Grazie a giovani talenti il carcere diventa scuola di formazione di Walter Passerini La Stampa, 17 dicembre 2018 “Siamo ragazzi dai 20 ai 30 anni uniti dalla volontà di migliorare il mondo che ci circonda”. È questo lo slogan dei Global Shaper Rome Hub, una delle più attive tra le quasi 400 community che operano in Italia e nel mondo nell’ambito delle iniziative del Wef (World Economic Forum). Composta da giovani talenti fino ai 30-33 anni, consapevolmente assortiti e mixati per motivazioni e competenze, la community del Roma Hub ha creato un nuovo progetto puntato sui giovani minorenni in carcere, realizzando un corso pilota sul campo nella programmazione informatica, per offrire una nuova chance a giovani tra 14 e 18 anni e, una volta terminata la pena, per aiutarli a rientrare nel mondo del lavoro con una efficace competenza. Code For The Future, questo il nome del progetto, ha portato l’insegnamento del Coding all’interno delle carceri minorili. Oggi la capacità di programmare software è spendibile sul mercato ed equivale al saper leggere e scrivere degli inizi del secolo scorso. Unendo alcuni partner (Codemotion Kids, Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Detenute e Oracle), è stato realizzato il progetto pilota nell’Istituto penitenziario minorile di Casal Del Marmo, dove i giovani seguono un programma di rieducazione, unica struttura del genere nell’area del comune di Roma. Il modello dell’intervento è stato tracciato, se ne sono verificati pregi e aspetti critici. Ora i giovani shaper stanno riflettendo se offrirlo solo ai più giovani o se estenderlo ad altri target, come le donne o gli over 50. Per avere altre informazioni è possibile andare al sito globalshapers.org/hubs/rome-hub. Paola Maria Braggion (Csm): “Prescrizione, la riforma così non va” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 dicembre 2018 La consigliera è stata relatrice, insieme al collega togato Michele Giambellini, del parere con cui la Sesta commissione del Csm ha bocciato il ddl “spazza corrotti”. “Il nostro è un giudizio tecnico. Non abbiamo alcuna intenzione di sostituirci al legislatore”, dichiara al Dubbio la consigliera Paola Maria Braggion, relatrice, unitamente al collega togato Michele Giambellini, del parere con cui la Sesta commissione del Csm ha bocciato il ddl “spazza corrotti”. Il testo era stato trasmesso a Palazzo dei Marescialli dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lo scorso 10 ottobre in concomitanza con l’inizio delle votazioni in Aula. I pareri del Consiglio superiore della magistratura, come noto, non sono vincolanti per il Governo. Difficile, però, data l’autorevolezza della fonte, non tenerne conto. Soprattutto nel caso, come questo, di una approvazione avvenuta all’unanimità dei componenti della Sesta commissione. Anche quindi da parte di Alberto Maria Benedetti, il professore di diritto privato dell’Università di Genova, eletto al Csm in quota M5s, che Bonafede avrebbe voluto come vice presidente al posto del dem David Ermini. “Prima di esaminare il testo del disegno di legge - prosegue Paola Maria Braggion, togata di Magistratura indipendente - abbiamo voluto ripercorrere brevemente le caratteristiche che l’istituto della prescrizione ha assunto nell’ordinamento”. I consiglieri del Csm sono quindi partiti dall’iniziale disposizione del codice Rocco del 1930, per poi analizzare le varie modifiche che le norme sulla prescrizione del reato hanno subito negli anni. Dalla legge ex Cirielli, alla recente riforma effettuata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando nella scorsa legislatura. “Oltre a ciò abbiamo effettuato anche una comparazione dell’istituto della prescrizione negli altri ordinamenti comunitari”, prosegue il consigliere di Magistratura indipendente. L’analisi, effettuata con il supporto dell’Uffici studi del Csm, spazza il campo su molte delle “fake news” che sono state divulgate in questi anni sulla prescrizione. In particolare che questo istituto esisterebbe solo in Italia. È invece esattamente il contrario. In Francia, ad esempio, le norme sulla prescrizioni sono simili. Il termine di prescrizione decorre dalla data di commissione del fatto. Maturato il termine massimo previsto dalla legge si estingue l’azione pubblica. Per alcuni reati, come nel caso di quelli commessi a mezzo stampa, la prescrizione è rapidissima: solo 3 mesi. In Germania la prescrizione è regolata dal codice penale, che distingue tra prescrizione della perseguibilità, corrispondente alla prescrizione del reato italiana, e prescrizione della esecuzione, equivalente alla prescrizione della pena. L’ordinamento del Regno Unito non prevede l’estinzione del reato per prescrizione. Sono previsti dei limiti temporali entro i quali possono essere perseguiti i reati; essi rispondono all’esigenza processuale di assicurare, entro un termine ragionevole, l’acquisizione di prove genuine e di garantire all’accusato un “giusto processo” che si svolga in un lasso di tempo circoscritto rispetto ai fatti che l’hanno determinato. Lo studio elaborato dal Ministero della giustizia, prima della riforma cd. Orlando, aveva evidenziato come la maggiore incidenza delle prescrizioni si verificasse annualmente durante la fase delle indagini preliminari. Nel 2014 sono stati definiti per prescrizione circa 132.000 procedimenti penali, di cui ben 80.000 riferibili alla prescrizione maturata durante la fase delle indagini preliminari. “Le modifiche introdotte nel ddl “spazza corrotti” non sembrano idonee ad incidere sul funzionamento del processo penale, accelerandone la conclusione, non contenendo alcuna previsione al riguardo”, prosegue la relatrice del parere. L’eventuale allungamento della durata dei processi, per il Csm, avrebbe come conseguenza quella di compromettere il principio stabilito dell’articolo 111 della Costituzione e darebbe luogo ad una potenziale lesione del diritto di difesa dell’imputato garantito dall’art. 24 Cost. Per il solo anno 2017, i procedimenti potenzialmente a “rischio Legge Pinto” sono stati individuati dal Ministero della giustizia in 224.602 per il primo grado e in 110.450 per il grado di appello. Anche sotto questo profilo, pertanto, l’eventuale allungamento dei processi conseguente alla modifica legislativa rischierebbe di acuire una problematica già economicamente significativa per lo Stato italiano. “La riforma della prescrizione dovrebbe essere accompagnata da un intervento normativo più ampio che incida sulle cause strutturali dell’eccessiva durata dei procedimenti sul piano del diritto sostanziale, sul piano del diritto processuale e attraverso la dotazione di risorse adeguate, condizioni imprescindibili per un’effettiva attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo”, conclude Paola Maria Braggion. “Gli uffici di prossimità? Un placebo che rischia di tener chiusi i Tribunali” di Errico Novi Il Dubbio, 17 dicembre 2018 L’avvocato Pippo Agnusdei, presidente del comitato istituito dagli avvocati per riaprire le sedi. Ci sono due modi di vedere le riforme. O anche la semplice azione amministrativa. Basta prendere il caso degli uffici di prossimità. Nel presentarne l’apertura in tutta Italia, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha parlato di “iniziativa che va a sanare la ferita aperta con la revisione della geografia giudiziaria e la soppressione di tanti Tribunali”. Ma la medicina, dal punto di vista dell’avvocatura lasciata senza uffici giudiziari, non è solo amara: è dannosa. “Perché nelle parole del guardasigilli noi non vediamo il segno di un effettivo ripensamento, dell’inizio di un percorso che porti alla riapertura delle sedi chiuse. Vediamo purtroppo la parola fine: temiamo si voglia chiudere il discorso con gli uffici di prossimità”. A parlare e Pippo Agnusdei, avvocato di Lucera e dunque tra le vittime della desertificazione attivata nel 2012. Il Tribunale della città pugliese è stato cancellato dalla “riforma”. Agnusdei è presidente del “Comitato di coordinamento nazionale per la giustizia di prossimità”. Un organismo con oltre 80 componenti, che rappresenta tutti i territori lasciati senza giustizia e del quale fanno parte, oltre ai rappresentanti degli Ordini, anche i sindaci delle città interessate e i tanti comitati locali nati contro le chiusure. “Gli uffici di prossimità non sono certo Tribunali: al massimo sportelli di consulenza e postazioni dalle quali effettuare il deposito telematico degli atti”, fa notare il vertice del Comitato. Il contratto di governo recita testualmente: “Occorre una rivisitazione della geografia giudiziaria modificando la riforma del 2012 che ha accentrato sedi e funzioni con l’obiettivo di riportare Tribunali, Procure e Uffici del giudice di pace vicino ai cittadini e alle imprese”. Sfida non facile. Ma più per la difficoltà nel liberarsi dei tabù che per effettive ragioni di costi. “Con la chiusura delle sedi non si sono affatto realizzati risparmi. Si è creato un sovraccarico di affari pendenti in quegli uffici ai quali sono stati accorpati i Tribunali chiusi. E c’è anche un problema di denegata giustizia: un cittadino o un’impresa che sa di doversi sobbarcare disagi per veder riconosciuto un diritto tende a rinunciarvi”. È chiaro che quella clausola dell’accordo fra Lega e Cinque Stelle aveva “riacceso legittime aspettative in tanti di noi”, spiega Agnusdei. “Ma adesso siamo delusi perché appunto vediamo nel progetto presentato dal ministro nei giorni scorsi il segno di una smobilitazione rispetto a un possibile percorso di riaperture, che pure ci era stato prefigurato nei mesi scorsi”. Il Comitato guidato dall’avvocato di Lucera ha come vicepresidente un sindaco a cui hanno portato via il Tribunale, Andrea Sala di Vigevano, e come segretario un avvocato di un’altra sede cancellata, Enzo Galasso del Foro di Modica. L’organismo si è riunito una settimana fa al Cnf, le sue attività sono seguite in particolare dal consigliere Giuseppe Iacona, che del massimo organismo dell’avvocatura è anche tesoriere. “La giustizia è come la sanità: un presidio dello Stato, cardine di un sistema che voglia essere davvero basato su un’idea di democrazia solidale”, ricorda Agnusdei. “Ora, vorrei si tenesse presente che la cosiddetta revisione della geografia giudiziaria ha prodotto delle gravi disomogeneità nell’accesso alla giustizia tra le diverse aree del Paese. Si era partiti da parametri astratti: l’estensione del circondario, l’orografia e le infrastrutture per la mobilità degli utenti, la popolazione ma anche le dimensioni dell’organico di magistrati, il carico processuale e l’incidenza del crimine organizzato”. Qualcosa poi ha alterato gli equilibri. “Prima di tutto, i criteri individuati sono stati subordinati a un maxi- criterio prevalente: andavano comunque preservati i capoluoghi di provincia e un numero minimo di circoscrizioni per ciascuna Corte d’appello”, nota Agnusdei. “A questo va aggiunta, ancora, una altrettanto grave omissione: nella delega che ha attivato la riforma si era prevista una rimodulazione dei carichi tra i diversi Tribunali, in modo da accorciare le distanze tra uffici troppo grandi e sedi più piccole. Non è stata realizzata. Eppure la sollecitazione a creare più uniformità, ad avvicinare i Tribunali il più possibile verso una dimensione media, era venuta dal Csm”. E questo fa vacillare l’idea che ci sia una magistratura poco incline a lavorare lontano dalle grandi città, dietro le scelte desertificatrici, e dietro le persistenti ritrosie a un “ravvedimento operoso” sulla geografia giudiziaria. Evidentemente il vero problema è il tabù. Difficile da infrangere. Ma che il Comitato creato dall’avvocatura farà tutto il possibile per mettere a nudo. Una Carta europea sull’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari di Marzia Paolucci Italia Oggi, 17 dicembre 2018 Il Consiglio raccoglie la sfida e mette nero su bianco i principi etici. Per cogliere le sfide connesse al rapido sviluppo del concetto di intelligenza artificiale (IA) che sta entrando sempre più frequentemente nei processi giudiziari, arriva dall’European Commission for the efficiency of Justice del Consiglio d’Europa, il primo testo europeo che fissa i principi etici relativi all’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari. La Commissione che riunisce esperti dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa allo scopo di migliorare la qualità e l’efficienza dei sistemi giudiziari europei indirizza il testo alle startup legal tech che progettano piattaforme di nuovi servizi, agli sviluppatori di tools e a coloro a cui spetta la decisione di regolamentare questo campo come magistrati, avvocati, notai. Si fornisce così un insieme di principi che possono guidare politici, legislatori e operatori del diritto chiamati a confrontarsi con il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale nei processi giudiziari nazionali. L’applicazione dell’intelligenza artificiale nella giustizia, avverte la Commissione, può contribuire a migliorare l’efficienza e la qualità del lavoro dei tribunali se fatta però in modo responsabile in conformità con i diritti fondamentali garantiti in particolare nella Convenzione europea sui diritti umani e sulla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei dati personali. È essenziale che l’intelligenza artificiale rimanga uno strumento al servizio dell’interesse generale e che il suo uso rispetti i diritti individuali. Cinque i principi chiave individuati nell’ambito della giustizia e dell’intelligenza artificiale. Per primo il rispetto dei diritti fondamentali per assicurarsi che ideazione e applicazione di strumenti e servizi di intelligenza artificiale siano compatibili con i diritti fondamentali, c’è poi il principio di non discriminazione che consiste nel prevenire lo sviluppo o l’esasperazione di ogni discriminazione tra individui o gruppi, il principio di qualità e sicurezza con riguardo all’esame di decisioni e dati giudiziari usando fonti certificate con modelli concepiti in ambito multidisciplinare in un sicuro contesto tecnologico. Chiudono il cerchio il principio di trasparenza, imparzialità e correttezza che consiste nel rendere i metodi di trattamento dei dati accessibili e comprensibili, autorizzando audit esterni insieme al principio “sotto il controllo dell’utente” così da precludere un approccio prescrittivo e garantire che gli utenti siano attori informati e nel pieno controllo delle loro scelte. Per la Cepej, il rispetto di questi principi deve essere garantito nell’elaborazione delle decisioni giudiziarie e dei dati mediante algoritmi e nell’uso fatto di essi. Nella carta è stato inserito anche un glossario per ordine alfabetico dei termini più in uso: presenti parole come algoritmo, trasformazione in forma anonima, big data, chatbox, dati, database, esperto di sistema, apprendimento automatico, metadati intesi come dati che rendono possibile definire, contestualizzare o descrivere altri dati, reti neurali, open data, software open source perché accessibili a tutti, che possono essere usati liberamente, modificati e redistribuiti. Tra i vocaboli più significativi anche le cosiddette compagnie legal tech capaci di offrire servizi legali innovativi ricorrendo all’uso dell’It in ambito giuridico, l’apprendimento automatico inteso come ciò che rende possibile costruire un modello matematico dai dati incorporando un gran numero di variabili non conosciute prima, dati personali e il concetto affascinante di giustizia predittiva. Un termine, quest’ultimo, preso in prestito dalla branca delle scienze statistiche, per anticipare gli esiti di determinati contenziosi avvalendosi dell’analisi induttiva. Le decisioni giudiziarie sono adottate con l’idea di rilevare le correlazioni tra i dati di ingresso - criteri definiti nella legislazione, i fatti del caso e le evidenze - e i corrispondenti dati di uscita per esempio il giudizio formale come l’ammontare della compensazione. Le correlazioni ritenute rilevanti permettono di creare modelli che, se utilizzati con nuovi dati di input (fatti nuovi o precisioni descritte come parametro, come la durata del rapporto contrattuale), consentono, secondo i loro sviluppatori, di prevedere la decisione. Le associazioni contro la violenza sulle donne ricevute da Bonafede giustizia.it, 17 dicembre 2018 L’Associazione “Io sono Giordana” a colloquio con Bonafede Il ministro con i rappresentanti dell’Associazione italiana vittime della violenza. Onorare la memoria delle donne vittime di violenza e proteggere quelle che sono ancora in vita dal possibile ripetersi di simili tragedie anche per fare in modo che i giovani recuperino fiducia nello Stato: questo il senso degli incontri tra il ministro Bonafede e due associazioni che si occupano di tutela delle donne e assistenza in caso di stalking, violenze domestiche e qualsiasi altro tipo di reato. Incontri, svoltisi nell’ambito dell’iniziativa il Ministro Ascolta, particolarmente toccanti che hanno permesso al ministro di ascoltare dalla viva voce dei più stretti parenti di alcune delle vittime di femminicidio il racconto di storie di dolore e di frustrazione perché “lo Stato non è riuscito a proteggere queste sue cittadine né a fornire, successivamente, una riposta di giustizia certa e tempestiva.” All’incontro svoltosi questa mattina in via Arenula hanno partecipato Vera Squatrito, madre di Giordana - uccisa a coltellate dall’ex fidanzato quando aveva solo 20 anni - e fondatrice dell’Associazione “Io sono Giordana”, Giovanna Zizzo, il cui ex marito ha ucciso Laura, una delle sue figlie, Maria Teresa D’Abdon e Paolo Di Gregorio, presidente e vicepresidente dell’Associazione italiana vittime della violenza, anche loro genitori privati di figlie uccise dalla folle violenza da parte di uomini senza dignità, e Francesca Lucci, legale dell’associazione. “Le nostre figlie sono vittime trasparenti - ha raccontato la signora Squatrito - ragazze che avevano trovato il coraggio di denunciare ma alle quali le istituzioni non sono riuscite ad assicurare la necessaria protezione. Nessun risarcimento ci potrà restituire la vita delle nostre figlie però lo Stato deve mostrarci rispetto e fare di tutto per prevenire il ripetersi di delitti contro le donne che era possibile evitare con un intervento tempestivo”. Tra le richieste avanzate al Guardasigilli le due associazioni hanno concordato sulla necessità di misure per garantire la certezza della pena nei casi di omicidio, sul no al rito abbreviato e a sconti di pena per i reati particolarmente violenti, sull’incremento dei fondi per i familiari delle vittime, soprattutto per i figli orfani, e su investimenti massicci in prevenzione. Tutte richieste per le quali il Ministero è già a lavoro e che in alcuni casi troveranno una traduzione in legge con provvedimenti già instradati e in via di approvazione. In particolare, Bonafede ha ricordato come la proposta sul “Codice Rosso”, già approvata dal Consiglio dei Ministri e in attesa di esame parlamentare, sarà un efficace strumento di prevenzione e di tutela delle donne. “Ogni volta che una donna troverà il coraggio di denunciare, lo Stato avrà l’obbligo di attivarsi perché il magistrato dovrà sentirla entro pochi giorni assicurando una corsia preferenziale a queste denunce e dando a questi casi una priorità di trattamento. Così la giustizia interviene prima che possa succedere l’irreparabile”. Anche sulla richiesta relativa al fondo per le vittime di reati intenzionali e violenti, il ministro ha fatto presente che nella legge di bilancio è previsto un aumento della dotazione finanziaria e soprattutto misure per sbloccare il funzionamento del fondo rendendo più semplice l’accesso. Il ministro Bonafede ha, infine, apprezzato i progetti, presentati da Maria Teresa D’Abdon, di educazione nelle scuole e quello sulla creazione di una casa protetta per le donne che denunciano e hanno bisogno di un luogo sicuro dove stare. “Le norme sono importanti, e stiamo lavorando anche su questo, ma - ha concluso Bonafede - è necessaria una vera e propria opera di sensibilizzazione culturale per debellare la piaga della violenza contro le donne che affligge la nostra società, facendo capire a tutti che chi usa violenza contro una donna perde qualsiasi dignità di uomo, anzi non può considerarsi nemmeno un uomo. Da parte nostra, come ministero faremo di tutto per dissipare il dubbio che rivolgersi alla giustizia sia inutile e che le istituzioni siano incapaci di proteggere i suoi cittadini in pericolo”. Sequestro, titolare è il tribunale del riesame di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 17 dicembre 2018 La Cassazione, con la sentenza n. 53671/2018, individua, nel tribunale del riesame, l’organo competente alla valutazione delle istanze dei terzi titolari di diritti sul bene, oggetto del sequestro, emesso nel corso di un procedimento diretto alla contestazione di reati tributari. La questione traeva origine da un provvedimento del tribunale del riesame, della città di Firenze che si era ritenuto incompetente, per la decisione delle questioni dedotte da un terzo titolare del diritto di proprietà, sul bene oggetto del sequestro, emesso a seguito della contestazione di reati tributari. Il ricorso, dopo il consueto iter procedurale veniva discusso in udienza con una decisione di accoglimento, e il conseguente rinvio ad altra sezione del medesimo tribunale per una nuova decisione. Gli ermellini sul motivo di ricorso afferente la questione della valutazione delle istanze dei terzi in buona fede, osservavano come essa potesse venire risolta in due modi l’uno che individuava, quale organo competente il tribunale del riesame, l’altro, invece, che riteneva che a essere competente fosse il giudice dell’esecuzione, trattandosi di questioni comunque relative all’esecuzione della misura. Gli ermellini ritengono che la competenza spetti al tribunale del riesame posto che la questione non riguarda l’esecuzione della misura ma la fase diretta alla valutazione dei presupposti richiesti dalla normativa per la sua applicazione. La decisione viene motivata, sulla base di una giurisprudenza uniforme dello stesso collegio la quale, dopo avere individuato nelle questioni relative alle istanze dei terzi, una tipologia di vertenza relativa all’esame dei presupposti applicativi necessari per l’emissione della misura, ne attribuisce la competenza al tribunale del riesame quale organo cui spetta la decisione. Il ricorso veniva pertanto accolto con l’annullamento del provvedimento opposto. Costruire una strada senza autorizzazione è reato di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2018 Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 7 novembre 2018 n. 50138. La costruzione di un tratto stradale in area protetta, in assenza di apposita autorizzazione, configura i reati di cui all’articolo 44, comma 1, lettera c) del Dpr 6 giugno 2001 n. 380 e dell’articolo 181, comma 1, del Dlgs 22 gennaio 2004 n. 42. Questa è la decisione presa della Corte di cassazione con la recente sentenza 50138/2018, nell’individuazione delle responsabilità penali conseguenti a un’opera realizzata in una sede soggetta a vincoli ambientali. La questione veniva portata all’esame degli ermellini, a seguito del ricorso avverso a una sentenza della Corte di Appello di Napoli, la quale condannava gli imputati alle pene di legge, per aver realizzato un tratto di strada in un’area d’interesse pubblico in assenza di prescritta autorizzazione. Deducevano sul punto i ricorrenti, in tre appositi motivi di ricorso, l’evidente illegittimità della decisione di merito. Rappresentava il primo dei ricorrenti come l’intervento edilizio posto in essere non apportava innovazioni al paesaggio, tanto da non costituire reato, trovandosi al di fuori delle ipotesi previste dalla normativa penale che ricomprende le sole opere dirette a modificare la zona oggetto di vincolo paesaggistico; non solo, ma ulteriori aspetti d’ illegittimità questa volta di carattere formale, potevano essere rilevati nella mancata considerazione da parte del giudice del merito dell’omessa indicazione del vincolo urbanistico che caratterizzava l’area e che impediva ogni intervento edilizio; il secondo dei ricorrenti invece deduceva anche esso, in apposito motivo, la mancata prova circa la sua responsabilità, osservando come fosse del tutto estraneo all’attività illecita svoltasi sul terreno di cui era proprietario e come dal semplice rapporto di coniugio, in assenza di altri elementi indizianti, non si potessero trarre considerazioni di alcun tipo circa il suo coinvolgimento nella realizzazione dell’opera vietata. Il ricorso viene rigettato riguardo alla posizione di uno degli imputati, con l’assoluzione invece del secondo, per i reati ascritti non potendosi rilevare alcuna responsabilità a suo carico. La motivazione si apre con l’esame delle contestazioni a carico del principale dei due imputati, ovvero di quello che materialmente aveva realizzato l’ intervento ritenuto illecito. Rilevano gli ermellini, come la natura dell’intervento, configurava a ogni modo una nuova costruzione idonea a modificare la situazione paesaggistica ambientale, tanto che in area soggetta a vincolo si rendeva necessaria un’apposita autorizzazione, mancante nel caso di specie, pertanto la sua realizzazione costituiva illecito, con la conseguente applicazione delle sanzioni penali, previste dalla normativa. Sul punto l’operato del giudice del merito, pare perfettamente rispondente alla legge, e non può essere censurato in alcun modo. L’orientamento dei giudici di legittimità, infatti era assolutamente uniforme, nel ritenere che qualunque tipo di intervento, anche di lieve entità realizzato però in zona soggetta a vincolo urbanistico, necessitasse di un’autorizzazione diretta a consentirlo. In seguito gli ermellini, proseguivano con l’esame del secondo dei motivi di ricorso, in questo caso relativo all’assenza nel capo d’imputazione dell’espressa indicazione del vincolo paesaggistico nella sede dove era stato effettuato l’intervento. Secondo i giudici supremi, anche se risponde al vero che il provvedimento sul vincolo non era espressamente indicato, esso poteva comunque essere ricavato da un altro atto, sia pure molto risalente nel tempo, ma che comunque consentiva la compiuta identificazione della zona oggetto della condotta illecita, quale sede nella quale non potevano essere svolte opere in assenza di apposito nulla osta. Pertanto in capo al ricorrente incombeva l’ obbligo di richiedere l’autorizzazione, in realtà mai ottenuta: la sua opera era stata dunque realizzata in assenza dei presupposti di legge, con la configurazione dei reati previsti per i casi come quello di specie. Quindi, in relazione alla posizione di uno degli imputati, viene confermata in pieno la decisione del giudice di merito con il rigetto del ricorso. La situazione si presenta in maniera ben diversa per il secondo imputato, moglie del primo che aveva realizzato materialmente l’opera illegittima. Secondo la Corte suprema, dal semplice rapporto di coniugio, senza altri elementi indizianti quali ad esempio la presenza del soggetto nei luoghi ove era stata realizzata l’opera, non poteva automaticamente dedursi la consapevolezza dell’attività illecita, posta in essere da altri, con la conseguente applicazione delle relative sanzioni. In mancanza di tale prova, l’ imputazione a carico del secondo degli imputati viene ritenuta infondata, con il conseguente annullamento della sentenza a suo carico. Ammissione al gratuito patrocinio: valore dell’autocertificazione di assenza di reddito Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2018 Difensore e difesa - Gratuito patrocinio - Assenza totale di reddito - Presunzione di inganno - Illegittimità. In tema di patrocinio a spese dello Stato, il provvedimento di rigetto dell’istanza di ammissione fondato sulla mera affermazione che l’autocertificazione di assenza di reddito è di per sé un potenziale inganno è illegittimo, in quanto le disposizioni di cui agli artt. 79, comma 3 e 96, comma 2, d.P.R. n. 115/2002, che assicurano poteri di accertamento sia al giudice dell’ammissione che a quello dell’opposizione, implicano una presunzione di impossidenza vincibile con l’esercizio di tali poteri. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 dicembre 2018 n. 54830. Procedimento penale - Gratuito patrocinio - Rigetto di ammissione - Opposizione al decreto - Dpr 115 del 2002 - Criteri. Il rigetto dell’istanza di ammissione al gratuito patrocinio fondata sulla mera affermazione secondo la quale l’autodichiarazione dell’assenza di reddito è di per sé potenziale inganno, viola le disposizioni di cui all’articolo 79, lettera c), Testo Unico Spese di giustizia, anche avuto riguardo all’esercizio dei poteri di accertamento assicurati al giudice dell’ammissione e a quello di opposizione al rigetto, che implicano una presunzione di impossidenza dell’istante che presenti autocertificazione del reddito, vincibile con l’esercizio dei poteri di accertamento assicurati al giudice dall’articolo 79, e dall’articolo 96, comma 2, Testo Unico spese di giustizia, il cui esercizio è nondimeno, imposto al medesimo ai fini della giustificazione del rigetto. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 marzo 2018 n. 10406. Difensore e difesa - Patrocinio dei non abbienti - Finalità solidaristica dell’istituto. In tema di concessione del beneficio del gratuito patrocinio a soggetti che dichiarino la totale assenza di redditi, la semplice affermazione dell’assenza totale di reddito non è affatto di per sé un “potenziale inganno”, trattandosi invece di una situazione, seppure non comune, certamente possibile e anzi, della più grave delle situazioni tutelate dalla normativa che assicura la difesa dei non abbienti. Diversamente verrebbe meno l’effettività di un istituto che è stato previsto proprio per garantire il diritto di accesso alla giustizia e alla difesa. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 marzo 2018 n. 10406. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Autocertificazione del richiedente - Potere di controllo del giudice nel merito - Esclusione. Ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio l’autocertificazione dell’istante ha valenza probatoria e il giudice non può entrare nel merito della medesima per valutarne l’attendibilità, dovendosi limitare alla verifica dei redditi esposti e concedere in base ad essi il beneficio, il quale potrà essere revocato solo a seguito dell’analisi negativa effettuata dall’ufficio finanziario, cui il giudice deve trasmettere copia dell’istanza con l’autocertificazione e la documentazione allegata. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 15 dicembre 2016 n. 53356. Bari: penalisti da tutta Italia per protestare “contro il populismo giustizialista” La Repubblica, 17 dicembre 2018 Il 18 dicembre nell’aula magna dell’Università la manifestazione nazionale organizzata dall’Unione delle camere penali italiane. “Riflettori accesi anche sull’emergenza barese dell’edilizia giudiziaria”. Si terrà a Bari martedì 18 dicembre, nell’aula magna dell’Università, la manifestazione nazionale degli avvocati penalisti, organizzata dall’Unione delle camere penali italiane, per protestare “contro il populismo giustizialista” e il disegno di legge sui reati contro la pubblica amministrazione. “Per la seconda volta in quattro mesi” i penalisti italiani si riuniranno nel capoluogo pugliese, “anche al fine di mantenere accesi i riflettori sulle problematiche di edilizia giudiziaria del Foro di Bari - spiega il presidente della Camera penale di Bari, Gaetano Sassanelli - ormai dimenticato dal ministero, dopo il parcheggio provvisorio-definitivo delle aule di udienza nelle sedi distaccate di Modugno e Bitonto, giungendo così, a oggi, a distribuire su nove siti, differenti e distanti fra loro, gli uffici giudiziari del penale”. Durante l’iniziativa “saranno dibattute - spiegano i penalisti - le storture, le criticità di tenuta costituzionale e le modalità di approvazione del disegno di legge intitolato ‘Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici’, in fase di approvazione attraverso una calendarizzazione incompatibile con l’approfondimento e la risoluzione delle irrazionalità segnalate dall’intera comunità dei giuristi”. Alla manifestazione parteciperanno, fra gli altri, il presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza; il presidente del consiglio delle Camere penali, Armando Veneto; il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin; rappresentanti dell’avvocatura barese, dell’Università, dell’Anm e del parlamento. Monza: avvocati ancora in sciopero, processi a rischio di Stefania Totaro Il Giorno, 17 dicembre 2018 I legali incrociano le braccia. Possono slittare importanti udienze. Gli avvocati penalisti incrociano le braccia per altri due giorni e “si salvano” soltanto i processi con imputati detenuti. Dopo avere scioperato per quattro giorni a novembre, le toghe della Camera penale di Monza tornano ad astenersi dalle udienze oggi e domani per protestare contro la riforma del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che vuole cancellare la prescrizione dei reati. L’obiettivo del Guardasigilli è quello di permettere una giustizia più incisiva. Mentre per gli avvocati in questo modo i processi diventerebbero infiniti, sia per gli imputati, ma anche per le parti offese dei reati. Anche questo sciopero promette di provocare disagi alle udienze penali in calendario al Tribunale di Monza. Dovrebbe venire comunque celebrato perché l’imputato è detenuto in carcere il processo davanti alla Corte di Assise di Monza che riprende stamane nei confronti di Ivan Albiero, il 40enne del Comasco accusato della morte di Ghazal Azeddine, 27 anni, marocchino ucciso con una coltellata all’addome il 26 gennaio scorso allo svincolo di Briosco della provinciale Vallassina in direzione di Milano. Secondo il pm monzese Rosario Ferracane, l’omicidio è maturato per una questione di spaccio di droga. Il 40enne si sarebbe recato dal marocchino con il chiaro intento di prendere della cocaina senza pagarla, eliminando lo spacciatore. ù Imputato detenuto anche per l’udienza preliminare fissata per domani a carico di Giorgio Truzzi, l’autista 57enne di Bovisio Masciago che lo scorso aprile ha seguito la compagna di una vita e madre dei suoi tre figli (che voleva separarsi perché il coniuge sperperava soldi al gioco) Valeria Bufo, 55 anni, mentre, in pausa pranzo dal lavoro, stava andando in auto a prendere la figlia più piccola in stazione e, quando la donna si è fermata in coda a Seveso, ha aperto la portiera e ha fatto fuoco con una pistola colpendola con 5 proiettili. Rischia invece di saltare l’appuntamento di oggi per la sentenza del processo con il rito abbreviato per 20 imputati a vario titolo di associazione a delinquere finalizzata a reati tributari e fallimentari, trasferimento fraudolento di valori e riciclaggio nell’inchiesta della Procura di Monza che vede al centro l’imprenditore calabrese di 64 anni Giuseppe Malaspina, accusato di avere assoldato una “corte dei miracoli” di professionisti per salvare il suo impero immobiliare da 10 milioni di euro. I pm monzesi Salvatore Bellomo e Giulia Rizzo hanno chiesto condanne da 6 anni e mezzo a 8 mesi di reclusione. In forse anche la sentenza prevista invece per domani per la presunta corruzione nella vendita al Comune di Varedo di Villa Bagatti Valsecchi. Cremona: detenuti cuochi, il carcere come “Masterchef” laprovinciacr.it, 17 dicembre 2018 Progetto di reinserimento: i carcerati hanno imparato a cucinare piatti ‘stellati’ con lo ‘stellato’ Bellingeri. Dimostrazione e orgoglio. Hanno imparato a lavorare la pasta fresca. Sono partiti dalla pizza, poi si sono cimentati con i grissini, gli gnocchi, le conserve di verdura. Hanno cucinato piatti stellati, perché stellato è lo chef che li ha guidati ai fornelli: il cremonese Alessandro Bellingeri, chef di Osteria de l’Aquarol, a San Michele Appiano, nel Sudtirolo. Un anno fa, Bellingeri ha raccolto la sfida e insegnato i segreti della cucina a “persone speciali”. Sono i detenuti di Cà del Ferro, protagonisti, mercoledì nell’affollato teatro del penitenziario, di un piccolo Masterchef con degustazione e votazione da parte degli invitati: cittadini e autorità. In prima fila, tra gli altri, il vescovo Antonio Napolioni, il magistrato del Tribunale di Sorveglianza, Marina Azzini, il comandante provinciale dell’Arma, tenente colonnello Marco Piccoli, il colonnello Giovanni Petrocelli della Col di Lana, il comandante della polizia locale, Pier Luigi Sforza. E poi, Simona Pasquali, presidente del consiglio comunale, e Camillo Rossi. La serata è stata introdotta da Giuppi Cavagnoli, presidente del “Coordinamento Teatro Cremona”. Termoli (Cb): la solidarietà verso i detenuti? “Oltre ogni aspettativa” termolionline.it, 17 dicembre 2018 “Risultato ottimo, oltre ogni aspettativa”. Non dispensa numeri su merci e derrate raccolte, ma don Benito Giorgetta dichiara estrema soddisfazione per l’esito della raccolta alimentare di sabato scorso, che grazie ai volontari che gravitano attorno alla Iktus Onlus, hanno presidiato ben 10 punti vendita di varie catene cittadine. Oltre cinquanta i volontari che hanno organizzato una raccolta in favore della casa famiglia: “Iktus Lucia e Bernardo Bertolino” che accoglie ospiti in stato di detentivo. Ancora una volta uno sguardo al mondo del carcere attraverso questa iniziativa che tendenzialmente vuole avere anche uno scopo pedagogico per scuotere l’indifferenza dinanzi a questa problematica con una duplice finalità. “Ricordare a tutti che i detenuti appartengono alla società e far vedere che si può vivere anche di gratuità. Il foglietto consegnato ad ogni acquirente recita così: carissimi siamo della Casa Famiglia “Iktus Lucia e Bernardo Bertolino - la mission portata avanti e il messaggio diffuso - con fiducia ci rivolgiamo alla tua sensibilità per chiederti un aiuto. Noi viviamo del nostro lavoro e con i nostri sacrifici, ma abbiamo bisogno di aiuto e sostegno, di un gesto di fraterna solidarietà, per rendere più facile la nostra permanenza, temporanea, nella Casa Famiglia. Se vorrai, e, te ne saremo grati, all’uscita, potrai consegnarci qualcuno dei prodotti qui indicati”. Non una colletta libera, ma un preciso invito rispetto a tutto quanto era utile raccogliere. Paola (Cs): il sogno della squadra di calcio dei detenuti di Maria Fiorella Squillaro Quotidiano del Sud, 17 dicembre 2018 Anche se ha incassato una pesante sconfitta per 13-3 ad opera della Nuova Fabrizio Calcio a 5 di Corigliano-Rossano, la squadra dei detenuti della Casa circondariale di Paola, che per la prima volta in tutta Italia partecipa a un campionato organizzato dalla Delegazione Provinciale di Cosenza della Lega nazionale Dilettanti serie D di calcio a 5, continua a portare avanti con grinta e con orgoglio la sua voglia di riscatto sociale attraverso lo sport. L’incontro si è disputato ieri alle 14.30 presso il campo di calcio all’interno dell’istituto penitenziario e ha visto la squadra dei detenuti, allenata dal sanlucidano Massimiliano De Luca, lottare con grande impegno per la vittoria. Nella mattinata di ieri, prima della partita, sempre presso la casa circondariale, si è tenuta una conferenza stampa alla quale hanno partecipato, insieme ai detenuti, gli artefici dell’iniziativa. Un progetto fortemente voluto dalla direttrice del carcere Caterina Arrotta, coordinato dalla psicologa dell’istituto Lorella Galassi, sostenuto e promosso dal presidente del CR Calabria Saverio Mirarchi, dal responsabile dell’attività di calcio a 5 per la Calabria Giuseppe Della Torre, e dal presidente della Divisione nazionale Calcio a 5 Andrea Montemurro. “Un’iniziativa che ci riempie d’orgoglio - ha detto il direttore dell’istituto penitenziario di Paola Caterina Arrotta - visto che il nostro progetto, di grande valenza sociale, è l’unico in Italia. Al momento i detenuti non sono autorizzati a giocare fuori dall’istituto, ma non è escluso che in seguito le cose possano cambiare”. “Ho voluto essere fisicamente vicino a queste persone per esprimere loro la vicinanza del movimento del calcio a cinque che ho la fortuna e l’onore di guidare - ha affermato il presidente della Divisione Calcio a cinque Andrea Montemurro - Il Futsal ha una grande valenza sociale e può portare messaggi di speranza come questo a chi sta scontando i propri errori e punta a reinserirsi nel tessuto della vita quotidiana”. “La collaborazione con la direzione della Casa circondariale di Paola, dopo quella proficuamente avuta con quella di Siano, ci riempie d’orgoglio - ha detto il presidente CR Calabria Saverio Mirarchi - Una novità per il Calcio a 5 e sono sicuro che le nostre squadre sapranno accogliere questa nuova realtà con grande entusiasmo e partecipazione. Tutti insieme contribuiremo a svolgere quella funzione sociale che appartiene indiscutibilmente al mondo del calcio dilettantistico”. “Ho accettato la proposta di allenare i detenuti del carcere di Paola con qualche riserva - ha commentato l’allenatore dei detenuti della Casa circondariale di Paola Massimiliano De Luca - ma ho visto il loro impegno e oggi posso dire di essere orgoglioso di questi ragazzi”. La squadra di calcio a 5 della Casa Circondariale di Paola partecipa con la sua squadra al campionato di Futsal, con diritto di classifica ma senza possibilità di partecipare alla fase finale per la vittoria del campionato e/o per la partecipazione ai play off. Sviluppo e diritti. L’Africa ci riguarda da vicino di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 17 dicembre 2018 Se si fosse ricorso in tempo a misure per controllare gli ingressi in Europa prima che i mercanti di schiavi scoprissero il remunerativo business delle migrazioni clandestine, forse le cose starebbero ora diversamente. L’Europa è alle prese con molte sfide simultanee, variamente intrecciate, ed è questa simultaneità che rende così difficile fronteggiarle. C’è la crisi dei legami inter-atlantici che, a sua volta, esaspera la crisi europea. Ci sono le ricadute negative su settori, cospicui anche se non maggioritari, delle opinioni pubbliche dovute alla generale constatazione dei difetti dell’Unione. C’è una crisi di leadership che ha colpito, in un modo o nell’altro, tutte le grandi democrazie europee. A queste sfide ne va aggiunta un’altra: il “paradosso della società aperta”. Vediamo in che consiste. Prendiamo il caso di una società che definiamo “aperta” (o libera), ossia fondata sul primato della libertà individuale, sull’economia di mercato, sulla democrazia politica, eccetera. Messa di fronte alla prospettiva di quelli che vengono percepiti come probabili, massicci, flussi migratori di un futuro vicino, una società di tal fatta può reagire in due modi. Può fare la scelta di chiudere (o di tentare di chiudere) più o meno ermeticamente le frontiere. Ma se lo fa il serio rischio che corre è di perdersi: se chiudi le frontiere alle persone rischi, prima o poi, di chiuderle alle merci e poi anche alle idee. Perdi la capacità di innovare e di rinnovarti. Declino demografico e decadenza economica marceranno insieme. Ne conseguirà il passaggio dalla società aperta alla società chiusa. Si passerà dalla economia (più o meno) di mercato alla economia (più o meno) statalizzata, dalla democrazia rappresentativa all’autoritarismo (più o meno mascherato da democrazia plebiscitaria). Oppure quella società può fare una diversa scelta: decide di non chiudere le frontiere. Prima o poi la prevista massiccia immigrazione si realizzerà davvero. A quel punto delle due l’una: o ci sarà un contraccolpo politico, una svolta autoritaria, oppure la crescente presenza di gruppi con tradizioni differenti innescherà feroci e interminabili conflitti di civiltà: infatti, mentre una parte dei migranti si adatterà agli usi della società ricevente, un’altra parte, soprattutto a partire dalle seconde generazioni, non lo farà. Il paradosso della società aperta consiste dunque in questo: quale che sia la scelta (chiusura delle frontiere o no), almeno in linea di principio, l’esito finale sarà comunque la distruzione della società aperta. C’è un modo per sfuggire a questo destino? Per quanto riguarda noi europei la risposta dipende da come evolveranno i nostri rapporti con il continente africano. Le proiezioni demografiche sono impressionanti. Ci si aspetta che l’Africa raddoppi la propria popolazione in pochi decenni. È possibile, secondo certe stime, che nel 2050 un quarto degli abitanti del pianeta sia africano. Contemporaneamente, l’Europa, sia pure con differenze fra i vari Paesi (l’Italia si è guadagnata un triste primato), è complessivamente in flessione. Si ha un bel dire che i “numeri”, oggi, smentiscono quelli che parlano di “invasione” dall’Africa. Certo che in questo momento non c’è alcuna invasione. Ma l’attesa generale è quella di flussi migratori sempre più consistenti verso la ricca Europa nei prossimi anni e decenni. Basterebbe questa attesa a spiegare perché in quasi tutti i Paesi europei siano sorti partiti anti migranti e abbiano mietuto consensi. Se si fosse ricorso in tempo a misure per controllare gli ingressi in Europa prima che i mercanti di schiavi scoprissero il remunerativo business delle migrazioni clandestine, forse le cose starebbero ora diversamente. Comunque sia, la frittata è fatta: il “paradosso della società aperta” è incombente e non sarà facile eluderlo. La salvezza della società aperta europea, se ci sarà, dipenderà da un eventuale, massiccio, sviluppo economico dell’Africa: così massiccio da assorbire gran parte della prevista espansione demografica (ma anche tale da porre le condizioni per una successiva contrazione dei ritmi di crescita della popolazione). Gli europei hanno delle eccellenti ragioni egoistiche per desiderare che in Africa - anche in quelle parti dell’Africa ove non ve ne siano ancora i segnali - ci sia un vigoroso sviluppo economico. La consapevolezza di ciò spiega perché circolino idee poco realizzabili o, se realizzabili, pericolose e controproducenti. Ogni tanto, ad esempio, si sente qualche politico europeo evocare un “piano Marshall” per l’Africa. Ma l’Europa non è l’America del dopoguerra, né l’Africa è l’Europa di allora. Il cosiddetto piano Marshall servirebbe solo a riempire di quattrini le tasche di ras locali corrotti, signori della guerra e simili. Lo sviluppo non dipende dagli “aiuti allo sviluppo”, comunque definiti e mascherati. Dipende dall’esistenza di istituzioni (sociali, economiche, politiche) locali solide, in grado di generare ordine: quell’ordine che serve alle persone per intraprendere, lavorare, investire i propri risparmi, eccetera. Il problema però è che nessuno sa bene come si fa a costruire istituzioni solide là dove non esistono. Nell’attesa di scoprirlo, quello che gli europei possono fare per l’Africa (e quindi per se stessi) è non lasciare alla Cina campo libero negli investimenti. Conviene ai Paesi europei scommettere sul futuro dell’Africa e investirvi molte risorse. Per un vantaggio a breve scadenza: ampliare la propria presenza in un mercato in espansione. E per un vantaggio a lungo termine: tutelare la società aperta europea. Migranti. La spinta di Papa Francesco per il patto che l’Italia non ha firmato di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 17 dicembre 2018 “Responsabilità, solidarietà e compassione”. All’Angelus, ieri, papa Francesco ha citato il Global compact, ovvero il “patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare che intende essere un quadro di riferimento per tutta la comunità internazionale”, ha spiegato. Prima di formulare l’”auspicio” che la stessa comunità internazionale, “grazie anche a questo strumento”, possa “operare con responsabilità, solidarietà e compassione nei confronti di chi, per motivi diversi, ha lasciato il proprio Paese”. Le parole del Papa ai fedeli, “affido questa intenzione alle vostre preghiere”, rappresentano un sostegno significativo, a pochi giorni dalla Conferenza dell’Onu che si è riunita a Marrakech, in Marocco. Il testo dell’accordo definisce linee guida e obiettivi comuni ed è stato sottoscritto da 164 Paesi. L’Italia ha disertato la Conferenza e lo stesso, in Europa, hanno fatto Paesi a guida sovranista come l’Austria e il gruppo di Visegrad (Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia). Il Vaticano ha partecipato alla Conferenza, il Segretario di Stato Pietro Parolin guidava la delegazione e non aveva nascosto il proprio “dispiacere” per l’assenza dell’Italia e di altri Paesi: “La Santa Sede ha collaborato in modo determinante a questo documento. Ci sembra un buon quadro di riferimento per cominciare ad affrontare in maniera comune e globale il tema delle migrazioni”. Il cardinale lo ha ripetuto a Marrakech: “Le immense sfide che la migrazione pone vengono affrontate meglio attraverso processi multilaterali piuttosto che con politiche isolazioniste”. La crisi dei migranti ricorre nelle riflessioni natalizie del Papa. “La Santa Famiglia di Nazaret visse l’angoscia della persecuzione e, guidata da Dio, si rifugiò in Egitto”, ha ricordato venerdì: “Il piccolo Gesù ci ricorda così che la metà dei profughi di oggi, nel mondo, sono bambini, incolpevoli vittime delle ingiustizie umane”. Prima dell’Angelus, Francesco ha ricevuto i bambini del Dispensario pediatrico “Santa Marta”, che aiuta centinaia di mamme e piccoli in difficoltà, molti dei quali stranieri. I bimbi hanno cantato gli auguri a Bergoglio, che oggi compie 82 anni. Sulla torta c’era scritto: “Non possiamo abituarci alle situazioni di degrado e di miseria che ci circondano. Un cristiano deve reagire”. Migranti. Stop ai permessi umanitari: asilo solo a due su dieci di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2018 In pochi mesi la stretta sui permessi di soggiorno per motivi umanitari, prima ridotti e poi cancellati, ha portato all’80% i “no” alle domande di asilo complessive dei migranti. Non c’è stata però una parallela crescita dei rimpatri. Da giugno a novembre i rientri nei Paesi d’origine si sono anzi ridotti del 6%: 3.252, contro i 3.459 dello stesso periodo 2017. Il ministro dell’Interno e vicepremier, Matteo Salvini, ha intanto annunciato entro fine anno nuovi accordi con gli Stati di provenienza. Altrimenti il rischio è che ad aumentare sia solo il numero degli irregolari, con conseguenze negative per ordine pubblico e sicurezza. A novembre la protezione umanitaria, che rappresentava la fetta più rilevante dei permessi è crollata, e di conseguenza le commissioni territoriali che devono esaminare le domande di asilo hanno bocciato quattro richieste su cinque. La stretta sull’umanitaria A dare il via al giro di vite sul rilascio dei permessi di soggiorno è stata la circolare con cui il ministero dell’Interno, a luglio, ha fornito indicazioni più severe in base alle quale esaminare le richieste di protezione. Ma la svolta è arrivata con il Dl sicurezza che ha abrogato l’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Entrato in vigore il 5 ottobre, il Dl 113/2018 (convertito dalla legge n. 132 del 1° dicembre) ha avuto ripercussioni immediate sull’esame delle domande. Fino ad agosto, su 100 domande di asilo esaminate circa il 60% veniva bocciato, il 26-30% accolto per protezione umanitaria, il resto (10-14%) per protezione internazionale. A ottobre la protezione umanitaria è scesa al 13%, per crollare al 5% in novembre. La protezione umanitaria, sostituita dal Dl sicurezza con permessi concessi per motivi speciali (gravi condizioni di salute, violenza o sfruttamento, calamità naturali e atti di valor civile), era infatti uno dei tre canali di rilascio del permesso di soggiorno. A differenza degli altri due (status di rifugiato e protezione sussidiaria che rientrano nella protezione internazionale) si basava sulla normativa nazionale cui le regole Ue consentono di ampliare il campo dell’accoglienza. In Italia quest’allargamento, che scattava in caso di “seri” e “gravi” motivi di carattere umanitario, ha costituito la principale ragione di riconoscimento dell’asilo. Era quindi inevitabile che la soppressione di questa voce di accoglienza avrebbe fatto impennare gli esiti negativi delle domande. A novembre, su 7.716 decisioni prese dalle commissioni territoriali, le bocciature sono state 6.141 (riguardano richieste presentate nei mesi precedenti). Da inizio anno le domande esaminate sono state 87.724, di cui 56.759 bocciate, con un escalation negli ultimi due mesi, come detto. La stretta sui permessi, promessa dal ministro dell’Interno in campagna elettorale, non è stata però accompagnata dall’aumento dei rimpatri, anch’esso promesso in campagna elettorale e accompagnato da forti critiche alla lentezza e all’esiguità dei “rientri”. Da giugno a novembre sono stati 3.252, circa il 6% in meno di quelli dello steso periodo del 2017 (3.459). Negli ultimi due mesi c’è stato un leggero incremento (a ottobre 6o2 e a novembre 915 contro i 430-440 del quadrimestre giugno-settembre) ma si tratta di numeri ancora molto piccoli, soprattutto se confrontati con i circa 5oomila immigrati irregolari che secondo le stime sono presenti in Italia. Le difficoltà nascono dalla scarsa disponibilità dei Paesi d’origine al ritorno dei migranti. Innanzitutto servono accordi, che per ora esistono con pochi Stati (Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco).Pochi giorni fa, nell’audizione di fronte al comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo di Schengen, il ministro dell’Interno ha detto di aver già intrapreso iniziative bilaterali con “Paesi con cui non esisteva nulla: con il Ghana, da cui negli ultimi anni sono arrivate più di 10mila persone - ha continuato Matteo Salvini - stiamo lavorando a un accordo che offra vitto, alloggio e formazione professionale a 8omila persone e che chiuderemo entro fine anno”. È inoltre prossimo alla firma un accordo di polizia con la Guinea Conakry già predisposto ad aprile. Secondo l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale)il maggior numero di rimpatri riguarda Tunisia e Albania mentre i rientri verso l’Africa subsahariana sono molto più difficili e coinvolgono meno del 10% dei migranti con foglio di via. “Negli ultimi 5 anni la Germania è riuscita a rimpatriare quasi 8 irregolari su 10 mentre l’Italia poco più di 2 - dice Matteo Villa, esperto di immigrazione dell’Ispi. La ragione è che sono diversi i Paesi di provenienza e quelli da cui arrivano i migranti tedeschi sono più collaborativi, oltre al fatto che la Germania ha una maggiore forza contrattuale”. Migranti. Sulle espulsioni dai Centri il Viminale ci ripensa di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 dicembre 2018 Allontanamento più lento da Cas e Cara dei titolari di protezione umanitaria. Ma sull’asilo prosegue la stretta. Dopo le lettere per annunciare la revoca dell’ospitalità ai titolari di protezione umanitaria nei Cara e Cas “conseguentemente” alla legge Salvini che non prevede più il passaggio nelle case degli Sprar, adesso i prefetti chiedono di conoscere le storie e le condizioni dei migranti in lista di uscita. Le telefonate dalle prefetture ai gestori dei centri di accoglienza sono partite da giorni. Dopo le lettere e le convocazioni per annunciare la revoca dell’ospitalità ai titolari di protezione umanitaria nei Cara e Cas “conseguentemente” alla legge Salvini che non prevede più per loro il passaggio negli appartamenti degli Sprar, adesso i prefetti chiedono di conoscere le storie e le condizioni di vulnerabilità dei migranti in lista di uscita. Per evitare che sotto Natale l’Italia si trasformi in una gigantesca Betlemme con decine di famiglie con bambini lasciati in strada come già avvenuto in diverse città. Il Viminale frena dunque sulle espulsioni dal circuito dell’accoglienza di migliaia di immigrati regolari. Le prime indicazioni verbali sono già state date ai prefetti e nei prossimi giorni è attesa una circolare che regolamenti la transizione dalle vecchie alle nuove norme restrittive. D’altra parte i numeri dicono che solo negli ultimi due mesi 10mila migranti sono usciti dal circuito dell’accoglienza, 26mila da quando Salvini è ministro dell’Interno, un ritmo che va ben oltre le fisiologiche conclusioni dei progetti. Servizi sociali dei Comuni e privati, dalla Caritas alle associazioni di volontariato, sommersi da richieste di senzatetto con l’arrivo del gelo, non sono in grado di farsi carico di tutte le situazioni di particolare vulnerabilità, a cominciare da bambini e anziani. Ecco perché, nonostante le ripetute precisazioni di Salvini secondo cui nulla di tutto ciò sarebbe attribuibile alla sua legge, le prefetture hanno cominciato a inviare segnali di distensione, in qualche caso sospendendo le “espulsioni” già annunciate (come ad esempio al Cara di Mineo dove erano già state comunicate le date di sfratto) in altri casi concedendo dilazioni in attesa di trovare altre soluzioni o disponendo permanenze per persone con problemi di salute. Insomma per evitare che, ad esempio, ci siano altri casi come quello di un ragazzo senza una gamba messo in strada da un centro in provincia di Viterbo dove era ospitato in attesa che si liberasse un posto in uno Sprar dove adesso, conseguenza della legge Salvini, non ha più diritto di andare. Una frenata “consigliata” anche da un altro numero in notevole crescita, quello degli immigrati ai quali le commissioni che esaminano le richieste d’asilo hanno risposto con un diniego, 12.500 negli ultimi due mesi, una percentuale schizzata alla cifra record dell’80 per cento a novembre. E a cui fa da contraltare la fortissima discesa dei migranti ai quali, sempre a novembre, è stata concessa la protezione umanitaria, solo il 5 per cento a fronte di una media del 26 per cento negli anni e nei mesi scorsi. Verdetti che si tireranno dietro una raffica di ricorsi. Gli avvocati dell’Asgi ipotizzano la strada del Tar o del ricorso d’urgenza al giudice ordinario. “Nessuna delle domande finora esaminate è stata presentata dopo l’entrata in vigore della nuova legge - spiega l’avvocato Gianfranco Schiavone - e dunque avrebbero dovuto essere utilizzati i vecchi criteri”. E anche queste sono persone che, teoricamente destinate a tornare nei paesi d’origine, praticamente sono in massima parte destinate alla strada e ad ingrossare le fila dell’esercito dei clandestini. Perché i rimpatri, senza accordi (che non c’erano prima e non ci sono neanche ora), tra mille difficoltà burocratiche e con i posti dei pochi Cpr disponibili tutti occupati, restano una goccia nel mare. Nelle ultime settimane, grazie anche i voli di Frontex (l’agenzia europea) il Viminale ha accelerato. Matteo Salvini (che rivendica nei sei mesi del suo ministero un +28 per cento rispetto ai primi sei mesi del 2018) non intende chiudere l’anno con un saldo inferiore al 2017 quando i rimpatri forzati sono stati 6.514, qualche decina in più del conto complessivo del 2018. Al 9 dicembre il pallottoliere era fermo a 6.459. Premio Sakharov: “Sentsov simbolo dei prigionieri politici” Corriere Nazionale, 17 dicembre 2018 Il premio Sakharov per la libertà di pensiero è stato consegnato a Oleg Sentsov, regista ucraino e oppositore dell’annessione della Crimea alla Russia: “Rappresenta il simbolo della lotta per la libertà dei prigionieri politici”. Nei giorni scorsi il premio Sakharov per la libertà di pensiero è stato consegnato a Oleg Sentsov, regista ucraino e oppositore dell’annessione della Crimea alla Russia. Sentsov non ha potuto ricevere il premio di persona: sta scontando una pena di vent’anni in una prigione siberiana per aver “preparato atti di terrorismo” contro il dominio “de-facto” della Russia in Crimea. Sua cugina, Natalya Kaplan, e il suo avvocato, Dmitriy Dinze hanno rappresentato Sentsov durante la cerimonia a Strasburgo. Nel consegnargli il premio Sakharov il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ha dichiarato: “Sentsov viene premiato per la sua protesta pacifica contro l’annessione illegale da parte della Russia della Crimea, sua terra natale. Il premio gli viene attribuito anche per la sua determinazione e il suo impegno in difesa dei diritti e della dignità umana, della democrazia e dello stato di diritto. Su questi valori si fonda la costruzione europea. Ancor più oggi dopo il terribile attentato di Strasburgo. Questo Parlamento sarà sempre in prima linea per difendere la libertà e la dignità della persona, dentro e fuori l’Unione europea”. Antonio Tajani ha inoltre aggiunto: “Oleg Sentsov, con il suo coraggio, gli scioperi della fame, la sua prigionia, rappresenta il simbolo della lotta per la libertà dei prigionieri politici detenuti in Russia e nel resto del mondo”. Ricordando che il premio si inserisce nel contesto delle serie tensioni fra Russia e Ucraina, Tajani ha chiesto di fermare l’escalation di violenza e ha ripetuto il sostegno all’integrità territoriale dell’Ucraina. Ha chiesto il rilascio immediato e senza condizioni di Sentsov e di tutti gli altri cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia e in Crimea: “Perché il nostro non è solo un premio, ma un impegno che prendiamo con i nostri vincitori. Oggi voglio dire a tutti voi: non siete soli nella vostra lotta. Questo Parlamento sarà sempre al vostro fianco”. Nel ricevere il premio in nome del cugino, Natalya Kaplan ha descritto la giovinezza di Oleg Sentsov, il suo impegno contro l’annessione della Crimea e le torture e i maltrattamenti che ha subito dopo essere stato arrestato e condannato per cose che non ha mai commesso: “Oleg è una persona che non sta seduta in silenzio e abbandona. È un lottatore di natura”. Raccontando del suo sciopero della fame per il rilascio di tutti i prigionieri ucraini, Kaplan ha spiegato che “durante i 145 giorni di sciopero della fame nessun prigioniero politico è stato rilasciato, ma questa non è una sconfitta: grazie alle azioni di Oleg tutto il mondo ha parlato della repressione in Russia. Questa è la sua vittoria”. Kaplan ha concluso leggendo un messaggio da parte di Sentsov: “Non posso essere con voi ma potete ascoltare le mie parole. Anche se qualcun altro le pronuncia, la parola è lo strumento principale di una persona, specialmente quando tutto il resto gli è stato tolto”. Il Presidente Tajani ha ricordato gli altri finalisti al premio Sakharov 2018: Nasser Zefzafi, attualmente in prigione, rappresentato dai suoi genitori, e i rappresentanti di 11 ONG che salvano le vite dei migranti del Mediterraneo. Ricordando che il premio Sakharov festeggia il suo trentesimo anniversario, Tajani ha detto che il premio “ha sostenuto individui ed organizzazioni che si dedicano anima e corpo alla difesa della giustizia, anche a rischio della propria incolumità. Cinque dei vincitori del premio Sakharov sono stati insigniti del Premio Nobel per la Pace. Proprio lo scorso lunedì Denis Mukwege e Nadia Murad hanno ricevuto questo importante riconoscimento”. L’annuncio della premiazione di Oleg Sentsov per il premio Sakharov 2018 è stato dato dal Presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani il 25 ottobre. Tailandia. Denis Cavatassi assolto: era stato condannato alla pena di morte La Repubblica, 17 dicembre 2018 La notizia è stata confermata dal ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi: “Denis rientrerà presto a casa in Italia e potrà riabbracciare i suoi familiari”. Il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Enzo Moavero Milanesi, conferma l’assoluzione da parte della Corte Suprema thailandese del cittadino italiano Denis Cavatassi, detenuto in Thailandia dal 2011 e condannato alla pena di morte nel 2016. Brasile: Caso Battisti, la polizia diffonde foto con 20 possibili travestimenti Corriere della Sera, 17 dicembre 2018 L’ex terrorista, condannato per 4 omicidi, doveva essere estradato in Italia ma ha fatto perdere le su tracce. Secondo fonti interne, si troverebbe nello Stato di San Paolo. Con il cappello, senza berretto, con la barba, con i baffi, o senza barba e baffi: sono tante le varianti dei travestimenti di Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, scomparso dalla sua casa di Caianeia, località della costa di San Paolo dove si era trasferito da tempo. La polizia federale brasiliana ha diffuso in serata 20 foto segnaletiche con la simulazione di altrettanti possibili travestimenti con cui l’italiano potrebbe tentare di sfuggire al mandato d’arresto del Supremo tribunale federale di Brasilia. La polizia ha invitato chiunque abbia informazioni su Battisti a contattare le autorità per telefono o mail, con “anonimato totalmente rispettato”. Venerdì il presidente uscente, Michel Temer, ha firmato il decreto per l’estradizione in Italia di Battisti. “Secondo le ultime notizie si trova nello Stato di San Paolo”, ha riferito una fonte. Uno degli amici italiani di Battisti ha raccontato a Globo.com di averlo accompagnato in macchina a San Paolo da dove avrebbe proseguito per Rio de Janeiro. Ma sulle possibili mosse successive è buio fitto. Magno de Carvalho, il dirigente sindacale che gli ha prestato la sua prima casa a Cananeia, si è limitato a raccontare alla stampa che l’ultima volta che l’ha sentito è stata la settimana scorsa, quando gli “ha detto che doveva andare a Rio, per parlare con l’editore del libro che sta scrivendo”. E restano in attesa anche gli agenti italiani che si trovano già in Brasile per prendere in consegna l’ex terrorista, condannato all’ergastolo per quattro omicidi, e riportarlo in Italia. “Se, nelle prossime ore, mi arrivasse un invito per andare a prendere un aereo per riportare in Italia un terrorista che ha morti e morti sulla coscienza e che non deve starsene in spiaggia in Brasile ma in galera in Italia, io prenderei al volo”, ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Battisti, condannato in contumacia nel 1993, era evaso dal carcere di Frosinone nel 1981. Fuggito prima in Francia, poi in Messico, poi di nuovo in Francia dal 1990, nel 2004 era arrivato in Brasile. Qui è stato arrestato nel 2007, ma nel 2009 ha ricevuto asilo politico e il 31 dicembre del 2010 l’allora presidente Lula, nell’ultimo giorno di mandato, ha bloccato l’estradizione. L’ultimo arresto risale all’ottobre del 2017 alla frontiera con la Bolivia, con l’accusa di violazione delle norme sulle valute straniere e riciclaggio di denaro. È stato rilasciato poco dopo. Venerdì la difesa dell’italiano ha anche depositato un ricorso contro l’arresto, spiegando ai microfoni di Rai Radio1 che è legato alla “precedente decisione dell’allora presidente Lula, 8 anni fa, di non concedere l’estradizione”. Ma il neo presidente brasiliano, il politico d’estrema destra Bolsonaro, ha più volte promesso di riconsegnare Battisti all’Italia. Marocco. Processo d’appello per le proteste del Rif di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 dicembre 2018 Quarantatré imputati - tra cui leader delle proteste, giornalisti e semplici manifestanti - condannati in primo grado in relazione alle proteste pacifiche del movimento Hirak El-Rif per la giustizia sociale, affrontano oggi la seconda udienza del processo d’appello. Le proteste del movimento Hirak El-Rif erano iniziate nell’ottobre 2016 nella città di Al Hoceima e nelle zone circostanti, dopo che il pescivendolo ambulante Mouhcine Fikri era morto all’interno di un camion dell’immondizia nel tentativo di recuperare il pesce che gli era stato sequestrato dalle autorità locali. Tra maggio e luglio del 2017 le forze di sicurezza marocchine hanno arrestato centinaia di manifestanti del movimento, tra cui El Mortada Iamrachen e Nawal Benaissa, comprese decine di minorenni. Nel giugno di quest’anno, 54 imputati sono stati giudicati colpevoli di vari reati contro la sicurezza in relazione e hanno ricevuto dure condanne, in alcuni casi fino a 20 anni di carcere per “complotto contro la sicurezza dello stato”. Ad agosto 11 condannati hanno ottenuto la grazia reale. Per gli altri 43 è iniziato il processo d’appello. Dei 43 imputati di fronte al tribunale d’appello, quattro sono stati rilasciati con la condizionale a giugno e luglio del 2017. I restanti 39 si trovano nella prigione Ain Sabaa 1 (Okacha) di Casablanca. Tra di essi vi sono Nasser Zefzafi, il leader del movimento Hirak El-Rif, altri noti manifestanti pacifici come Najil Hamjike, Mohamed Jelloul e Achraf Yakhloufi, i giornalisti Hamid El Mahdaoui e Rabie Lablak e i cittadini-giornalisti Mohamed El Asrihi, Rabie Lablak, Hussein El Idrissi, Fouad Essaidi e Abd El Mohcine El Attari. Un’analisi effettuata da Amnesty International ha rivelato tutta una serie violazioni del diritto a un processo equo, tra cui “confessioni” estorte con la tortura e poi utilizzate per condannare gli imputati. Ai fini della sua analisi, Amnesty International ha intervistato sei avvocati della difesa e dell’accusa e sei famiglie di detenuti; ha esaminato i capi d’accusa, gli argomenti presentati dall’accusa, il verdetto del tribunale e documenti relativi al processo redatti da organizzazioni nazionali e internazionale e da organi d’informazione. Queste informazioni hanno portato Amnesty International a concludere che il procedimento giudiziario di primo grado è stato profondamente irregolare e che le accuse si sono basate su prove discutibili. Nessuno degli arrestati ha potuto avere immediato accesso agli avvocati. Il loro trasferimento a oltre 600 chilometri da Casablanca ha reso difficili la preparazione di una difesa adeguata e le visite familiari. Parecchi imputati hanno dichiarato di aver firmato “confessioni” dopo essere stati torturati o aver subito minacce di tortura. Nasser Zefzafi ha dichiarato di fronte alla Corte d’appello di Casablanca che gli agenti di polizia lo hanno picchiato successivamente all’arresto e hanno minacciato di stuprare la sua anziana madre di fronte a lui. Il giornalista Rabie Lablak ha denunciato che gli è stato messo in bocca uno straccio imbevuto di un liquido dal sapore disgustoso, che è stato denudato e portato di fronte a uomini dal volto coperto che hanno minacciato di stuprarlo e poi lo hanno effettivamente fatto con una bottiglia, se non avesse firmato la “confessione”. Gli interrogatori sono stati condotti in arabo e anche i verbali sono stati redatti in quella lingua, che 22 degli arrestati, originari di una regione dove si parla amazigh, non parlano o parlano in modo assai carente. Per raggiungere il verdetto, il tribunale si è unicamente basato sulle “confessioni”, ammesse come prove nonostante fossero state tutte ritrattate nel corso del processo. Gli imputati hanno definito inumane le condizioni delle carceri, dove alcuni di loro hanno trascorso lunghi periodi in isolamento: Nasser Zefzafi per oltre 15 mesi, Hamid El Mahdaoui per più di 470 giorni, periodi di tempo equivalenti a tortura. Il tribunale di primo grado non ha messo a disposizione della difesa i principali elementi d’accusa presentati dalla procura, tra cui video e post pubblicati sui social media. Sono state rifiutate le deposizioni di oltre 50 testimoni della difesa e, su un totale di 34 testimoni ammessi, solo 12 erano della difesa. La richiesta di Amnesty International alle autorità marocchine è che il processo d’appello rimedi a tutte le irregolarità di quello di primo grado.