Rita Bernardini: nelle carceri continua la violazione dei diritti dei detenuti agenziaradicale.com, 15 dicembre 2018 Nell’incontro del 4 dicembre con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, Rita Bernardini ha ribadito tutti gli elementi che compongono le criticità del nostro sistema carcerario. La mancata approvazione nella scorsa legislatura della riforma organica dell’ordinamento penitenziario, che avrebbe, con il ricorso a pene e misure alternative al carcere, ridotto la cosiddetta recidiva (con il conseguente effetto sul sovraffollamento degli istituti penitenziari), “non è stata varata dal Governo Gentiloni a un soffio dalla sua definitiva approvazione, né, tantomeno, è stata ripresa dall’attuale governo gialloverde Conte che l’ha fatta decadere non esercitando la delega”. La drammatica, sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone detenute, che non vedono riconosciuto il loro diritto alla salute (ogni giorno la cronaca registra casi sconcertanti), che vivono in ambienti fatiscenti e nocivi, che vivono nell’ozio senza possibilità di lavoro e di studio, che vivono una affettività negata, lontani centinaia di chilometri da mogli e figli, soprattutto minori, sono la radiografia di una situazione gravissima che le Corti Internazionali hanno più volte condannato con sentenze contro l’Italia. La Bernardini ha illustrato tutto questo al Guardasigilli che pur manifestando attenzione (ci saranno incontri bimestrali per monitorare la situazione), muove la propria azione all’interno di una strategia sulla giustizia, legislativa, culturale e carceraria, lontana dalla lettura e dai principi che ispirano l’azione dei Radicali. Don Grimaldi: “troppa indifferenza, far crescere cultura dell’accoglienza all’esterno” agensir.it, 15 dicembre 2018 “Il problema più grande dei detenuti è fuori dal carcere”. Lo ha ribadito don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani penitenziari, per il quale di fronte a “tanta indifferenza” è necessario “far crescere la cultura dell’accoglienza all’esterno”. Nelle carceri “ci sono tante povertà, tanti immigrati, tanti stranieri che non hanno possibilità di difendersi e scontano pene per reati che non hanno commesso”, ha ricordato don Grimaldi sottolineando la necessità ad esempio di “dare lavoro ai detenuti quando escono”. “Nessuno di noi è chiamato a condannare l’altro, e come credenti siamo chiamati ad essere il cuore di Dio che si incrocia con il detenuto, che ha bisogno di misericordia, di aiuto, di speranza”, ha affermato l’ispettore generale dei cappellani penitenziari, intervenendo alla conferenza stampa di presentazione de “L’Altra Cucina… per un Pranzo d’Amore”, l’iniziativa promossa in occasione delle festività natalizie da Prison Fellowship Italia onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS per offrire a 2000 detenute e detenuti di tredici carceri italiane pasti gourmet, preparati da chef ‘stellati’ e serviti da numerosi testimonial del mondo dello spettacolo, della musica, della stampa e dello sport. “Spesso si entra nel carcere solo per curare la propria immagine: i poveri rischiano di farci diventare famosi, mentre invece occorre coltivare un cuore che accoglie”, ha osservato don Grimaldi. “Il carcere - ha assicurato - guarisce noi che entriamo”. Portiamo la sigaretta elettronica nelle carceri di Massimo Lensi* sigmagazine.it, 15 dicembre 2018 Quello alla salute è un diritto universale e vale soprattutto per chi è sotto la tutela diretta dello Stato. L’esempio inglese ha dimostrato che la sigaretta elettronica può essere usata negli istituti penitenziari, a vantaggio di fumatori e non. L’associazione Progetto Firenze chiede un progetto pilota per introdurre il vaping nel carcere di Sollicciano. Capire un carcere è sempre difficile; quando l’istituto in questione è Sollicciano, un elefantiaco complesso di edifici in cemento armato corrosi dal tempo e pesanti infiltrazioni di umidità, capire da dove iniziare opere di manutenzione è impresa quasi impossibile. Si può rattoppare un muro, riportare in condizioni igieniche le docce comuni, togliere le colate di guano di piccioni, attivare finalmente la seconda cucina, ma in pochi mesi il degrado riemerge. Anche la popolazione di Sollicciano rende l’istituto atipico; è sovradimensionata rispetto alla capienza e composta per il 70 per cento da stranieri. Alcune sezioni sono infestate da cimici e piccioni, i materassi sono sporchi e malsani, l’area trattamentale è sottodimensionata (sette educatori per circa settecentocinquanta detenuti). Sono circa dieci anni che con costante periodicità varchiamo la soglia di Sollicciano, constatando ogni volta come sia impossibile organizzare un credibile cronoprogramma di azioni e interventi, nonostante la buona volontà di chi in quel carcere lavora. L’esecuzione di pena è difficile alle condizioni riscontrate, i percorsi rieducativi incerti, la risocializzazione un’utopia. Nessuna azienda continuerebbe a investire su una struttura così degradata, preferendo investire sul nuovo piuttosto che su un risanamento impossibile. Un’altra visibile debolezza di cui soffre questo carcere è nei rapporti con le istituzioni. La Regione Toscana dovrebbe rafforzare l’attenzione sanitaria, modificando concettualmente il rapporto tra operatori e popolazione detenuta. È inutile che l’Agenzia regionale sanitaria produca ogni due anni un rapporto sul preoccupante stato di salute dei detenuti in regione, se poi non si pratica una vera politica di prevenzione. Un carcere dovrebbe essere trattato come parte integrante della città, al pari di un ospedale o un plesso scolastico, e non come un luogo dell’immaginario negativo. Il garante comunale potrebbe interpretare il suo ruolo di collegamento con l’esterno e la cittadinanza con una vivacità diversa da quella attuale e il sindaco di Firenze rispettare gli impegni presi durante un recente consiglio comunale che si è svolto dentro l’istituto penitenziario. In questo quadro disperante si possono però ottenere benefici significativi anche con piccole iniziative, per di più favorendo la costruzione di un ponte di civiltà tra il luogo della pena e il mondo esterno. Il tempo in carcere scorre lento, inesorabilmente lento, abbandonato all’inedia o al logoramento della nostalgia. E se le condizioni di detenzione ricordano più le celle del Medioevo che non la civiltà dello Stato di diritto, allora è la malattia a giocare la partita più indecente che si possa immaginare. L’Agenzia di sanità della Regione Toscana ha recentemente rilasciato il rapporto conclusivo di un’indagine sugli istituti penitenziari nella regione. In carcere, ci informa il rapporto, ci si ammala più che fuori, non c’è prevenzione e le cure sono difficili e sempre ritardate. Ci si ammala di disturbi psichici (38,5 per cento delle persone ristrette), di malattie infettive e parassitarie (16,2 per cento), di malattie del sistema circolatorio (15,5 per cento), di malattie endocrine, del metabolismo e immunitarie (12,1 per cento), di malattie dell’apparato respiratorio (4,4 per cento) e via dicendo, anzi ammalando. In altre parole un detenuto su due soffre di almeno una patologia. Incredibile? Forse sì, per chi un carcere non lo ha mai visitato e può stupirsi di questo quadro. Ma anche costui non dovrebbe aver esitazioni nel definire questa situazione inaccettabile. Un detenuto è una persona affidata alle mani dello Stato, che dovrebbe garantirgli assistenza alla salute. Lo dice il buon senso, lo prescrive la Costituzione. La prevenzione è cosa difficile da introdurre in carcere. Fuori, chiunque di noi si affida al proprio medico per analisi di routine e consigli. In carcere tutto questo non è possibile: stai chiuso in una cella per venti ore al giorno, il vitto è pessimo e il medico riesci a vederlo, se va bene, solo dopo una richiesta scritta (la famosa domandina). Il mutuo soccorso tra detenuti è l’unica risorsa su cui puoi far conto. Chiuso in cella puoi solo fumare, o respirare il fumo altrui. In carcere, sempre secondo l’Ars, fuma il 62,4 per cento delle persone detenute contro il 20,5 per cento delle persone libere residenti in Toscana. Proibire il fumo in carcere sarebbe crudele e, soprattutto, inutile. Nel carcere inglese nell’Isola di Man, dove il fumo di sigarette fu proibito già tempo fa, i detenuti avevano preso l’abitudine di fumare tutto quel che capitava loro sotto mano: bustine del tè, bucce di banana, perfino cerotti per smettere di fumare. La salute andava a farsi benedire in poco tempo e i casi di affezioni all’apparato respiratorio erano gravi e numerosi. L’amministrazione penitenziaria inglese ha quindi deciso di affrontare il problema lanciando un programma pilota per inserire le sigarette elettroniche tra i beni acquistabili dalle persone ristrette. L’esperimento ha avuto un gran successo e da allora i casi di malattie respiratorie si sono ridimensionati e insieme anche numerosi disturbi psichici. Il nostro Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) nel dicembre 2016 ha autorizzato, con una circolare, lo svapo nelle carceri italiane. Nonostante ciò, nessun istituto toscano ha ancora introdotto questa possibilità pur a fronte di dati come quelli della ARS Toscana che mostrano i seri danni del fumo di sigaretta negli istituti e nonostante gli sforzi di alcuni esponenti del mondo dello svapo italiano e di Rita Bernardini del Partito Radicale. Perché? Le ragioni sono sempre le stesse: burocrazia, sistemi di sicurezza particolari, problemi tecnici ma soprattutto la mancanza di coraggio da parte delle direzioni dei penitenziari italiani. Eppure gli inglesi hanno anche inventato una sigaretta elettronica disegnata appositamente per i detenuti, la E-burn, completamente sigillata e usa e getta. Un ministro inglese si è dichiarato convinto dalle prove fornite dai medici sulla riduzione del danno e sulla non tossicità dei vapori passivi emessi dalla ecig. In Italia invece il tempo passa invano e senza che alcun medico si pronunci. Nondimeno basterebbe poco, grazie alla circolare del Dap ogni direttore può scegliere se consentire o meno l’utilizzo dell’ecig nel suo istituto. Come è successo a Voghera, dove Rita Bernardini si era recata in visita ispettiva portando con sé la propria sigaretta elettronica. L’oggetto fu notato e, da allora, grazie alla direttrice nel carcere di Voghera sono entrate le sigarette elettroniche. Anche qui in Toscana, insieme a Vincenzo Donvito, presidente dell’Aduc, ci è sembrato necessario e urgente sollecitare le istituzioni a occuparsi seriamente di prevenzione e riduzione del danno in carcere. Abbiamo perciò chiesto alla Regione Toscana, al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e alle direzioni dei due istituti di detenzione fiorentini di attivare un progetto pilota per promuovere l’uso della sigaretta elettronica al posto delle sigarette. Per ora non abbiamo avuto alcuna risposta, ma continueremo a fare pressione. *Partito Radicale Nel mondo delle carceri l’esperienza de “L’Altra cucina” di Andrea Acali romasette.it, 15 dicembre 2018 Anche chi ha commesso un errore ha il diritto non solo a una nuova chance ma pure a scontare in modo “umano” la sua pena. Purtroppo questo non avviene spesso nel mondo carcerario, dove il Natale non ha quel significato di festa che vale per la maggior parte delle persone. Non mancano, tuttavia, le iniziative di solidarietà per cercare di portare un sorriso e un po’ di calore umano anche nei penitenziari. Una di queste è “L’Altra cucina per un pranzo d’amore”, ideata da Prison Fellowship Italia Onlus con la collaborazione di Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del Rns, giunta alla quinta edizione e presentata oggi, 14 dicembre, al The Church Palace a Roma. Grazie a questo evento, martedì 18 dicembre sarà offerto a 2mila persone, tra detenuti e familiari, un pranzo a base di piatti “stellati” preparati da rinomati chef e servito da attori, cantanti, giornalisti e sportivi, insieme a numerosi volontari, in 13 carceri italiane: il femminile di Rebibbia a Roma, Opera e San Vittore a Milano, Torino, Palermo, Bologna, Bari, Salerno, Siracusa, Massa Carrara, Eboli, Ivrea e Lanciano. Testimonial dell’iniziativa l’attrice Nancy Brilli e Francesca Fialdini. “C’è tanto lavoro tanto dietro queste iniziative - ha spiegato Salvatore Martinez, presidente di Rns - e il coinvolgimento di tanti soggetti: magistrati, direttori, cappellani, volontari, vescovi, artisti, chef. I miracoli accadono ma serve tanta buona volontà e darsi da fare perché accadano. Un evento di questo tipo è una provocazione di grandissima portata. Si nasce liberi ma si può morire schiavi”. Martinez ha ricordato “tre grandi povertà che ci fanno prigionieri: quella “materiale” grazie alla quale “prosperano le mafie”, quelle “spirituali, di cui normalmente non si parla, come la capacità di educare al bene, e infine povertà culturali. L’idea che si getti qualcuno in carcere e si butti la chiave è insopportabile. Lo iato tra primi e ultimi non si risolverà se non avremo un nuovo linguaggio di correzione con la cifra della misericordia”. Rns ha tentato di rispondere a questi bisogni promuovendo azioni sistemiche su più fronti, ad esempio occupandosi anche delle famiglie dei detenuti. “Moltissime imprese si sono proposte, abbiamo trovato una grande solidarietà. Ma l’ingrediente principale è l’amore, lo spezzare il pane con loro, farli sentire i primi: loro, ultimi, serviti da coloro che per il mondo sono primi”, ha spiegato Marcella Reni, presidente di Fellowship Italia. “Molti di quelli che sono in carcere non hanno fatto esperienza di amore vero, sono stati usati per tanti motivi - ha affermato don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani penitenziari. Vogliamo fasciare un po’ le loro ferite. Se si sentono toccati dentro, gli cambia il cuore. Anche una persona violenta se vede che l’altro non lo giudica, non lo disprezza, non lo emargina, viene guarita”. E occorre lavorare anche fuori dal carcere: “Un’attenzione alle fasce deboli e fragili bisogna darla perché non trovano accoglienza e spesso tornano in carcere”. “Credo nel recupero - ha detto Nancy Brilli, che per la prima volta partecipa all’iniziativa - anche con l’ascolto, con la condivisione di un pranzo: non vai a tavola con chi pensi ti possa far del male. C’è un reciproco atto di fiducia, per i detenuti nello sperare che ci sia un futuro e per le associazioni nel credere nella loro volontà di miglioramento”. Giuseppe Iannotti, ingegnere, chef stellato, cucinerà a Salerno: “Ho sempre avuto paura di questo mondo - ha affermato -. Non volevo partecipare perché queste cose cerco di farle in silenzio. L’ho già fatto, a Torino, ora con chef Bottura lavoriamo per i clochard ma in silenzio. Andrò a cucinare per i miei ospiti, anche se so che starò male perché da uomo libero vedere la porta che si chiude dietro le spalle è bruttissimo”. Tra le associazioni coinvolte ci saranno, per esempio, “Toga e teglia” - avvocati, per lo più penalisti, con la passione dei fornelli - e “Avvocanto”, un gruppo di avvocati, molto noto, che a Bologna canterà per i detenuti all’insegna dello slogan “toga e rock ‘n roll”. A Milano monsignor Delpini celebrerà la Messa, mentre a Torino, dove parteciperanno le famiglie, sarà allestito uno spettacolo per i bambini e la Banca del Giocattolo donerà giochi per i figli dei carcerati. Caro governo, quanti errori su sicurezza e anticorruzione di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 15 dicembre 2018 L’aspro dibattito sulla manovra finanziaria e l’enfatizzazione del contrasto con la Commissione Europea da parte del Governo tengono nascoste e in sordina alcune iniziative legislative e alcune prese di posizione da parte del Governo che sono devastanti per l’assetto democratico e per il nostro ordinamento giuridico. I danni che la “manovra” così come concepita dal governo, e criticata da tutti, si verificheranno nei prossimi mesi e nei prossimi anni sono notevoli, ma le iniziative prese su alcune questioni fondamentali preoccupano ancor più perché inficiano lo Stato nei suoi fondamentali. Vi sono dunque tre questioni. 1) Il decreto sicurezza che è stato approvato dalla Camera dei Deputati pone la finalità di limitare l’ingresso dei migranti ma fa aumentare i migranti irregolari perché evita le regolarizzazioni per ragioni umanitarie. Questa proposta di legge è emblematica di quella strategia di individuazione di un nemico (in questo caso lo straniero) a cui addebitare tutti i mali di una società che non riesce a progredire con energie proprie, anche a costo di disconoscere una tradizione millenaria che - a partire da San Paolo - ha scoperto lo straniero come amico e non come nemico. I principi di solidarietà e di eguaglianza che hanno ispirato i Costituenti nel 1948 contenuti nell’art. 10 della Costituzione e che hanno determinato armonia nella comunità civile con regole chiare di convivenza civile, sono totalmente contraddetti. Il diritto delle genti che nei secoli ha avuto la sua evoluzione e ha prodotto regole internazionali, per la convivenza tra i popoli, ha garantito la protezione umanitaria che è patrimonio di tutte le democrazie, viene disconosciuto. E sul piano più concreto il ridimensionamento dei centri cosiddetti Spran, i tempi più lunghi per quelli che chiedono asilo che sono costretti ad essere rinchiusi nei “centri”, sono immaginati contro i migranti considerati stranieri nel senso di nemici e non per garantire sicurezza. Dobbiamo dire una verità amara: l’aumento inevitabile dei migranti senza alcuna protezione dovrebbe allarmare ogni cittadino di buon senso, è voluto per rendere possibile la propaganda della paura e scatenare quel po’ di populismo che è innato in ognuno di noi! Il contenuto etico di questo provvedimento qualifica il pensiero xenofobo di una destra pericolosa che fa leva sulle paure e sul rancore. 2) Il decreto presentato dal Governo “contro i corrotti” ancora una volta aumenta le pene per la corruzione. Si racconta che con una legge si “risolvono” fatti e scandali di attualità, con inasprimenti di pene che (non c’è bisogno di essere grandi giuristi per saperlo) non hanno alcuna efficacia. La iniziativa eclatante sulla quale vale la pena soffermarsi è costituita dalla proposta presentata con un semplice emendamento dal Ministro della Giustizia per eliminare termine per la prescrizione del reato, in modo da rendere possibile la celebrazione di un processo senza limiti di tempo. Questo rivela la vera anima inquieta e giustizialista del movimento. Si vuol costruire una società aggressiva che cerca il colpevole a tutti i costi per cui la “presunzione di colpevolezza” rende l’uomo succube della giustizia. Si presume la colpa e si vuole impedire al reo di reinserirsi nella società; questo non solo per reati gravi ma per qualunque trasgressore, per reati minori perché facilmente strumentalizzabili nell’immaginario collettivo. È il caso ad esempio dei reati dei “colletti bianchi” e contro la pubblica amministrazione, facile cavallo di battaglia per qualsiasi rottamatore e portatore di cambiamento, finché non si passa facilmente da accusati ad accusatori. Al di là delle valutazioni giuridiche, c’è da rilevare questo aspetto umano allarmante che disgrega la società: si vuole una comunità senza solidarietà. Sul piano giuridico e costituzionale questa proposta è aberrante e determina davvero il cambiamento che le forze antisistema che sono al Governo auspicano. Il cambiamento anche nei costumi e nei comportamenti c’è sicuramente. Un episodio per tutti davvero sconcertante è la presa di posizione al di là dell’immaginabile che il Presidente della Commissione Antimafia ha preso nei confronti della senatrice Lonardo che è stata assolta con formula piena nei processi che l’hanno angustiata per anni. Lonardo deve essere perseguitata da un “sospetto” per tutta la vita che compromette la sua autonomia e la sua libertà. Insomma le sentenze di assoluzione sono sempre provvisorie come quelle che Kafka indicava nel suo “Processo”, che non ha mai fine. Un simile comportamento deve essere condannato in tutte le forme senza tentennamenti perché configura un ritorno alle barbarie e incide sulle regole di vita della società. I cittadini sono istigati all’odio e al rancore sociale e pertanto si compromette la convivenza civile. 3) Nelle ultime ore è ritornata all’ordine del giorno la richiesta di maggiori poteri e funzioni alle Regioni del Nord a seguito dei referendum consultivi celebrativi in quelle regioni e in particolare nel Veneto. Un preaccordo firmato dal precedente governo consente all’attuale di trasferire competenze nuove così come richieste per far diventare il Veneto un vero e proprio Stato. L’assoluta autonomia delle Regioni pretesa dalla Lega e ora anche da Cinque Stelle in omaggio al contratto sottoscritto dalle parti per la formazione del Governo dimostra ancora una volta come questi “movimenti” che hanno la maggioranza in Parlamento siano fuori dal contesto istituzionale per nulla interessati alla governabilità del sistema. Le Regioni hanno una loro regolamentazione nella Carta Costituzionale e hanno la funzione di rafforzare l’unità non di alterarla: la nostra pluralità istituzionale, nonostante le differenze pur esistenti nelle varie Regioni, ha retto, ha fatto progredire l’Italia e ha riscattato il Sud dalla sua arretratezza per inserirlo in una dinamica più ampia e complessiva. Questo progetto, ha detto Adriano Giannola è un “esercizio di lucida follia che relega il Sud nel ghetto ed è pericoloso anche per il Nord.” Chi vuole davvero realizzare questo progetto vuole due Italie, una sviluppata l’altra subordinata con il reddito di cittadinanza?!. La dimensione unitaria dell’Italia prima dell’integrazione europea era rivolta ad unificare il paese integrando sul piano sociale ed economico il Mezzogiorno, lo sforzo di riscattare il sud e appunto integrarlo con il resto del paese, dal dopoguerra in poi, ha prodotto risultati lusinghieri. Oggi questo processo non può essere portato avanti soltanto sul piano interno ma ha bisogno della dimensione sovranazionale, senza la quale il mezzogiorno è dimenticato e lo sviluppo non è integrato nelle sue componenti regionali. La necessaria dimensione sovranazionale è in contraddizione con il provincialismo e l’infantilismo di chi vuol dividere l’Italia in compartimenti stagni!! Tutto questo è estraneo al nostro governo perché il presunto sovranismo (con qualche vena polemica si potrebbe dire: dimostrata ignoranza) tiene tutto chiuso nel perimetro del territorio, come ai tempi degli stati assoluti europei e delle teorie fisiocratiche dell’economia. Questo non porta soltanto all’isolamento del nostro paese ma ad una perdita di vitalità democratica. Prescrizione abolita: una trappola per i pm. Perciò il Csm fa muro di Errico Novi Il Dubbio, 15 dicembre 2018 La delibera che fa a pezzi la legge anticorruzione è stata condivisa da tutte le correnti maggiori sia perché è scritta male, sia perché quando lo stop ai termini di estinzione si rivelerà un flop, i forcaioli daranno la colpa alle toghe. Leggenda vuole che il Movimento Cinque Stelle sia il partito più amato dai magistrati italiani. Ne costituirebbe addirittura l’avamposto. Ma la solenne stroncatura inflitta dal Csm alla legge-simbolo dei pentastellati, lo “Spazza corrotti”, smentisce definitivamente la diceria. La sesta commissione di Palazzo dei Marescialli si abbatte soprattutto sullo stop alla prescrizione. Che, si legge nella delibera, rischia di provocare un “allungamento dei processi” e di aggravare così “il vulnus al principio della ragionevole durata di cui all’art. 111 della Costituzione”. Il parere del Consiglio superiore era stato chiesto proprio dal padre della riforma, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. È passato all’unanimità: lo firmano una togata di Mi e un collega di Unicost, lo benedice il presidente della commissione, Cascini, che è di Area, quindi è condiviso da tutte le correnti maggiori della magistratura. Primo dato: addio leggenda. Addio leggenda dei Cinque Stelle avamposto politico delle Procure. Altri segnali lo avevano suggerito. A cominciare dalla nomina di David Ermini a vicepresidente del Csm, voluta da due importanti correnti togate, Unicost e Magistratura indipendente, a dispetto del governo. Adesso la conferma arriva con il parere che demolisce il ddl Spazza corrotti. Un documento che ha in sé qualcosa di clamoroso: è stato richiesto formalmente allo stesso Csm proprio dal ministro della Giustizia, e rileva le innumerevoli criticità della legge. Secondo la sesta commissione di Palazzo dei Marescialli, ci sono profili di incostituzionalità nel cosiddetto Daspo per i corrotti. E soprattutto, spiega la delibera che sarà votata fra pochi giorni in plenum, la prescrizione abolita dopo il primo grado trasformerebbe molti processi in una neverendig story. Com'è possibile? Come può - verrebbe da chiedersi - il potere dello Stato ritenuto più vicino ai cinquestelle, addirittura visto come consustanziale al partito di maggioranza, abbattersi con una spietata bocciatura proprio sulla legge- simbolo di quella forza politica? C’è un motivo principale, semplicissimo: quella legge è fatta male. Gronda offese alla Costituzione da ogni articolo (meglio, da ogni comma, visto che è stata deturpata pure dalla riduzione a maxiemendamento di un solo articolo). Lo aveva già messo per iscritto il Consiglio nazionale forense, nel lungo e dettagliatissimo documento che il suo presidente Andrea Mascherin aveva affidato alla commissione Giustizia della Camera. E infatti gran parte dei rilievi coincidono: tra le vittime più bersagliate dal testo dello “Spazza corrotti”, l’articolo 27, sia riguardo alla presunzione di non colpevolezza, sia per la strage fatta della finalità rieducativa della pena. A metterlo per iscritto è la commissione del Csm, la sesta come detto, preposta appunto a formulare pareri sui provvedimenti in materia di giustizia. La presiede uno dei più autorevoli esponenti della sinistra giudiziaria, quel Giuseppe Cascini che è stato segretario dell’Anm ed è “togato di punta” di Area, la corrente progressista. Relatori della delibera che fa a pezzi il ddl Anticorruzione sono Paola Braggion, di Magistratura indipendente, la “destra giudiziaria”, e Michele Ciambellini, della centrista Unicost. Come a dire che la stroncatura è bipartisan, trasversale nel senso più assoluto del termine. E allora: prima di tutto la legge è fatta male e un giurista serio non può negarlo. Poi c’è un altro aspetto, che riguarda in particolare lo stop alla prescrizione, ed è meno scontato ma importantissimo: svela perché la magistratura mai e poi mai cambierà idea sulla prescrizione in salsa Cinque Stelle. Va detto che l’idea di bloccare la decorrenza del termine di estinzione del reato dopo la sentenza di primo grado ha conosciuto un suo momento di gloria anche fra le toghe, quando presidente dell’Anm era Piercamillo Davigo. Ma ora la stragrande maggioranza dei magistrati ha capito, e lo ha capito per primo l’attuale numero uno dell’Anm Francesco Minisci, che lo stop alla prescrizione è una trappola. Una volta in vigore la norma, non ci sarà alcun effetto benefico sulla durata dei processi. Anzi i tempi si allungheranno. E nella maggior parte dei casi in cui intervengono oggi, le prescrizioni arriveranno comunque. Quasi l’ 80 per cento delle prescrizioni viene dichiarato, infatti, quando la sentenza di primo grado non è ancora stata pronunciata. Visto che in una fase iniziale gli uffici giudiziari tenteranno di mandare avanti più fascicoli di quanto non provino a portarne a dibattimento oggi, il primo effetto (ma fra 6- 7 anni almeno) consisterà in un ingolfamento ancora più cronico della macchina. A quel punto i pasdaran del giustizialismo diranno: ah, ma allora la colpa è dei magistrati. Ecco, è questo il legittimo incubo dei pm, e dei giudici: passare, tra qualche anno, per l’anello malfunzionante della giustizia. Adesso dicono che è tutta colpa degli avvocati perché ricorrono in appello anche quando il caso è disperato e lo fanno solo affinché il loro assistito abbracci la prescrizione. Fra qualche anno si scoprirà che non è così. Perciò l'Anm e il Csm insistono nel dire proprio quanto hanno detto, per primi, i presidenti del Cnf, Mascherin, e dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza: qualunque intervento sul processo deve partire da una riduzione dei tempi ottenibile non certo con lo stop alla prescrizione. Il Movimento Cinque Stelle ha avvicinato ancor di più avvocati e giudici. Basterà a farlo desistere? Bonafede: “Sulla prescrizione decide il Parlamento. Anche se dicono no giudici e avvocati” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 dicembre 2018 Il ministro della Giustizia: “Faremo entro l’anno la riforma del processo penale continuando ad ascoltare tutti”. Ministro Alfonso Bonafede, il disegno di legge anticorruzione è sul filo del traguardo, la prossima settimana è prevista l’approvazione definitiva alla Camera. Sarà contento. “Molto. La maggioranza s’è dimostrata compatta su una battaglia di legalità e onestà che siamo riusciti a condurre in porto prima del previsto. Anche il Greco, il gruppo di controllo sulla corruzione del Consiglio d’Europa, ha detto che si tratta di un passo avanti importantissimo”. Che contiene la nuova prescrizione inserita a lavori in corso, addirittura cambiando il titolo della legge. Non è una forzatura? “No, quella riforma era prevista nel contratto di governo, collegata a nuovi investimenti nel settore giustizia. Non appena, con la manovra, sono stati stanziati 500 milioni da spendere per nuove assunzioni abbiamo introdotto il blocco della decorrenza della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che chiedevamo da tempo. Con l’accortezza di farla entrare in vigore dal 2020, per avere il tempo di approvare anche le norme che renderanno più rapida la celebrazione dei processi”. Non era meglio approvare la nuova prescrizione insieme al resto delle riforme sui tempi del processo, come hanno chiesto avvocati e magistrati? “No, perché c’era l’occasione ed era inutile perdere tempo. Questa norma servirà da stimolo per le altre. In passato a forza di dire che le riforme vanno fatte tutte insieme, non se ne faceva mai nessuna”. Veramente la prescrizione è stata modificata nel 2017. “Ma secondo noi è sbagliata la filosofia di fondo di quella riforma, giacché con la sospensione di tre anni complessivi in attesa dell’appello e della cassazione si allontana il momento delle sentenze. Noi vogliamo ribaltare l’ottica accelerando i tempi del processo, in modo che nessuno possa più pensare che la prescrizione possa essere una meta da raggiungere”. Il Consiglio superiore della magistratura ha preparato un parere in cui si sostiene il contrario: il blocco definitivo dopo la sentenza di primo grado inciderà poco perché la maggior parte dei procedimenti si prescrive nella fase delle indagini preliminari, e senza la prescrizione le corti d’appello già oberate di lavoro fisseranno i processi con scadenze ancora più avanzate. È la stessa critica giunta dagli avvocati e dagli accademici. “Ho chiesto io quel parere, ma non lo condivido, e alla fine il Parlamento è sovrano e decide liberamente. E non è vero che non ascolto le opinioni altrui; lo slittamento dell’entrata in vigore al 2020 l’ho proposto io dopo aver incontrato gli avvocati, che sono sempre stati contrari, e i magistrati che inizialmente erano favorevoli ma poi hanno mostrato perplessità”. In realtà lo slittamento è arrivato dopo che la sua collega Giulia Bongiorno, a nome della Lega, parlò di “bomba atomica”. “L’importante è che sia stato trovato l’accordo politico con la Lega, e io già stamani (ieri, ndr) ho incontrato la collega Bongiorno per cominciare a parlare di come modificare il processo penale, dopo gli stanziamenti e la previsione di 600 magistrati in più negli organici. Non sarà uno stravolgimento, vogliamo individuare ed eliminare i tempi morti nelle diverse fasi, e per farlo ascolterò ancora avvocati e magistrati. Non abbiamo ancora cominciato a scriverla”. Ce la farà in un anno? “C’era scetticismo pure sulla riforma del processo civile, che invece abbiamo già preparato, anche accogliendo alcune proposte di modifica arrivate dall’esterno. Stesso discorso per l’anticorruzione, che ho presentato al consiglio dei ministri a settembre e sarà legge prima di Natale”. Con voti di fiducia a ripetizione... “Li abbiamo messi perché consideriamo questo provvedimento fondamentale per l’azione del governo, non c’è stato alcun abuso di quello strumento. Comunque ribadisco che per la riforma del processo le porte del ministero restano spalancate, però la vicenda della prescrizione dev’essere un monito: si ascoltano le opinioni di tutti, con rispetto, ma alla fine si decide”. Oggi dal Brasile arriva la notizia dell’ordine d’arresto per l’ex terrorista Cesare Battisti in attesa dell’estradizione, e il suo collega dell’Interno, Matteo Salvini, è tornato a dire che è pronto a salire su un aereo per andarlo a prendere. Farete a gara a chi arriva prima? “Non c’è nessuna gara. Oggi abbiamo avuto il riconoscimento della bontà del lavoro che il ministero della Giustizia porta avanti da anni. Non solo quello guidato da me. La decisione di queste ore accoglie le nostre richieste, ma è una fase in cui bisogna essere cauti e aspettare l’esito di una vicenda che si trascina da troppo tempo. Poi ognuno è libero di manifestare come preferisce i propri stati d’animo”. Pusher subito scarcerati. Salvini: basta, ora leggi più dure di Paolo Ceccarelli e Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 15 dicembre 2018 “Da ministro dell’Interno - dice Salvini dopo essersi letto le cronache che riportano la notizia - ringrazio una volta di più le donne e gli uomini in divisa che svolgono con eroismo e professionalità il proprio lavoro. E sono felice di aver finanziato “Scuole sicure” per cacciare i pusher che offrono morte agli studenti e ai nostri figli. Da senatore - aggiunge il leader del Carroccio - ho presentato una proposta di legge per aumentare di parecchio le pene agli spacciatori. Io non mollo e non mi rassegno”. Agenti sotto copertura e telecamere nascoste: questi gli strumenti che hanno consentito di sgominare la rete di pusher nel centro di Pisa. Per 40 giorni gli investigatori, coadiuvati dai colleghi del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato (specializzato nelle indagini sulla criminalità organizzata e antimafia e coinvolti spesso in indagini, anche a livello internazionale, particolarmente complesse) hanno presidiato il quartiere della stazione ferroviaria. Quattro agenti, a rotazione, si sono “travestiti” per clienti al fine di incastrare gli spacciatori, tutti stranieri: tunisini, marocchini, senegalesi e gambiani. Poi le telecamere nascoste hanno immortalato quasi cento cessioni di stupefacenti. Per la Procura, i 27 spacciatori campavano di questa attività. Un’ipotesi non condivisa dal gip che, ritenendo uno smercio di piccole quantità di droga un reato di lieve gravità, ha rimesso in libertà ventidue pusher disponendo per loro il divieto di dimora a Pisa, mentre ha ordinato la misura in carcere per altri cinque. Il procuratore capo di Pisa Alessandro Crini annuncia ricorso al Tribunale del Riesame, ma resta soddisfatto delle indagini: “L’operazione investigativa proposta dallo Sco è una formula congeniale alla repressione dello spaccio in piazza che ritengo sia un fenomeno particolarmente grave e il risultato c’è”. E aggiunge: “Aspettiamo il Riesame, ma non bisogna dimenticare che per la Corte di Cassazione lo spaccio per strada organizzato in maniera abituale e, quindi non occasionale, non può essere considerato di lieve entità”. Al contrario di Crini, la Lega non è affatto soddisfatta. Dopo Salvini, intervengono anche Ceccardi e il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone. “Pisa - scrivono in una nota congiunta - è la punta dell’iceberg di una situazione gravissima ormai diffusa nel Paese. Avremmo voluto che fosse anche un esempio per la lotta ai mercanti di morte. Al contrario, la brillante operazione antidroga condotta dalle forze dell’ordine nei giorni scorsi, con l’arresto di 22 spacciatori, tutti giovani stranieri, e altre trenta persone indagate, è praticamente svanita nel nulla”. E - aggiungono polemici la leader del Carroccio toscano e il sottosegretario - “qualcuno ne dovrà rendere conto, senza trincerarsi dietro cavilli di una legge che appare sempre più scollegata dalla realtà”. Dicono basta a “norme ultra permissive” e no alla distinzione tra “spaccio “semplice”, ovvero di lieve entità” e quello pesante, e a quella tra droghe leggere e droghe pesanti, appoggiando l’idea di Salvini “di aumentare in modo significativo le pene agli spacciatori, consentendo l’applicazione della loro custodia cautelare in carcere, senza sconti”. Un messaggio, quest’ultimo, che sembra un invito al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (Movimento Cinque Stelle), di cui Morrone è sottosegretario. “Ma il ministro fa confusione tra pene e misure cautelari” di Giulio Gori Corriere Fiorentino, 15 dicembre 2018 “Il ministro Matteo Salvini fa confusione. Inasprire le pene per il reato di spaccio di stupefacenti non cambierebbe assolutamente nulla per quel che riguarda le norme sulla carcerazione preventiva”. Il professor Paolo Caretti, ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Firenze, interviene sul caso della scarcerazione dei ventidue presunti spacciatori avvenuta giovedì a Pisa e sulle successive polemiche sollevate dal ministro dell’Interno. Professor Caretti, cosa non le torna nel ragionamento di Salvini? “Un conto è la pena, altro conto è la misura cautelare. Il caso di cronaca non si riferisce a persone che sono state rilasciate dopo la condanna. Le misure cautelari intervengono prima del processo e della condanna. Le pene intervengono dopo. Nella fase delle indagini preliminari si può chiedere al gip una misura cautelare, non l’applicazione della pena”. Vale a dire che, in questa fase, non interviene il codice penale ma il codice di procedura penale? “Certo. Quanto alle pene per gli spacciatori, basse, medie o alte che siano, alzarle non risolverebbe il problema contestato da Salvini. Il gip ha semplicemente ritenuto che non ci fossero le condizioni per la misura cautelare in questa fase delle indagini. Insomma, non cambierebbe niente”. A suo giudizio sarebbe opportuno riformare il codice di procedura penale, cambiando le norme sulla carcerazione preventiva, o al contrario l’attuale sistema di garanzie è giusto? “Abbiamo un codice di procedura penale relativamente recente, che dal 1989 ha innovato molto rispetto al codice precedente. Oggi all’inizio delle indagini a carico di un soggetto, c’è la possibilità che il pm chieda al gip l’applicazione di una misura cautelare. Questa misura può essere disposta se c’è pericolo di fuga, di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove... Allora vengono applicate le misure più varie, non solo il carcere: ci sono l’obbligo di soggiorno, il ritiro del passaporto, i domiciliari... Dipende da caso a caso”. Prima del 1989 come funzionava? “C’erano meno garanzie per l’indagato, il codice riduceva possibilità di difendersi e non c’era gradualità di misure, c’era solo il carcere. Da allora si sono ampliate le garanzie per gli indagati. Se si vuole un codice meno garantista basta tornare indietro”. E lo ritiene auspicabile? “Dobbiamo sempre ricordare che queste norme incidono sulla libertà personale degli individui. Le garanzie sono poche, sono troppe? Non dimentichiamo che fino al 1989 molti si lamentavano che avevamo un codice di procedura penale troppo autoritario che risaliva al periodo pre-costituzionale. Teniamo conto che queste garanzie valgono per tutti, non solo per gli spacciatori. E il principio è che un indagato è un indagato, la gravità del reato sarà accertata in dibattimento. Vogliamo tornare indietro? Se i politici ritengono di volere un codice meno garantista per la libertà degli individui, se ne assumano la responsabilità”. La Lega ha fatto parte per anni di un centrodestra garantista, che accusava i magistrati di autoritarismo, di fare eccessivo ricorso al carcere preventivo. Siamo al cambio di paradigma? “Devo essere sincero, non ricordo la Lega schierata. Riguardo al possibile inasprimento delle pene, quella di Salvini è una proposta che va in controtendenza rispetto agli ultimi decenni? “Nella nostra storia repubblicana non c’è una linea retta di sviluppo. Quando negli anni ‘80 abbiamo avuto il terrorismo interno, abbiamo avuto misure eccezionali per far fronte a una situazione eccezionale. Il contesto politico-sociale cambia: aggravare o meno una pena non è dipeso dal ghiribizzo dei politici, ci sono stati periodi in cui i due codici hanno attenuato certe garanzie per far fronte a certi fenomeni. E dal 1948 le pene non sono andate sempre riducendosi: anche di recente, per certi reati si invocano pene maggiori, come per il femminicidio, o ad esempio è stato introdotto il reato di omicidio stradale. Sono singoli fenomeni per i quali si propongono nuovi reati o pene più gravi. Non mi pare che da nessuna parte ci sia la volontà di aumentare le pene per tutti i reati. Anche perché non avremmo neppure le carceri per contenere i condannati”. Oltre a quello carcerario, c’è un problema legato al processo penale? Salvini ha invocato spesso la certezza del diritto: non pensa che sia minata dall’eccessiva durata dei processi? “A me pare che il problema più grosso resti quello della giustizia civile, lo è molto meno quello della giustizia penale, almeno fino alla sentenza di primo grado. Dopodiché non c’è più la carcerazione preventiva, perché opera la sentenza di assoluzione o di condanna, che in certi casi prevede il carcere. Ma una cosa è certa, quando sento gridare allo scandalo per una scarcerazione ci dobbiamo mettere d’accordo: non possiamo chiedere garanzie solo quando il processo riguarda persone che conosciamo e poi chiedere che non ci siano le stesse garanzie quando siamo le vittime di un reato. La legge deve essere uguale per tutti, altrimenti ci sarebbero dei rischi enormi”. Stefano Cucchi e tutti gli altri. Lo squarcio sul “sistema” di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 dicembre 2018 Il processo bis in corso davanti alla Corte d’Assise di Roma sta demolendo l’assioma del “drogato che se l’è cercata”. Aldrovandi, Magherini, Uva, Sandri, Budroni... È lungo l’elenco dei morti mentre di Stato. L’assioma ideologico su cui si è basata fin qui la difesa degli imputati, sia nel primo che nel secondo processo, e che ha sempre potuto contare sul megafono dei vari Salvini e Giovanardi - Stefano Cucchi è morto sostanzialmente perché era un drogato, uno che cercava e seminava morte, dunque un cittadino di serie B, e se ha preso qualche ceffone la colpa era solo sua - si sta sciogliendo come neve al sole, man mano che si apre un varco nel muro di omertà e indifferenza che per nove anni ha impedito di arrivare alla verità. “Sono un militare, non faccio domande”, “siamo militari, rispettiamo gli ordini”, “sono un militare, nessuno mi ha chiesto di raccontare e io non ho raccontato”… Sono le risposte più frequenti che risuonano all’interno dell’aula di Corte d’Assise del tribunale di Roma nelle ultime udienze del processo bis, da quando il pm Giovanni Musarò ha chiamato come testi alcuni carabinieri che a vario titolo sono entrati nella nuova inchiesta integrativa aperta sul depistaggio e l’occultamento delle prove. Il valente magistrato antimafia sta cercando di capire fino a quale livello è coinvolta la scala gerarchica dell’Arma, ma ciò che si sta svelando fin da ora - a parte un’evidente quanto negata incompatibilità tra il ruolo di polizia giudiziaria e l’ordinamento militare - è un “sistema” (non si sa quanto diffuso) che contempla anche la violazione delle regole democratiche, e finisce col costruire omertà e impunità. Contaminando a volte anche ambiti professionali e istituzionali contigui, come si evince dal fatto che Stefano, dopo essere stato pestato e fino alla sua morte, entrò in contatto con circa 140 persone che ebbero modo di accorgersi delle sue condizioni di salute ma che si voltarono dall’altra parte. Un “sistema” che sta emergendo grazie alla professionalità e all’inflessibilità di un giovane magistrato già nel mirino delle mafie, ma soprattutto al coraggio, alla caparbietà e all’amore dimostrato da Ilaria Cucchi e dai suoi genitori. Una famiglia che con altrettanta onestà e inflessibilità - e sotto un fuoco di fila che avrebbe spaventato chiunque - è rimasta fedele alla difesa dei diritti di Stefano e ha pure imparato ad usare le forme di comunicazione, anche quelle più di impatto mediatico, come le foto del cadavere esposte mentre si celebrava il primo processo. Ilaria però non ha dimenticato che il caso di suo fratello Stefano è forse la punta di un iceberg che sta emergendo, tanto da aver fondato un’associazione che si occupa dei tanti - troppi - cittadini morti mentre erano nelle mani di uomini di Stato. La “Stefano Cucchi onlus” si prefigge infatti il compito di dare una mano alle famiglie che attendono ancora giustizia per la morte di un loro congiunto o che non credono a quella dichiarata in un’aula di tribunale. “Pensiamo a Giulio Regeni, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini - scrive Ilaria sul sito dell’associazione -. Tutte queste storie, tutte le persone dietro a queste storie ci testimoniano, con la loro morte, che è una morte di Stato, che uno Stato di diritto senza diritto è una banda di predoni”. Ma la lista potrebbe essere molto più lunga, anche al netto della media dei 160 morti in carcere l’anno dal 2000 ad oggi (fonte: Ristretti Orizzonti), e dei 64 suicidi dall’inizio del 2018, mai così tanti negli ultimi sei anni. Si potrebbero ricordare casi più o meno noti e ancora controversi come quello di Aldo Bianzino, il mite e sano falegname arrestato il 12 ottobre 2007 per detenzione di piante di marijuana e morto due giorni dopo in una cella del carcere Capanne, a Perugia. O di Michele Ferrulli, deceduto il 30 giugno 2011 durante un fermo di polizia, in strada, a Milano. O di Riccardo Rasman, uomo affetto da schizofrenia paranoide che nell’ottobre 2006 fu malamente immobilizzato nel suo appartamento di Trieste da tre agenti che vi fecero irruzione dopo una segnalazione, e così lo uccisero. O ancora di Gabriele Sandri, il tifoso morto nel 2007 sotto i colpi sparati a distanza da un poliziotto in un autogrill di Arezzo. O di Bernardino Budroni, morto nel luglio 2011 sotto i colpi sparati da un poliziotto al termine di un inseguimento sul Gra, a Roma. O di Franco Matrogiovanni, deceduto nel 2009 durante un Trattamento sanitario obbligatorio nel reparto psichiatrico dell’ospedale Vallo della Lucania, dopo 82 ore di contenzione. O di Tony Drago, morto nel 2014 a soli 25 anni mentre prestava servizio militare a Roma, nello squadrone di rappresentanza del reggimento Lancieri di Montebello. Precipitato da una finestra, subito i commilitoni parlarono di suicidio. Tesi non condivisa dai familiari che credevano piuttosto ad un episodio di nonnismo, e rigettata per ultimo anche dai periti nominati dal gip che nel marzo 2017 hanno affermato che il giovane è stato ucciso. Solo in seguito, la Procura militare ha aperto un’inchiesta ipotizzando il reato di omicidio volontario. C’è anche chi è rimato vivo e ha potuto raccontare. Come Stefano Gugliotta, un giovane scambiato per un ultrà durante la finale di Coppa Italia del 2010 e pestato senza alcun motivo in strada, a Roma, nei pressi dello stadio Olimpico, da nove poliziotti. Il tifoso Paolo Scaroni invece rimase in coma due mesi, nel 2004, per i colpi di manganello, impugnato al contrario, sferrati da alcuni agenti (mai identificati) alla stazione di Verona, dopo la partita contro il Brescia. Dopo 11 anni Scaroni non ha ottenuto i nomi di chi lo ha ridotto invalido al 100% ma solo un risarcimento del Ministero dell’Interno di 1,4 milioni di euro. Si potrebbe continuare a lungo, raccontando fatti che naturalmente non chiamano in causa solo le forze dell’ordine. Spesso la verità non è ancora venuta a galla, alcuni processi sono ancora in corso o i familiari chiedono - con qualche fondamento - di riaprire i casi. Non accade solo da noi ma in Italia, ottenuta finalmente una legge che punisce in qualche modo la tortura, anche se in modo del tutto non conforme ai trattati internazionali, il codice identificativo per gli agenti, per esempio, è ancora un tabù coccolato dalle destre. La democratizzazione dei corpi di polizia ha ancora bisogno di una spinta propulsiva. Almeno uguale e contraria alla militarizzazione che avanza. Consulta. Allontanamento rafforzato contro le violenze familiari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2018 La misura sarà applicabile per le lesioni lievissime anche ai figli naturali. Più tutele contro le violenze in famiglia. Il tribunale potrà ordinare l’allontanamento dalla casa familiare anche di chi è indagato o imputato di lesioni volontarie lievissime “nei confronti di figli naturali, di discendenti e ascendenti in generale, nonché del coniuge, anche separato o divorziato, dell’altra parte dell’unione civile, anche cessata, del convivente in modo stabile con cui ha un rapporto affettivo”. È questo il quadro che emerge dalla sentenza depositata ieri con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che attribuisce al giudice di pace la competenza sul reato, tentato o consumato, di lesioni volontarie lievissime in danno del figlio naturale. La Corte in questo modo pone rimedio a un’evidente “svista” del legislatore. Nel 2017, il decreto legge n. 81, con l’intenzione di irrobustire la repressione della violenza domestica, mise in campo una serie di misure, compreso il trasferimento del reato di lesioni lievissime, considerato indice possibile di violenze più gravi e abituali, dalla competenza del giudice di pace a quella del Tribunale, rendendo così possibile l’adozione di un provvedimento di allontanamento dalla casa familiare, interdetta al giudice di pace essendo una misura cautelare personale. Inspiegabilmente, però, osserva il comunicato della Consulta diffuso ieri, dalla competenza del giudice ordinario è rimasto escluso il reato di lesioni lievissime contro il figlio naturale. Il che ha creato un regime differenziato rispetto al figlio adottivo, ritenuto ora irragionevole oltre che lesivo del principio di uguaglianza, e quindi discriminatorio. Secondo la Corte, anche per i figli naturali la competenza deve spettare al giudice monocratico, con tutte le conseguenze che questo cambiamento comporta sul piano del regime sostanziale (pene, riti alternativi ecc.). Le conseguenze dell’illegittimità della norma impugnata sono state estese anche ai casi di lesioni volontarie lievissime nei confronti degli ascendenti e dei discendenti. Analoga, ulteriore estensione è stata disposta quando la violenza è rivolta al coniuge, anche se separato o divorziato, all’altra parte dell’unione civile, ancorché cessata, alla persona legata al colpevole da un rapporto affettivo e con lui convivente in modo stabile. È vero poi che la decisione ha come effetto un peggioramento del trattamento penale, ma la sentenza ricorda come “la giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche recentemente (sentenza n. 143 del 2018), ammette, in particolari situazioni, interventi con possibili effetti in malam partem in materia penale (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n. 394 del 2006), pur precisando che “resta impregiudicata ogni ulteriore considerazione (...) circa l’ampiezza e i limiti” di tali interventi”. E tuttavia fino alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della pronuncia dovrà essere applicata la disciplina più favorevole all’imputato. Campania: ogni anno arrestati 5.000 minori, il 65% ha già parenti in carcere di Angelo Agrippa Corriere del Mezzogiorno, 15 dicembre 2018 Il Garante dei detenuti Ciambriello: “Adolescenti che si esprimono solo con una cinquantina di vocaboli dialettali”. Cinquemila adolescenti arrestati in un anno. E per lo più in possesso di un linguaggio idiomatico sghembo, simbolicamente tatuato, fatto più di parole mutilate - una cinquantina dice il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello - che di costruzioni elaborate. Insomma, energie pure che si frantumano e si disperdono lungo i mille rivoli bui della clandestinità per alimentare le strade peggiori: quelle affollate di violenza e criminalità. È l’universo parallelo - semisconosciuto ma pronto a sguainare l’indice accusatore nei confronti di ciascuno di noi - di cui fanno parte i minori a rischio, i baby criminali, i ragazzi di strada che, tuttavia, non conservano più nulla dello sguardo beffardo e del grugno simpaticamente minaccioso della vecchia narrazione neorealista. No, persino le cifre accennate lasciano un senso di bruciore sulla coscienza di ciascuno. “L’anno scorso circa 5 mila adolescenti sono stati fermati, interrogati, accompagnati a casa, nelle comunità o nelle carceri. Spesso in Campania con il termine baby gang mettiamo dentro tutto: chi presenta un disagio, chi vive la devianza o la microcriminalità. Attualmente tra le carceri di Nisida e Airola ci sono 110 ragazzi tra i 14 e i 18 anni. Sono tutto sommato pochi. Ma noi cosa facciamo per gli altri 4.800 che non vanno in carcere né in comunità, ma restano in una condizione drammatica di povertà educativa e culturale che li inchioda ad un vocabolario di 50 parole, peraltro rigorosamente in dialetto napoletano, rispetto a chi, invece, ne conosce mille o più di una lingua straniera?”. Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, squaderna i dati relativi al drammatico trend del fenomeno socio-criminale con protagonisti proprio i minorenni. E lo fa in occasione dell’incontro “Liberare i minori e renderli adulti e responsabili” che ha coinvolto magistrati, sociologi, operatori sociali e dirigenti degli istituti di pena. “Nei nostri centri per minori - continua - ci sono giovani adulti. E dire che su dieci ragazzi, soltanto uno viene condannato, perché gli altri nove non sono punibili per via dell’età. Mancano di tutto: di una famiglia (di solito i due terzi di questi adolescenti hanno parenti detenuti); di una scuola (posseggono soltanto la licenza elementare, perché d’obbligo, e in tanti la conseguono in carcere); di un riferimento (nessuno di loro si considera napoletano, poiché restano avvinghiati al loro quartiere: io sono di Miano, di Forcella, di Scampia). Ed è nel loro quartiere che l’80 per cento di essi trova anche la propria sposa. Scoprire, per esempio, l’esistenza di San Gregorio Armeno per chi non è dei Tribunali è come una rivelazione: “Oh, ce sta pure ‘sta via a Napule?”, si chiedono sorpresi. “Cinquanta parole bastano per sopravvivere nel loro mondo - spiega Ciambriello. Le più comuni sono: frate a me, ‘a paranza, ‘o masto, ‘o curtiello”. Adoperano un linguaggio primitivo. Con espressioni simboliche e tribali. “In Italia, nell’anno scolastico 2017/2018 si sarebbero dovuti diplomare 800 mila studenti di scuola media superiore. Alla fine, ne sono mancati 80 mila, di cui 12 mila soltanto in Campania. Ma mentre in Toscana il calo di diplomati si spiega con l’occupazione lavorativa, qui i 12 mila sono come naufraghi della società che non vengono agganciati da nessuno”. Per il garante campano dei detenuti “una società che giudica un minore, e dopo averlo giudicato lo mette in carcere, è una società malata che sta giudicando se stessa e la propria malattia, perché l’adolescente è il prodotto di quella stessa società”. La riforma penitenziaria per i minori può significare più ore d’aria, maggiori possibilità affettive, soprattutto più formazione professionale. “L’imperativo - ha precisato - deve essere liberare i minori per renderli adulti e responsabili”. Da qui la necessità di organizzare un tavolo di confronto: “Ho inteso mettere intorno allo stesso tavolo presidenti di tribunali, responsabili delle comunità residenziali per i minori, il procuratore del tribunale per i minorenni, responsabili nazionali e regionali della giustizia minorile e la politica perché il tema è sensibile”. L’assessore regionale alle Pari opportunità, Chiara Marciani, dal canto suo ha ricordato tutti gli investimenti messi in campo per la formazione: “Con il garante condividiamo un lavoro sul tema dei minori e sulle attività formative che stiamo portando avanti non solo nelle carceri, ma anche in strutture dove i ragazzi scontano pene attenuate, per provare a venire incontro alle esigenze dei minori. Abbiamo voluto introdurre - ha sostenuto l’assessore - un progetto che proviene dalla tradizione tedesca, il sistema Gual, per consentire ai minori, sin dall’età di 13 anni, di affrontare un percorso formativo, da uno ai tre anni, molto più pratico, in grado di assicurare loro la possibilità di avviarsi realmente verso un mestiere. La Regione ha investito più di 17 milioni di euro”. Intanto si attende dal Governo nazionale la legge di riforma penitenziaria per i minori. “La riforma - ha continuato Ciambriello - può significare più ore d’aria, più possibilità affettive, più telefonate e soprattutto più formazione professionale con tirocini all’esterno sia delle comunità, sia delle carceri”. Veneto: l’assessore Donazzan “test antidroga per tutti gli studenti” di Matteo Orlando Il Giornale, 15 dicembre 2018 Elena Donazzan, l’assessore all’istruzione e formazione della giunta guidata da Luca Zaia, propone di sottoporre gli studenti della sua regione ai test antidroga. In Veneto Elena Donazzan, l’assessore all’istruzione e formazione della giunta guidata da Luca Zaia, propone di sottoporre gli studenti della regione ai test antidroga. “Come per praticare uno sport è necessario sottoporsi ad una visita medico sportiva e dimostrare di godere di una buona condizione fisica”, ha detto l’Assessore, “così la frequenza scolastica e lo studio dovrebbero richiedere lucidità e padronanza delle proprie capacità percettive e cognitive”. Trovando condivisibile la proposta suggeritale dal giornalista Alberto Gottardo di Radio Padova, durante una trasmissione in diretta del 14 dicembre, la Donazzan ritiene che “gli esiti del test dovrebbero essere valutati anche ai fini del voto in condotta, arrivando, se necessario, alla bocciatura, in presenza di uso ricorrente”. “Ogni giorno assistiamo a segnalazioni della presenza di droga negli istituti scolastici”, dice l'assessore attraverso il comunicato stampa pubblicato sul sito della Regione Veneto. “Ne parla la stampa, sui social imperversano messaggi di ogni tipo, veicolati anche da canzoni provocatorie che spopolano tra i giovanissimi. La diffusione di sostanze stupefacenti appare ormai un fenomeno di consumismo disinvolto tra i più giovani. Ragazzi e preadolescenti vanno a scuola portando nello zaino non la merenda, ma la canna di hashish o marijuana o altre sostanze stimolanti o allucinogene”. La Donazzan ricorda che l'assunzione delle droghe non viene percepita dai giovani come dannosa e parla, citando l’ultima Relazione annuale al Parlamento sul consumo di stupefacenti in Italia, di oltre la metà degli studenti italiani che non considera dannoso l’uso regolare di sostanze psicoattive, tantomeno l’uso occasionale. “Assumere sostanze stupefacenti sembra sia diventato un comportamento socialmente accettabile, anzi performante”, spiega l'Assessore. “Invece, tutti gli studi scientifici dimostrano quanto grave sia l’impatto di sostanze stimolati e stupefacenti sul cervello e sullo sviluppo psicofisico dei nostri ragazzi, con danni irreversibili che si ripercuoteranno sull’intera società. Per questo credo sia necessario un cambio di rotta, prima di tutto sul fronte educativo”. La Donazzan ha voluto ringraziare anche le forze dell’ordine per i controlli effettuati in Veneto negli spazi pubblici, sui mezzi di trasporto e davanti le scuole, anche attraverso le unità cinofile e ha fatto una denuncia: “una mamma ha riferito di un professore che avrebbe avvisato la classe dell’imminente controllo antidroga [...] considero il comportamento di quel docente gravemente diseducativo. Quell’insegnante dovrebbe essere immediatamente licenziato, perché pericoloso per i propri studenti”. Qualche mese fa la Donazzan aveva chiesto al governo nazionale, attraverso una mozione proposta congiuntamente ad altri consiglieri regionali e esperti di tossicologia, di fermare la vendita libera della cosiddetta cannabis light e dei prodotti derivati, un settore, definito dalla mozione “pericoloso e in proliferazione, con 422 negozi presenti in tutta Italia ed almeno uno in ogni capoluogo di provincia del Veneto”, una diffusione, quella della cannabis light, considerata “pericolosa dal punto di vista sia della salute che ideologica e che porta con sé un’evidente disinformazione”. Napoli: da Secondigliano un modello virtuoso per il recupero di Valentina Stella Il Dubbio, 15 dicembre 2018 Intervista alla direttrice dell’istituto penitenziario napoletano, Giulia Russo. Un centro autorizzato per le revisioni di autovetture e veicoli stradali fino a 3,5 tonnellate all’interno del carcere “P. Mandato” di Napoli Secondigliano, nel quartiere Scampia, dove lavoreranno i detenuti una volta formati con i corsi di formazione regionale previsti per le fasce deboli 2014/2020. È quanto prevede uno dei due protocolli d’intesa sottoscritti a Napoli alla presenza del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al capo del Dap, Francesco Basentini, al sindaco Luigi De Magistris. Il secondo protocollo - “Mi riscatto per Napoli” - prevede invece l’impiego di detenuti del carcere napoletano, nell’ambito di attività lavorative di pubblica utilità, in particolare, per interventi di pulizia e restituzione del decoro di alcuni spazi pubblici come aree verdi e piazze del capoluogo partenopeo. L’obiettivo è quello di riuscire a coinvolgere gradualmente cento detenuti. Numerose le autorità intervenute per la presentazione dei protocolli - tra cui il Segretario generale della Cassa ammende, Sonia Specchia e la presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Adriana Pangia, oltre ovviamente la direttrice del carcere di Secondigliano, Giulia Russo. Direttrice due protocolli importanti quelli appena sottoscritti, la prima volta poi tra due ministeri (Giustizia e Trasporti) insieme... Abbiamo voluto implementare le attività collegate ai lavori di pubblica utilità per i detenuti. Ci siamo mossi su tre importanti direttrici: la prima è la giustizia riparativa per cui i detenuti non riceveranno uno stipendio ma con il loro lavoro supereranno quella è che stata la lesione del patto sociale grazie al partenariato con il comune di Napoli. La seconda è la formazione grazie all’intervento di altre istituzioni importantissime come la Regione Campania, con la quale siamo stati firmatari un anno fa di progetti formativi. Al termine i reclusi riceveranno una certificazione regionale di acquisizione di competenze, che potrà essere utile per trovare un lavoro una volta espiata la pena. La terza riguarda la Cassa delle ammende che sta ipotizzando per il prossimo futuro di elargire dei sussidi per la remissione dei debiti che i detenuti contraggono o per spese di giustizia o per quelle derivanti dalla loro presenza nel carcere. Se non estinti potrebbero andare ad incidere sui loro probabili stipendi da cittadini liberi. Per il secondo protocollo, in particolare, si tratta di una importante sintesi inter-istituzionale, che avviene per la prima volta in Italia. Noi già dal 2017 con manodopera detenuta ci occupiamo del parco auto della polizia penitenziaria con un risparmio di circa il 50% rispetto agli anni precedenti e con questo nuovo protocollo puntiamo alla formazione meccatronica, attraverso corsi regionali, quindi spendibili completamente all’esterno. Un detenuto uscito dal carcere di Secondigliano potrà, con questa certificazione, aprire una autofficina. Il salto di qualità che abbiamo fatto con questo protocollo è che il centro di revisioni aprirà ai privati: più lavoro, più guadagno per la stessa amministrazione penitenziaria, in maniera totalmente trasparente con richiesta di riaccredito sui capitoli di spesa dell’amministrazione penitenziaria. Ma soprattutto si creerà un ponte tra l’intramurale e l’extramurale. Si tratta di concretizzare il dettato Costituzionale: rieducazione ma soprattutto risocializzazione del condannato. Nel carcere di Secondigliano a giugno è stato anche inaugurato il polo universitario penitenziario regionale per i detenuti della Campania, il primo del meridione ed è stato costituito dall'Università degli Studi di Napoli Federico II e dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria Provveditorato regionale... Ci sono le facoltà di Giurisprudenza, Scienze politiche, Economia e commercio, Farmacia e Nutraceutica, Arti politecniche. Per il prossimo anno accademico ci sarà probabilmente una implementazione grazie alla facoltà di Ingegneria. Lunedì 17 dicembre ci sarà la presentazione del corpo docente ai nostri detenuti. Sono settantasei quelli che si sono iscritti, trentuno di alta sicurezza e il resto media sicurezza ovvero detenuti comuni. Vi è stata però l’apertura a tutti gli istituti di Italia, previa sottoscrizione di un patto trattamentale, per evitare di accedere a Secondigliano solo per una mira territoriale. Grazie alla sinergia con l’Università e con la Regione Campania i detenuti non pagheranno le tasse universitarie. L’attenzione del ministro Bonafede per Secondigliano è particolare, avendovi fatto la prima delle sue visite a sorpresa. Accanto all’eccellenza delle attività che lei ha appena descritte, c’è da sottolineare il problema del sovraffollamento... Nonostante i nostri siano numeri importanti - forse quello di Secondigliano con 40 ettari di estensione è il carcere più grande d’Italia - e il numero dei detenuti abbia ormai superato quota 1400. su una capienza regolamentare di 1080 posti, non abbiamo un concreto problema di sovraffollamento. La struttura prevede tutti reparti soprattutto con stanze per due detenuti. Inoltre siamo dotati di un padiglione con servizio denominato Sai(Servizio di assistenza intensificato) che assicura assistenza sanitaria e che prevede anche stanze con un solo posto letto per esigenze particolari. Nel carcere di Secondigliano sono rinchiuse molti esponenti della malavita organizzata: dai boss ai gregari. Crede che anche per loro sia possibile la rieducazione e la risocializzazione? Qui ci sono molti detenuti condannati per associazione mafiosa. Noi lavoriamo con molta attenzione. Proprio ultimamente c’è stata una bella manifestazione teatrale dal titolo “Io non ci casco” scritta con l’aiuto dei registi e dei volontari e interpretata da un gruppo di venti detenuti, alcuni dei quali ergastolani. Lo spettacolo rappresenta non dico una abiura, ma sicuramente una presa di distanza da un vissuto passato tanto è vero che ci avevano chiesto di pubblicare i loro nomi e cognomi. Si tratta di un segnale importante: se riusciamo già a salvare venti persone in un modo, trenta in un altro modo, noi riusciamo ad erodere la realtà criminale di numeri significativi. Lucca: “Liberi dentro”, i detenuti si occupano della digitalizzazione dei documenti Asl loschermo.it, 15 dicembre 2018 Coinvolgerà i detenuti del carcere di San Giorgio ed ospiti della Casa San Francesco di Lucca il progetto “Liberi dentro”, che prevede la realizzazione in queste due sedi di laboratori permanenti per la digitalizzazione dei documenti amministrativi Asl. Il percorso, avviato nei mesi scorsi all’interno della casa circondariale, è stato sviluppato dall’Azienda USL Toscana nord ovest con alcuni partner che hanno creduto fin da subito nell’importanza del progetto: l’Arcidiocesi di Lucca - Ufficio pastorale Caritas, la Casa Circondariale San Giorgio di Lucca ed il Gruppo Volontari Carcere di Lucca. Oltre all’Azienda sanitaria, che ha investito quasi 21mila euro, hanno finanziato l’intervento la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca (40mila euro tramite un bando), la Caritas diocesana (oltre 28mila euro) e la Regione Toscana (quasi 16mila euro), per un costo totale superiore ai 100mila euro. L’iniziativa, innovativa a livello nazionale, è stata presentata questa mattina (14 dicembre), all’interno del carcere, dal direttore della Casa circondariale di Lucca Francesco Ruello, dal direttore della Caritas di Lucca Donatella Turri, dalla tutor del progetto Silvia Bulckaen, dalla responsabile delle attività in carcere per Caritas Arianna Pisani, dalla vicepresidente del Gruppo Volontari Carcere (che gestisce la Casa San Francesco) Silvana Giambastiani, dal responsabile della zona distretto Piana di Lucca dell’Asl Luigi Rossi insieme alla collaboratrice sanitaria Giuliana Martinelli che sta seguendo il percorso della digitalizzazione in Azienda. Alla fine del 2017 è iniziata una fase di formazione e di test e nel mese di agosto 2018 sono state allestite alcune postazioni di lavoro nella Casa circondariale e nella Casa San Francesco. Già da alcune settimane - grazie a borse lavoro - quattro detenuti, individuati dagli educatori, con rotazione ogni tre mesi, si occupano della digitalizzazione dei documenti amministrativi cartacei dell’Azienda USL Toscana nord ovest. Sempre con borse lavoro anche quattro ospiti della Casa San Francesco, struttura in cui trovano accoglienza i detenuti agli arresti domiciliari, inizieranno un’analoga attività. Il progetto sarà quindi portato avanti, a regime, da 8 operatori, che acquisiranno anche competenze utili per il loro futuro. L’obiettivo generale è infatti quello di contribuire - all’interno di un più vasto programma di azioni formative - alla riabilitazione dei detenuti, o comunque di persone che hanno avuto l’esperienza del carcere, ed alla definizione di un percorso finalizzato ad una futura autonomia e ad un reinserimento nel mondo del lavoro. Il progetto “Liberi dentro” si propone di affiancare il più complessivo lavoro di recupero nella Casa circondariale, attraverso la creazione di percorsi di formazione e lavoro interni al carcere e nella Casa San Francesco e che vede, in particolare, Caritas impegnata anche nella realizzazione di una ciclo-officina, nel rinforzo per l’apprendimento della lingua italiana ed in altre attività di socializzazione. Nel caso specifico l’attività consiste nella digitalizzazione dei documenti amministrativi dell’Asl, attraverso la scansione, la categorizzazione e l’inserimento di dati in un programma on line. Si lavora quindi per un’inclusione attiva dei detenuti, ai quali viene offerta un’opportunità di impiego che continua nel tempo. Persone che hanno incontrato difficoltà ed hanno sbagliato possono in questo modo imparare un lavoro ed avere anche una piccola fonte di guadagno. Così quando avranno scontato la pena e saranno rimessi in libertà potranno utilizzare le competenze acquisite, che saranno accertate attraverso la richiesta al Centro dell’Impiego. È quindi evidente l’importanza sociale del progetto, che si va a sommare alla sua utilità pratica, legata alla conservazione digitale dell’archivio amministrativo ASL. Per realizzare l’intervento sono stati creati nella Casa circondariale e nella sede della Casa San Francesco due laboratori permanenti con le attrezzature necessarie per la digitalizzazione dei documenti. I detenuti inseriti nel progetto vengono formati a cura della Asl e sono seguiti in tutto il loro percorso lavorativo da tutor, volontari Caritas ed operatori del servizio civile. Grazie a questa importante attività di scansione e categorizzazione dei documenti, l’Azienda USL Toscana nord ovest potrà sostituire una parte dell’archivio amministrativo cartaceo con uno digitale, più facile da consultare, liberando così anche alcuni spazi. Varese: due avvocati chiedono di consentire gli incontri tra i detenuti e i loro cani di Marco Croci La Prealpina, 15 dicembre 2018 Per il momento sono ammessi soltanto nell’ambito di progetti di “pet therapy”, come avviene ad esempio a Bollate o a Livorno, ma la loro presenza durante i colloqui non è prevista. Eppure per un detenuto sarebbe importante poter incontrare il proprio cagnolino. Parte da questo presupposto la battaglia legale intrapresa dagli avvocati varesini Alessandra Sisti e Furio Artoni, che punta a colmare un vuoto normativo sulla possibilità per i carcerati di incontrare i loro animali da compagnia. Lo spunto è la vicenda di un loro assistito, un 33enne varesino di origine romena, pregiudicato, arrestato per il reato di tentato omicidio, poi riqualificata dalla Procura di Lodi in una più mite accusa di rapina aggravata, da cui comunque si dichiara innocente. La storia in sé è emersa un paio di settimane fa: il 7 luglio scorso una prostituta cinese fu trovata riversa su un marciapiede di via Borgo Adda, a Lodi, e gli inquirenti arrivarono sulle tracce del 33enne, arrestato per tentato omicidio a metà di settembre e portato nel carcere dei Miogni. I suoi legali, gli avvocati Artoni e Sisti, hanno depositato una dettagliata perizia medica sulle lesioni riportate dalla vittima (non compatibili con un tentato omicidio) e quindi il capo d’imputazione è stato derubricato, con la conseguente scarcerazione. Ma per due mesi l’uomo non aveva potuto vedere il suo cagnolino, un esemplare di Shih Tzu, molto malato. Una volta uscito di prigione, comunque, la situazione non è migliorata molto: durante la detenzione ha perso la casa che aveva in affitto e per due settimane, vincolato dall’obbligo di dimora, si è trovato a dormire tra stazioni ferroviarie e sale d’aspetto degli ospedali, dal momento che con il suo cane non veniva accettato nei dormitori pubblici. “Ora, dopo aver lottato per poter vedere il suo cane in carcere, poiché lo stesso non mangiava più senza il suo padrone e stava morendo di fame - commenta l’avvocato Artoni, si trova a dover vagare senza un tetto e soprattutto con la difficoltà di avere con sé anche il cane. Si tratta di un cagnolino di razza cinese assolutamente inoffensivo, che vive solo per il suo padrone, dopo che questi lo aveva salvato da morte certa avendolo raccolto abbandonato e pieno di parassiti”. “Dopo la scarcerazione - prosegue il legale - gli era stato imposto l’obbligo di dimora nella abitazione ormai perduta, quindi il cane e l’uomo erano costretti a restare nel Comune di residenza, vivendo e dormendo in situazioni di assoluta indigenza”. Ora però, dopo un’ulteriore azione dell’avvocato Artoni, anche l’obbligo di dimora è stato tolto ma il 33enne non riesce comunque a trovare un alloggio per sé e per il suo cane, e neppure un lavoro. Questa vicenda, tra l’altro, ha dato lo spunto per presentare “una proposta di riforma del regolamento carcerario per dare la possibilità anche agli animali domestici di incontrare i loro padroni - spiega Sisti. Una proposta che non ha precedenti in Italia, non essendo regolamentata in alcun modo la visita degli animali domestici in carcere, ma che in molti casi può essere di sollievo per i detenuti e salvare gli animali da una situazione di sofferenza grave che potrebbe portarli alla morte, come nel caso del nostro assistito”. Reggio Calabria: “Le voci di dentro: conversazioni in carcere su giustizia e legalità” Ristretti Orizzonti, 15 dicembre 2018 Presentato il progetto promosso dal Garante Comunale dei diritti dei detenuti, Agostino Siviglia, dall’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), rappresentata da Stefano Musolino e dal Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, con il Direttore Massimiliano Ferrara. Presenti alla conferenza stampa di presentazione del progetto a Palazzo San Giorgio anche il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Massimo Parisi e la Direttrice degli istituti penitenziari di Reggio Calabria “Arghillà” e “G. Panzera”, Maria Carmela Longo. “Il progetto inizierà il 17 dicembre alle ore 15:00 con la prima visita al carcere “Panzera” - ha detto Agostino Siviglia - e si dipanerà in ulteriori visite ed incontri con la popolazione detenuta, anche nel carcere di Arghillà, fino al mese di maggio del 2019”. “L’idea - ha continuato il Garante Comunale - è quella di fare “vedere” a quanti interagiscono quotidianamente con i problemi della giustizia e della legalità quali sono le effettive condizioni di vita dei detenuti e dei luoghi detenzione, riservando appositi momenti di ascolto e di confronto fra i magistrati, gli esperti di settore ed i docenti dell’Università, con i detenuti, al fine di comprendere appieno le complesse problematiche dell’esecuzione penale ed i possibili percorsi trattamentali di rieducazione e reinserimento socio lavorativo di chi ha delinquito. Si tratta in altre parole - ha concluso Siviglia - di riconnettere, di accorciare le distanze fra il carcere e la società, attraverso un virtuoso intervento inter-istituzionale” Stefano Musolino, per l’ANM, ha evidenziato come “in un periodo così complesso, anche a livello nazionale, nel quale si vuole “far marcire la gente in galera” l’ANM è in prima linea per ribadire che i Magistrati non sono solo coloro che fanno arrestare le persone, ma sono anche coloro che intendono tutelarne i diritti nel corso della loro detenzione, perché se è giusto espiare la propria pena è allo stesso modo giusto salvaguardare la previsione costituzionale in ordine al recupero ed alla rieducazione del condannato”. Massimiliano Ferrara per il Digies si è detto entusiasta per un progetto “che mette al centro l’uomo, sottolineando come l’Università intende contribuire per la propria parte a garantire la formazione culturale ed accademica di quanti si trovano in questo momento ristrettì in carcere ed intendono intraprendere un percorso di emancipazione attraverso gli studi, per tornare in libertà magari con una nuova chance per il futuro”. Il Provveditore del Dap, Massimo Parisi, ha definito “l’iniziativa estremamente coraggiosa, sottolineando l’importanza della virtuosa collaborazione fra le diverse istituzioni che, soprattutto, alle nostre latitudini, costituisce un’opportunità concreta per aprire il carcere alla società, specialmente sul versante del lavoro carcerario, quale aspetto maggiormente qualificante del trattamento rieducativo”. Verbania: “Il colore del riscatto”, mostra fotografica Villa Olimpia sempionenews.it, 15 dicembre 2018 Sabato 22 dicembre 2018, alle ore 15 a Villa Olimpia a Verbania, si inaugura la mostra fotografica “Il colore del riscatto”, realizzata dai detenuti della Casa Circondariale di Verbania. Mostra a cura dell’Associazione di volontariato per il carcere “Camminare insieme”, con il sostegno e il patrocinio della Scuola di Polizia Penitenziaria, della Fondazione comunitaria del VCO, del Comune di Verbania, della mensa sociale di Villa Olimpia e della Cooperativa “Divieto di Sosta” alla cui collaborazione siamo ricorsi per l’allestimento del rinfresco a conclusione dell’ incontro inaugurale. Queste immagini rappresentano il lavoro e l’ impegno dei detenuti durante il corso di fotografia che si è tenuto all’ interno del carcere durante alcuni mesi e che essi, dopo averne fatto oggetto di una mostra all’ interno dell’Istituto di pena hanno voluto fossero portate fuori dalle mura non solo a testimonianza di quanto hanno saputo e potuto fare, grazie all’ iniziativa dell’ Associazione di volontariato “Camminare insieme” che ha gestito il corso in stretta collaborazione con l’ Amministrazione penitenziaria e che in sinergia con l’ Assessorato alle Politiche sociali del Comune di Verbania ne ha potuto fare oggetto della presente mostra, ma anche perché chi ne è al di fuori potesse gettare un’ occhiata dentro quella realtà del carcere, così poco conosciuta a livello di pubblica opinione e così spesso oggetto di pregiudizi e disinformazione. In realtà gli ambienti, le mani e i volti che emergono da questi scatti testimoniano che chi è detenuto non è un “diverso”, un “altro da noi” marchiato per sempre dall’ esperienza della detenzione: queste immagini ci vogliono trasmettere la loro sofferenza, ma anche le loro speranze, il loro desiderio di riscatto, la voglia di aprirsi a quel mondo di fuori da cui sono ora esclusi, ma in cui prima o poi rientreranno senza spesso sapere come ne saranno accolti, in una parola, la loro umanità. Non a caso questo evento coincide con il settantesimo anniversario della “Dichiarazione dei Diritti dell’ Uomo. Alla realizzazione di queste aspirazioni lavora nel carcere di Verbania da oltre due decenni la nostra Associazione, in stretta collaborazione con l’ Amministrazione penitenziaria senza il cui concorso ovviamente nulla potremmo realizzare. Vorremmo in particolare sottolineare quanto importante sia l’ opera degli agenti di polizia penitenziaria, che hanno la responsabilità di garantire la sicurezza all’ interno dell’ Istituto gestendolo in base a leggi e regolamenti ben precisi, con i quali anche noi volontari, che siamo tendenzialmente un po’ anarchici, dobbiamo fare i conti. È quindi particolarmente significativo poter affermare che le diverse esigenze finiscono sempre per trovare un punto d’ incontro grazie al reciproco riconoscimento delle rispettive finalità. Ringraziamo fin d’ora a nome dei nostri assistiti autori delle immagini in mostra e anche a nome di tutti i ristretti nella Casa Circondariale di Verbania chi con la sua presenza contribuirà al successo di questa iniziativa che ci auguriamo sia un ulteriore passo avanti nel costruire un rapporto di comprensione fra la società civile verbanese e il mondo della detenzione. Perugia: dal carcere di Capanne l’arte presepiale napoletana in dono di Gino Goti umbriajournal.com, 15 dicembre 2018 Dal carcere di Capanne l’arte presepiale napoletana in dono L’evento, in programma dalle ore 16 di domenica 16 dicembre sul piazzale della chiesa, organizzato dal Centro Giovani della Parrocchia unitamente alla Pro Ponte, all’Unità Pastorale 14, alle Associazioni In Ponte, Fuori dalle Scatole, Centro Socio Culturale 1° Maggio, si arricchisce del prezioso dono offerto dai detenuti del carcere di Capanne. Stimolati da alcuni detenuti napoletani, ospiti di Capanne ed esperti e appassionati dell’arte presepiale molto sentita a Napoli e in Campania, altri compagni hanno raccolto l’invito e insieme, come ogni anno in questo periodo, hanno realizzato dei presepi, vere e proprie opere d’arte, con materiale di riciclo: cassette della frutta, stuzzicadenti, e altri oggetti di scarto. Va riconosciuta la grande disponibilità e l’assistenza degli agenti della polizian penitenziaria che hanno contribuito a reperire i materiali occorrenti. Sono nati presepi artistici che denotano sensibilità e cuore da parte di coloro che con entusiasmo hanno aderito all’appello dei compagni “artisti”. I presepi e altri oggetti come modellini di velieri, donati all’iniziativa ponteggiana, potranno avere anche un valore il cui ricavato sarà destinato ad opere di beneficenza. Già lo scorso i detenuti del carcere di Capanne si misero in evidenza donando dei presepi a Città di Castello dove ogni anno si svolge una rassegna di questa arte natalizia. Intanto, oltre alle natività realizzate dagli artisti della Pro Ponte e posizionate sulle rotatorie del paese, se ne aggiunge un’altra: una preziosa opera di Paolo Ballerani che sarà posta sulla rotatoria tra via della Scuola e via Cestellini in prossimità della chiesa. Il “Natale per… il dono”, cui hanno collaborato anche A.L.I.Ce., Comitato Chianelli, Avis, Residenza Volumnia, prevede anche il mercatino di Natale, golosità di cucina, giochi per grandi e piccini, il tutto a partire dalle ore 16. Poi alle 20.30 esibizione del coro: Trasimeno Gospel. Tutti i bambini che interverranno sono pregati di portare un gioco da donare ai loro compagni meno fortunati e una letterina per Babbo Natale da appendere “all’Albero dei Buoni propositi”. L’intento della manifestazione e degli organizzatori è esclusivamente a fini benefici e nel corso del pomeriggio, con l’intervento del sindaco Romizi e degli assessori Casaioli e Wagué, sarà consegnato al Comitato Chianelli un assegno da 1.000,00 €, il ricavato della Festa del Dono dello scorso anno. Livorno: “Remi e vele per Livorno”, manufatti dei detenuti, ricavato in beneficenza agenziaimpress.it, 15 dicembre 2018 “Remi e vele per Livorno” è la mostra-mercato di piccoli velieri, imbarcazioni, e modellini che riproducono fedelmente i gozzi del Palio Marinaro realizzati dai detenuti del carcere di Livorno in programma il 20, 21 e 22 dicembre nella sala Simonini nel quartiere de La Venezia. Il ricavato sarà devoluto al reparto di pediatria dell’ospedale cittadino. “Dai detenuti maggiore vicinanza alla città” “Ringrazio il Garante dei detenuti - ha detto l’assessore comunale Andrea Morini con delega ai Rapporti con la Casa Circondariale - per aver accolto la proposta scaturita dagli stessi detenuti di organizzare questa mostra-mercato. Le opere che saranno poste in vendita per aiutare il reparto pediatria dell’ospedale rivestono una valenza sociale importante: fanno percepire la presenza dei detenuti e quindi una maggiore vicinanza della città alla realtà carceraria e al tempo stesso rappresentano eventuali sbocchi lavorativi per i carcerati che acquisiscono in questo modo una professionalità da utilizzare una volta scontata la pena”. Roma: “Altri Sguardi”, il cinema e la solidarietà arrivano in carcere di Carola Proto comingsoon.it, 15 dicembre 2018 Non solamente intrattenere ma anche educare, stimolare il confronto e aiutare il percorso di reinserimento sociale dopo un periodo più o meno lungo di straniamento, esclusione, interruzione della vita così come la si vive normalmente. È questo il nobile scopo di Altri Sguardi, che porta il cinema nel carcere romano di Rebibbia e che in questo 2018 festeggia la sua seconda edizione. A inventarsi la rassegna è stata l'associazione di donne Mètide, fondata, insieme a Raffaella Mangini, dall'attrice Ilaria Spada, che ne è Presidente e che è anche ideatrice del progetto Tra le righe, un laboratorio di scrittura cinematografica animato da sceneggiatori professionisti esclusivamente dedicato alle detenute della sezione femminile del carcere di Rebibbia. Con la giornalista Laura Delli Colli, il gruppo ha selezionato 6 titoli dell'ultima stagione cinematografica da proporre a una platea di 100 detenuti della sezione maschile di cui 80 a rotazione e 20 (i giurati) fissi. Dal 10 ottobre fino al pomeriggio di ieri, 13 dicembre, sono stati presentati Come un gatto in Tangenziale, Quanto basta, Metti la nonna in freezer, A casa tutti bene, Io sono Tempesta e, fuori concorso, Made in Italy. Chi ha partecipato a ogni proiezione e ai successivi dibattiti che hanno portato a Rebibbia autori, interpreti e produttori, ha capito immediatamente l'importanza e il carattere particolarissimo dell'esperienza. Pur trovandosi di fronte a film spesso appartenenti al genere della commedia, i detenuti hanno trovato spunti di riflessione nelle storie raccontate, riconoscendosi, ad esempio, nelle dinamiche di periferia descritte dal film di Riccardo Milani, o protestando contro l'Italia delle raccomandazioni dopo la presentazione di Metti la nonna in freezer. Si sono commossi, infine, tanto da non trovare le parole per commentare, dinanzi alla storia di Rico e di Sara di Made in Italy, un'opera che, fra le altre cose, parla di seconde possibilità: “Questo film ci ha fatto pensare” - dice in proposito un detenuto a Kasia Smutniak e Domenico Procacci, che hanno volentieri accompagnato in un piccolo auditorium del penitenziario romano la terza regia di Luciano Ligabue. “Ci ha dato speranza, ci ha fatto riflettere sulle seconde opportunità, un po’ mi ha fatto sognare e un po’ mi ha messo tristezza, perché noi non sappiamo cosa ci succederà quando saremo fuori da qui”. Un altro osserva che la Smutniak e Stefano Accorsi sono una coppia perfetta e commenta: “È bello che al centro di un film ci sia una coppia che si ritrova, è una situazione che conosco, che ho vissuto”. Procacci “incassa il colpo”, da compagno di vita di Kasia, mentre lei ammette: “Anche se ci vogliamo bene, lavoriamo male insieme. Quando ho fatto il provino per Made in Italy, non volevo che Domenico lo vedesse”. Poi, tornando al messaggio del film, dice: “A 20 abbiamo determinate aspettative e il futuro davanti a noi. A 30 dovremmo già aver realizzato qualcosa, e se non succede cominciamo a preoccuparci. A 40 e a 50 anni ci sembra che sia tutto finito, soprattutto se il bilancio è negativo. Invece no, la vita è ancora straordinaria. Ecco, Luciano ci fa capire che la vita è sempre meravigliosa e con le sue parole arriva al cuore delle persone”. A colpire i presenti è stata soprattutto la scena di Made in Italy in cui Accorsi scrive una lettera a un amico da Francoforte, dov'è andato a lavorare. Accade così che un detenuto, conosciuto come l'esperto di cinema, faccia notare: “Rico è uno dei tantissimi Italiani che sono stati costretti ad andare a cercare fortuna all'estero. È lontano dal suo paese e si sente sperso, in un certo senso somiglia un po’ a noi, che ci portiamo un'infelicità sulle spalle perché viviamo in una condizione di disinserimento”. Domenico Procacci ascolta con attenzione queste parole e dice che ci vorrebbero più occasioni come quella che sta vivendo, seduto su un palco accanto alla sua dolce metà e al giornalista Rocco Giurato che fa da moderatore. Uno “spettatore” a un certo punto alza la mano e gli fa i complimenti per la scelta di Ligabue, osservando: “Ho visto Radiofreccia, questo ha un altro passo. Possibile che dopo tre film Luciano s'è imparato a fà il regista?”. Il produttore non può che essere d'accordo e racconta di avercela messa tutta a convincere il rocker di Correggio a mettersi dietro alla macchina da presa nel 1998 e che da allora Liga è davvero migliorato. Dopo il dibattito, arriva il momento della premiazione. Alcuni giurati salgono sul palco e proclamano vincitore Quanto Basta. A ricevere il premio - due mani che formano un'inquadratura fatte con il sapone e il gesso da un ex detenuto - sono il regista Francesco Falaschi e l'attore Mirko Frezza, che è diventato un po’ l'eroe di Altri Sguardi 2018, perché durante l'incontro immediatamente successivo alla visione del film con Vinicio Marchioni e Luigi Fedele, è riuscito, con grande umiltà, a entrare in comunicazione con il pubblico del carcere. Seguono gli applausi, qualche foto e poi i detenuti tornano nelle loro celle, mentre i giurati festeggiano con il pandoro, il torrone e la Coca Cola. Sono le 8 di sera e fuori piove, e anche se siamo felici di aver partecipato alla “finalissima”, ci sentiamo un po’ strani. Perché noi abbiamo una casa in cui tornare e nessun pregiudizio da combattere. Mentre gli “ospiti” del penitenziario romano sono bloccati in un limbo e forse incontreranno delle difficoltà una volta usciti. Anche per questo è sacrosanto portare loro un po’ di cultura e di umane e libere “cose”. Milano: concerto di Natale nel carcere di Opera di Giuseppina Manin Corriere della Sera, 15 dicembre 2018 Il concerto di Natale dell’orchestra formata da detenuti e musicisti. Tre anni di studio e di pratica per 15 reclusi dalle diverse etnie. “Così si va oltre le sbarre”. Chi di voi sa suonare uno strumento? Domanda un po’ bizzarra se rivolta a una platea di detenuti. Per di più di lungo corso, visto che la Casa di Reclusione di Opera accoglie quelli che devono scontare pesanti condanne. Bisogna avere un certo coraggio per chiedere a chi ha ucciso, rubato, spacciato, se ha voglia di fare musica e ancor più di studiarla. Eppure, c’è chi ha alzato la mano. Non molti, una quindicina. Ma già abbastanza per far nascere “Orchestra in Opera”, progetto di educazione alla musica d’insieme, promosso dall’Associazione Mito onlus con la appassionata complicità di due musicisti, la pianista Stefania Mormore e il clarinettista Alberto Serrapiglio, la prima docente di pianoforte, il secondo responsabile del laboratorio World Music del Conservatorio di Milano. E dopo quasi tre anni di studio, sabato prossimo i musicisti di Opera e i loro maestri suoneranno insieme in un Concerto di Natale dentro l’auditorium del carcere, 400 posti riservati alle famiglie dei detenuti e ai dipendenti, più un centinaio di “esterni”. “In realtà dovevamo debuttare il 21 giugno, per la Festa della Musica, ma sono stati i nostri allievi di Opera a chiederci di anticipare i tempi - racconta Serrapiglio. Dopo tre anni di pratica, con mille difficoltà e qualche defezione dovuta a trasferimenti, la nostra piccola ma validissima orchestra ha sentito l’esigenza di mettersi alla prova”. Uniti nella sfida un gruppo di reclusi provenienti da mondi lontani. “Italiani, africani, sudamericani - elenca Serrapiglio. Dai 30 ai 60 anni, di ogni estrazione sociale. Persino un laureato in Economia, persino uno che aveva frequentato un corso di tromba al Conservatorio di Milano. E un giovane di colore che pur non leggendo la musica, si è messo a studiare la chitarra con tale dedizione da restar sorpreso lui per primo. “Mi piace proprio” ha confessato. Infine quelli usciti dal reparto d’isolamento, alle prese con gli accordi dopo mesi di silenzio forzato. Un microcosmo di umanità dolente ma non vinta. Capace di rialzare la testa e cimentarsi là dove mai avrebbe pensato. “Frequento il carcere da 20 anni e ho capito che il primo bisogno del recluso è recuperare dignità e identità - assicura Matilde Sansalone, avvocato penalista che ha sostenuto il progetto e curato i rapporti con il carcere. La nostra Costituzione parla di rieducare, non di punire. È la linea del direttore Silvio Di Gregorio che ha subito creduto nell’iniziativa. Impegnarsi in un’attività come la musica vuol dire fare appello alla parte migliore di sé. “Sul palco siamo tutti musicisti” è la frase che ripetono, che li fa apparire a se stessi e agli altri in modo nuovo”. “Nelle carceri italiane ci sono tanti laboratori teatrali, pochissimi musicali - interviene Cristina Frosini, direttrice del Conservatorio. Ma quel che conta non è tanto portare la musica nelle carceri ma farla fare dai detenuti stessi. Questo è un progetto pilota. Sabato a Opera ci sarò anch’io”. “Suonare insieme vuol dire imparare ad ascoltarsi - conclude Stefania Mormone -. Questa non è solo una sfida musicale ma di integrazione. Abbiamo lavorato sull’improvvisazione, sull’abbandonarsi al piacere dei suoni. La musica ha un potere pazzesco, emoziona, fa cadere le tensioni. Quando uno di loro mi ha detto “Questo è il modo più bello di evadere” ho capito che avevamo vinto la scommessa”. Sabato sul palco di Opera saliranno dei musicisti pronti a scatenarsi con tastiere, archi, ottoni nel jazz, nell’etnica, nel pop. E magari un pizzico di classica. Perché anche se non tutti sanno chi sia Brahms, le sue Danze ungheresi piacciono un sacco. Piccolo miracolo di Natale, la musica passa attraverso le sbarre. Amianto, si muore in silenzio di Luisa Pozzar Avvenire, 15 dicembre 2018 A Monfalcone resta un tabù. Viaggio nella città dei cantieri, dove i casi di mesotelioma sono superiori alle medie nazionali. Eppure al Registro regionale delle persone esposte alla polvere killer, tanti non si iscrivono. “Costruirono le stelle del mare. Li uccise la polvere, li tradì il profitto”. La scritta che campeggia sotto al monumento alle vittime dell’amianto, nel quartiere di Panzano a Monfalcone, racconta di una ferita che sanguina. Tanto. Una ferita che fa fatica a guarire. Nella città dei cantieri, la parola amianto continua a fare paura, ancora oggi. “Qui la gente continua a morire “ dice Luigino Francovig, lavoratore del cantiere per 22 anni, esposto all’amianto. La lacerazione che tormenta lui e molti altri è forte: “Ci sono oltre 10mila iscritti al Registro regionale delle persone esposte all’amianto. E dietro ai numeri ci sono i volti, le famiglie, che chiedono risposte e vogliono giustizia”. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità dicono che, in Italia, in media, si registra un caso di mesotelioma ogni milione di abitanti all’anno. Nella sola provincia di Gorizia (circa 140mila abitanti) si parla di 30-35 nuovi casi all’anno. Tra le malattie professionali riconosciute, ben il 65 per cento è una malattia amianto-correlata. A Monfalcone non c’è famiglia che non sia stata ferita dall’amianto: il tema è molto delicato. La realtà che si incontra in città e in regione è davvero complessa e variegata. C’è un piano regionale per l’amianto, ben strutturato. C’è la commissione regionale. C’è la conferenza regionale sull’amianto, convocata ogni due anni, preziosa occasione di confronto. C’è il Centro unico regionale amianto (Crua) con sede a Monfalcone: garantisce consulenze in quattro ospedali (Gorizia, Monfalcone, Latisana e Palmanova), veicola l’iscrizione al Registro regionale delle persone ex esposte. Ciò dà diritto ad un tesserino, emesso dalla direzione regionale della Sanità, che garantisce l’esenzione ticket - no, nessun risarcimento, è bene chiarirlo - per gli accertamenti diagnostici necessari e che va attivato presso gli sportelli di medicina territoriale. In molti però a questo registro non si iscrivono per paura; rientrare in quell’elenco, infatti, viene percepito come una condanna a morte. Tanti, ancora, preferiscono non sapere. La procedura è la seguente: il Crua segnala eventuali diagnosi di malattie asbesto-correlate ad Inail ed autorità giudiziaria, rilascia la certificazione gratuita di invalidità civile in caso di patologie non legate all’amianto e collabora con i patronati per i percorsi previdenziali. Da più parti se ne auspica un potenziamento, affinché diventi un riferimento multi-specialistico, ma soprattutto perché possa garantire una sorveglianza sanitaria per gli esposti ed un’assistenza post-operatoria per i malati, attualmente mancante. C’è, ancora, il tavolo permanente sull’amianto del Comune di Monfalcone. Secondo quanto dichiarato dalla sindaca Anna Maria Cisint, la cui famiglia è stata segnata da questa vicenda, “la sofferenza c’è ed è evidente. Il primo impegno è quello di reinserirci nei processi penali come parte civile, partendo da una causa per dichiarazione di nullità della transazione con Fincantieri “ che aveva escluso il Comune da successive costituzioni di parte civile nei processi in materia. “Poi c’è la ricerca che abbiamo scelto di sostenere - continua la sindaca -. Ed infine c’è un dovere di memoria verso chi nei cantieri ha lavorato e ha perso la vita: questo il senso del memoriale che sorgerà nel Museo della cantieristica”. Quanto all’Arpa, che ha il compito di mappare il territorio per individuare i siti contaminati, va detto che al momento la risposta dei Comuni è stata davvero marginale, oltre a rimanere aperta la questione del sito regionale di smaltimento di Porcia, in provincia di Pordenone. Il problema è proprio quello delle necessarie bonifiche, operabili da ditte specializzate, che hanno costi molto elevati. Un fattore, quest’ultimo, che ne rallenta l’esecuzione. A denunciare questa emergenza silenziosa sono soprattutto le associazioni di volontariato. Ce ne sono tante. Si chiamano Aea Amianto mai più, Spyraglio, Auser, Lilt, Eara, Associazione 'Ubaldo Spanghero' ed altre ancora. La loro attività è particolarmente preziosa, soprattutto sul fronte informativo e delle azioni legali, penali e civili, intentate in questi anni. Ma perché tutto è accaduto proprio qui? Perché la storia terribile dell’amianto è fortemente legata al territorio monfalconese, a sua volta caratterizzato dall’imponente presenza strategica dei cantieri navali, di una centrale elettrica, di una cartiera e del comparto edilizio. Ritenuto l’amianto come il miglior materiale utilizzabile nella coibentazione delle navi, il suo impiego nel passato è stato massiccio nelle sue varie declinazioni. Ciò, unito alle protezioni individuali allora inesistenti, ha provocato - questo l’aspetto sanitario della questione - un’esposizione massiccia dei lavoratori, ma anche, per via indiretta, un’esposizione domestica dei familiari che venivano a contatto con i loro indumenti. Il terlìs, così viene chiamata da queste parti la tuta da lavoro, entrava infatti nelle case. Con la fibra sempre lì lucente ed indelebile. Ma i suoi effetti sulla salute non si sono visti immediatamente. La latenza del mesotelioma pleurico, infatti, è molto lunga: in media può arrivare fino a 50 anni dall’ultima esposizione. La legge del 1992 mise definitivamente l’amianto fuori legge. Poi c’è stato l’avvento delle fibre artificiali vetrose e delle fibre ceramiche refrattarie, materiali sostitutivi sui quali vi sono alcuni studi scientifici. Ma non vi sono ancora certezze assolute, né su una possibile latenza di eventuali patologie né su una possibile effettiva cancerogenicità. Anche i dispositivi individuali offrono, oggi, una certa protezione ai lavoratori. Purché li si utilizzi come previsto. Fincantieri da parte sua ha dichiarato che “l’abbigliamento dei lavoratori e la dotazione degli idonei dispositivi di protezione individuale è conseguente alle valutazioni di rischio elaborate. A tutti i lavoratori che operano all’interno del cantiere (e quindi anche al personale delle ditte in appalto), sono comunque resi disponibili spogliatoi attrezzati con docce e stipetti”, ma rimane il problema enorme di tutte le ditte che lavorano in cantiere in appalto e subappalto. La medicina del lavoro e le rappresentanze sindacali, ognuno per la propria competenza, effettuano ispezioni e controlli. Denunce per malattie professionali e meccanismi sanzionatori ci sono stati, ma la cultura della prevenzione fa ancora un po’ fatica a decollare. L’Ufficio della pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Gorizia rimarca “la necessità di mettere in luce, insieme all’amianto, anche la malattia sociale provocata dalle condizioni lavorative delle persone”. Le iniziative istituzionali dal basso sono davvero numerose. Eppure, la sensazione è che, pur partendo dal medesimo dolore, non si riesca a fare veramente squadra. Forse, ripartire da questa ferita - valorizzando il lavoro già fatto negli anni, superando la diversità di colori politici e prendendo consapevolezza che le morti da amianto continueranno anche nel prossimo futuro - può essere la chiave per creare la giusta coesione sociale in una città che, troppo spesso, si è ritrovata divisa. Turchia. Le carceri dell’orrore dove le persone sono inghiottite di Mauro Indelicato occhidellaguerra.it, 15 dicembre 2018 C’è qualcosa di vero nella descrizione terribile e macabra che viene fatta delle carceri turche, oppure è un modo per screditare Ankara ed il suo governo? Di certo non sembrano passare inosservate le inchieste pubblicate dal centro di giornalismo investigativo tedesco “Correctiv”, che parla dei cosiddetti “Black Site Turckey”, le “Guantánamo” di Erdogan dove vengono torturati presunti terroristi e cospiratori. In particolare, a finire nella ragnatela dei servizi turchi sarebbero soprattutto i seguaci di Fethullah Gulen, il magnate predicatore islamico inizialmente vicino ad Erdogan ma adesso in esilio negli Usa. Secondo l’Akp, il partito del presidente, ci sarebbe lui dietro il tentativo di colpo di Stato del 16 luglio 2016, non andato a segno e che anzi da allora in poi ha dato maggior potere allo stesso Erdogan. Ma da quella terribile notte di più di due anni fa, gli apparati di sicurezza turchi avrebbero messo in piedi una gigantesca opera di repressione di tutti coloro sospettati di essere vicini a Gulen. Non è il nome di un sito internet, bensì è la denominazione che i giornalisti impegnati nell’inchiesta hanno dato al loro reportage sui “buchi neri” della Turchia. Nel paese esisterebbero delle carceri dove verrebbero “inghiottite” le storie di chi risulta poi ufficialmente scomparso o sospettato di far parte della rete di Gulen. Quest’ultimo, secondo le inchieste portate avanti da Ankara successive al fallito colpo di Stato, negli anni avrebbe portato avanti un vero e proprio “Stato parallelo”. Dalla giustizia all’istruzione, dalla politica al giornalismo, secondo la sicurezza turca Gulen avrebbe intrattenuto ramificazioni tali da arrivare anche all’interno dell’esercito e, da qui, a pianificare il golpe poi fallito. Ed è contro chiunque venga sospettato di essere dentro questa rete che si scaglia la scure di Erdogan. Già dopo quella lunga notte di luglio, il governo porta avanti un piano di espulsione dei sospettati da ogni carica. Vengono licenziati insegnanti, professori, impiegati statali, così come vengono espulsi alcuni membri dell’esercito: una vera e propria “purga” che lascia a casa centinaia di persone che secondo l’esecutivo fanno parte dello Stato parallelo di Gulen. Ma se questi atti sono svolti alla luce del sole, esisterebbero invece azioni compiute dai servizi di intelligence che comprenderebbero arresti, sparizioni e torture. L’inchiesta sui Black Site della Turchia viene portata avanti nei mesi scorsi da nove testate internazionali, con il coordinamento del sopra citato centro Correctiv. Vengono sentiti testimoni, sopravvissuti, gente rilasciata ma subito dopo costretta a lasciare la Turchia. L’inchiesta fa riferimento soprattutto a due testimoni, entrambi rapiti alla stessa maniera da agenti in borghese. Uno in particolare ha appena accompagnato la figlia a scuola, in uno degli istituti privati riconducibili a Gulen, quando viene preso di forza da alcune persone e caricato su un piccolo furgone dai vetri oscurati. Da allora inizia un calvario in una località segreta, fatto di torture ed abusi. Analoga testimonianza viene riportata da un altro soggetto, il quale è un membro attivo di Hizmet, il movimento di Gulen. I due, specificano i giornalisti che realizzano l’inchiesta, non si conoscono e vengono ascoltati dai cronisti più volte senza mai farli incontrare. Le loro testimonianze non sarebbero dunque frutto di un accordo reciproco, ma spontanee dichiarazioni di ciò che vedono durante la detenzione. Entrambi dichiarano di essere liberati dopo aver confermato e confessato le informazioni in possesso dei servizi. Dopo alcuni giri di diverse ore mentre sono bendati, vengono dunque rilasciati ma costretti a diventare informatori segreti a servizio dell’intelligence. Uno dei due lascia il paese ed entra poi in contatto con i giornalisti, l’altro invece si troverebbe ancora in Turchia e viene raggiunto dai cronisti in una località segreta. Ma in questa operazione di arresti e torture, ci sarebbe anche spazio per rapimenti all’estero. Nell’inchiesta si fa riferimento ad un volo partito il 29 marzo scorso da Pristina, capitale del Kosovo. Si tratta di un paese con forti legami sia con il governo turco, che spesso ne fa quasi un suo avamposto nei Balcani, sia anche però con la rete di Gulen. Qui ha sede un altro degli istituti privati finanziati dal magnate in esilio negli Usa. Da qui in quel 29 marzo parte un aereo di proprietà della Yenimahalle, una società che ha lo stesso indirizzo del Mit, il servizio segreto turco. Questa circostanza viene presentata dagli autori dell’inchiesta come una prova del coinvolgimento degli apparati di Ankara. A bordo del velivolo ci sarebbero cinque persone che, poco prima, vengono immortalate ammanettate da una telecamere di videosorveglianza dello scalo. Sarebbero cinque insegnanti proprio della scuola di Gulen con sede a Pristina. La moglie di uno dei cinque insegnanti denuncia che è otto mesi che non vede il marito ed organizza una manifestazione. Secondo le indiscrezioni trapelate dall’inchiesta, i cinque arrestati si troverebbero nel carcere di Silivri. Un vero e proprio rapimento all’estero dunque, un blitz nel territorio di un altro Stato reso più semplice per via dei legami tra Ankara e Pristina. In questo caso viene tirato in ballo non il governo kosovaro, bensì la Limak: si tratta di un’azienda turca che gestisce l’aeroporto della capitale del piccolo Stato balcanico, il cui proprietario sarebbe vicino all’Akp di Erdogan. In Turchia, ma anche all’estero, alcune organizzazioni sostengono che in realtà quanto sostenuto nell’inchiesta sopra riportata sia una montatura volta a screditare Ankara. C’è chi fa notare, ad esempio, che i racconti dei testimoni a cui si fa riferimento nell’inchiesta sui Black Site della Turchia siano identici a quelli riportati, in un video su YouTube, dal canale di Bold Media. Quest’ultima è una testata in lingua turca, ma con sede all’estero e sarebbe molto vicina a Gulen. Di sicuro, si tratta di un canale non certo in linea con il governo di Ankara. C’è da dire comunque, per come affermato dagli stessi giornalisti autori dell’inchiesta, che il governo turco non ha risposto alle domande dei cronisti e non ha voluto lanciare alcuna replica. Ma non è la prima volta che l’esecutivo di Erdogan viene accusato di praticare torture. L’unica risposta del presidente turco in tal senso è dello scorso anno, quando il fondatore dell’Akp smentisce a sua modo le accuse: “Ci dicono che usiamo torture, ma in realtà l’unica tolleranza zero che abbiamo è proprio contro le torture”. Brasile. “Battisti sia estradato”, il presidente firma il decreto ma l’ex terrorista è latitante di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 15 dicembre 2018 Michel Temer ha firmato il decreto di estradizione dell’ex terrorista italiano, condannato all’ergastolo per la sua partecipazione a quattro omicidi. A novembre Battisti mandò una foto al “Corriere”: “Sono qui”. Una vicina: non c’è più da allora. “La mia fuga senza fine”, titolo dell’ultimo libro pubblicato da Cesare Battisti in Francia, e poi in Brasile, in quel passaggio di dieci anni fa da scrittore noir di successo a ultimo latitante degli anni di piombo, è più che una premonizione. È una scelta di vita. Da ieri l’ex terrorista dei Pac, condannato per quattro omicidi, è di nuovo ricercato. Sparito per l’ennesima volta, nei 40 anni vissuti al margine della legge. La polizia ha bussato alle 9 del mattino alla porta della sua casa di Cananeia, Stato di San Paolo, per eseguire il mandato di cattura del giudice Luiz Fux, membro del Supremo Tribunale Federale, premessa dell’ormai inevitabile consegna all’Italia. Non l’ha trovato. Poi lo ha cercato dalla ex compagna, a casa di amici. Fino alla tarda serata di ieri ancora nulla. Ormai è ufficiale: se catturato Battisti verrà estradato in Italia, il presidente Michel Temer ha già firmato il decreto. È fuggito per negligenza della polizia brasiliana? Battisti era ufficialmente libero, anche da obblighi di sorveglianza, da quando nei mesi scorsi gli era stato rimosso il braccialetto elettronico assegnatogli a causa del tentativo di fuga precedente, quello verso la Bolivia nell’ottobre dello scorso anno. Non aveva limitazioni nemmeno in attesa della decisione sulla sua estradizione. L’Italia ha chiesto ripetutamente alle forze dell’ordine brasiliane di stringere i controlli. Era stata rassicurata in proposito. Ma a Cananeia c’è solo un piccolo commissariato. Tutti i cronisti che si sono recati sul posto negli ultimi mesi hanno potuto constatare che la presenza di poliziotti attorno alle due residenze conosciute di Battisti è inesistente. All’inizio di novembre, interpellato dal “Corriere”, Battisti aveva negato con veemenza qualsiasi intenzione di fuga. Bolsonaro aveva appena vinto le elezioni e l’aria per il latitante italiano si era fatta decisamente più pesante. “Non sono scappato e non scapperò. Perché dovrei? In Brasile sono un libero cittadino”. Aveva poi spiegato che non era sempre in casa, per motivi di lavoro e di salute. “Passo due giorni alla settimana a San Paolo per incontrare il mio avvocato, andare dal medico e dall’editore. Sta uscendo il mio nuovo libro. Anzi, tra qualche giorno farò sapere le date del tour di presentazione in Brasile”. Per rafforzare l’idea ci aveva mandato una foto. In stile anni di piombo, con il quotidiano del giorno in mano davanti all’entrata della sua cittadina. “Ecco la prova, sono qui!”. Alla luce dei fatti è possibile invece che proprio in quei giorni Battisti abbia iniziato a organizzare l’ultima fuga. Una vicina sostiene di non vederlo dal ponte dei Morti contraddicendo la polizia locale che attribuisce la sparizione soltanto agli ultimi due o tre giorni. “L’ultimo contatto WhatsApp è del 6 novembre”, ci rivela un suo amico. L’avvocato dice di non saperne nulla da inizio mese, mentre prepara l’ennesimo ricorso. Due settimane sono molto tempo, considerata l’imminenza di una decisione sul suo cliente. Troppe le cose che non tornano, anche in quest’ultimo passaggio della infinita vicenda Battisti. Che sia una fuga spaventata e improvvisata nelle ultime ore, destinata a finire con l’arresto o la consegna volontaria, oppure qualcosa di organizzato con più calma, lo sapremo presto. Repubblica Centrafricana. Il massacro del 15 novembre chiama in causa l’Onu di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 dicembre 2018 Il 13 dicembre il Consiglio di sicurezza ha approvato l’estensione del mandato della Missione di peacekeeping delle Nazioni Unite nella Repubblica Centrafricana (Minusca). Si tratta di una notizia positiva, a patto che la Minusca cambi atteggiamento e s’impegni davvero a proteggere la popolazione civile del paese, dilaniato da un conflitto in corso ormai da cinque anni. Tra le molte manchevolezze della Minusca c’è il non aver impedito il massacro di fino a 100 civili nel campo per sfollati interni presso la Missione cattolica di Alindao, avvenuto il 15 novembre e raccontato nei minimi dettagli da un rapporto diffuso ieri da Amnesty International. Un massacro che non ha precedenti nel conflitto della Repubblica Centrafricana, nonostante la sua popolazione sia stata vittima e testimone di orribili crimini. Secondo numerose testimonianze oculari, i soldati mauritani della Minusca non contrastarono l’attacco di un gruppo armato, anzi si ritirarono verso la loro base centrale lasciando indifese 18.000 persone. Così, intorno alle 8 del mattino del 15 novembre, miliziani dell’Unione per la pace nella Repubblica Centrafricana (un gruppo armato fuoriuscito dalla coalizione islamica Seleka), dopo aver lanciato razzi e granate all’interno del campo, vi fecero irruzione saccheggiando un magazzino del World Food Programme e dando alle fiamme i pochi effetti personali e poi uccidendo e bruciando almeno 70 persone. Secondo altre fonti, le vittime sarebbero state fino a 100 tra cui donne, bambini, anziani e persone con disabilità così come due sacerdoti. I miliziani vennero aiutati da civili musulmani, in cerca di vendetta dopo che quella stessa mattina era stato ucciso un conducente di taxi musulmano. La Minusca si è difesa dichiarando ad Amnesty International che, dato l’esiguo numero di peacekeeper presenti ad Alindao, sarebbe stato possibile contrastare l’assalto al campo. Ma perché erano così pochi? Ed è vero che, secondo alcune testimonianze, i soldati mauritani avevano consentito agli anti-balaka (una fazione armata cristiana) di operare all’interno del campo? Amnesty International ha sollecitato l’apertura di un’indagine imparziale e approfondita che chiarisca i motivi per cui la Minusca non intervenne in difesa degli sfollati.