Santo Natale di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 16 dicembre 2018 Lo scorso 5 dicembre il Capo del Dap, Francesco Basentini, ha redatto le linee programmatiche che dovranno ispirare la prossima azione del Dipartimento. In perfetta “simbiosi e sintonia con la strada segnata dal Ministro della Giustizia”, è possibile leggere, a chiare lettere (anche se la prosa risulta davvero oscura, sin dalla prima pagina),quali saranno le idee ispiratrici della detenzione, ora che è stato sfondato il tetto delle 60.000 presenze, e i morti son già 63. La premessa è che occorre “un nuovo approccio” (pg. 2), tralasciando la necessità di “impiego di poderose risorse economiche”. “Molti atti possono presentare elementi contenutistici di riservatezza o di modesta divulgabilità” (pg. 5), e dunque si invita alla prudenza. Si opina sulla “capillarità diffusa su tutto il territorio nazionale delle strutture penitenziarie… alcune delle quali caratterizzate da una limitata capienza (al di sotto delle 50 unità operative), tanto da apparire assolutamente antieconomiche”, di tal che la loro permanenza, qualora non venissero adottati interventi di ampliamento, dovrebbe essere seriamente rivista” (pg. 6). Meglio carceri grandi, grandi scatole dove custodire corpi, con buona pace del riaffermato principio della territorialità della pena. Meglio “modelli organizzativi a contenuto standardizzato”, con “referenti interni per la comunicazione e selezione delle informazioni e notizie utili, soprattutto in tema di aggressioni ed eventi critici, da portare all’attenzione dell’Ufficio stampa del Ministero della Giustizia per la eventuale divulgazione all’esterno”. Cancellata la documentazione fotografica dall’art. 11, ridotta ad eventuale la divulgazione all’esterno, il carcere si chiude sempre più in se stesso, cercando “nuove metodologie di gestione degli eventi critici e delle aggressioni”, anche con l’insegnamento di tecniche di autodifesa” (pg.12), in attesa del taser. Ancora. Per ovviare alle spese di traduzione, si propongono “videoconferenze e partecipazione a distanza nelle udienze di convalida anche per i detenuti arrestati”(pg.15), destinando il risparmio di uomini e risorse economiche per “assumere più personale di polizia penitenziaria che assiste a distanza alle udienze”. Dunque, tutto intramoenia; senza l’habeas corpus. Anzi, già che ci siamo, occorre “unificare la carriera dei funzionari di Polizia Penitenziaria con quella del restante personale dirigenziale, inquadrando quest’ultimo nei ruoli della Polizia Penitenziaria” (pg. 16). I detenuti, questi sconosciuti, compaiono a pg. 17, ove si afferma la necessità di adozione di “protocolli unici” (una vera ossessione) per la loro “gestione”, trattandosi di “una risorsa dell’Amministrazione Penitenziaria”. Carcere e fabbrica. Ma non basta. Pur riconoscendo l’esclusiva competenza delle autonomie regionali, “per superare il torpore in cui versa l’intero sistema” si sollecita l’adozione di interventi anche per quanto riguarda le Rems (con buona pace dei principi ispiratori della L 81/2014). Quanto al sovraffollamento, la “soluzione ottimale potrebbe senza dubbio derivare dalla realizzazione di nuovi istituti”; nel mentre (qualche decennio), si propone la predisposizione di “brochure illustrative”, giacché una delle cause dell’overcrowding consisterebbe nel “difetto, da parte dei detenuti, delle conoscenze giuridiche e processuali necessarie” per richiedere ed accedere alle misure alternative. Ci sarebbe da ridere, se non facesse piangere (così come il neologismo di “microsovraffollamento” - pg. 20). Per migliorare “la qualità di vita”, sovente dipendente da “esigenze quotidiane piuttosto elementari”, si propone l’oppio dei popoli, “la visione allargata dei canali televisivi” (pg. 20). Tutti in cella, a guardar la tv, e niente Sorveglianza dinamica, che “può essere una delle cause scatenanti il fenomeno delle ripetute aggressioni” (pg. 21), cui ovviare con la sorveglianza particolare, o con i trasferimenti. Ma non finisce qui. Siccome occorre debellare “il fannullismo detentivo, uno dei mali essenziali che brulicano nelle sezioni aperte”, veri e propri focolai di dannati oziosi e vagabondi, “soccorre l’istituto del lavoro di pubblica utilità” (pg. 23),naturalmente gratis; il lavoro rende liberi, purché non sia “cannibalizzante”, rivolgendosi ad esempio a “pulizia e manutenzione degli uffici pubblici dell’Amministrazione della Giustizia”. Lavori domestici, dotati di “basso profilo tecnico”. Questo il cambiamento. Attila in carcere, come alla prima della Scala a San Vittore, con uomini e donne che stanno a guardare. Uomini e no. Tra qualche giorno comincerà il rituale delle feste, e qualche anima bella varcherà le porte, sempre più chiuse, recitando litanie. Buon Natale a tutti. *Avvocato L’estremista in cella peggiora, serve proprio un altro carcere di Ferdinando Camon Avvenire, 16 dicembre 2018 Il killer di Strasburgo era solo, non faceva parte di una rete. Lo dice il ministro dell’Interno francese. Lo avevano già processato e condannato più volte, ma in prigione questi estremisti non si correggono, anzi diventano più estremisti. La prigione è il luogo e lo strumento che la Giustizia usa con lo scopo di convertire e riconciliare con la società i nemici della società, e invece diventa spesso il luogo e lo strumento con cui i nostri nemici diventano più nemici. Non ho visitato prigioni francesi, ma ho visitato prigioni italiane. Non sono fatte per migliorare il detenuto. Son fatte per “macerarlo”. Una cella per due detenuti ne contiene 6, una stanzetta per due brandine contiene due letti a castello, con 6 posti. Non separato ma dentro la stanzetta sta il water, esposto come un tronetto. Nella stanzetta non c’è niente da fare. Sicché se uno si siede sul water, gli altri cinque lo guardano. Gli islamici sono pudichi, e nelle loro cellette ho visto la lampadina che pende dal soffitto fasciata con tela juta, in modo che la luce nella stanza diventi penombra. È l’unico modo che hanno per creare un po’ di privacy. L’intimità è abolita, come tra animali. La condanna ad alcuni anni di carcere diventa la condanna ad alcuni anni di animalizzazione. Finita la condanna, quando il condannato è diventato un perfetto animale, lo rimettono fuori. È redento? No, è de-socializzato. In carcere non ha imparato niente socialmente, civilmente, culturalmente, professionalmente. Il carcere non è un luogo di tortura, la tortura consiste nella non-vita. L’ozio e l’isolamento creano un altro mondo, giorno dopo giorno il carcerato perde il contatto col nostro mondo. In carcere non si sente rieducato ma abbrutito. In un giornale leggo che due islamici su tre si radicalizzano. È il loro modo di salvarsi. Radicalizzandosi, si difendono dall’oppressione che sentono in carcere, e si preparano a vendicarsi sulla società che crea le carceri. Sono colpevoli, ma si sentono in credito. In carcere si sentono impotenti, la radicalizzazione gli ridà potenza. In carcere si sentono impauriti. Radicalizzandosi entrano a far parte del mondo che impaurisce il nostro mondo. In prigione sei uno senza niente, radicalizzandoti sei uno con una fede. Si guarda sempre se il radicalizzato che spara e uccide è disoccupato, se patisce la fame, lui o i suoi fratelli. Si cerca una spiegazione ai morti che lui semina nei torti che lui patisce. Sì, è importante. Quell’area di Strasburgo è ad alta disoccupazione, e quindi ad alta produzione di contestatori violenti. Ma il radicalizzato si vendica anche dei torti che ritiene di aver già patito, le sparatorie che fa in giro per l’Europa hanno un movente retroattivo, nell’ozio autodistruttivo del carcere ha covato una furia che adesso sfoga. Dicono i giornali che la nostra salvezza sta nell’intelligence: scoprirli prima che facciano del male. Ma non li avevamo già sotto controllo? Non abbiamo le carceri piene di potenziali nemici? Se le nostre carceri, invece di correggerli, li peggiorano, non sono le carceri che dovremmo cambiare? Prison Fellowship. La redenzione di chi è in cella parte dal lavoro Avvenire, 16 dicembre 2018 Un cammino di risocializzazione secondo i “passi” della responsabilità, del pentimento, della riconciliazione, dove autori e vittime di reati si incontrano, all’interno del carcere. Si declina così il progetto “Sicomoro”, tramite cui Prison Fellowship opera in Italia e il cui programma, già attuato anche all’estero, sta dando risultati straordinari attraverso la costruzione di una giustizia più “giusta”. Il confronto tra i detenuti e le vittime di reato genera nelle due parti un processo di guarigione dal dolore e dalle paure causati dalle violenze inferte e subite. Sempre a favore del recupero della dignità dei carcerati, ex carcerati e delle loro famiglie, agisce il Polo di eccellenza di promozione umana e della solidarietà “Mario e Luigi Sturzo”, Opera sociale che guarda alle povertà del mondo carcerario, situata presso il Fondo rurale storico che fu della venerata famiglia Sturzo (oggi di proprietà della diocesi di Piazza Armerina), nell’agro di Caltagirone. In questa che si configura come una sorta di cittadella imperniata sui valori della dottrina sociale, rivive la sua difesa dei diritti dei lavoratori, in special modo degli agricoltori e degli operai specializzati così come volle il fondatore del Partito Popolare Italiano. Dalla terra all’artigianato, dal turismo alla cultura locale, sono sorte così diverse attività, con l’impegno di chi ha sperimentato o tuttora affronta l’esperienza della detenzione. Famiglia, Chiesa, Cultura e Lavoro sono i quattro cardini su cui si impernia la mission del Polo di eccellenza “Sturzo”, affinché ogni uomo si formi e si relazioni realizzando la propria personalità. In particolare, il Centro può vantare: un’azienda agricola per la coltivazione e produzione di olio, agrumi, mandorle e piante officinali; una struttura di accoglienza per minori, la Casa Zingale-Aquino di Aidone che, dal 2011, accoglie stranieri immigrati minorenni; la società di produzione Majolik dedicata al confezionamento di gioielli preziosi e ceramiche artistiche; la Casa Museo Sturzo, per il recupero del luogo natio del prete e statista di Caltagirone e del di lui fratello e vescovo Mario. “Spetta alla società civile - afferma Salvatore Martinez, Presidente della Fondazione “Istituto di promozione umana Mons. Francesco Di Vincenzo”, che ha dato vita al Polo di Eccellenza Sturzo, e della Fondazione “Casa Museo Sturzo” - favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Occorrono azioni sistemiche, che impegnino le migliori risorse delle nostre comunità in regime di sussidiarietà orizzontale. La recidiva, che in Italia supera anche l’80 %, può essere vinta solo se guardiamo al mondo carcerario e ai drammi di migliaia di famiglie con occhi nuovi che non discriminano e con cuori coraggiosi capaci di vincere il male”. Come si fabbrica la cattiveria di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2018 Che rapporto può esserci tra un’Italia che vuol dare subito un reddito ai più poveri e un’Italia, la stessa, che caccia con ruspe e truppe armate quelli ancora più poveri dai rifugi “di fortuna” che si erano trovati? Che legame si può trovare tra un’Italia che vuol essere creduta e rispettata e la frase umiliante “Prima gli italiani” che racconta di gente rozza e prepotente, che vuole comunque passare avanti non per merito ma per “razza”? Come non vedere che non si può volere il reddito di cittadinanza per evitare che qualcuno patisca la fame e poi decretare la fame quotidiana per i bambini non italiani delle scuole di Lodi? Quando qualcuno protesta, sia pure il procuratore capo di Torino, il ministro dell’Interno gli grida subito: “Prima si faccia eleggere”. È una frase dal significato misterioso perché, da un lato, ci sono diversi compiti e diritti che consentono di prendere la parola e, dall’altro, c’è la Costituzione che dà quel diritto a tutti, non solo alla casta. Ma a questa casta adesso appartiene, con evidenti brividi di ebbrezza, lo stesso ministro degli Interni che maltratta il procuratore e poi si guarda intorno soddisfatto. Visto che adesso posso? In caso di obiezione sullo strano comportamento, l’esuberante leader della casta del cambiamento risponderebbe ancora una volta: “Fatti eleggere prima di parlare”. Giusto. Infatti Mimmo Lucano, di Riace, era stato regolarmente eletto dai suoi cittadini alla carica-simbolo di tutte le cariche elettorali: il sindaco. Ma eletto o non eletto, il sindaco non aveva detto la cosa giusta. Non in questa Italia del cambiamento. Il più eletto di tutti aveva una sua idea dei profughi e migranti (salvarli tutti, accoglierli tutti), che non coincideva con l’idea di lavorare insieme con i torturatori libici instaurata prima dal ministro Minniti, e poi, con energia raddoppiata, dal nuovo leader della casta, della Lega e del ministero dell’Interno. E allora il sindaco è stato arrestato. Dopo l’arresto, benché senza imputazioni, è stato allontanato dalla sua città, con l’obbligo di non ritornare, come si fa con i sindaci in odore di mafia. Giunge notizia che varie facoltà italiane di Giurisprudenza, e in alcune scuole di Legge in Europa, abbiano dato vita a seminari (forse a “master”) sui fatti di Riace, per spiegare come si possa esiliare un sindaco eletto. Oppure come si riesca a lasciar trascorre mesi (tutto è cominciato il 2 ottobre) senza consentire a un cittadino eletto e incensurato di difendersi e - data l’assurdità della vicenda - tornare a governare, in base al voto ricevuto e tuttora in assenza di reato. Negli stessi giorni l’ex capo di gabinetto del sindaca di Roma Raggi è stato condannato in primo grado a tre anni di reclusione. Certo, si trattava di governare Roma con decenza e non di fermare in mare rifugiati e immigrati da consegnare subito ai campi di tortura libici. Per incorniciare gli eventi occorre ricordare che all’inizio di tutto questo massacro giuridico e costituzionale c’è la legge Bossi-Fini, sulla quale ancora ora si misurano i “reati” degli “stranieri” e si riempiono le carceri italiane, già strapiene, di persone che non sanno neppure di cosa sono imputate. Chiude la scena, e l’esistenza di una civiltà italiana, la Legge detta della Sicurezza, approvata in un giorno, che invece riguarda quasi solo l’immigrazione. Questo scambio malevolo basta per creare una cattiveria automatica che non potrà non orientare la burocrazia e i suoi funzionari, persino quelli inclini a comportarsi con umanità. E naturalmente servirà a orientare al peggio i cittadini. Tutto, in questa legge, ti fa capire che sarai apprezzato solo se neghi, perseguiti, insulti, maltratti e arrivi con la ruspa (simbolo della nuova Italia del cambiamento), dopo aver tagliato o abolito ogni aiuto o contributo alla sopravvivenza. Importante è non voler sapere, dove dare un tetto a chi viene cacciato in piena notte e nonostante la presenza di molti bambini. Sulla strada i rifugiati, diventando illegali, “disturbano” i cittadini. E i giornali, con uno spunto di fierezza annunciano la nuova “stretta” o il nuovo “pugno di ferro” sugli immigrati. Il Censis ci avverte che siamo diventati cattivi. È avvenuto seguendo l’esempio e le regole di chi ci governa. Una giovane studiosa americana che ha trascorso mesi in Italia (questa Italia cattiva descritta con costernazione dai ricercatori e da Amnesty International) racconta com’è nata la tragedia del linciaggio in America, dopo che i neri non più utilizzabili per il lavoro (fine dello schiavismo) sono stati abbandonati, poveri e senza casa, per le strade d’America. Una sicurezza immaginaria per conquistare il popolo impaurito di Giovanni De Luna La Stampa, 16 dicembre 2018 Le discriminazioni che affiorano nel “decreto sicurezza e immigrazione” hanno rilanciato nella polemica politica il richiamo al fascismo mussoliniano e alle spinte razziste che culminarono nelle leggi antiebraiche del 1938. Il termine era stato già usato nel passato, spesso a sproposito, e proprio alla luce di questi precedenti oggi si è un po’ tutti ostaggi della favola di Esopo, quella del pastore che gridava “al lupo, al lupo!”: da un lato c’è il timore di non riconoscere per tempo una malattia che sarebbe mortale per la nostra democrazia, dall’altro quello di lanciare l’ennesimo allarme sbagliato e di ritrovarsi inermi quando e se il lupo arrivasse davvero. È un fatto, però, che certe pulsioni biopolitiche presenti nel decreto propongono uno scenario inedito nella storia recente della destra italiana. Nel patto di cittadinanza che sorregge le costituzioni democratiche e liberali, oggetto della sovranità dello Stato è l’uomo come attore politico, non l’uomo come semplice essere vivente, con la sua nuda vita e la sua fisicità corporea. Solo la smisurata statualità dei totalitarismi novecenteschi si era spinta, con i lager, a impadronirsi anche dei corpi dei deportati, riducendoli a esseri biologicamente animali. Ora, nel decreto, l’esclusione degli immigrati passa proprio attraverso la loro spoliazione di tutti i “segni” della cittadinanza (anagrafi, passaporti, permessi di soggiorno, licenze e diplomi scolastici) così che a definirli restano solo i marchi della loro fisicità (le impronte digitali, le fotografie delle schedature, i corpi “palestrati” della nave Diciotti, gli scheletri viventi ammassati nei campi libici). Di colpo decine di migliaia di persone hanno smesso di essere attori politici. Oltre a questa, nella destra che ha indicato in Matteo Salvini il proprio leader indiscusso ci sono molte altre novità rilevanti. Nei primi due decenni della Seconda Repubblica, nello schieramento che si riconosceva in Berlusconi (e Bossi) erano molti gli elementi che aiutavano a decifrarne l’identità politica e culturale: la leadership carismatica del “capo” era il nucleo centrale di un’operazione per la quale i valori venivano a coincidere con gli interessi, da difendere con un’aggressività direttamente proporzionale alla paura di vederli messi a rischio da un “nemico” (di volta in volta lo Stato, il fisco, l’Europa, la globalizzazione, i meridionali, gli extracomunitari e, perfino - agli inizi - i comunisti!). Fu allora che affiorò un tumultuoso “estremismo di centro”, con il centro politico e sociale del nostro paese, tradizionalmente caratterizzato da un cauto moderatismo, che indossò i panni di un inedito radicalismo, scoprendo forme di mobilitazione collettiva in passato appartenute prevalentemente ai movimenti di sinistra (proteste di piazza, occupazioni stradali, con i “Cobas del latte” di allora che anticipavano i gilet jaunes francesi di oggi). Anche il progetto politico era chiaro, caratterizzato dal tentativo di ridurre il peso contrattuale della massa dei salariati, abbassare il costo del lavoro, diventato precario e flessibile, grazie all’abolizione degli ammortizzatori sociali, trasformare la scuola, la sanità, le pensioni da servizi a cui si aveva diritto in beni privatizzati da “acquistare”. Non si trattava certo di una destra liberale in senso classico, anche se era ispirata da una concezione quasi religiosa del mercato, giudicato perfetto in sé, in grado di autoriformarsi e autoregolarsi. Tutto questo, dopo la crisi del 2008, ha subito un vistoso appannamento; il mercato ha mostrato le sue crepe e il mito della perfezione è andato in frantumi travolgendo molti degli “interessi” che si erano sostituiti ai “valori”. Nella destra di Salvini è rimasta certamente la ricerca di un nemico a tutti i costi, ma questa volta sono soprattutto i “poteri forti”, la finanza, le multinazionali a indirizzare verso l’alto l’aggressività che verso il basso viene rivolta contro gli immigrati. Il sovranismo di oggi, con la sua idea di economia nazionale, indica così un percorso nel quale la difesa dei propri interessi economici si coniuga con la ricerca dei valori in grado di tutelarli al meglio, in questo senso consapevole della insufficienza della “religione del mercato”. Fino al 2008 lo slogan “meno Stato più mercato” auspicava una cura dimagrante, in grado si snellire l’ipertrofica dimensione che il ruolo dello Stato aveva assunto nel 900. Adesso invece la statualità della politica si ripropone con forza sia nella destra leghista sia nel composito universo dei Cinque stelle. Con qualche differenza: per Di Maio, lo Stato è solo quello chiamato ad amministrare la cosa pubblica, un attento rapporto costi/benefici, senza una progettualità politica riconosciuta, con un patto di cittadinanza fondato sullo scambio consenso-sussidi; per Salvini, il ripristino della sovranità dello Stato ignora il “patto di cittadinanza” sul quale, nel welfare novecentesco, si sono fondate le democrazie occidentali, proponendone uno di tipo securitario che esclude ogni aspetto di solidarietà e condivisione, fondandosi esclusivamente sullo scambio consenso-protezione. Uffici di prossimità e riforma della giustizia di Davide Mura studiocataldi.it, 16 dicembre 2018 I ministro Bonafede propone gli uffici giudiziari di prossimità. L’impressione è che si tratti dell’ennesimo tentativo di prendere tempo davanti all’urgenza di una vera riforma della giustizia. Il ministro della Giustizia, Bonafede, vuole aprire gli uffici giudiziari di prossimità nelle strutture pubbliche, tra le quali gli ospedali, per avvicinare la giustizia ai cittadini. Tra i servizi che verrebbero offerti, la predisposizione di atti che non richiedono l’ausilio di un legale, l’invio di atti telematici e le informazioni sugli istituti di tutela giuridica. Il tutto, sfruttando i fondi europei e l’uso di edifici dismessi. A leggerla così, sembrerebbe una buona cosa, ma l’impressione è che si tratti dell’ennesimo tentativo di prendere tempo. Da anni, infatti, il comparto richiede profonde e serie riforme, quali il ripristino degli uffici dei giudici locali (questi sì i veri uffici di prossimità cancellati dai governi precedenti), una reale riforma della magistratura che separi definitivamente le carriere di giudici e pubblici ministeri (pur salvaguardando l’operatività dell’art. 101 Cost. anche per i pubblici ministeri), il potenziamento degli uffici giudiziari che velocizzi le procedure amministrative collaterali. E non certo per ultima, una riforma “decente” del processo civile, con un nuovo codice di procedura civile, che se da una parte semplifichi il contenzioso, dall’altra non sia l’ennesima trovata per “privatizzare” la giustizia. E invece che fa il Governo? Propone l’allungamento sine die dei processi penali, cancellando la prescrizione dopo il primo grado (seppure attualmente la riforma è messa nel cassetto) e s’inventa gli uffici di prossimità. Palliativi e criticità ulteriori che non risolveranno di un millimetro il problema del mal funzionamento della macchina giudiziaria, e che anzi potrebbero persino aggravarla, unitamente a uno stato pietoso dell’avvocatura, oggi come non mai “piagata” dalla crisi economica e da una legge professionale inadeguata e per certi versi iniqua e violativa del ruolo unico dell’avvocato nelle dinamiche processuali ed extraprocessuali. E in argomento v’è da dire che il Ministro non sembra particolarmente interessato a mettere mano alla legge professionale, magari cancellando o riformando i capisaldi più controversi della legge 247/2012 quali per esempio quelli cristallizzati nell’art. 21. Alla luce di quanto detto, è chiaro ed è incontrovertibile che gli uffici di prossimità rappresentino l’ennesimo tentativo di sfuggire alla necessità di riordinare il comparto giustizia secondo i canoni costituzionali, garantendo al cittadino una difesa immediata, pronta, efficace e non eccessivamente onerosa (gratuita per i meno abbienti); soprattutto, però, pubblica e non legata ai fantasiosi istituti “americani”, quali la mediazione e peggio, la negoziazione assistita, che peraltro - ed è bene ricordarlo - pongono a carico dell’avvocato e dunque della difesa oneri e rischi che normalmente dovrebbero essere posti a carico dello Stato. In questo contesto di critica, infine, non si può dimenticare certo il processo telematico, il sistema più farraginoso, oneroso, criptico, burocratico e costoso mai concepito, che avvilisce la professione forense e il diritto di difesa del cittadino. Sistema che invece richiederebbe un portale web unico di accesso, con credenziali o firma digitale, nel quale gli avvocati possano depositare i loro atti telematici senza la necessità di acquistare servizi a pagamento che aggravano i costi dello studio che, giocoforza, si ripercuotono sul cittadino. Blocco della prescrizione: avvocati in sciopero. L’Amn a Bonafede: “Ascoltateci” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 dicembre 2018 Lunedì e martedì i penalisti si asterranno dalle udienze. Incontro nazionale a Bari. Non è bastata la lettera inviata una settimana fa a tutti i senatori dal presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza, per spiegare loro perché avvocati e giuristi considerano l’interruzione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio (anche in caso di assoluzione), inserita nel ddl anticorruzione che diventerà legge probabilmente la prossima settimana, “una bomba atomica” sul sistema, come l’ha definita perfino la leghista Giulia Bongiorno. Né è bastato il parere del Consiglio superiore della magistratura che ha avvisato il governo dell’inutilità di questa controriforma senza rimettere mano all’intero sistema. Ancora ieri, dalle colonne del Corriere della Sera, il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede ha ripetuto che su questa garanzia, necessaria in un processo penale come il nostro, non sente ragioni e andrà avanti come un treno. Ecco perché lunedì e martedì prossimi gli avvocati penalisti italiani si asterranno di nuovo dalle udienze e da ogni attività giudiziaria, tranne che per i processi a rischio prescrizione o con imputati detenuti. Una protesta che si concluderà martedì 18 con una manifestazione nazionale presso l’Università di Bari dal titolo “Per il diritto alla ragionevole durata del processo”, per sottolineare “i plurimi profili di irrazionalità e di incostituzionalità” della controriforma voluta dal M5S. Anche l’Associazione nazionale dei magistrati (seppure non contraria al blocco della prescrizione) è tornata a chiedere al Guardasigilli di ascoltare le loro richieste: “Con gli avvocati penalisti ci siamo trovati d’accordo su una serie di possibili interventi - ha spiegato ieri il presidente Francesco Minisci - come il rafforzamento dei riti alternativi e una seria depenalizzazione, della quale abbiamo discusso anche con il ministro Bonafede”. Ma sul no alla depenalizzazione di reati che, come spiega l’Anm, servono solo ad “affollare le scrivanie e distogliere le energie dai procedimenti seri e di maggior allarme”, grillini e leghisti sono in perfetta sintonia. Fine processo mai. I gialloverdi creano l’imputato a vita di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 16 dicembre 2018 Il ministro Bonafede, per difendere la riforma della prescrizione, ha fatto ricorso a un’argomentazione apparentemente ineccepibile. A chi gli ricordava che non solo gli avvocati, ma lo stesso Csm sono contrari perché il blocco definitivo dopo la sentenza di primo grado inciderà poco, visto che la quasi totalità dei procedimenti si prescrive nella fase delle indagini preliminari, ha risposto testualmente: “Ho chiesto io quei pareri, ma non li condivido, e alla fine il Parlamento è sovrano e decide liberamente”. Certo che il Parlamento è sovrano, ci mancherebbe altro, ma allora che senso ha avuto calendarizzare decine di audizioni in commissione, se poi si tira dritto senza tenerne alcun conto? Se due lobby antagoniste muovono le stesse obiezioni, significa che qualche fondamento c’è sugli effetti negativi di questa riforma. Ma il ministro si fa forte di un altro argomento anch’esso a suo modo ineccepibile: “Quella riforma era prevista nel contratto di governo, collegata a nuovi investimenti nel settore giustizia”. Peccato che, sul punto specifico, il contratto con la Lega sia assai vago: “E necessaria una efficace riforma della prescrizione dei reati, parallelamente alle assunzioni nel comparto giustizia: per ottenere un processo giusto e tempestivo ed evitare che l’allungamento del processo possa rappresentare il presupposto di una denegata giustizia”. Una formulazione generica, come si vede, a cui poi la maggioranza ha dato un’impronta del tutto arbitraria perché il blocco della prescrizione dopo il primo grado va esattamente nella direzione opposta di quella che dovrebbe garantire un processo “giusto e tempestivo”. Un’interpretazione giacobina che cancella in un colpo solo sia la presunzione di innocenza, sia la ragionevole durata del processo, e che inserisce surrettiziamente nel nostro ordinamento la figura dell’imputato a vita. C’è una lunga - e spesso drammatica - casistica che smentisce il teorema Davigo-Bonafede secondo cui ci sono tante inchieste e poche sentenze solo perché esiste la prescrizione. Le cause vere vanno ricercate piuttosto nell’endemica inefficienza della giustizia italiana e nell’apertura di troppi procedimenti che non avrebbero nemmeno i presupposti per essere aperti. E poi, il “contratto” sulla prescrizione era talmente condiviso che l’avvocato-ministro Bongiorno ha paragonato la riforma a una “bomba atomica” sui processi, anche se alla fine la ragion politica l’ha indotta a rientrare nei ranghi. Gli effetti del blocco della prescrizione - previsto dal 2020 - dovrebbero essere mitigati da due clausole di salvaguardia, una scritta e l’altra rimasta invece nella penna del legislatore: la previsione di 600 magistrati in più negli organici e la riforma, entro il 2019 del processo penale. Pare già chiaro che non basteranno queste assunzioni a trasformare la macchina giudiziaria italiana in un meccanismo oliato, ed è ancora più improbabile, quasi al limite del surreale, che in un anno si riesca a riformare il processo penale: in teoria in dodici mesi il Parlamento dovrebbe approvare una legge-delega e il governo metterla in atto, con modifiche al codice di procedura penale, ma la lunghissima gestazione della riforma Vassalli costituisce un precedente esemplare sull’impossibilità dell’impresa. Per cui quando scatterà il blocco della prescrizione non sarà cambiato nulla nella lentezza cronica della giustizia. Auguri dunque al ministro per il lavoro che lo aspetta, e auguri soprattutto agli italiani. La tormentata storia del “concorso esterno” di Bartolomeo Romano* Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2018 In un volume appena dato alle stampe, Roberto Rampioni, ordinario di diritto penale a Tor Vergata, affronta un tema delicato e complesso e noto al grande pubblico anche per notissimi casi (tra gli altri: Marinino, Carnevale, Prinzivalli, Dell’Utri, Contrada) approdati alle aule di giustizia: quello del concorso esterno. Il titolo prescelto rappresenta una chiara presa di posizione dell’autore: “Del c.d. concorso esterno. Storia esemplare di un “tradimento” della legalità”. Forse è utile, preliminarmente, chiarire al lettore che non fosse esperto di questioni giuridiche di taglio penalistico quale sia il “protagonista” del saggio di Rampioni. Noi tutti siamo abituati a ritenere che il diritto penale - per il rispetto che deve ai princìpi fissati nel codice penale del 1930 (art. 1) e, soprattutto, nella Costituzione (art. 25, comma secondo) - debba costruire sempre, mediante legge, norme precise e tassative, magari identificate specificamente da quel “nome e cognome” che solitamente è racchiuso nella rubrica. Ora, nel nostro ordinamento non esiste una norma che punisca espressamente il concorso esterno. Invece, esistono norme che puniscono l’associazione per delinquere (art. 416 c.p.) e le associazioni di tipo mafioso anche straniere (art. 416-bis c.p.). Ed esistono norme che prevedono il concorso di persone nel reato. Il tema, dunque, è quello della ipotizzabilità del concorso eventuale (ex art. no c.p.) nel reato associativo da parte di soggetti estranei alla societas sceleris. Si pensi, tra le altre, alle figure del professionista, dell’imprenditore, del politico, del magistrato, dell’appartenente alle forze dell’ordine. Almeno a partire dal 1994 (Cassazione a Sezioni unite, Demitry), la giurisprudenza italiana ha ammesso la configurabilità del concorso esterno, sia pur con una serie di “aggiustamenti”, che la hanno portata a distinguere il partecipe (cioè l’associato), il quale è stabilmente ed organicamente compenetrato nell’associazione, svolgendovi un compito rilevante, anche in mancanza di una formale affiliazione (tipici erano i riti di “iniziazione”), dal concorrente esterno, il quale non è inserito stabilmente nell’associazione, ma fornirebbe ad essa un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, sempre che tale contributo abbia effettiva rilevanza causale, configurandosi come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento della capacità operativa dell’organizzazione odi un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale. Di fronte a questo dato di fatto, si è aperta una ampia discussione in materia, recentemente riaccesa dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015, relativa al “caso” Contrada. Così, un orientamento ha “sposato”, talvolta acriticamente, le tesi giurisprudenziali; altro indirizzo ha sottolineato che sarebbe comunque preferibile la tipizzazione del reato da parte del legislatore; parte della dottrina (e la quasi totalità degli avvocati penalisti) ha invece censurato a fondo il concorso esterno, poiché la figura violerebbe sostanzialmente il principio di legalità e sarebbe, comunque, difficilmente definibile dal legislatore. La premessa dalla quale parte Rampioni è che la figura del concorso esterno origini dalla volontà di contrastare la “borghesia contigua e compiacente”, finendo con il creare in via giurisprudenziale ciò che il legislatore non ha ritenuto di incriminare. Tanto più da palermitano, quale sono, non posso tacere che la valutazione di una figura sfuggente come quella del concorso esterno è certamente condizionata dal fatto che viviamo in una terra (bellissima, ma) martoriata, in una società non del tutto libera e non sempre capace di alzare spontaneamente la testa. Allora, utilizziamo l’arma del diritto penale per fare crescere la consapevolezza e le coscienze collettive: ci dobbiamo, dunque, chiedere se il prezzo che paghiamo a questo giustissimo e moralmente corretto tributo di cultura collettiva sia un prezzo equo oppure un prezzo eccessivo. Le domande che si pone Rampioni sono gli interrogativi che, in punto di diritto, si pone - si deve porre - un giurista, giustamente preoccupato del rispetto del principio di legalità e della libertà dei cittadini. Il volume percorre con puntualità e precisione la storia del concorso esterno e approfondisce i molti profili tecnici che lo rendono una figura certamente problematica. Forse, i tempi non sono maturi per una presa di posizione del legislatore o per un mutamento radicale della giurisprudenza. Allora, si potrebbe almeno convenire che occorra essere molto prudenti nell’intraprendere la via del processo penale. Ciò, naturalmente, non significa che gli storici, i politici, i liberi pensatori, gli intellettuali e - più in generale - tutti i cittadini, non possano costruire un loro giudizio morale (anche durissimo) nei confronti di alcune persone; ma se vogliamo tramutare sempre il giudizio morale in valutazione giuridica rischiamo di fare un favore alla criminalità organizzata e di trasformare il processo penale in una sorta di processo di prevenzione, con qualche minima cautela in più. *Professore ordinario di Diritto Penale all’Università di Palermo Strage di Erba, il ministero manda gli ispettori alla procura di Como Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2018 In carcere, condannati in via definitiva all’ergastolo, ci sono i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, vicini di casa delle vittime. Secondo quanto stabilito, marito e moglie hanno massacrato con coltelli e spranghe Raffaella Castagna, il figlioletto di due anni Youssef Marzouk, la mamma Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, accorsa con il marito Mario Frigerio, ferito gravemente, per capire cosa stesse accadendo nell’appartamento di Raffaella. Dodici anni dopo si apre uno spiraglio sulla strage di Erba. Il ministero della giustizia ha avviato un’ispezione sull’inchiesta compiuta sull’eccidio dell’11 dicembre 2006 che causò 4 morti e un ferito. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha chiesto infatti alla procura di Como gli atti su quanto avvenuto. In carcere, condannati in via definitiva all’ergastolo, ci sono i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, vicini di casa delle vittime. A darne notizia è oggi il Corriere della Sera. Secondo quanto stabilito, marito e moglie hanno massacrato con coltelli e spranghe Raffaella Castagna, il figlioletto di due anni Youssef Marzouk, la mamma Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, accorsa con il marito Mario Frigerio, ferito gravemente, per capire cosa stesse accadendo nell’appartamento di Raffaella. Alla base di tanta ferocia, l’insofferenza della coppia nei confronti dei vicini Raffaella e di suo marito, il tunisino Azouz Marzouk, e delle persone che frequentavano la loro casa. Olindo e Rosa sono stati condannati in via definitiva. Ci sono stati tre gradi di giudizio davanti a 26 giudici. I ripetuti tentativi della difesa di far riaprire il caso, passando pure dalla Corte di giustizia europea, sono stati respinti. La Cassazione ha recentemente riconfermato il no ad altre analisi su reperti che i legali degli assassini vorrebbero esaminare. La richiesta di via Arenula è finita due settimane fa sul tavolo del sostituto procuratore Massimo Astori, che aveva coordinato l’ inchiesta sulla strage nel 2006. Massimo riserbo alla procura di Como, ovviamente, con il capo ufficio inquirente, Nicola Piacente, che non rilascia dichiarazioni in merito. La documentazione è già stata inviata al ministero della giustizia, mentre l’ispezione è attualmente in corso. A insinuare il dubbio che quando sancito dalla giustizia non sia la verità dei fatti sono state negli ultimi anni alcune inchieste giornalistiche. Periodicamente però, inchieste giornalistiche o libri innocentisti o complottisti provano a insinuare il dubbio su quanto la giustizia italiana ha sancito definitivamente. Alla strage di Erba, tra l’altro, è dedicata la puntata di Storie maledette in onda domenica 16 dicembre su Rai3: Franca Leosini racconta i retroscena della vicenda, dando voce a Pietro e Beppe Castagna, che l’11 dicembre del 2006 hanno perso la mamma, la sorella e il nipotino. “Ci sono stati tre gradi di giudizio - avevano dichiarato recentemente padre e figlio - Ora basta con questo meccanismo perverso che costruisce non verità e torbide menzogne”. Firenze: Sollicciano, guasto al riscaldamento. Don Russo e la direzione protestano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 dicembre 2018 Sollicciano al gelo. Black out all’impianto di riscaldamento e freddo lungo i corridoi, nelle celle, negli uffici, negli ambulatori, nelle caserme degli agenti. Quattordici grandi durante il giorno, meno di dieci gradi durante la notte. E poi l’umidità, altissima. Detenuti rintanati nei loro letti con vestiti, lenzuoli e coperte. E poi gli agenti, difficile anche per loro lavorare in queste condizioni. Viaggiano per le sezioni con maglie termiche e giubbotti. Fredda anche l’acqua corrente, impossibile farsi una doccia. È l’ennesima tegola che si abbatte sul carcere fiorentino. Gli impianti hanno dato segni di cedimento nelle ultime ore. Amareggiato il direttore Fabio Prestopino. “È un grande disagio per tutti, reclusi, agenti, lavoratori. Abbiamo chiamato i tecnici della ditta che ha appaltato il servizio di riscaldamento, ma finora non ci sono stati risultati, speriamo che la situazione si possa ripristinare all’inizio della settimana. Il riscaldamento è funzionante, ma non riesce a riscaldare. Sono molto amareggiato, anche perché il contratto stipulato dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria è un contratto importante, se queste sono le avvisaglie, forse questo contratto dovrà essere rivisto”. Ieri mattina, come ogni sabato, si doveva tenere la messa nella chiesa del carcere. Ma il cappellano don Vincenzo Russo si è rifiutato di svolgere la funzione religiosa. “In queste condizioni il carcere diventa una specie di lager, un luogo di tortura. La temperatura è allucinante, più o meno la stessa che c’è all’esterno. È invivibile e disumano un istituto penitenziario in queste condizioni. Non soltanto per i detenuti, ma anche per chi vive il carcere, come gli agenti penitenziari”. Per ridurre i disagi nel primo pomeriggio dopo la richiesta della direzione del carcere e dello stesso cappellano, il presidente della Regione, Enrico Rossi, ha annunciato l’invio di 400 coperte, dalla Protezione civile regionale e la Federazione Regionale delle Misericordie della Toscana. “Mi domando però ha aggiunto - cosa stia facendo il ministro Bonafede (che il 3 dicembre aveva annunciato l’arrivo di fondi per il carcere, ndr) per migliorare la situazione”. A complicare il tutto, venerdì sera un detenuto libico, forse proprio per proteggersi dal freddo, ha appiccato un fuoco in cella, come riportato da Uil Pa. Il fumo si è propagato nelle altre celle creando il panico, poi le fiamme sono state domate. Non è la prima volta che il penitenziario fiorentino rimane al gelo. L’ultima volta, nel gennaio 2016. Il freddo si prolungò per numerosi giorni e sulla vicenda intervenne anche l’allora ministro della giustizia Andrea Orlando. Padova: maresciallo dei Carabinieri assolto per la morte durante un Tso di Maria Elena Pattaro Il Gazzettino, 16 dicembre 2018 Assolto, tra le grida di indignate degli amici e dei compaesani di Mauro Guerra, il 32enne di Carmignano di Sant’Urbano che il maresciallo dei carabinieri Marco Pegoraro aveva ucciso con un colpo di pistola il 29 luglio del 2015 in campo di grano a poche centinaia di metri da casa. Ieri sera, dopo un’udienza fiume durata quasi dieci ore nel Tribunale di Rovigo, è calato il sipario sul processo della morte di Guerra, ritenuto un soggetto pericoloso. Il militare dell’Arma era alla sbarra degli imputati per eccesso colposo di legittima difesa dal momento che aveva premuto il grilletto per difendere il collega brigadiere Stefano Sarto, atterrato e percosso dal 32enne, in fuga da un trattamento sanitario non autorizzato a cui però i carabinieri della stazione locale volevano sottoporlo. A chiedere il proscioglimento dall’accusa non è stato soltanto l’avvocato della difesa, ma anche il pubblico ministero Carmelo Ruberto, procuratore capo della Procura di Rovigo, aveva riformulato il capo di imputazione da omicidio volontario a accesso colposo di legittima difesa, dopo aver esaminato le carte e interrogato Pegoraro. “Date le circostanze non si poteva esigere dall’imputato una condotta diversa da quella tenuta ha affermato il pm nella sua requisitoria Pegoraro ha agito nell’onesta convinzione che la vita del collega Sarto fosse in pericolo a causa dell’aggressione subita da Guerra. La difesa è stata necessaria e proporzionata e l’imputato ha usato l’arma come rimedio estremo e prova ne è il fatto che prima di sparare contro Guerra, ha esploso tre colpi in aria, in segno di avvertimento”. Di tutt’altro parere sono invece gli avvocati di parte civile, che hanno assistito i genitori, la sorella e il fratello di Mauro: “Questo è stato un processo alla vittima, che quel giorno, quando è stato convocato in caserma da Pegoraro (per rendere conto della sua intenzione di organizzare una manifestazione antimusulmana, ndr) non dava segni di pericolosità sociale né di alterazione psichica ha affermato l’avvocato Alberto Berardi Guerra ha reagito con la forza soltanto quando Sarto ha tentato di ammanettarlo. Per il resto ha tentato di sottrarsi a un Tso illegittimo”. “Mauro Guerra è morto in un modo inspiegabile e gratuito, gli ha fatto eco il collega Fabio Pinelli la testa non l’aveva persa lui, nonostante i suoi discorsi a tratti deliranti, ma i carabinieri, pretendendo di sottoporlo a un trattamento sanitario senza avere né i titoli né le competenze per farlo. E non c’è stata proporzione tra la reazione di Guerra alla coercizione in atto e la condotta omicida di Pegoraro: l’uno si stava difendendo a mani nude da un ammanettamento, l’altro era armato di pistola”. L’avvocato della difesa, Stefano Fratucello, ha ribadito invece che il maresciallo non è un assassino, anzi quel giorno ha sparato nel pieno adempimento del proprio dovere.”Guerra non è morto perché ha rifiutato un Tso ha arringato il legale ma perché ha aggredito una persona mettendone a repentaglio la vita”. La tesi ha convinto il giudice Raffaele Belvederi, che al termine dell’udienza ha assolto Pegoraro “perché il fatto non costituisce reato”. Ma che ha svuotato i familiari della vittima. “Hanno ucciso Mauro per la seconda volta è la dichiarazione straziante della madre Giuseppina Abbiamo assistito a un processo farsa e il messaggio finale che arriva da questa giustizia in cui non credo più è che i carabinieri hanno la licenza di uccidere”. Siena: 1 euro in più a colazione per donare ai detenuti 200 chili di caffè Redattore Sociale, 16 dicembre 2018 Tantissimi senesi, durante la colazione al bar, hanno donato 1 euro per il progetto “Caffè sospeso”, grazie al quale sono stati donati 200 chili di miscela per i reclusi della casa circondariale, che si preparano il caffè in cella. Ah, che bellu cafè sulo ‘n carcere ‘o sanno fà. Solo in carcere sanno fare il caffè, cantava Fabrizio de Andrè. È proprio questa che ha animato il progetto “Caffè sospeso” a Siena, nell’ambito del quale 200 chili di caffè sono stati donati dai senesi ai detenuti della casa circondariale della città. Una generosità che è il frutto delle offerte mattutine dei senesi che, durante la colazione al bar, hanno donato 1 euro nell’apposito box del progetto, a cui hanno aderito vari bar della città. L’equivalente della somma raccolta, a cui si sono aggiunte alcune donazioni private, è stato donato sotto forma di miscela di caffè per i reclusi. E così, grandi quantità di caffè sono approdate in carcere. Un beneficio importante per i reclusi, molti dei quali non sanno come passare il tempo nelle celle. E che, attraverso il piacere della condivisione del caffè, trascorrono ore liete a chiacchierare. In ogni cella c’è una macchinetta per il caffè espresso. Ogni giorno, sono almeno 3 o 4 i caffè sorseggiati da ciascun recluso. “In carcere si beve il caffè perché un rito - ha detto il direttore della casa circondariale e ideatore del progetto Sergio La Montagna - È un modo tradizionale di socializzazione e incontro, anche tra i detenuti di etnie diverse, ognuno dei quali prepara il caffè in modo diverso. Il caffè è uno degli alimenti di maggior consumo nelle carceri. La preparazione della moka è un vero e proprio rito di condivisione e di evasione dalla quotidianità della reclusione. In ogni camera detentiva prende corpo una variante della ricetta tradizionale che spesso nasce dalla contaminazione delle varie tradizioni locali: qualcuno assieme alla miscela mette un acino di sale grosso o una fogliolina di menta, quasi tutti preparano una cremina con lo zucchero e la parte di bevanda che inizialmente fuoriesce dalla caffettiera”. Ma non finisce qui. I fondi del caffè non vengono cestinati, ma riutilizzati come fertilizzante in un terreo di una cooperativa agricola dove lavorano i detenuti semilibero. Attraverso la coltivazione di quelle terre, nascono ortaggi che poi vengono donati alla casa circondariale. Un’economia circolare che è il fiore all’occhiello dell’istituto penitenziario senese. “Lavoriamo molto di fantasia - ha detto La Montagna - perché le risorse per l’amministrazione penitenziaria sono pochissime, così noi ci ingegniamo per progetti a costo zero per migliorare le condizioni di vita dei reclusi e creare legami col territorio circostante”. Cagliari: Sdr, lunedì le detenute si preparano al Natale con le parrucchiere Ristretti Orizzonti, 16 dicembre 2018 Giornata all’insegna della serenità e della cura della persona lunedì mattina nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Si terrà infatti l’ultimo appuntamento 2018 con le Parrucchiere che garantiranno taglio e piega gratuiti anche prima di Natale. Con Francesca Piccioni, Claudia Saba, Alessia Nicole Logiudice, Michela Pretta e Viola Pibiri ci saranno le volontarie di “Socialismo Diritti Riforme” che, coordinate dalla Vice Presidente Elisa Montanari, incontreranno le donne private della libertà. Interverranno infatti le socie, Katia Rivano, Flavia Corda, Lisa Sole e Rina Salis Toxiri che si intratterranno offrendo loro una fetta di pandoro e un bicchiere di aranciata con lo scambio di auguri in occasione delle Festività. “È stato un anno - afferma Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - particolarmente intenso per il progetto “Benessere dentro e fuori”, promosso con la collaborazione del Centro Estetico “Dalle Ceneri della Fenice” e il supporto dell’Area Educativa dell’Istituto. Finalizzato alla valorizzazione dell’immagine femminile e all’attivazione di strategie per favorire la serena convivenza nella sezione destinata alle donne all’interno del Villaggio Penitenziario ha permesso di attivare un percorso di più attenta conoscenza di sé delle detenute e di scambio di conoscenze. Fondamentale la collaborazione con le Agenti Penitenziarie che offrono un insostituibile supporto”. “Il servizio è stato svolto gratuitamente da professioniste che un lunedì al mese, giorno di riposo per loro, mettono a disposizione le loro competenze per aiutare le detenute. Non si tratta semplicemente di un momento ludico o di svago ma un’occasione per favorire relazioni più distese tra le detenute che, condividendo spazi ridotti, spesso vivono momenti conflittuali. Attualmente le detenute sono una trentina con una prevalenza di giovani straniere. Le dinamiche relazionali sono complesse e soprattutto in prossimità delle Feste spesso risultano ancora più difficili. L’auspicio è continuare il percorso e costruire un iter che possa - conclude la presidente di Sdr - sfociare in un corso di parrucchiera”. Gli appuntamenti di “Benessere” riprenderanno a fine gennaio. Bergamo: in via Gleno porte aperte per l’incontro tra bambini e genitori dietro le sbarre di Michele Andreucci Il Giorno, 16 dicembre 2018 È stata una giornata particolare per i detenuti della casa circondariale di Bergamo. In tarda mattinata, intorno alle 13,30, infatti, i carcerati hanno potuto incontrare i propri figli e sfidarli in una partita di calcio, sei contro sei, che si è svolta nella palestra del carcere cittadino (l’Uisp ha fornito l’arbitro e il pallone di gioco). L’incontro, blu contro gialli, è stato solo l’occasione per consentire ai detenuti di riabbracciare i propri figli. Soddisfatta la direttrice della casa circondariale, Teresa Mazzotta: “Questo evento è importante - ha sottolineato - per il mantenimento dei rapporti dei detenuti con la propria famiglia, in particolare con i propri figli. Il mantenimento di questi rapporti è fondamentale per motivarli quando avranno finito di scontare la pena e torneranno dai propri cari. Ogni anno in Italia sono 100mila i bambini che entrano nelle carceri per visitare la mamma o il papà detenuti: 300 di questi, in media, varcano la soglia della casa circondariale di via Gleno”. L’iniziativa di ieri è stata organizzata da “Bambinisenzasbarre”, l’associazione che da 14 anni (da 5 nel carcere orobico) lavora per tutelare i bisogni dei piccoli tramite una rete strutturata che collega i penitenziari di tutta Italia. Sulle magliette usate per l’incontro di calcio comparivano due scritte: “Bambini senza sbarre” e “I diritti dei grandi iniziano dai diritti dei bambini”. Trapani: Garante dei detenuti, conclusa alla Casa circondariale la rassegna musicale Ristretti Orizzonti, 16 dicembre 2018 Organizzata insieme al Conservatorio Scarlatti di Palermo. Portare la musica all’interno delle carceri come educazione e momento di svago. Si è svolta per il terzo anno consecutivo la rassegna musicale frutto di un accordo tra l’Ufficio del Garante dei detenuti, il Conservatorio Scarlatti di Palermo (ex Bellini) e il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria. Un percorso avviato con successo due anni fa e cresciuto nel tempo. La terza edizione è partita a fine ottobre con un concerto di musica classica all’istituto di pena di Siracusa ed ha previsto quattro esibizioni musicali in altrettante carceri siciliane: Siracusa, appunto; l’istituto circondariale di Caltagirone, in provincia di Catania; il carcere di Enna; e, ieri, la casa circondariale di Trapani. “La musica è non solo uno strumento di sollievo e svago per chi vive recluso e sta scontando una pena perché crea un evento e un clima emotivo positivo - dice il Garante dei detenuti, Giovanni Fiandaca - ma per tanti può diventare anche uno strumento di riflessione e rinascita. Laboratori di musica, teatro, artigianato, si sono rivelati strumenti efficaci per allargare gli orizzonti di tanti detenuti sulla strada auspicata del reinserimento sociale”. Palermo: i figli dei detenuti in carcere per trascorrere una giornata con i loro padri madoniepress.it, 16 dicembre 2018 Il 20 dicembre alla casa circondariale Antonino Burrafato è un giorno speciale. I detenuti potranno abbracciare i loro bambini e trascorrere l’intera giornata con loro. Densa di attività la giornata, caldeggiata dalla direzione della casa circondariale e organizzata grazie al lavoro di educatori, docenti del Cpia Palermo 2 e addetti al servizio sicurezza. Il giocoliere di strada Mario Barnaba, in arte Scarpa, coinvolgerà i piccoli spettatori e i loro papà in scena. I ragazzi del cappellano Padre Agatino li intratterranno e a fine giornata il “Gruppo Famiglie” di Termini Imerese, rappresentato da Mario Marino con il coordinamento della dirigente del Cpia Palermo 2 Patrizia Graziano, farà giungere per ogni bambino un dono di Natale personalizzato accompagnato da un biglietto di auguri dedicato. Sarà ciascun papà, con i rappresentanti delle famiglie Silvana Vallone, Barbara Teresi, Mauro marino, Cilfone Emilio, a consegnare il dono al proprio figlio. Un momento emozionante che verrà immortalato dalle foto di famiglia scattate dalla docente volontaria del Cpia Palermo 2 Valeria Monti, esperta in comunicazione. Un ulteriore piccolo dono per non dimenticare un momento felice. Biella: “Galeotto fu il concerto”, un successo lo spettacolo con i detenuti laprovinciadibiella.it, 16 dicembre 2018 Giovedì sera tutto esaurito al Teatro Sociale “Villani” per l’evento. Dopo l’anteprima presso la casa circondariale di Biella, “Galeotto fu il concerto” è stato presentato alla cittadinanza al Teatro Sociale “Villani” di Biella. Ed è stato un successo. La serata, curata dall’Organizzazione Tavolo Carcere - un insieme di associazioni che collaborano con l’istituto penitenziario - ha suscitato molto interesse e ha fatto registrare una grande partecipazione. Giovedì 14 dicembre, infatti, il teatro era pieno di spettatori. Un evento perfettamente riuscito, anche grazie agli sforzi della polizia penitenziaria, i cui agenti sono stati impegnati su più fronti. Gradito anche il contributo dei pompieri: “Come sempre - hanno voluto evidenziare gli organizzatori e la PolPen - fantastico lavoro dei vigili del fuoco che hanno fatto sì che la serata si svolgesse nel migliore dei modi e in piena sicurezza”. Il giorno precedente la “prima” in carcere - Mercoledì 13 dicembre c’è stata un’anteprima di “Galeotto fu il concerto” presso il carcere di via dei Tigli. Il Tavolo Carcere del Volontariato di Biella e la Banda dei diritti delle persone ristrette nella libertà personale per il Comune di Biella, hanno organizzato il concerto spettacolo con il patrocinio di Amministrazione penitenziaria, Comune di Biella, Centro Territoriale per il Volontariato e Fondazione Cassa di Risparmio di Biella. Un ponte tra il Penitenziario e la Comunità. Incontro tra musica, danza e parole realizzato anche con la partecipazione di molti detenuti. Il tutto si è svolto all’interno della struttura penitenziaria nella sala polivalente e come al solito c’è da ringraziare il personale di polizia operante all’interno e all’esterno dei vari reparti per la sicurezza e la vigilanza che hanno assicurato. “Un grande lavoro svolto dal personale impiegato nei vari turni di servizio - viene sottolineato. La vigilanza garantita ai vari obiettivi. Nonostante le gravi carenze in termini di mezzi, strumenti e uomini. La sicurezza è stato garantita anche dalla buona volontà, dal senso del dovere e di attaccamento alle istituzioni”. Un Paese sempre più depresso (e nessuno se ne occupa) di Franco Arminio Corriere della Sera, 16 dicembre 2018 Forse almeno gli intellettuali si dovrebbero allarmare, invece restano inerti. Così la parola è passata a chi non ha niente da dire. Il nero dell’Italia di oggi non è il fascismo, ma la depressione. Forse sono depressi anche in Francia, ma lì ora è una depressione che si agita. Da noi è una cosa inerte, cupa. Tutti parlano di Salvini, ma il problema sono quelli che non escono di casa. Ci sono milioni di italiani in pigiama. C’è gente che finisce la sua giornata prima di cominciarla. Esistono i lavori usuranti, ma esistono anche i riposi usuranti. Abbiamo milioni di pensionati in buona salute, ma a cui nessuno sa cosa chiedere. Milioni di giovani senza lavoro e molto spesso senza utopie. Abbiamo un esercito di mutilati che non hanno partecipato a nessuna battaglia. La depressione degli italiani ovviamente non preoccupa nessuno perché i depressi in genere non danno fastidio. Anzi, uno dei motivi dell’assenza di conflitto sociale è proprio il dilagare della depressione. E ovviamente anche della paura. Parliamo sempre della paura per i migranti. Ma forse la vera paura è il cancro. Siamo avvinti a questo nodo scuro che nessun uragano può sciogliere. Nessuno di noi, in nessun luogo può dire di non avere un parente o un conoscente ammalato di cancro. Anche la salute non è mai stata tanto grigia. Basta guardare le facce che ci sono in giro. È come se fosse sceso un velo grigio sulle facce. La scontentezza fa più danni del colesterolo. E poi c’è la lingua. Gli italiani non hanno mai parlato così male. Una volta c’erano i pastori, i barbieri che parlavano in rima. Anche chi non aveva studiato ti sapeva raccontare qualcosa. Ora si parla tanto di narrazioni, ma nessuno sa narrare niente. E ci si ammala anche per questo. C’è come un ristagno delle emozioni. La Rete ha creato un mondo di solitari che aspettano ogni giorno una parola che non arriva e se arriva non è mai bastevole. Primo e ultimo gesto della giornata: accendere e spegnere il telefonino. È come portarsi dietro una bombola di ossigeno vuota. Non c’è aria in Rete, è solo un traffico di ombre. E quello che una volta si chiamava mondo reale è un deserto. L’unico luogo dove si fa vita sociale ormai sono i ristoranti. Visti da fuori sembrano acquari dove ogni cliente è un pesciolino. Nessuno sembra preoccuparsi di una situazione del genere. Il governo da mesi è impegnato in esercizi di ragioneria finanziaria perché per l’Europa di oggi sembra che la vita di una nazione passi tutta per l’ufficio di ragioneria. Anche la morte sembra passata in secondo piano. Sempre più spesso si muore di nascosto e chi resta subito si rimette in marcia. Il lutto fa pensare al vuoto e il vuoto fa paura. Fa paura il silenzio. E allora via con le esternazioni. Le fa il bidello su Facebook e le fa il ministro della scuola che non vorrebbe compiti a casa a Natale. Ognuno ha qualcosa da dire o da svelare e alla fine non sentiamo niente, non ricordiamo niente. Forse in una situazione del genere almeno gli intellettuali si dovrebbero allarmare, ma gli intellettuali sono depressi, come tutti gli altri. E poi c’è l’antica attitudine alla viltà e alla furbizia. Si preferisce non prendere posizione. Non mi riferisco al fatto di scrivere su un giornale o in Rete, ma anche alla semplice discussione coi vicini o al bar. Oggi la parola è passata a chi non ha niente da dire. E il segreto sta nel fatto che questi si rivolgono a chi non ha voglia di ascoltare. In questo modo ogni cretinata è sempre viva e vegeta, mentre il pensiero sembra un esercizio per presuntuosi. Se metti una bella poesia in Rete, alcuni apprezzano ma per altri è solo un esercizio narcisistico. Chi racconta un’esperienza virtuosa è uno che si vanta. Gli sfaccendati e i rancorosi hanno creato un clima in cui i loro sentimenti sono la normalità. Il bene è una stranezza da indagare, in qualche caso persino da perseguire legalmente. Forse quello che una volta si chiamava impegno politico oggi dovrebbe partire dalla condizione fisica e spirituale degli italiani. Bisogna partire dai corpi più che dalle leggi di bilancio. Da questo punto di vista il governo in carica mi sembra davvero assai lontano dal poter fare un lavoro culturale. È in corso una rottamazione delle anime di cui nessuno si occupa. Parlo delle persone che hanno potere. Questi ci fanno morire, ma esiste pure chi ci sta guarendo. Ecco il mistero di questa epoca, crepuscolo e alba assieme. L’alba viene dagli ignoti che abbracciano ancora, che stanno vicini agli infermi. Gli ignoti che lavorano con cura, i silenziosi che parlano coi loro esercizi di salute morale. Il conflitto non è più tra destra e sinistra, ma tra tirchi e generosi, tra cinici e appassionati. Nessuno sa come andrà a finire. Non pensate che l’esito dipenda da Salvini e da Di Maio. Dipende da ognuno di noi. Dipende dalle verità che proteggeremo, dai sogni che proveremo a realizzare. È ora che ognuno stenda il suo sogno sulla tavola del mondo, i sogni non prendono spazio, ma lo danno. Il diritto alla cura è senza frontiere di Andrea Capocci Il Manifesto, 16 dicembre 2018 Salute e migrazione sono legate. E in futuro lo saranno ancora di più. La rivista “The Lancet” mostra che le migrazioni non pesano affatto sui sistemi sanitari pubblici. Nel 2018, sono 258 milioni a vivere al di là dei propri confini. Il 3,4% della popolazione mondiale. Il 12 dicembre si è celebrata la giornata mondiale per la tutela sanitaria universale. In questa data cade infatti l’anniversario della risoluzione delle Nazioni Unite del 2012 che impegnò i governi a garantire a tutti l’accesso a un sistema sanitario di qualità. Due giorni dopo, il 14, l’Italia ha festeggiato i primi quarant’anni del Servizio Sanitario Nazionale. Il giorno prima, a Marrakesh è stato adottato il Global Compact su migranti e rifugiati. L’incrocio temporale tra il tema della migrazione e quello della salute non è casuale. Si tratta infatti di due questioni globali sempre più connesse. Nel secolo scorso il sistema sanitario è stato uno dei pilastri dello stato-nazione: l’accesso universale in realtà definiva la cittadinanza e l’appartenenza a una comunità. Oggi, il numero di persone che attraversano i confini è tale per cui un sistema sanitario universale deve necessariamente estendersi a chi ha passaporti diversi. Per molti governi, compreso il nostro, riconoscere diritti universali è contro-producente, perché alimenta ulteriormente la spinta a migrare da paesi in guerra o poveri. Ma su scala globale, questo atteggiamento riproduce su scala locale gli squilibri internazionali, e accresce il numero di persone disposte a migrare in permanenza alla ricerca di condizioni di vita migliori. Alla salute nell’epoca delle migrazioni è dedicato un corposo rapporto pubblicato dalla rivista “The Lancet” in vista della conferenza di Marrakesh. Il rapporto è stato stilato da una ventina esperti di tutto il mondo che per due anni hanno esaminato ogni fonte scientifica in materia. Il rapporto contiene moltissimi dati e individua le sfide principali per i sistemi sanitari nazionali. E smonta alcuni luoghi comuni che, come scopriremo, non sono diffusi solo in Italia. Il primo dato riguarda il numero assoluto di migranti: nel 2018, ben 258 milioni di persone al mondo vivono al di là dei confini in cui sono nati. Può sembrare un numero gigantesco, ma equivale solo al 3,4% della popolazione mondiale. E non è cambiato molto negli ultimi trent’anni: nel 1990, avevano attraversato i confini il 2,9% della popolazione mondiale. Difficile descriverla come “un’invasione”. Tra l’altro, la percentuale di rifugiati nei paesi a basso reddito è tripla rispetto ai paesi a reddito elevato (0.7% contro 0.2%). Anche l’impatto economico dei migranti è largamente mistificato dagli stereotipi: i dati mostrano che un aumento dell’1% della popolazione migrante adulta corrisponde, nelle economie avanzate, a un aumento del PIL pro-capite del 2%. Anche la contraddizione tra l’accoglienza e aiutarli “a casa loro” ha scarso fondamento, perché in realtà i migranti si aiutano da soli a casa propria: le “rimesse” dei migranti valgono in totale 613 miliardi di dollari l’anno. Cioè, circa tre volte i fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo da parte dei governi. Un altro mito da sfatare è quello secondo cui i nostri sistemi sanitari starebbero collassando sotto il peso della popolazione migrante. Lo stesso numero di “Lancet” contiene anche il primo studio sistematico sul tasso di mortalità dei migranti. Sulla base un campione di quindici milioni di individui in 92 paesi, si osserva che la popolazione immigrata generalmente ha tassi di mortalità inferiore a quella ospitante, tranne per alcune patologie come tubercolosi, epatite e Hiv. Ma anche in questi casi le infezioni avvengono quasi esclusivamente all’interno delle comunità immigrate. Dunque, il luogo comune dei migranti che “portano le malattie” è una bufala globale. Inoltre, proprio la popolazione migrante rappresenta una percentuale sempre maggiore degli addetti all’assistenza sanitaria, dal personale medico agli assistenti domiciliari. Nel complesso l’arrivo di immigranti comporta un beneficio netto per i sistemi sanitari nazionali dei paesi ospitanti. Infine, non è vero nemmeno che “gli immigrati fanno più figli”. Il tasso di fertilità tra i migranti si aggira poco sopra i due figli per donna, quindi permette appena alla popolazione immigrata di riprodursi. Uno degli studi citati, effettuato in sei Paesi europei, rileva che la popolazione immigrata ha un tasso di fertilità inferiore a quello della popolazione ospitante. Nonostante queste evidenze, il trattamento sanitario ricevuto dagli immigrati è assai discriminatorio. A cominciare dalle norme, sempre più diffuse nei paesi ad alto reddito, che condizionano il diritto di ingresso degli immigrati allo stato di salute. È il caso dell’Australia, o dei 35 paesi che impongono un bando all’ingresso delle persone sieropositive. In altre parole, tra i migranti lo stato di necessità ostacola, invece di facilitare, l’esercizio di un diritto elementare come l’accesso alla sanità. Anche nella Ue la tutela sanitaria degli immigrati non rispetta le norme più elementari di uguaglianza. Lo conferma un recente volume curato da Aldo Rosano, primo ricercatore all’Istituto Superiore di Sanità, intitolato “Access to Primary Care and Preventative Health Services of Migrants” (Springer, 2018). Si tratta di un monitoraggio dell’accesso degli immigrati alle attività di prevenzione, come vaccinazioni e screening, in diversi paesi. L’Italia, nonostante una legislazione in materia tra le più avanzate (il nostro servizio sanitario era in cima alle classifiche mondiali per l’equità dell’accesso), è oggi tra i paesi europei con le maggiori disparità tra popolazione locale e immigrata. Rapporto diritti globali: l’alternativa alla guerra ai migranti è la solidarietà di Mario Pierro Il Manifesto, 16 dicembre 2018 16esimo rapporto sui diritti globali. La guerra ai migranti è letta insieme al processo di controllo disciplinare della povertà. Il negazionismo climatico è l’ideologia del capitalismo predatorio che punta sulle energie fossili e l’accumulazione distruttiva. “In tre o quattro anni vi sarete abituati alla miseria e purtroppo vi sembrerà la normalità” disse nel 2013 Naomi Klein mentre visitava la Grecia devastata dalla crisi economica e ancora di più dalla “cura” dei Memorandum imposti da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale. È ciò che, in effetti, si è verificato. E non solo nel paese ellenico dopo il tragico rovesciamento del referendum anti-austerity del 2015. Nel frattempo la risposta c’è stata e, diversamente da quanto auspicato, ha cambiato direzione. Oggi è caratterizzata dall’abitudine “alla banalità del disumano e alla quotidianità dell’ingiusto” scrive Sergio Segio nell’introduzione al 16esimo rapporto Diritti globali - di cui è coordinatore, edito da Ediesse (pp.624, euro 27), sostenuto anche da Cgil, Antigone, la fondazione Basso, il Gruppo Abele e Legambiente, presentato nella sede nazionale della Cgil a Roma. La reazione all’impoverimento radicale e alla mancanza disperante di alternative economiche e politiche, prodotti dalle politiche di austerity di cui il rapporto diritti globali è analista documentato e impietoso, si è tradotta in una soluzione annunciata, anche se da molti contrastata. Razzismo contro i migranti, crudeltà contro gli inermi e i poveri, e poi il comunitarismo, l’etnicismo, l’identitarismo, l’autoctonia, lo sciovinismo del benessere e il narcisismo di massa che si esprime attraverso i social network. Gli ostaggi dell’austerità volevano liberarsi del giogo, oggi si ritrovano in una gabbia chiusa a doppia mandata. Si spiega così il titolo del rapporto di quest’anno: “Un mondo alla rovescia”. Il rovesciamento in questione è quello operato dal cosiddetto populismo, da Trump negli Usa al terribile Orban ungherese fino ai finti rivoltosi anti-austerity italiani Lega e Cinque Stelle. Formalmente affermano di difendere il bene di un “popolo”, materialmente accrescono il suo (auto)sfruttamento, l’odio per i prossimi e gli stranieri. Questa tecnica del “rovesciamento nell’opposto” confonde la destra e la sinistra in un dispositivo securitario che, restando all’Italia, intreccia le politiche sull’immigrazione del Pd con Minniti a quelle dell’attuale ministro dell’Interno Salvini. Sul fronte esterno (la Libia, il Mediterraneo, la guerra alle Ong) e quello interno (il decreto “sicurezza”, ad esempio) la continuità è impressionante. Il “Nazional-Populismo” attuale è il rovescio del non meno impresentabile “razzismo democratico”. Quest’ultimo è stato più digeribile solo perché occultato dal centrismo liberista spazzato via alle elezioni del 4 marzo. Una tesi verificata in centinaia di pagine di un rapporto che coglie una convinzione diffusa nella sinistra, anti-razzista e antiliberista, ma non solo. La guerra ai migranti è letta insieme al processo di controllo disciplinare della povertà. Il negazionismo climatico è l’ideologia del capitalismo predatorio che punta sulle energie fossili e l’accumulazione distruttiva. In questa svolta reazionaria della crisi, iniziata nel 2008 ma in gestazione da anni, l’ondata populista manipola la vita dei poveri, obbligandoli al lavoro precario con strumenti come il sussidio di povertà detto “reddito di cittadinanza” in Italia. Chi si sottrae sarà - stando agli annunci - criminalizzato. Chi obbedirà, invece, conserverà l’insicurezza in un mondo fondato sul governo del precariato e della paura. Simili politiche di “workfare” sono state adottate in Ungheria, ad esempio. “Se il mondo si è rovesciato - conclude Segio - bisogna lavorare per raddrizzarlo, non capovolgere a nostra volta lo sguardo”. L’alternativa è secca: solidarietà, internazionalismo, critica del capitalismo. Perché non bisogna rinunciare alla consapevolezza di quale sia il verso giusto delle cose. Pena di morte: iniezioni letali in Florida e Texas La Repubblica, 16 dicembre 2018 In Sud Sudan nel braccio della morte minorenni e mamme che allattano. Il periodico report di Nessuno Tocchi Caino ricorda come la pratica della pena di morte sia ancora ben lontana dall’essere abbandonata sebbene, qua e là, si registrino significativi segnali di superamento. Ecco qui di seguito l’elenco delle ultime esecuzioni avvenute in diverse parti del mondo. Florida (Usa): Si era sempre dichiarato innocente. Josè Antonio Jimenez, 55 anni, ispanico, è stato giustiziato con un’iniezione letale due giorni fa, nella prigione dello Stato della Florida, al 3916 NW 83rd Avenue, Raiford, a meno di 10 chilometri da Miami Beach. L’imputato si è sempre dichiarato innocente. Il metodo di esecuzione hanno diversi punti in comune con la tecnica per l’anestesia generale. Alla persona condannata a morte vengono somministrate in sequenza tre differenti sostanze: l’Etomidato come primo farmaco che rilassa i muscoli; il Rocuronium Bromide come secondo, per bloccare la respirazione e infine l’Acetato di Potassio per indurre l’arresto cardiaco. Era accusato di omicidio dopo una rapina. Josè Antonio Jimenez era stato condannato a morte nel dicembre 1994, dopo un voto a maggioranza di una giuria popolare della Miami-Dade County. Era accusato di aver ucciso, nell’ottobre 1992, durante una rapina in abitazione, Phyliss Minas, 63 anni. Durante il processo un testimone disse di averlo visto mentre entrava furtivamente nell’abitazione della vittima e la polizia scientifica testimoniò di aver trovato sue impronte digitali sulla scena del crimine. Jimenez ha sempre riaffermato la sua estraneità ai fatti. L’esecuzione era fissata per le 18, ma è iniziata con circa 3 ore e mezza di ritardo in attesa che la Corte Suprema degli Stati Uniti esaminasse i cosiddetti “ricorsi dell’ultimo momento”. Jimenez è stato dichiarato morto alle 21,48. Michelle Glady, portavoce dell’Amministrazione Penitenziaria, ha dichiarato che l’esecuzione è avvenuta “senza problemi”. In Florida, impiccagioni, sedia elettrica e iniezioni letali. Questa è la quinta esecuzione che viene effettuata il Florida da quando lo stato, nel 2017, ha adottato un protocollo che comprende l’Etomidato, il Rocuronium Bromide e l’Acetato di Potassio. Jimenez è la seconda persona giustiziata quest’anno in Florida, il 97° caso da quando la Florida ha ripreso le esecuzioni nel 1979, il 25° dell’anno negli Usa, e l’esecuzione numero 1.490 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. In passato, in Florida, i condannatisi venivano impiccati: tra il 1827 e il 1923 ne furono giustiziate 116 persone. Dal 1923, lo Stato passò alla sedia elettrica. Tra il 1924 e il 1964 sono state giustiziate 197 persone, e altre 44 dopo il 1979. Oggi, vengono invece utilizzate le iniezioni letali. In particolare, l’esecuzione dei colpevoli viene affidata a tre ufficiali, ognuno dei quali farà un’iniezione alla persona giustiziata. Solo una delle siringhe conterrà il veleno letale, in modo che non si sappia chi dei tre uomini abbia effettivamente ucciso il colpevole. Texas (Usa): Omicidio e violenza sessuale. Alvin Avon Braziel, 43 anni, nero, è stato giustiziato l’11 dicembre scorso, anche lui con un’iniezione letale. Era accusato di aver ucciso un uomo, Douglas White, 27 anni, il 21 settembre 1993 durante un tentativo di rapina, e di aver violentato la moglie della vittima, Lora. Venne identificato 8 anni dopo, quando il suo Dna venne inserito nel database nazionale a seguito di una condanna per reati sessuali nei confronti di un minorenne. Venne condannato a morte il 9 agosto 2001 nella Dallas County. Fino all’ultimo Braziel si è dichiarato innocente. Braziel diventa il 13° detenuto giustiziato quest’anno in Texas, il 558° da quando il Texas ha ripreso le esecuzioni nel 1982, il 24° di quest’anno negli Usa, e il n° 1489 da quando gli Usa hanno ripreso le esecuzioni nel 1977. Sud Sudan: Nel braccio della morte un minorenne e una madre che allatta. Quest’anno sono state impiccate in Sud Sudan sette persone, incluso un minore, il numero più alto da quando il Paese ha ottenuto l’indipendenza nel 2011, secondo le prove fornite ad Amnesty International da professionisti legali e funzionari governativi. Nel 2017, due delle quattro persone giustiziate erano minori al momento della loro condanna, ha detto l’organizzazione. Tra le 342 persone attualmente nel braccio della morte - più del doppio del numero registrato nel 2011- ci sono un alunno della scuola secondaria, che è stato condannato a morte all’età di 15 anni e una madre che allatta. La mancanza di trasparenza del Paese nel suo uso della pena di morte significa che probabilmente le cifre sono state sottostimate, ha detto Amnesty. Papua Nuova Guinea: L’omicidio di un ragazzo di 14 anni. Un uomo, padre di tre figli, è stato condannato a morte dopo essere stato riconosciuto colpevole di aver ucciso per vendetta un ragazzo di 14 anni in West New Britain tre anni fa, ha riportato The National l’11 dicembre 2018. Nel tribunale di Kimbe, il giudice Nicholas Miviri ha descritto l’omicidio perpetrato da Wesley Yanduo con un coltello come “spietato e orribile”. Il tribunale il 18 ottobre ha riconosciuto Yanduo, di Kubalia, East Sepik, colpevole per l’omicidio volontario di Naegel John Las, avvenuto nell’insediamento di Galai Oil Palm il 6 dicembre 2015. Yanduo avrebbe attaccato Las in rappresaglia per l’assalto mortale a un giovane di nome Issac Vitalis, che era stato attaccato da diversi ragazzi. India: Sentenza capitale commutata. La Corte Suprema indiana il 12 dicembre 2018 ha commutato la condanna a morte di un uomo per lo stupro e omicidio di una bambina di tre anni nel 2007 e ha ordinato che non venga rilasciato dal carcere per il “resto della sua vita normale”. Il collegio presieduto dal giudice Madan B Lokur ha osservato che il tribunale di prima istanza, l’Alta Corte di Bombay e anche la Corte Suprema non avevano in precedenza preso in considerazione le probabilità di riforma, riabilitazione e reinserimento sociale del detenuto mentre lo condannavano a morte. Rajendra Pralhadrao Wasnik era stato condannato a morte da un tribunale di Amravati nel settembre 2008 per aver stuprato e ucciso una bambina nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2007. Nel commutare la condanna a morte, la Corte ha affermato che l’accusa è stata “negligente nel non produrre la prova DNA disponibile e la mancata presentazione di prove materiali deve portare a una presunzione contraria all’accusa e a favore del ricorrente (Wasnik) ai fini della sentenza”. Stati Uniti. In carcere coi migranti, morta di sete a 7 anni di Elena Molinari Avvenire, 16 dicembre 2018 La piccola si è disidratata dopo 8 ore nel deserto. Con il padre e altri 160 migranti si era consegnata alla polizia di frontiera. È morta di sete dopo aver passato una notte in un centro di detenzione per immigrati irregolari in New Mexico, Usa, e dopo una vana corsa in elicottero a un ospedale di El Paso. Jackelin Caal Maquin, una piccola guatemalteca di 7 anni, ha finito i suoi giorni disidratata e provata dal lungo viaggio che l’ha portata con il padre e l’ennesima carovana di 163 centroamericani - secondo il Washington Post - ad attraversare il Messico in gruppo e a valicare il confine statunitense e a consegnarsi agli agenti frontalieri, nella speranza di ottenere asilo. E non sono chiare nemmeno le circostanze del suo decesso, sul quale l’Agenzia americana per le dogane e il pattugliamento dei confini (Customs and border protection) ha aperto un’indagine, chiedendo un’autopsia. L’ente ha presentato le sue condoglianze alla famiglia della bimba, assicurando di aver fatto tutto il possibile per salvarle la vita. Ma le domande senza risposta che circondano questo straziante caso hanno già suscitato le proteste delle associazioni per i diritti civili Usa (come la Aclu) e per la difesa degli immigrati. Ci si chiede, ad esempio, perché la piccola non avesse ancora ingerito acqua alla mattina alle 6 e mezza, quando ha cominciato ad avere convulsioni, dopo essere stata arrestata alle 22 della sera precedente. O perché nessuno le avesse prestato cure mediche, se le sue condizioni, come gli agenti frontalieri sostengono, fossero già gravi quando è arrivata al passaggio di confine di Lordsburg. La prima volta che le è stata presa la temperatura, ad esempio, è stata la mattina, quando bruciava con quasi 41 gradi di febbre. Il dipartimento per la Sicurezza interna Usa, dal quale l’agenzia di frontiera dipende, non ha neanche spiegato perché la tragedia sia stata resa nota più di una settimana dopo essere avvenuta, il 6 dicembre scorso. I gruppi della società civile puntano il dito contro una “mancanza di responsabilità” e “cultura della crudeltà” nel Customs and border protection. Ma la Casa Bianca respinge l’accusa. “L’Amministrazione - ha affermato un portavoce del presidente Donald Trump - si deve prendere la responsabilità di un genitore che porta a piedi un bambino attraverso il Messico per arrivare negli Usa? No”. Secondo Human Right Watch, però, Jakelin e il papà avrebbero dovuto camminare altre 60 ore aggiuntive nel deserto fino a Lordsburg perché ai valichi di El Paso e Nogales gli agenti Usa non consentivano agli immigrati di consegnarsi e chiedere asilo. Martedì scorso, lo stesso commissario dell’agenzia delle dogane, Kevin McAleenan, ha, inoltre, dichiarato durante una testimonianza al Senato che le celle dell’agenzia sono “incompatibili” con la nuova realtà dei genitori con bambini che attraversano il confine per consegnarsi agli agenti, richiedendo asilo. “Le nostre stazioni di pattuglia di frontiera sono state costruite decenni fa per gestire adulti maschi, non famiglie e bambini”, ha detto. La piccola stazione di pattuglia di Lordsburg questa settimana ha ricevuto almeno due gruppi di oltre 200 profughi. Entrambi erano composti per lo più da famiglie e bambini. Nel solo mese di novembre gli agenti statunitensi hanno arrestato al confine meridionale Usa e quindi detenuto 25.172 membri di famiglie. La morte di Jakelin Amei avviene pochi mesi quella di un altro piccolo guatemalteco di meno di due anni deceduto dopo il rilascio da una struttura a Dilley, in Texas. La madre e i suoi avvocati sostengono che aveva contratto un’infezione respiratoria nel centro di detenzione e che non aveva ricevuto assistenza medica adeguata. Iran. I premi Nobel scrivono all’Ayatollah: “Liberate Djalali, è innocente e sta male” di Barbara Cottavoz La Stampa, 16 dicembre 2018 Una lettera firmata da 110 scienziati riuniti a Stoccolma rinnova l’appello per il ricercatore arrestato in Iran. Aveva lavorato a lungo a Novara. “Liberatelo: è innocente e sta male”. È l’appello lanciato da 110 premi Nobel con una lettera indirizzata all’Ayatollah Ali Khamenei e distribuita durante la cerimonia di premiazione a Stoccolma, il 10 dicembre. Gli scienziati chiedono la scarcerazione di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano del Crimedim di Novara, condannato a morte per spionaggio e detenuto da oltre due anni nel carcere di Evin, vicino a Teheran. Djalali è un ricercatore di Medicina dei disastri e ha lavorato per tre anni, dal 2012 alla fine del 2015, nello staff dell’Università del Piemonte Orientale diretto dal professor Francesco Della Corte. La lettera rivela che Djalali è stato operato d’urgenza di ernia il 18 novembre e il giorno dopo era già stato riportato in cella. Nei giorni successivi è stato male e ai primi di dicembre lo avrebbe visitato un medico: “Le sue condizioni di salute stanno peggiorando rapidamente - si legge nel documento distribuito da Amnesty International. Vi esortiamo a occuparvi personalmente di questo caso e assicurarci che il dottor Djalali sia trattato in modo umano ed equo e che venga rilasciato prima possibile”. L’appello dei 110 premi Nobel segue un’analoga iniziativa dello scorso anno e vuole riportare la condanna a morte di Djalali all’attenzione del mondo accademico internazionale: “Quando ho sentito parlare di questo caso per la prima volta - dice il coordinatore della lettera, Richard Roberts, biochimico che ha vinto il premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1993 - sono rimasto molto turbato dall’ingiustizia che si sta perpetrando”. Quando è stato arrestato in Iran, nell’aprile 2016, Djalali abitava a Stoccolma e lavorava per l’università svedese, ma manteneva ancora una collaborazione con l’ateneo di Novara. Infatti era atteso in città per il consueto master in Medicina dei disastri a maggio, ma non è mai arrivato: era già recluso in una cella del carcere di Evin anche se ancora nessuno lo sapeva.