre vertici sono, idealmente, Riace, Gioiosa Jonica e San Ferdinando, si consumano tragedie (più spesso) e si seminano speranze (sempre meno). Mentre il governo distrugge il sistema degli Sprar su tutto il territorio nazionale, talvolta criminalizzandolo, restano intatte le baraccopoli - nonostante le tante promesse di smantellarle a favore di non si sa quali reali alternative - formate da piccole case di fortuna costruite con plastica, esili assi di legno e cartone, più raramente con lamiere. La baraccopoli di San Ferdinando, vicino a Reggio Calabria, ora è stracolma di immigrati: è la stagione degli agrumi. Nella Piana di Gioia Tauro sono oltre 4000 i braccianti che in condizioni di lavoro e di vita disumane sono lì per raccogliere arance e mandarini. La baraccopoli è stracolma di persone che durante l’inverno gelido provano a riscaldarsi accendendo bracieri. E i fuochi sono pericolosi perché tutto nella baraccopoli è infiammabile. L’ultima vittima a San Ferdinando è un ragazzo giovanissimo, di appena diciott’anni, morto il 2 dicembre scorso mentre dormiva. Occhi grandi e carattere schivo, Suruwa Jaithe era il suo nome ed era di origini gambiane. Suruwa: in queste righe scriverò spesso il suo nome, perché chi muore così deve essere ricordato. Perché io che scrivo e voi che leggete siamo debitori nei riguardi di Suruwa, vittima di un destino assurdo e delle contraddizioni di un Paese che non riesce più a guardarsi allo specchio, tanto è diventato brutto, vecchio e soprattutto cattivo. Suruwa era inserito in un progetto di seconda accoglienza nello Sprar di Gioiosa Ionica dove era arrivato a marzo 2018. Gli operatori di Gioiosa erano per Suruwa un punto di riferimento, forse l’unico, e ora lo sono per i suoi familiari (un fratello che si trova in Italia) che non riescono a darsi pace per questa assurda morte. Suruwa sarebbe rimasto a Gioiosa fino a marzo 2019 quando avrebbe iniziato un tirocinio formativo e probabilmente da lì sarebbe iniziata la sua vita autonoma in Italia. Avrebbe iniziato forse a guadagnare qualcosa con un permesso di soggiorno che sarebbe scaduto tra due anni. A San Ferdinando Suruwa non era andato perché cacciato da Gioiosa: non fuggiva da nulla, Suruwa. Era solo andato a trovare dei conoscenti e, forse, a fare progetti per il futuro: era un ragazzo di diciott’anni. La morte di Suruwa non ha generato indignazione nel Paese, solo molto dolore nelle persone che lo hanno accolto e lo hanno aiutato. Ormai tutto questo ha finito per essere la normalità, al massimo il prezzo che le nostre coscienze sono disposte a pagare. Per ottenere cosa nessuno davvero lo sa. Sono anni, ormai, che si parla di immigrazione solo per stimolare la peggiore risposta emotiva da parte delle persone. Sono anni che per le incapacità delle classi dirigenti si incolpa il “buonismo” di chi sa che peggiorando le condizioni di vita di alcuni, non migliorano quelle di altri. Ma ogni ragionamento sembra vano: siamo in una fase tristissima in cui la speranza sta davvero morendo e lasciando pericolosamente il posto alla rassegnazione. E io sono ancora qui a domandarmi; e se invece che smantellare il sistema dell’accoglienza il governo lo avesse implementato? Se per ipotesi - ormai molto remota - questo governo riuscisse a considerare esseri umani le persone che arrivano in Italia? Se questo accadesse, forse anche chi ha votato i suoi rappresentanti si sentirebbe esortato a fare lo stesso. E invece quello a cui assistiamo ogni giorno è un disastro di proporzioni epocali. Ministri che setacciano il web alla ricerca di notizie di reati veri o presunti (per loro non fa differenza) che coinvolgano immigrati. Trasformano quelle notizie in post che servono ad aizzare il web contro gli stranieri. Altri che invocano una stampa depoliticizzata, priva di opinioni e che hanno, con un lavoro costante di anni, convinto i loro elettori che le idee degli altri siano oscure macchinazioni di vecchi tecnocrati che vogliono che i poveri rimangano poveri e i ricchi diventino sempre più ricchi. Intanto Suruwa è morto giovanissimo, è morto in uno strano e triste Paese. Un Paese che a questa morte non ha dedicato nemmeno un minuto, nemmeno un pensiero, nemmeno un ragionamento, nemmeno una lacrima. Droghe. La riduzione del danno su scala globale: problemi e prospettive cesda.net, 18 dicembre 2018 La Global State of Harm Reduction del 2018 giunge alla sua sesta edizione, e si presenta con una veste più ricca di informazioni e di dati rispetto alle edizioni precedenti. Alla sua stesura hanno partecipato circa 100 professionisti, accademici, avvocati e attivisti per la riduzione del danno di tutto il mondo. Nel rapporto, divisi per macro aree geografiche, vengono descritti e quantificati, fra gli altri, i seguenti interventi: il numero di persone che fanno uso di droghe e il numero di persone imprigionate per uso di droghe; i programmi di scambio aghi e siringhe (NSP), terapia sostitutiva degli oppioidi (OST), test di HIV ed epatite C e TB e trattamento per le persone che usano droghe, sia nella comunità che nelle carceri; i programmi di controllo delle droghe negli eventi della vita notturna (Drug Checking); le stanze del consumo di sostanze. In generale, il rapporto segnala come, rispetto al 2014, i paesi dove sono attivi i programmi di scambio aghi e siringhe (NSP), e la terapia sostitutiva degli oppioidi (OST), sono rimasti stabili, pari a 86 su 204. Secondo recenti dati, specie nei paesi a basso e a medio reddito molti programmi nazionali di riduzione del danno devono fronteggiare importanti tagli dei finanziamenti, che rendono così più difficile il raggiungimento degli obiettivi di salute pubblica. Alcuni tipi di interventi, invece, risultano in leggera ascesa, come il drug checking, pur se limitato a setting ben delimitati, e le stanze del consumo. Rispetto alla maggiore emergenza esistente sul fronte droghe, ossia le overdose da oppiacei, da una parte si registra una maggiore disponibilità globale del naloxone, dall’altra in molti paesi persistono molti ostacoli al suo utilizzo. Un’altra interessante valutazione contenuta nel rapporto è che è necessaria una maggiore attenzione ai fattori di genere, essendo la maggior parte degli interventi e dei programmi calibrati sui soli uomini. Infine, in alcuni paesi (il caso più noto sono le Filippine) non solo gli interventi di riduzione del danno sono ostacolati, ma si attuano brutali politiche di criminalizzazione verso i consumatori. Tailandia. L’italiano assolto: “Ora una pizza”. Cavatassi era stato condannato a morte di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 dicembre 2018 “Adesso vado a mangiare una pizza”. Gioia, lacrime, e il desiderio, irrefrenabile, di riaddentare una Margherita. Dall’inferno del carcere thailandese, Denis Cavatassi, 50 anni, è uscito ieri. Provato, esausto, ma “super felice: ancora non mi capacito”. Ha preso il cellulare degli amici italiani che lo attendevano all’uscita del penitenziario e ha chiamato la sorella Romina: “Pronto, sono Denis”. Il cuore di lei si è fermato per un istante. Poi l’annuncio atteso da sette anni: “Sono fuori, finalmente. È finita”. Nessuna iniezione letale. La Corte suprema lo ha assolto dall’accusa kafkiana di essere il mandante dell’omicidio del suo socio Alessio Butti. E, se tutto va come deve, Denis volerà a Roma, per poi tornare a Tortoreto, in provincia di Teramo dove, da sette anni, lo aspettano la moglie thailandese Anchanà e la figlioletta nata 15 giorni prima del suo arresto, nel 2011. “Spero di essere a casa per Natale”, ha detto alla sorella che è stata fondamentale per la sua liberazione. Simpatica, fattiva, efficace, da subito ha dato vita a una mobilitazione che ha incrociato contatti istituzionali: dalla Farnesina di Angelino Alfano, via via, fino a quella di Enzo Moavero Milanesi, alla presidenza della Camera di Roberto Fico. E moltiplicato appelli. L’ultimo chiedeva di scrivere a Denis e le lettere sono piovute a decine, bellissime. “Le voglio tutte, mi devi girare anche le ultime arrivate, le voglio leggere una per una. Sono state la mia unica consolazione”, ha detto lui ieri a Romina, nei primi istanti trascorsi fuori dal carcere-lager. Dove, come ha scritto al fratello, si vive “in 200 in uno spazio che può contenere meno della metà delle persone, se di notte mi giro su un lato non trovo più lo spazio per rimettermi supino. Ho ancora davanti agli occhi e nelle narici le condizioni igieniche indegne di questo luogo”. Un “carcere medievale” al quale, dopo la scarcerazione iniziale su cauzione, Denis non si era sottratto con la fuga. La condanna era arrivata al termine di un processo “pieno di buchi, negligenze, sciatterie e approssimazioni”, come lo definisce Luigi Manconi, infaticabile nel denunciare questa e altre lesioni del diritto e dei diritti umani. In Tailandia l’agronomo abruzzese arriva nel 2009. Lì conosce Alessio Butti, proprietario di un ristorante a Phi Phi Island distrutta dallo Tsunami. Lo aiuta a ricostruirlo e diventa suo socio. Ma il 15 marzo 2011 Butti viene ucciso. Vengono arrestati tre thailandesi, tra cui un cameriere del locale gestito da Denis, al quale aveva appena versato soldi, come compenso. La polizia scambia lo stipendio per l’anticipo dell’omicidio su commissione. La condanna a morte viene confermata in appello. Ma Denis al fratello si descrive “sostenuto dalla incrollabile fiducia che la verità alla fine sarebbe emersa”. Una fiducia però che con l’allungarsi dei tempi vacilla. Alla sorella ieri ha confessato: “Cominciavo a perdere la speranza”. “Prigionieri del silenzio”: quasi 3mila italiani come Cavatassi adnkronos.com, 18 dicembre 2018 “Non si dovrebbe sollevare il problema quando Denis Cavatassi viene dichiarato innocente. Se ne parla in quel momento e poi mai più. Bisogna tenere alta l’attenzione sui circa 3mila casi di italiani detenuti all’estero. È un problema sociale e la politica dovrebbe occuparsene, rivedendo gli accordi con i vari Paesi e creando una figura istituzionale, che conosca le leggi del posto e si faccia carico dei loro diritti”. Katia Anedda è la presidente della Onlus “Prigionieri del silenzio”, nata 10 anni fa per dare voce alle migliaia di nostri connazionali che finiscono, anche da innocenti, nelle carceri di tutto il mondo, spesso in condizioni disumane, senza contatti con le famiglie né con gli avvocati, senza parlare la lingua del posto in cui si trovano. In base agli ultimi dati ufficiali della Farnesina sono 2924, un numero censito a dicembre del 2017, in calo rispetto ai 3278 dell’anno precedente. Tra questi la gran parte, 2.314, sono nei Paesi dell’Unione europea, 291 nelle Americhe, 182 nei Paesi europei extra Ue, 44 nei Paesi del Mediterraneo e in Medio Oriente, 16 nell’Africa sub-sahariana, e 77 tra Asia e Oceania. “Molti non parlano per paura o per vergogna - spiega all’Adnkronos - Quelli arrestati perché qualcosa hanno fatto, magari reati non importanti per i quali comunque rischiano l’ergastolo, vivono in situazioni atroci, per loro e per le famiglie che spesso stanno dall’altra parte del mondo: hanno il problema della lingua, non sanno chi contattare, il consolato non risponde, la Farnesina non entra nel merito, noi cerchiamo di metterli in contatto con le persone giuste, che possano aiutarli”. La storia di Cavatassi, ricorda Anedda, “va avanti da 8 anni, è stato arrestato poi rilasciato, è rimasto in Tailandia forte della sua innocenza. Negli ultimi 3 anni ha vissuto le pene dell’inferno, rischiando la pena di morte. Ma molti sono i casi che non finiscono all’attenzione dei media: innocenti ce ne sono tanti, magari alcuni firmano un’ammissione di colpevolezza non conoscendo la lingua e vengono incastrati. Chi non ha possibilità economiche sconta la pena nonostante l’innocenza”. Quest’ultimo caso di cronaca dovrebbe essere l’occasione per tornare a sollevare il problema, e per sollecitare la politica a intervenire. “Rivisitare tutti gli accordi, fare in modo che ci siano condizioni di trattamento più umane, che ci si possa difendere senza dovere spendere 10 volte di più rispetto all’Italia per garantirsi un giusto processo - ammonisce la presidente di ‘Prigionieri del silenzio’ - In India, ad esempio, due ragazzi hanno speso più di 300mila euro. Poi c’è il problema dei consolati che sono spesso deboli, anche per mancanza di risorse, e lontanissimi dal posto in cui l’italiano è detenuto. In Europa è tutto più facile, e lì si trova il maggior numero degli italiani detenuti all’estero, i diritti sono garantiti di più e per la famiglia si tratta di affrontare solo poche ore di volo”. Ancora, “servirebbe un ente di collegamento, una figura istituzionale che conosca le leggi del posto e sia dalla parte del detenuto. Il magistrato di collegamento esiste solo in alcuni Paesi europei, bisognerebbe estenderlo. Poi anche la famiglia dovrebbe essere sostenuta e supportata psicologicamente. Non vale l’argomento che i numeri sono bassi perché intorno a ciascuno dei circa tremila detenuti ruotano almeno 10 persone, tra parenti e amici, e considerando i 5 milioni di italiani iscritti all’Aire e i 10 milioni in giro per il mondo, ci sono 15 milioni di potenziali detenuti. La politica - conclude Katia Anedda - dovrebbe occuparsene”. Spagna. I politici catalani in carcere, in sciopero della fame, scrivono ai leader europei sputniknews.com, 18 dicembre 2018 Quattro politici catalani, che hanno dichiarato lo sciopero della fame in carcere, hanno scritto una lettera a 40 rappresentanti dell’UE denunciando la violazione dei loro diritti per le loro attività, connesse al referendum illegale per l’indipendenza del primo ottobre 2017. Lo ha riferito in una conferenza stampa a Madrid il loro portavoce Pilar Calvo. “Le lettere sono state inviate a 40 rappresentanti dei paesi dell’UE, così come alla leadership dell’Unione europea, come al capo della Commissione europea e al Parlamento europeo” ha detto Calvo. Tra i destinatari della lettera c’è la premier britannico Theresa May, il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il premier spagnolo Pedro Sanchez. “Chiediamo di prestare attenzione alla situazione, che riteniamo molto grave e che si sta verificando in Spagna, e che viola direttamente le regole, i principi e i valori fondamentali dell’Unione Europea”, si legge nella lettera a disposizione di Sputnik. Gli autori della lettera ricordano che in carcere si trovano nove persone, tra cui sei ex membri della Generalitet, due leader di enti pubblici, ma anche l’ex presidente del Parlamento catalano. “Siamo in carcere senza processo, alcuni da più di un anno. Siamo accusati di ribellione per lo svolgimento del referendum in Catalogna il primo ottobre dello scorso anno”, si legge nella lettera. Gli autori del messaggio accusano la giustizia spagnola di “grave violazione dei diritti fondamentali, compresa la presunzione di innocenza e diritti a un processo legale equo”. All’inizio di novembre, la Procura ha divulgato i termini di condanna per gli imputati. La più grave è per il leader di sinistra dei “Repubblicani della Catalogna”, l’ex vice presidente della Generalitat catalana Oriol Juncera: 25 anni. Per l’ex leader dell’organizzazione pubblica “Assemblea Nazionale Catalana” Jordi Sanchez, per il dirigente di Omnium Cultural Jordi Quishar e per l’ex-presidente del Parlamento Karma Forkadel la Procura chiede 17 anni di reclusione. Altri cinque membri del governo possono essere condannati a 16 anni di carcere, l’ex capo catalano delle forze dell’ordine Louis Trapero, il cui caso è analizzato singolarmente e non della Corte Suprema, rischia 11 anni. Per la Cina sono campi di rieducazione, il resto del mondo li chiama gulag di Giulia Pompili Il Foglio, 18 dicembre 2018 Financial Times e New York Times raccontano come funzionano i lavori forzati nella regione dello Xinjiang. Abel Amantay, un kazako cittadino cinese, era tornato l’anno scorso nello Xinjiang per registrare il suo permesso di lavoro all’estero. Era stato arrestato e deportato in uno di quelli che in Cina chiamano “centri di formazione professionale”, costruiti dal governo della regione autonoma dello Xinjiang “per la popolazione locale legata ad attività estremiste o terroristiche”. Secondo quanto riportato da Emily Feng sul Financial Times di ieri, “dopo aver finalmente ottenuto il permesso per entrare nella struttura, il padre di Amantay ha potuto vedere suo figlio e ha saputo che è impiegato in un’industria tessile per 95 dollari al mese. Ad Amantay è permesso di fare due brevi telefonate al mese alla moglie in Kazakhstan”. Lei spiega che il marito in quelle telefonate “non dice molto, solo che sta guadagnando. Ma ogni volta domanda i nomi e l’età dei suoi figli. Sembra che abbia una grave perdita di memoria”. Secondo il quotidiano londinese questa è una delle prove che i laajiao, cioè i campi di “rieducazione attraverso il lavoro” che erano stati aboliti ufficialmente dalla Corte suprema di Pechino nel 2013, siano in realtà attivi. Le deportazioni di massa, confermate dall’Onu e condannate pure dal Parlamento europeo - con una tiepida risoluzione del 3 ottobre votata pure dagli europarlamentari del M5s - riguarderebbero circa un milione tra uiguri, kazaki e altre minoranze etniche dell’area. Se ne parla da anni, ma è solo da pochi mesi che comincia a venir fuori quel che succede davvero dentro ai campi. Se in un primo momento Pechino aveva perfino negato l’esistenza delle strutture, adesso la propaganda è cambiata: “Il Partito dice che la rete di campi nello Xinjiang fornisce una formazione professionale e inserisce i detenuti nel mondo produttivo per il loro bene”, hanno scritto ieri Chris Buckley e Austin Ramzy sul New York Times. La seconda economia del mondo oggi determina l’agenda diplomatica globale, ed è naturale doversi confrontare con Pechino quando si tratta di business. L’influenza cinese non riguarda soltanto gli investimenti ma anche il soft power sulle questioni cruciali per l’idea di egemonia cinese di Xi Jinping. Il fatto che la questione dello Xinjiang sia ignorata per lo più da chi tratta con la Cina è indicativo di quello che sta succedendo alla diplomazia occidentale e alla difesa dei valori comuni e dei diritti universali. L’equilibrio tra interessi e valori è difficile da mantenere, e il “calcolo di convenienza” - che consegna la priorità alla stabilità dei rapporti diplomatici - negli ultimi anni, sta spostando l’ago della bilancia quasi tutto a favore di Pechino. E a volte perfino si esagera, tra i politici di casa nostra, che parlano della Cina come “modello” per la sicurezza pubblica “nei limiti imposti dalla nostra cultura e Costituzione”. Il problema, semmai, è anche che le notizie su quel che accade davvero nello Xinjiang sono difficili da trovare. “La regione è strategica per il governo e per i piani futuri di Xi Jinping e la sua nuova via della Seta”, scriveva già a marzo Simone Pieranni su East, notando come Big Data e intelligenza artificiale siano diventate, qui, una straordinaria arma di controllo. Ciononostante, sono molte le testimonianze di giornalisti seguiti e controllati a vista quando cercando di indagare nella regione, e qualche giorno fa le autorità cinesi hanno confermato l’arresto di Lu Guang, acclamato fotoreporter cinese, vincitore di tre World Press Photo, di cui non si avevano notizie dal novembre scorso mentre era in viaggio nella provincia dello Xinjiang. Non è l’unico tra i nomi celebri spariti dalla circolazione e poi ritrovati nei campi. Se parliamo di realpolitik, vale la pena osservare come si muovono i paesi musulmani dell’area asiatica: l’Indonesia, per esempio, uno dei paesi che beneficia di più degli investimenti cinesi, è molto cauto. Scriveva ieri su Twitter Aaron Connelly dell’International Institute for Strategie Studies che “la pressione politica interna sul governo indonesiano per intervenire sulle detenzioni di massa sta crescendo, dopo un lungo periodo di silenzio da parte della società civile e della stampa”. Mentre il governo di Joko Widodo è ben attento a non inimicarsi Pechino, ieri il consiglio degli ulema indonesiano ha condannato “l’oppressione contro i musulmani in Cina, una palese violazione dei diritti umani e del diritto internazionale”. Lo stesso succede in Pakistan: ieri il South China Morning Post ha raccontato la storia del trader pachistano Chaudhry Javed Atta, che non vede la moglie uigura da più di un anno, anche lei portata via dalla sua casa nello Xinjiang. L’ultima volta che l’ha visto, gli aveva detto: “Mi porteranno in un campo, e non tornerò più”.