Celle sovraffollate e suicidi: carceri di nuovo in emergenza di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 14 dicembre 2018 Le presenze negli istituti di pena aumentano ancora. Dossier del Partito radicale: 10mila reclusi in più. Preoccupazione dei Garanti dei detenuti. Il governo annuncia nuove strutture. Martedì sera, è successo ancora. Nel carcere Don Bosco di Pisa un detenuto è tornato in cella, dall’infermeria, e si è impiccato. Il compagno di cella era in bagno e non se n’è accorto subito. Ogni tentativo di rianimazione è stato vano. Era in custodia cautelare dal 7 novembre, in attesa di giudizio per il reato di spaccio. È il terzo suicidio, quest’anno, in un istituto toscano. Nelle stesse ore, un altro uomo si è tolto la vita nel penitenziario di Catania, portando a 64 le morti per suicidio nel sistema carcerario. Il dato più alto da anni (negli ultimi cinque, il picco era stato di 52 nel 2017). Non solo: in questo tragico 2018, le morti in carcere per altre cause sono state 74, per un totale di 135, compresi due bimbi: Faith (sei mesi) e Divine (1 anno e mezzo), uccisi dalla madre, reclusa nell’Istituto femminile di Rebibbia. Un segnale estremo della situazione, divenuta più angosciante, per una serie di concause: alcune storiche (l’inadeguatezza strutturale di alcuni istituti, la fragilità di molti detenuti, la carenza di formazione e di esperienze lavorative), altre in ripresa, come l’aumento di presenze: 60.002 a fine novembre, a fronte di 50.583 posti regolamentari e con un sovraffollamento, dunque, del 118,6%. L’allarme dei Garanti. Quel dato sale, se si tiene conto del fatto che - secondo il ministero della Giustizia, ci sono almeno 4.600 posti inagibili, il che proietterebbe il sovraffollamento al 130,4%. Con punte altissime a Taranto, dove a fronte di 306 posti ci sono 609 persone (+199%), Busto Arsizio (+187,5%) o Como (+185,7%). Le analisi sul sovraffollamento, insieme a valutazioni dettagliate, sono contenute in un dossier del Partito radicale: 26 pagine di cifre e comparazioni che Avvenire ha visionato e che nei prossimi giorni il partito invierà al Consiglio d’Europa e alla Corte europea per i diritti dell’uomo. “Sovraffollamento non significa che la gente dorma per terra. Tuttavia, alcuni istituti sono talmente affollati che ciò, sommato ad altri problemi, genera depressione e altre conseguenze - ragiona Mauro Palma, Garante nazionale per i diritti delle persone private di libertà. Nelle nostre visite, abbiamo riscontrato peggioramenti in istituti come Sollicciano, Como o Bolzano, dove servono lavori urgenti”. Inoltre, secondo il Garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone, “la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario ha provocato delusione ed esasperazione nella popolazione detenuta”. Secondo Rita Bernardini, dirigente radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino, “le misure prese dallo Stato italiano dalla sentenza Torreggiani a oggi, non sono state in grado di affrontare in modo strutturale il problema del sovraffollamento”. Negli ultimi tre anni, rileva Bernardini, “la popolazione è tornata ad aumentare, dagli oltre 52mila del 2015 ai 60mila odierni. Con una sistematica violazione dei diritti fondamentali delle persone detenute, costrette a vivere in ambienti insalubri e fatiscenti, private del diritto alla salute o agli affetti familiari”. Il governo: più istituti. La ricetta del governo giallo-verde (che ha congelato la riforma sull’accesso alle misure alternative al carcere, messa a punto dal precedente esecutivo) è stata ribadita dal vicepremier e leader di M5s Luigi Di Maio: “Dobbiamo costruire nuove carceri, rispetto agli svuota-carceri del passato”. Nel decreto legge sulla semplificazione, approvato dal Consiglio dei ministri, si prevedono interventi per velocizzare il piano di edilizia penitenziaria: dal primo gennaio 2019 al 31 dicembre 2020 (ferme restando le competenze del ministero delle Infrastrutture) si assegnano al Dap funzioni come progetti e perizie per la ristrutturazione e la manutenzione, ma anche per realizzare nuove strutture o recuperare immobili dismessi. E il Guardasigilli Alfonso Bonafede annuncia lo stanziamento di 196 milioni di euro per “migliorare la vita lavorativa” della polizia penitenziaria” e un piano straordinario d’assunzione di 1.300 agenti. Un piano accolto con scetticismo da associazioni come Antigone, che chiede al governo di agire “senza slogan”. Dove si trovano soldi per nuove carceri, domanda il presidente Patrizio Gonnella, se farne uno “di soli 300 posti costa in media 2530 milioni? E con tempi lunghissimi: per ogni struttura ci vogliono tra i 7 e i 10 anni”. L’ipotesi delle caserme dismesse potrebbe accelerare i tempi, ma serviranno comunque tempo e denaro per ristrutturarle. E nel frattempo, il sovraffollamento potrebbe crescere. Altri due suicidi: uno a Pisa l’altro a Catania: siamo a 63 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2018 Un trentenne, arrestato a novembre, per inosservanza del divieto di dimora si è tolto la vita in Toscana. Si aggiungono altri due suicidi nella macabra conta delle morti in carcere. Martedì sera si è ucciso un trentenne nel carcere Don Bosco di Pisa. Era stato arrestato a novembre per inosservanza del divieto di dimora, in seguito all’accusa di piccolo spaccio. È stato l’agente addetto alla sezione a trovarlo e a lanciare l’allarme, ma le manovre di rianimazione non sono servite. Il compagno di stanza - afferma il garante delle persone private della libertà della Toscana Franco Corleone - ha riferito di non essersene accorto perché era in bagno. L’ennesimo suicidio ha scatenato una protesta dei detenuti, subito dopo rientrata. Sul caso sono intervenuti, oltre all’ex direttore Fabio Prestopino, ora a Sollicciano, che ha espresso il suo “dolore per quanto accaduto”, e il garante dei detenuti Corleone. “Pare che il giudice abbia disposto l’autopsia e che sia stata aperta un’indagine”, spiega il garante. Il 30enne era dentro, appunto, per piccolo spaccio. “Per questo reato - sottolinea il Garante - non ci può essere la pena di morte. L’ho detto fino alla noia, ma la questione delle droghe porta attualmente in carcere oltre il 30 per cento dei detenuti”. Poi il garante si rivolge a governo e ministro denunciando che “non c’è consapevolezza della gravità della situazione”. In contemporanea l’altro dramma nel carcere catanese di Bicocca. L’uomo, 47 anni, si è impiccato utilizzando un lenzuolo, all’interno della propria cella, dove era recluso da solo. L’uomo era stato arrestato nei mesi scorsi, in esecuzione di un’ordinanza cautelare, durante un’operazione antidroga contro dei gruppi che pare avessero collegamenti con un clan mafioso. Il detenuto pare che soffrisse problemi psichici e avrebbe già dimostrato tendenze suicide. Sull’episodio, come da prassi, la procura di Catania ha aperto un’inchiesta per far luce su quanto accaduto. Siamo così giunti, compresi i suicidi nella Rems, quelli in detenzione domiciliare e ospedaliera-, a 63 suicidi dall’inizio dell’anno. Numeri che vanno messi in correlazione con lo spaventoso sovraffollamento che ha superato le 60mila presenze. Nel frattempo il Consiglio dei ministri ha anche approvato le misure del ministero della Giustizia per nuove carceri. Silvja Manzi, Segretaria di Radicali Italiani, non ci sta. “Un governo che di fronte al sovraffollamento e alla violazione dei diritti di carcerati e agenti di polizia lancia la grande idea di costruire nuove carceri non è il “Governo del cambiamento” ma il “Governo della conservazione”, dichiara in una nota. Sostiene che “Invece di continuare a utilizzare il carcere come una discarica umana occorrerebbe riprendere il percorso della riforma del sistema carcerario e investire su pene alternative per ridurre il sovraffollamento”. Così come si è opposto il Partito Radicale e ribadito recentemente da Rita Bernardini e Sergio D’Elia direttamente al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede durante un incontro. La costruzione di nuove carceri, in realtà, non piace nemmeno al Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura ( Cpt), il quale ha ribadito che “gli Stati che riescono a contenere il numero dei detenuti sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. Celle stracolme e scelte politiche, il coraggio che non c’è di Danilo Paolini Avvenire, 14 dicembre 2018 Un Paese che ha le carceri piene non è un Paese in buona salute. Sappiamo che esistono correnti di pensiero per cui è vero il contrario, ma in genere sono fondate sulla paura di quelli che stanno “fuori” e la paura non è mai uno stato d’animo positivo. Sarà che viviamo un tempo ricco di paura, quindi povero sotto tanti altri aspetti, sarà che “il vento è cambiato”, come usa dire soprattutto a Roma (dove però capita che il vento porti con sé anche miasmi tossici), fatto sta che le carceri italiane sono piene. Sono troppo piene. Di nuovo. Siamo tornati sopra quota 60mila persone recluse, ovvero circa 10mila oltre la capienza regolamentare, per altro teorica perché molti posti sono inagibili per varie ragioni. E non serviva un mago - magari Houdini, il re degli evasi - per prevedere che, dopo un periodo di relativa deflazione, la situazione sarebbe nuovamente peggiorata. I segnali c’erano tutti. Sarebbe bastato, per esempio, sfogliare il Rapporto di Antigone, non l’edizione del 2018, ma quella del 2017. Citiamo: “Se i prossimi anni dovessero vedere una crescita della popolazione detenuta pari a quella registrata negli ultimi sei mesi, alla fine del 2020 saremmo già oltre i 67.000”. Insomma, un film già visto al quale speravamo di non dover assistere di nuovo. Nel 2013, quando la Corte Europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per “trattamento inumano e degradante”, i detenuti erano 65mila. Manca poco, di questo passo. Era la nota sentenza-pilota della causa “Torreggiani e altri”. Pilota perché se entro un anno il quadro non fosse migliorato, oltre ai risarcimenti decisi a favore dei ricorrenti, l’Italia avrebbe dovuto versare milioni di euro in rimborsi per le altre cause pendenti, che erano poco meno di 7mila. Ci salvammo, allora, grazie ad alcune misure di alleggerimento. Cominciò così un periodo di discesa delle presenze, fino alle 52mila del 2015, comunque sopra la soglia regolamentare. Tuttavia non poteva essere quella la soluzione definitiva. La svolta sarebbe dovuta avvenire l’anno scorso, con la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma la maggioranza di allora, capeggiata dal Partito democratico, non ebbe il coraggio di completare l’attuazione della legge delega, che pure aveva voluto e approvato in Parlamento. Le elezioni erano vicine e, annusando il vento di cui sopra, si pensò forse (sbagliando, a giudicare dai risultati delle urne) che non era il caso di insistere sull’estensione delle pene alternative alla prigione e dell’affidamento in prova. Perciò si lasciò la palla al Parlamento attuale, dove la nuova maggioranza, già contraria quando era opposizione, ha depotenziato la riforma, togliendo proprio le misure alternative che, lo dicono i dati, abbattono radicalmente la “ricaduta” nel crimine. Per quanto si è capito finora, il programma oggi prevede più carceri, con la costruzione di nuovi istituti e l’adattamento di caserme dismesse, e non meno detenuti. Nel frattempo aumentano i suicidi dietro le sbarre (il 2018 non si è ancora chiuso e già ostenta questo nero primato rispetto agli ultimi 5 anni) e l’Italia è di nuovo in “zona Torreggiani”. Basentini: “La strategia contro il sovraffollamento? Edilizia e intese di riammissione” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 14 dicembre 2018 Il capo del Dap: “C’è un tendenziale aumento della popolazione detentiva, ormai a quota 60mila detenuti. Ma è una situazione che intendiamo affrontare attraverso diverse possibili soluzioni”. Da cinque mesi, Francesco Basentini è il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nato a Potenza nel 1965, prima della nomina è stato procuratore aggiunto nella sua città. Ora, nell’ufficio romano di largo Luigi Daga, si confronta con la gestione dell’universo carcerario e coi suoi problemi, di fronte ai quali ha elaborato un piano d’azione, messo nero su bianco nelle proprie “linee programmatiche”. Il termine “svuota-carceri”, con cui il governo M5s- Lega ha bollato la riforma Orlando sulle pene alternative, mettendola nel freezer, non è tra i suoi preferiti. Ma nella sostanza, spiega ad Avvenire, “non ne condividevo l’impianto. Prediligo un approccio diverso”. Basato su quali interventi? Intanto, sulla riapertura del discorso dell’edilizia penitenziaria, rimettendo mano all’ex piano carceri. È un lavoro di squadra, insieme al ministero delle Infrastrutture e alla Difesa e avverrà nei prossimi due anni. Pensiamo di utilizzare alcune caserme dismesse, ristrutturandole. Quante? Per ora 3 o 4, che potrebbero ospitare ciascuna 450-500 detenuti. Inoltre, si sta agendo sul piano diplomatico con alcuni Paesi. In quale direzione? Buona parte della popolazione carceraria italiana è composta da stranieri. Abbiamo in corso una trattativa coi governi albanese e romeno, per ottenere che buona parte dei detenuti di quelle nazionalità scontino la pena nei Paesi d’origine. Quanti sarebbero? Sui 4mila, fra albanesi e romeni. Altri governi hanno provato, senza riuscire... Noi speriamo di riuscirci entro il 2019, chiudendo l’accordo con Bucarest e Tirana. Inoltre, ma su questo non posso anticipare dettagli, si sta lavorando anche coi governi di alcuni Paesi extra Ue. E le misure alternative? C’è solo il carcere nell’orizzonte di questa amministrazione? Non direi. Intendiamo lanciare una campagna informativa, diretta a quei detenuti, soprattutto stranieri, che ignorano sia l’esistenza che le condizioni di accesso a quelle misure. Di che numeri parliamo? Attualmente, la popolazione detenuta sotto i 4 anni di pena (la soglia d’accesso, ndr) è di 16mila persone. Nei primi mesi del 2019, distribuiremo una brochure in più lingue, sui requisiti necessari. Chi ne ha diritto, potrà fare richiesta e, se il magistrato di sorveglianza lo riterrà, vederla accolta. Nel frattempo, i parametri fissati dalla sentenza Torreggiani sono di nuovo a rischio? Il Dap dispone di un sistema informatico, l’“Applicativo Spazi/Detenuti”, per brevità “Asd”. Se rileva che lo spazio di un singolo detenuto scende sotto i 3 metri quadri della sentenza Torreggiani, parte un alert e quel detenuto, da lì a poco, viene trasferito in un altro padiglione dove lo spazio è sufficiente. Avviene di frequente? In qualche caso è avvenuto. Ci sono situazioni territoriali che la preoccupano di più? La media di sovraffollamento più alta è del 160% e riguarda i provveditorati di Puglia e Basilicata. Cresce il numero dei suicidi… È un problema drammatico e complesso, da valutare sotto diversi aspetti. Una riflessione riguarda il fatto che la sanità penitenziaria, in particolare di natura psichiatrica, non sia gestita dall’amministrazione penitenziaria. Non faccio scaricabarile, è un dato oggettivo: dal 2008 se ne fanno carico le Asl. I detenuti con patologie psichiatriche sono i primi a soffrire lo stato di detenzione. La capacità recettiva delle Rems (strutture sanitarie per detenuti con disturbi mentali) è di circa 600 posti, bisognerebbe almeno raddoppiarla. Don Grimaldi: “Lo spazio non è tutto, serve anche umanità” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 14 dicembre 2018 Don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani: “Sosteniamo pure chi esce che fuori, spesso, non ha niente e nessuno”. Il sovraffollamento esiste, lo dicono i dati. Ma, mi creda, non è l’unico problema. Noi cerchiamo di aiutare le persone mentre stanno dentro, ma anche di essere un punto di riferimento quando escono, varcando il portone del carcere. C’è chi non viene accolto dai familiari, chi è senza fissa dimora, non ha reddito, non ha nulla. Gli ex detenuti spesso sono i “poveri più poveri”, perché emarginati da tutti”. Per oltre due decenni, don Raffaele Grimaldi è stato confessore, amico, a volte “angelo custode” peri detenuti di Secondigliano. Dal 2016 è ispettore generale dei cappellani penitenziari, un popolo di mani tese, sguardi amici e cuori pronti a farsi carico delle sofferenze di una umanità dolente e dimenticata, richiusa dietro le sbarre: “Nelle carceri ci sono 260 cappellani, ci sono religiose, volontari - racconta, una Chiesa molto presente che cerca ogni giorno di andare incontro alle necessità spirituali e materiali dei detenuti. E a volte, le situazioni da affrontare sono davvero difficili”. C’è frustrazione, dietro le sbarre, per la mancata attuazione della riforma sulle misure alternative? Le attese c’erano, è chiaro, ci si aspettava un’attenzione diversa. E del resto, al sovraffollamento che continua a esserci, contribuiscono anche leggi che non consentono il ricorso più ampio a misure alternative. Ma non intendo sindacare le decisioni della politica: ogni governo fa le scelte che ritiene opportune. L’importante è che riesca a inquadrare il vero nodo della questione: il carcerato non è qualcuno da rinchiudere e dimenticare, è un uomo che ha sbagliato, ma al quale deve essere restituita dignità. Se la propaganda politica insiste sul “mettiamo dentro e buttiamo via la chiave”, l’umanità della pena, la sua funzione rieducativa scritte in Costituzione dove finiscono? Duole dirlo, ma nella nostra società manca il senso della misericordia, papa Francesco lo ricorda spesso. Noi non scusiamo il male commesso, ma cerchiamo di aiutare chi l’ha compiuto a prenderne coscienza. Nelle nostre catechesi, non scusiamo nessun crimine, ma ci rifacciamo alla tenerezza di Dio. Pensa che l’approccio della “riconciliazione” si farà mai strada? Il percorso della giustizia riparativa non è semplice, perché dipende non solo dall’autore del reato, ma anche da chi l’ha subito. È un cammino lungo e faticoso, ma capace di creare una vera conversione. Economia carceraria. Il riscatto che passa dal lavoro di Erica Balduzzi infosostenibile.it, 14 dicembre 2018 Riduce la recidiva, dà valore al tempo della pena e restituisce dignità. Alla scoperta dei progetti di lavoro per i detenuti: ancora pochi, ma in crescita. In carcere la libertà può assumere forme inaspettate. Può avere profumo di pane e biscotti o forma di cartamodelli e macchina da cucire. Può parlare la lingua del lavoro manuale o quella della creatività. Può raccontare storie di errori e sbagli, ma anche farsi portavoce di nuove narrazioni che parlino di dignità e rinascita. L’economia carceraria non è così soltanto lavoro fine a se stesso, ma diventa un vero e proprio progetto sociale, capace di influire tanto sulla vita dei detenuti quanto su quella della società. E infatti crescono nelle case circondariali di tutto il paese progetti di istruzione, formazione e lavoro: gocce nel mare, forse, rispetto ai dati allarmistici sul soprannumero di detenuti nelle carceri italiane e le conseguenti difficoltà annesse, ma fondamentali per trasformare il tempo della pena in tempo di rieducazione e dignità, così come previsto dalla nostra Costituzione. Carceri italiane alcuni dati - Secondo il XIV Rapporto sulle Condizioni di Detenzione in Italia, stilato dall’Osservatorio Antigone, al 31 dicembre 2017 i detenuti nelle carceri italiane erano 57.608, il 34% delle quali in custodia cautelare (quindi in attesa di sentenza definitiva). I reati per cui le persone sono detenute sono soprattutto reati contro il patrimonio (24,9%), reati contro la persone (17,7%) e reati previsti dal testo unico sugli stupefacenti (15,2%); il 4,9% dei detenuti è in carcere per condanne fino a un anno (ma la percentuale sale al 7,1% se si considerano i soli stranieri) e gli ergastolani sono i 4,6% del totale dei detenuti. Se si guarda a uno degli obiettivi fondamentali del sistema penitenziario - quello cioè di “riempire di significato il tempo della pena” con attività formative, educative e lavorative - si scopre che la situazione è in miglioramento, ma presenta ancora forti criticità numeriche. Il rapporto dell’Osservatorio Antigone evidenzia infatti che solo il 23% delle persone detenute partecipa a un corso scolastico di qualsiasi grado, con la Lombardia in testa quanto a percentuale di iscritti ai corsi (36,7% sul totale dei presenti in regione), seguita da Calabria (35%), Lazio (25,7%) e Umbria (24,1%). Il tasso di occupazione in carcere è invece del 31,95% sul totale: nel 2017 nelle case di pena hanno lavorato 18.404 detenuti - con percentuali omogenee nelle diverse aree geografiche - ma solo il 2,2% di essi lavora per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. E anche qui è necessaria un’ulteriore specifica: di queste persone, solo l’1,7% lavora per titolari esterni al carcere ma restando all’interno della struttura penitenziaria. In tutto 949 persone, di cui 246 detenuti alle dipendenze di imprese (195 al Nord) e 703 di cooperative (di cui 195 al Nord). Le altre 17mila persone definite dall’amministrazione penitenziaria come “lavoranti” sono occupate dalla stessa amministrazione in servizi di istituto, ma si tratta di attività che non sono spendibili nel mondo esterno. Di fatto, quindi, inutili per il post pena, perché non creano un ponte con la società esterna e il mercato del lavoro, una volta usciti dal carcere. Contro la recidiva. Un ponte con la società - Che le misure alternative, un carcere più umano e la possibilità di imparare un mestiere dietro le sbarre funzionino da contrasto alla recidiva, non è certo una novità. Maggiore attenzione al valore del tempo della pena - che altrimenti “non è che passa lento, ma passa tutto uguale” (dalle testimonianze raccolte dall’Osservatorio Antigone) - sono fondamentali. Ed è proprio in quest’ottica che quest’anno è stato lanciato a Roma il Festival dell’Economia Carceraria, due giornate di promozione dell’economia carceraria, del suo valore e del contrasto alla recidiva. Le due giornate di manifestazione, promosse da Semi di Libertà Onlus e tenutesi lo scorso giugno, sono state inoltre l’occasione per avviare un discorso condiviso sul tema in tutta Italia, mettendo attorno ad un medesimo tavolo (virtuale) progetti e realtà attive in questo ambito con l’intenzione di creare una piattaforma online di comunicazione e di vendita dei prodotti realizzati nelle carceri italiane. Prodotti buoni, etici e circolari. “La recidiva - si legge sul sito del festival - costituisce un costo insostenibile per lo Stato, sia in termini di sicurezza che economici. Una risposta di riscatto può trovare la sua espressione nella creazione di un modello aggregativo di economia carceraria, che metta in rete e valorizzi tutte le iniziative italiane che contribuiscono a creare, attraverso il lavoro carcerario, dei percorsi di inclusione sociale e lavorativa. Aspetti che possono arricchirsi nel tempo sul piano della professionalità, andando a coinvolgere le istituzioni pubbliche e le imprese”. E i progetti di questo tipo sono sempre più numerosi: piccole e grandi storie che parlano di coraggio, di voglia di riscatto e di desiderio di vita nuova, diversa. Alcuni esempi? La birra “Vale La Pena”, progetto di inclusione cofinanziato dal Ministero dell’Università e Ricerca e dal Ministero della Giustizia nel quale detenuti ammessi al lavoro esterno, provenienti dal Carcere romano di Rebibbia, vengono formati ed avviati all’inclusione professionale nella filiera della birra. Oppure la Sartoria Sociale di Palermo, che riunisce stilisti, sarti e amanti del cucito di diverse etnie e che dal 2013 coinvolge alcune detenute all’interno della Casa Circondariale di Pagliarelli Palermo, formate e avviate alla produzione grazie a misure di borsa lavoro. E ancora, il progetto promosso dalla cooperativa Terra Promessa all’interno della casa circondariale di Novara, che forma alla tipografia e alla stampa digitale i detenuti. E la lista potrebbe essere ancora lunga. E in Lombardia? Modelli virtuosi e buone prassi di circolarità tra carcere e territorio non mancano anche in Lombardia, dove anzi se esperienze si moltiplicano diventando spesso veri e propri esempi da emulare. Si pensi ad esempio alla Sartoria San Vittore, brand di moda di Cooperativa Alice che crea percorsi di inserimento lavorativo per i detenuti nella casa circondariale di San Vittore e nella Casa di reclusione di Bollate, a Milano. Sempre a Bollate è nato da qualche anno anche un progetto innovativo: “Ingalera”, il primo ristorante italiano dietro le sbarre, che vede in cucina e in sala i detenuti, stipendiati, che si sono rimboccati le maniche e hanno imparato un mestiere. Ma si pensi anche al progetto “Dolci sogni liberi”, la pasticceria all’interno del carcere di Bergamo che realizza e commercializza all’esterno prodotti da forno come il panettone. Formazione ad opera di mastri pasticceri e lavorazione rigorosamente a mano, la collaborazione con cooperative del commercio equo e solidale che forniscono i prodotti di base e distribuiscono poi i prodotti in occasione del Natale - come fa la Cooperativa Amanda con i panettoni - crea quel collegamento con il “fuori” che scardina la charity a favore un vero e proprio lavoro. E restituisce la dignità anche a chi pensava di averla persa. Il vantaggio dell’Anm al tavolo sul “penale”: vuole le stesse riforme hard dei Cinque Stelle di Valerio Spigarelli Il Dubbio, 14 dicembre 2018 La Giunta Minisci non ha mai negato di essere in assoluto favorevole sulla prescrizione bloccata in primo grado. Proporrà l’ascolto in video dei testimoni e l’addio al rinnovo del dibattimento in caso di cambio del giudice. L’Anm al tavolo di “confronto” che si dovrebbe aprire in sede ministeriale farà una serie di proposte, sempre contenute nella delibera del parlamentino di Anm, che si caratterizzano per la strumentalità e la brutalità di un intervento che d’un sol colpo vorrebbe abrogare il divieto di reformatio in peius. Peraltro, se non c’è alcuna convergenza, nei contenuti, tra avvocati e Anm, viceversa c’è perfetta sovrapposizione sui punti appena citati tra il sindacato dei magistrati e il programma dei Cinque stelle. Il che, ovviamente, pone l’Anm in una posizione di vantaggio a quel tavolo di confronto ( che poi non si capisce se sarà un vero e proprio tavolo oppure una serie di incontri bilaterali del ministro) per il semplice ed assorbente motivo che propone le stesse cose che piacciono al padrone di casa. C’è qualcosa che non torna nel dibattito che si è aperto sul tema prescrizione/ riforma del processo penale tra politica, magistratura e avvocatura. In primo luogo proprio la faccenda della prescrizione. I vertici dell’Anm, questo va detto senza ambiguità, appoggiano - a volte facendo finta di fare il contrario - la proposta governativa di blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Di più: in sostanza è una loro proposta, non a caso contenuta tra quelle acclamate nel comitato direttivo centrale della associazione. Del resto, in nessuna dichiarazione rilasciata in questi giorni dal presidente di Anm, ovvero dalla maggior parte dei rappresentanti delle correnti, fatta eccezione per alcuni - ma non tutti - esponenti di Area, è stato fatto un passo indietro su questa questione, ciò nonostante le critiche, unanimi, che dal resto del mondo dei giuristi sono venute. Ciò posto la richiesta di stralcio della norma contenuta nel dl “spazza corrotti” fatta da Anm congiuntamente ai penalisti, al di là del valore propagandistico, non aggiunge nulla alla questione anzi crea una certa confusione: i penalisti vogliono stralciarla per scongiurarne l’ approvazione, Anm per garantirla nel quadro di una “controriforma” che è pure peggiore della abrogazione della prescrizione. Quello che infatti Anm propone al tavolo di “confronto” che si dovrebbe aprire in sede ministeriale è una serie di proposte, sempre contenute nella delibera del parlamentino di Anm, che si caratterizzano per la strumentalità e la brutalità di un intervento che d’un sol colpo vorrebbe abrogare il divieto di reformatio in peius, eliminare il principio di immutabilità del giudice, stabilizzare e rendere ordinarie norme, come l’articolo 190 bis del codice di procedura penale, che sono da sempre considerate, tra quelle del doppio binario, le più disomogenee rispetto ai principi del codice accusatorio, ed infine introdurre l’ascolto remotizzato dei testimoni, cioè il processo in video conferenza, con tanti saluti ai principi di oralità e immediatezza. Una cosa talmente lontana dalle richieste dell’avvocatura da essere definita “irricevibile” dalla assemblea dei penalisti romani e ancor prima criticata all’unanimità dalla Accademia. Peraltro, e anche questo è stato giustamente rilevato dal Presidente dell’Unione delle Camere Penali, sono proposte che, pur dichiarando di essere volte al contrasto della eccessiva durata dei processi, appaiono strumentali poiché del tutto eterogenee rispetto al fine indicato. Anzi, a guardarle in controluce, sono richieste che coniugano il disegno - che viene da lontano di smontare il codice accusatorio con le istanze più corporative/ sindacali della magistratura, come quella di non rinnovare i processi nel caso di trasferimento dei giudici prima della sentenza. Peraltro, se non c’è alcuna convergenza, nei contenuti, tra avvocati e Anm, viceversa c’è perfetta sovrapposizione sui punti appena citati tra il sindacato dei magistrati e il programma dei Cinque stelle. Il che, ovviamente, pone l’Anm in una posizione di vantaggio a quel tavolo di confronto ( che poi non si capisce se sarà un vero e proprio tavolo oppure una serie di incontri bilaterali del ministro) per il semplice ed assorbente motivo che propone le stesse cose che piacciono al padrone di casa. Ora, in questo scenario, ciò che dovrebbe essere preliminarmente chiarito è che l’avvocatura non apre una “trattativa” su quei contenuti: se si vuole parlare di razionalizzazione dei tempi del processo c’è molto altro su cui discutere, anzi su cui in altri tempi si è già discusso, vedi i lavori della commissione Canzio; primo fra tutti il tema del controllo giurisdizionale sui tempi delle indagini preliminari ( che sono la principale causa d prescrizione) ovvero il rafforzamento dei riti alternativi ( abbreviato e patteggiamento in primis). Tutte cose che i gialloverdi ( anche i leghisti a cui ogni tanto occhieggia una parte dell’avvocatura) vedono come il fumo agli occhi, sia detto per la verità. Questo è il terreno del confronto vero, un confronto che l’avvocatura deve aprire non solo con il governo e la maggioranza che lo compone, ma pure con l’opposizione. Anche la corrispondenza tra la protesta degli avvocati e le posizioni del Pd, tanto per fare un esempio non a caso, va infatti valutata senza enfasi, posto che proprio sui due temi appena accennati fu proprio il Pd, a suo tempo, a far naufragare la riforma uscita dalla commissione ministeriale di cui sopra. Il tutto senza dimenticare che mentre si discute di tavoli e confronti la riforma della prescrizione è già bella e pronta e dunque, alla fine, oltre al danno di una norma già approvata, seppur con entrata in vigore differita, il “confronto” rischia di risolversi nella beffa di una definitiva liquidazione del codice dell’ 89 senza neppure la contropartita di un ripensamento della questione prescrizione che dovrebbe essere la precondizione per un tavolo nuche voglia essere di confronto vero e non “ad orologeria”. Ultima considerazione: una bella ripassata alla vicenda del “processo breve”, che tanto coinvolse politica, magistratura ed avvocatura un paio di legislature fa sarebbe d’aiuto, così, tanto per comprendere chi sono gli amici dei diritti e chi invece li invoca strumentalmente. Sì all’Anticorruzione, la fiducia è un caso di Dino Martirano Corriere della Sera, 14 dicembre 2018 Il Senato vara il testo che torna alla Camera per l’ok finale. Dal governo sesto voto “blindato” in 4 mesi. Sei voti di fiducia in quattro mesi per il governo gialloverde che ieri ha blindato in aula l’approvazione del disegno di legge anticorruzione, al Senato, e del decreto fiscale alla Camera. Già a settembre, l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte aveva intrapreso la scorciatoia del voto di fiducia per altro percorsa da tutti i governi precedenti quando l’opposizione attua il cosiddetto filibustering (ma non è questo il caso, visto l’ostruzionismo soft di Pd, Leu, FI e FdI) oppure quando la tenuta della maggioranza inizia a fare acqua. E per il governo M55-Lega è andata così con il Milleproroghe il 12 settembre alla Camera, con la fiducia “bicamerale” sul decreto sicurezza a novembre, con il Bilancio di previsione il 6 dicembre alla Camera e ieri con la doppia fiducia simultanea sul decreto fiscale (Camera) e sul ddl anticorruzione (Senato). E mercoledì prossimo potrebbe arrivare alla Camera la settima fiducia proprio sul terzo passaggio parlamentare del ddl anticorruzione che, oltre a inasprire le pene per i reati contro la pubblica amministrazione, introduce il congelamento della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado (anche in caso di assoluzione). Il tutto a partire dal 2020 quando, secondo gli impegni verbali presi dal M55 con la Lega che ha pure parlato di “bomba atomica”, dovrebbe essere pronta l’ennesima riforma del processo penale. Il tema del blocco della prescrizione e delle pene più severe per i colletti bianchi crea seri mal di pancia anche all’interno della Lega che ieri ha fatto sentire solo la voce favorevole del senatore Pasquale Pepe (eletto a Potenza nella lista Salvini Premier-Partito sardo d’Azione): “Legge coraggiosa, azione incisiva del governo”. Ma il ddl anticorruzione ha già provocato la reazione durissima degli avvocati. E ieri si è aggiunto anche un parere certo non tenero sulla legge del Consiglio superiore della magistratura (all’ordine del giorno del plenum del 19 dicembre) che ha evidenziato, tra l’altro, due aspetti fortemente critici della riforma della prescrizione: i) la soluzione proposta interviene dopo il primo grado quando la maggior parte dei reati (circa la metà dei 175 mila registrati nel 2017) viene prescritta nella fase delle indagini preliminari; 2) a legislazione invariata, non è da escludersi che i gradi successivi al primo (appello e legittimità) “si svolgano più lentamente del passato”. Insomma, senza altri interventi strutturali sul processo, il Csm prevede che la riforma non acceleri ma rallenti i tempi del processo. Lunedì, dunque, il testo torna per la terza lettura alla Camera dove a rigore si potrà riesaminare solo la modifica al testo apportata dal Senato: vale a dire la cancellazione della norma “salva Lega” (con l’azzeramento dell’emendamento di Catello Vitiello del gruppo Misto passato con il voto segreto alla Camera) che derubricava ad abuso d’ufficio alcune fattispecie di peculato commesso anche dai consiglieri regionali. Ora l’emendamento verrà ripresentato da Vitiello e il governo avrà due opzioni: affrontare il voto segreto dimostrando così di avere sanato i mal di pancia della Lega oppure mettere la fiducia (la settima) per paura dei franchi tiratori. Il ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede, già pregusta lo “spazza corrotti day” che il M55 intende celebrare il 22 dicembre in tutta Italia: “È un messaggio importante per tutti i cittadini onesti”. Non la pensa così l’ex sottosegretario alla Giustizia Enrico Costa (Forza Italia): “II Senato ha votato la fiducia delle manette gialloverdi”. Prescrizione, sì con ricatto. “Inizia la battaglia per farla abrogare”, avverte l’Ucpi di Errico Novi Il Dubbio, 14 dicembre 2018 Spazza-corrotti votato in senato con la fiducia. In Aula i capigruppo di opposizione si fanno sentire. Parlano di legge “forcaiola” e di Costituzione messa da parte. Ma sullo “Spazza corrotti” nessuno ricorda l’equivoco di fondo: la portata del malaffare come fenomeno. A ingigantirla sono gli indici di Transparency. Che però si fondano sulle opinioni, non sui dati dei processi. Lo ricorda spesso un osservatore acuto e attendibile come il presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara. Il quale fa notare che proprio l’intensità del contrasto favorisce l’idea di una corruzione pervasiva. Paradosso estremo, ignorato dalla “mappa” postata, a mo’ di esultanza, dal “Blog delle stelle”, con i casi degli ultimi anni. Così il ddl passa ieri in Senato con la fiducia: 161 voti favorevoli, 119 contrari e un astenuto. Record negativo, che però non dissuade il guardasigilli Alfonso Bonafede da una comprensibile ( dal suo punto di vista) esultanza: “È il nostro segnale di vicinanza ai cittadini onesti. Contro i corrotti è lotta senza tregua”. Poi assicura: “Via libera definitivo entro Natale”. Vale a dire la settimana prossima. I capigruppo delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera, Giulia Sarti e Giuseppe Brescia, entrambi pentastellati, annunciano di essere “già al lavoro” per lo sprint. Eppure rispetto al testo uscito da Montecitorio, Palazzo Madama ha fatto dietrofront sulla “norma- Vitiello” che circoscriveva il reato di peculato. Ai deputati, dunque, non sarà dato modo di ragionare sul fatto che l’altro ramo del Parlamento ha disfatto una loro precisa scelta. Probabile che anche alla Camera il ddl sia blindato con la fiducia. “Consideriamo un risultato averli costretti a porla”, spiega il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che tre giorni fa ha incassato la disponibilità dell’Anm su una proposta di stralcio della norma più irragionevole dello “Spazza corrotti”, lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado ( anche di assoluzione). “La nostra astensione e poi la manifestazione del 23 novembre che ha mobilitato tutta l’accademia dei giuristi hanno creato più di un problema alla maggioranza, che ha posticipato di un anno l’entrata in vigore della prescrizione. Al Senato il voto segreto è sempre consentito se sono in gioco i diritti, ne erano stati chiesti 100 e perciò si sono rifugiati nella fiducia. Certo”, nota Caiazza, “ora chi osa parlare di garanzie o anche di depenalizzazione è sotto ricatto politico: viene subito additato come colluso al malaffare, ed è così anche per i leghisti. Ma i penalisti italiani utilizzeranno in tutti i modi quest’anno di tempo per arrivare all’abrogazione della norma. Cominceremo a batterci da domani”. Fa impressione la gigantesca quantità di violazioni della Carta collezionate dallo “Spazza corrotti”. A cominciare dal cosiddetto Daspo, l’interdizione “perpetua” a contrarre con la Pa: per com’è scritta, la norma rischia di poter essere inflitta già con la condanna di primo grado, può durare di più della pena principale e oltre a infrangere dunque il principio del fine rieducativo fa a pezzi anche quello di proporzionalità, perché per chi prende oltre 2 anni di carcere, il “Daspo” non può essere commisurato dal giudice. Il quale può al massimo concedere la riabilitazione 7 anni dopo il fine pena. Altra ombra enorme: l’assenza di una clausola di collegamento fra lo stop alla prescrizione e la riforma che dovrebbe accorciare i tempi del processo. La Lega l’ha chiesta con timidezza e si è subito rassegnata al no del M5s. Risultato: i grillini hanno messo letteralmente in scacco l’alleato. Sarà dura di qui a un anno, per Salvini battere i pugni e ottenere il congelamento della norma sull’estinzione dei reati. La trattativa fra avvocati e magistrati da una parte e governo dall’altra si annuncia complicata: i primi chiedono, concordi, non solo di aumentare gli organici ( cosa che con “quota zero” sarà difficilissima) ma soprattutto di depenalizzare e rafforzare le misure alternative. Sulla prima opzione è scontato che i Cinque Stelle dicano no: difficile si sforzino di far comprendere la logica della depenalizzazione al popolo giustizialista. Sulla seconda, proprio la Lega spinge in direzione contraria, con la legge che abolisce l’abbreviato per i reati da ergastolo. Un panorama preoccupante. in cui il vicepresidente del Csm David Ermini spiega al Tg2 che “da solo lo stop alla prescrizione cambia poco”. Via diplomatica per dire che non aiuta ad accelerare i processi e anzi li eternifica. “Tutto deve stare dentro i canoni delle garanzie, a breve il Csm esprimerà un parere articolato”, aggiunge. Non potrà ignorare l’agente che è più provocatore che “sotto copertura”, l’addio alle misure alternative per chi sconta pene legate alla corruzione e la non punibilità del “delatore” se svela il malaffare entro 4 mesi e prima di essere indagato dal pm. Una bomba atomica che la Consulta, o qualcun altro, dovrà disinnescare. Corruzione. Salvacondotto solo a chi consente di provare il reato di Francesco Cerisano Italia Oggi, 14 dicembre 2018 Niente salvacondotto per chi denuncia fatti di corruzione se non dà indicazioni per provare il reato e non mette a disposizione dell’autorità giudiziaria le utilità ricevute o una somma di denaro equivalente. Non solo. La non punibilità scatterà solo se la denuncia dell’autore arriverà prima che questi abbia notizia dello svolgimento di indagini a suo carico e comunque entro quattro mesi dalla commissione del fatto. Sono questi i paletti che il parlamento ha inserito nella discussa norma del ddl anticorruzione sulle “cause di non punibilità” che nel passaggio alla camera aveva provocato una levata di scudi da parte degli amministratori locali. Ieri il senato, con 162 voti a favore, 119 contrari e un astenuto ha votato la fiducia al governo sul disegno di legge anticorruzione che ora tornerà alla camera per la terza lettura, quella definitiva (a meno di imprevedibili incidenti di percorso). Palazzo Madama ha confermato la rimodulazione della disposizione sulle clausole di non punibilità contro cui le opposizioni erano insorte alla Camera. Rispetto alla prima stesura della norma, che non prevedeva neppure la necessità di provare il reato o la dazione della somma di denaro (o altra utilità), la nuova versione (che introduce nel codice penale il nuovo articolo 323-ter) accoglie in parte le richieste dei sindaci e le osservazioni delle opposizioni e subordina la non punibilità alla circostanza che la denuncia arrivi prima dell’iscrizione nel registro degli indagati e comunque entro quattro mesi dalla commissione del fatto. Inoltre, come detto, per beneficiare della non punibilità, viene richiesto al denunciante di fornire indicazioni “utili e concrete” per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili. La non punibilità sarà inoltre subordinata alla messa a disposizione dell’utilità percepita (o, qualora ciò non sia possibile, di una somma di denaro di valore equivalente) ovvero all’indicazione di “elementi utili e concreti per individuarne il beneficiario effettivo”. Dietrofront sul peculato. Nel corso dell’esame al senato è stata eliminata la norma sul peculato che era stata introdotta in prima lettura alla camera con il voto segreto su un emendamento presentato da Catello Vitiello (deputato eletto con il M5S e poi passato al gruppo Misto) approvato contro il parere dell’esecutivo La proposta di modifica inseriva un ulteriore comma all’articolo 323 del codice penale sull’abuso d’ufficio, prevedendo una forma aggravata del reato, laddove ci fosse una distrazione che non configurasse però peculato. Secondo le opposizioni, tuttavia, si sarebbe trattato di un colpo di spugna per i processi per peculato che stanno affrontando diversi big della Lega perché la condotta loro contestata sarebbe rientrata sotto la previsione di un reato più tenue (abuso d’ufficio) con prescrizione inferiore rispetto al peculato. Un incidente di percorso che è stato corretto dal senato. Daspo a vita per i corrotti. Altra novità di rilievo è il Daspo a vita per i corrotti. Il ddl modifi ca l’articolo 317-bis del codice penale, integrando il catalogo dei reati alla cui condanna consegue la pena accessoria dell`interdizione perpetua dai pubblici uffici. Agli attuali reati di peculato, concussione, corruzione propria e corruzione in atti giudiziari sono aggiunti: la corruzione impropria, la corruzione propria aggravata, l’induzione indebita a dare o promettere utilità, la corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, la corruzione attiva; l’istigazione alla corruzione; il traffico di influenze illecite. Inoltre le condanne per i reati di peculato, corruzione in atti giudiziari e traffico di influenze illecite commessi in danno o a vantaggio di un’attività imprenditoriale comporteranno l`incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Prescrizione. Il ddl ha imbarcato la riforma della prescrizione, fortemente voluta dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede, che prevede la sospensione della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione). La norma entrerà in vigore il primo gennaio 2020. Online le donazioni ai partiti sopra i 500 euro. Sarà obbligatorio rendere pubblici sul sito internet del partito o del movimento politico i dati di chi eroga contributi superiori nell’anno a 500 euro. Caiazza (Ucpi): “Prescrizione, riforma inaccettabile. Penalisti in sciopero” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2018 Dobbiamo usare ogni strumento consentito per chiarire a tutti perché la riforma della prescrizione, inserita nel Ddl anticorruzione (si veda pag. 7), è inaccettabile. Gian Domenico Caiazza, alla guida dell’Unione camere penali dal 21 ottobre, spiega le ragioni di una nuova astensione dalle udienze il 17 e il 18 dicembre - con manifestazione nazionale a Bari il 18 - decisa dopo lo sciopero di quattro giorni fatto a novembre. Cosa fa arrabbiare così tanto i penalisti? La prima cosa che si legge nel fascicolo del processo è la data di prescrizione. Se questa si elimina, dopo il primo grado, ad essere “interrotte” senza un termine saranno le vite delle persone coinvolte. Non è una previsione degna di un paese civile. Far slittare a gennaio 2020 l’entrata in vigore, è una soluzione o un modo per allontanare il problema? Buona la seconda. È un modo per eludere il problema. Spostare la data di operatività della norma dovrebbe servire a modificare il codice di rito così da accorciare i tempi dei procedimenti. In modo che la nuova prescrizione si vada ad inserire in un contesto in cui i tempi sono ragionevoli. Un’operazione impegnativa. Possibile in un anno? Potrei dire quasi con certezza di no. Il ministro Bonafede vuole utilizzare una legge delega, che va approvata ed eseguita: tutto dovrebbe avvenire entro il 1° gennaio 2020. I penalisti faranno parte della Commissione di studio, per riformare il codice. Quali sono le vostre proposte? Il ministro ci ha già incontrato due volte, ma la Commissione non è ancora stata convocata. Le nostre proposte, puntano ad allargare il raggio d’azione dei riti alternativi, a potenziare la funzione di filtro dell’udienza preliminare e ad una forte depenalizzazione. Punti sui quali, recentemente, abbiamo raccolto anche l’attenzione e, forse, il consenso dell’Anm. Ma resta il fattore tempo: la scadenza ad un anno fa sorridere. E servirà del tempo anche per discutere. Le vostre proposte non sembrano in linea con i programmi dell’esecutivo... Lo so. Ma mi auguro che il dialogo serva a convincere. Per noi restava comunque ragionevole la proposta della Lega, respinta dai 5 stelle, di subordinare l’entrata in vigore della “nuova prescrizione” all’approvazione delle modifiche del Codice di rito. E se non si trova un’intesa? Lo scoppio della bomba nel processo penale è solo rimandato. Ci sarà a gennaio 2020. Ma faremo tutto ciò che è in nostro potere per impedirlo. Corinaldo di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 14 dicembre 2018 Vi invio questa lettera che era stata inizialmente spedita alla mia psicoterapeuta, che è anche psicologa presso Torrette rivolta ai soggetti sottoposti a particolari stress, vedi Sisma, Corinaldo, etc. La dottoressa mi ha incoraggiato a diffonderla cum grano salis, da collega a collega, evitando Facebook, Twitter o comunque tutti quei mezzi che non condivido assolutamente. Credo in alcune mie capacità di interlocuzione in stuazioni simili, e combatto contro la tendenza attuale alla spettacolarizzazione. Ve la regalo come amici e per la stima che vi porto. Io parto da un principio molto duro da accettare, e di sicuro non nominare davanti ai parenti delle vittime. Al mondo si muore, e molte volte quando ci si diverte. Si è in tanti, ci si diverte, spinge. Il primo istinto è eccitarsi, per il numero, per la festa. Io ho ricordi confusi sulle poche volte che sono andato in discoteca. Ricordo che, passati gli anni in cui mi vergognavo delle donne, cominciavo a muovermi come un robot e facevo ridere tutti. A Carnevale del 1978 a Bologna ero vestito da diavoletto, avevo trasformato i miei capelli lunghi in corna. non ho bevuto un goccio, ho parlato in inglese con delle signore, e sono tornato a casa soddisfatto. Lo spirito è lo stesso di oggi, nell’intimo dei ragazzi. Sono cambiati i mezzi a loro disposizione, la società, i genitori. Soprattutto è cambiato il nostro modo di stare al mondo. Vorremmo che tutto andasse bene. Vorremmo comunque poter additare un colpevole di qualsiasi disgrazia o disfunzione, che una pianta sia al bordo di una strada troppo vicino alla carreggiata ed il motorino ci sia finito contro, che il selciato della piazza sia sconnesso ed una persona ci inciampi. Ci deve essere sempre un controllore, uno preposto alla sicurezza. Così ci deve essere un censore. Poi, su FB, se vogliamo ci mettiamo di tutto, dagli abbracci alle foto in costume da bagno di uno di noi. Frank Zappa aveva scritto: “The central scrurinizer” colui che ci controlla tutti, come facciamo l’amore, come buttiamo via la mondezza. Edoardo Bennato aveva scritto:”Signo censore” sei tu che ci dici quello che si deve o non si deve fare. Woody Guthrie scrisse una canzone chiamata “1921 massacree” se il mio inglese ancora vale, si parla di un Natale in un luogo chiamato Italiano, probabilmente abitato da immigrati italiani. i bambini giocavano, un adulto dice che c’è un fuoco, un incendio, un altro risponde che non può essere. Quando le fiamme si spandono, nel fuggi fuggi sono molti a morire schiacciati. Scusate la traduzione approssimativa. Non è giusto morire, nè ferirsi. Lo dice chi ha cavalcato disagi, mali profondi e ci convive cercando di dare del bene al prossimo, coem scelta salvifica di vita. Non è giusto fare altro che prodigarsi, ognuno secondo le proprie capacità, perché nessuna delle parole e delle azioni che abbiamo sulla punta delle braccia e della lingua, resti lì inoperosa. Se per noi è possibile dire: “Non devi divertirti per forza scatenandoti fino quasi a morire, puoi anche chiedere ad un amico di restare con te a Lugo di Romagna, se abiti lì”. Se sei capace di disegnare, disegna qualcosa di bello nel tu quartiere, così che anche lo spacciatore si ponga dei problemi ad essere infido davanti a tante persone che giocano. Ricordo e ricorderò sempre la vergogna, dopo una sbornia nociva magari addizionata scalmanandomi, di non ricordare nulla. Io, ed alle volte anche altri amici ed amiche, ci aggiravamo timorosi cercando di saper dagli altri cosa avevamo fatto, chi avevamo visto, dove eravamo andati. Giovanissimi, genitori, ci vuole coraggio per vivere questa vita. La mia non era più bella, ero giovane ed in qualche modo sono diventato adulto. Pian piano, dopo avere conquistato diritti, soddisfazioni, denari ed agi, molti miei coetanei ed io stesso, abbiamo preteso quasi di fermare il tempo. Inventato giochi che non ci facevano muovere di casa, che non facevano infangare nè noi né i nostri figli, lasciando il fango alle pubblicità dell’auto che supera tutte le difficoltà, la bella donna ed il bell’uomo ai videogames, e la possibilità di morire solo ai giochi. Non è così. Ci sono sentimenti autentici a 15 anni, a 20, a 30, a 90. Ci sono dei no da dire, e da spiegare. Ci sono delle domande da fare, ma alle persone che possono ascoltarci. Io, come altri, ogni mattina mi alzo con tanta poca voglia di infilarmi le scarpe. Ma se non lo faccio, difficilmente incontrerò altre persone che, come me, non se le volevano infilare. Più che legge sicurezza è una truffa legalizzata di Sergio Bontempelli Left, 14 dicembre 2018 La cittadinanza non è una patente di italianità come alcuni credono. È anzitutto uno status che conferisce dei diritti: di voto, di accedere a determinate professioni, e così via. Subordinarli alla competenza linguistica, come fa il decreto Salvini, significa svilirne il senso. Signor Ministro Salvini, si è molto parlato del suo decreto (in)sicurezza, convertito in legge giusto pochi giorni fa. Il dibattito si è soffermato sui permessi di soggiorno “umanitari” e sulla riforma del diritto di asilo: poco si è detto, invece, sulle modifiche alle norme in materia di cittadinanza. E invece si tratta di un nodo decisivo, destinato a cambiare la vita di decine di migliaia di persone. Ho scritto “decine di migliaia di persone”: no, non è una svista, e nemmeno un modo di dire. Nel periodo 2013-2017 sono stati più di 750mila gli ex immigrati che hanno chiesto e ottenuto la cittadinanza, diventando italiani a tutti gli effetti. E lo hanno fatto con la procedura cosiddetta “di naturalizzazione”, in base alla quale chi risiede nel nostro Paese da almeno dieci anni, senza interruzioni, può chiedere di diventare cittadino. Il Suo decreto “Sicurezza” ha modificato proprio la procedura di naturalizzazione, introducendo alcune novità: un esame di italiano obbligatorio, una “tassa” di 250 euro per la presentazione delle domande (prima si pagavano “solo” 200 euro), e un periodo di attesa di quattro anni per avere la risposta. Quattro anni per una risposta. Ecco, qui c’è già una prima stranezza. Io faccio domanda di cittadinanza, mi si chiede di pagare una cifra esorbitante ma in cambio mi viene offerto un servizio di pessima qualità: gli uffici del ministero dell’Interno hanno quattro lunghissimi anni di tempo per decidere. Quattro anni, Signor Ministro. Quattro anni nell’epoca di internet, della banda larga, dei dati che viaggiano da una parte all’altra del globo nel giro di un secondo. Anche le pratiche di cittadinanza sono state informatizzate, e infatti la domanda si fa online su un apposito sito. Come può accadere che passino quattro anni? Forse le Prefetture, invece di comunicare con il Viminale tramite web, caricano i fascicoli sul dorso di un asino, e costringono il povero animale ad avventurarsi sui sentieri della via Francigena? Ma il Suo governo non era quello che voleva “sburocratizzare” l’Italia? Una procedura lunga e farraginosa Forse Lei, Signor Ministro, non ha mai visto il portale “Nulla Osta”, sul quale si inoltrano le domande di cittadinanza. Ecco, vorrei raccontarle brevemente come funziona: sarà un’esperienza istruttiva anche per Lei. Dunque, se voglio presentare domanda di cittadinanza, la prima cosa da fare è andare nel mio Paese di origine e procurarmi un certificato di nascita e un certificato penale. E poiché questi documenti sono scritti nella lingua del mio Paese, debbo farli tradurre e anche “legalizzare” (la “legalizzazione” è un timbro, di solito apposto dall’Ambasciata italiana, che attesta l’autenticità del certificato). Sono cose che costano, e costano molto: tra viaggio di andata e ritorno, spese per i certificati e costi di traduzione se ne vanno centinaia di euro. E poi, vogliamo parlare dei certificati? Quello di nascita riporta - lo dice il nome - la data e il luogo in cui sono venuto al mondo. Si tratta di informazioni già presenti sul passaporto, sul permesso di soggiorno, sulla carta di identità e sul codice fiscale: perché chiedere un ulteriore documento, per di più così costoso? Il certificato penale riporta i reati compiuti nel Paese di origine. E già questa è una cosa strana, perché per fare domanda di cittadinanza bisogna essere residenti da almeno dieci anni in Italia: se uno straniero abita stabilmente in Italia, perché mai dovrebbe aver compiuto dei reati al suo Paese? E poi, cosa vuol dire “reati nel Paese di origine”? I giornalisti turchi che hanno condotto coraggiose inchieste su Erdogan sono stati condannati per vilipendio delle autorità, e hanno la fedina penale “sporca”, come si dice: se uno di loro chiedesse la cittadinanza, cosa farebbero i funzionari del Ministero dell’Interno? Gliela negherebbero? Le domande inutili Il portale “Nulla Osta” è pieno di domande stupide. Ad esempio, nel modulo bisogna scrivere tutti gli indirizzi che l’interessato ha avuto in Italia, con le date esatte dei cambi di residenza. Così, lo straniero è obbligato ad andare, poniamo, a Aosta e a Palermo, agli uffici anagrafe, per farsi dare queste informazioni. Le anagrafi dipendono proprio dal Viminale: non potrebbero essere gli Uffici del Suo Ministero a prendere questi dati, invece di costringere gli stranieri a procurarseli? E ancora: sul modulo bisogna scrivere la data del primo ingresso in Italia. Se uno è arrivato qui, poniamo, venti anni fa, è naturale che non ricordi il giorno esatto dell’arrivo: e così deve andare in Questura per procurarsi una copia del vecchio permesso di soggiorno, dove veniva riportata quella data. Mi perdoni la domanda irrituale, Signor Ministro: ma ai Suoi uffici, che gliene frega di sapere quando sono entrato in Italia? Potremmo fare un patto, Signor Ministro. Lei chieda pure 250 euro. Ma non costringa gli stranieri a rispondere a domande stupide, a procurarsi certificati inutili o a richiedere informazioni che i Suoi uffici possono reperire facilmente. E obblighi il Ministero a rispondere entro sei mesi. Sarebbe un bel passo avanti. L’esame di italiano Poi c’è l’esame di lingua obbligatorio. So benissimo quanto sia difficile contestarlo: il senso comune spinge a dire che “chi vuol essere italiano deve parlare italiano”. Sarebbe troppo difficile spiegare a Lei che “l’italianità” può essere una faccenda più complessa, non necessariamente legata alla lingua. All’opposto, sarebbe troppo facile ironizzare sui tanti parlamentari (anche del Suo partito) che non parlano correttamente italiano. Il punto è però un altro: la cittadinanza non è una “patente di italianità”, come si pensa di solito. È anzitutto uno status che conferisce dei diritti: il diritto di voto, il diritto di accedere a determinate professioni, e così via. E subordinare i diritti alla competenza linguistica significa svilire il senso di quei diritti. Chi vive e lavora qui da anni, paga le tasse e contribuisce alla vita di questo Paese dovrebbe essere cittadino: semplicemente perché lo è già nei fatti. Milano: detenuto morto a San Vittore, la famiglia: “Indagare per omicidio” Il Giorno, 14 dicembre 2018 Da sei anni i genitori di Alessandro Gallelli, trovato senza vita nella sua cella nel carcere di San Vittore il 18 febbraio 2012, cercano la verità. Oggi l’avvocato Gabriele Pipicelli, legale dei fratelli della vittima, ha chiesto alla Procura di Milano di avviare nuove e più approfondite indagini e ha spiegato perché il fascicolo non può essere archiviato. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il 21enne si sarebbe suicidato impiccandosi con la sua felpa alle sbarre della cella. Ma per i consulenti di parte nominati dalla famiglia della vittima, quel decesso “non è compatibile con l’ipotesi suicidaria prospettata dalla Procura”, ma al contrario è “riconducibile a un omicidio mediante strozzamento”. In base a questa ipotesi, gli autori del delitto avrebbero anche tentato di pilotare le indagini con “una successiva attività di staging”, vale a dire una “manipolazione volontaria della scena criminis”, necessaria per arrivare “alla simulazione” del suicidio. Una prima indagine per omicidio colposo avviata dal pm Giovanni Polizzi nei confronti di due agenti di polizia penitenziaria in servizio a San Vittore si concluse con un provvedimento di archiviazione. Il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano aprì poi un secondo fascicolo, ma dopo alcuni accertamenti a giugno scorso il magistrato chiese l’archiviazione. Una conclusione non accolta dai familiari della vittima che si sono opposti alla conclusioni dei pm. “Ci sono tutti i requisiti per aprire un’indagine per omicidio volontario e falso ideologico. I responsabili sono ben identificati: sono le persone che erano in servizio quel giorno in quel reparto”. Fu una morte “poco chiara” anche secondo il Tribunale civile di Milano che negli anni scorsi condannò il Ministero della Giustizia a risarcire la famiglia della vittima per omissione. Il 21enne, che soffriva di problemi psichici, doveva essere tenuto sotto controllo 24 ore su 24. Controllo che, a giudizio del Tribunale Civile, non fu fatto. Ora la parola passa alla giustizia penale: il verdetto del gip Mannocci è atteso nei prossimi giorni. Milano: “Quel detenuto è epilettico? Allora mettetegli il casco!” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2018 Ezio Prinno vive così dal 2016. la disperazione della madre: curatelo. Indossa, ventiquattro ore su ventiquattro, una sorta di casco per evitare che si faccia male durante i suoi frequenti e fortissimi attacchi di epilessia, talmente violenti che alcune volte è stato soccorso con un massaggio cardiaco. Parliamo di Ezio Prinno, un 42enne napoletano, con una lunga carcerazione dietro le spalle, prima per associazione mafiosa, poi per associazione finalizzata allo spaccio. Ora è ristretto alla sezione AS3 del carcere milanese di Opera. “Non mi interessano gli sconti di pena - spiega disperatamente la madre Carmela Stefanoni, chiedo solo che mio figlio abbia una carcerazione dignitosa. Le sue condizioni di salute si aggravano sempre di più, mese dopo mese. Fatelo avvicinare a Napoli”. Il difensore del detenuto, l’avvocato del foro di Milano Giampiero Verrengia, spiega che l’indicazione medica dell’utilizzo del casco nasce nell’ottobre del 2014 quando era recluso in un altro carcere e poi messa in pratica dal 2016. È ristretto alla sezione AS3 del carcere milanese di Opera. Indossa, ventiquattro ore su ventiquattro, una sorta di casco per evitare che si faccia male durante i suoi frequenti e fortissimi attacchi di epilessia, talmente violenti che alcune volte è stato soccorso con un massaggio cardiaco. Parliamo di Ezio Prinno, un 42enne napoletano, con una lunga carcerazione dietro le spalle, prima per associazione mafiosa, poi per associazione finalizzata allo spaccio. “Non mi interessano gli sconti di pena - spiega disperatamente la madre Carmela Stefanoni, chiedo solo che mio figlio abbia una carcerazione dignitosa. Le sue condizioni di salute si aggravano sempre di più, mese dopo mese. Fatelo avvicinare a Napoli, consentiteci almeno di poterlo assistere in maniera adeguata”. Il difensore del detenuto, l’avvocato del foro di Milano Giampiero Verrengia, spiega a Il Dubbio che l’indicazione medica dell’utilizzo del casco nasce come soluzione nell’ottobre del 2014 quando era recluso in un altro carcere e poi messa in pratica dal 2016. “Questa indicazione - sottolinea l’avvocato - scaturisce dopo che un perito medico certificò che Ezio Prinno è compatibile con la detenzione, ma deve stare in una cella priva di spigoli e vicino alla famiglia”. In mancanza di queste condizioni, quindi, come alternativa è stato consigliato l’utilizzo obbligatorio del casco. Il discorso della vicinanza risulta di vitale importanza soprattutto per evitare l’utilizzo di questo metodo contenitivo, perché la crisi epilettica violenta è legata a una nevrosi. Questa patologia psichiatrica si attenuerebbe, appunto, con la vicinanza familiare. “Curata la nevrosi - spiega l’avvocato Verrengia -, lui avrebbe solo sporadiche crisi epilettiche”. Ma è normale che porti un casco 24 ore su 24? L’avvocato risponde che la Corte Europea dei diritti umani ha una posizione chiara: sono le condizioni di detenzione che devono adeguarsi al detenuto, non viceversa. Parliamo di una cella non compatibile con la sua malattia, il suo compagno di camera gli fa da piantone e deve dare l’allarme appena ha le convulsioni. “Inoltre - sottolinea sempre l’avvocato, il signor Prinno non se la sente di uscire durante l’ora d’aria, si sente in condizioni non umane, si vergogna nel farsi vedere con questo casco e, soprattutto, si sente umiliato quando si ritrova sporco di urina dopo essersi ripreso dai violenti attacchi epilettici”. In pratica, il detenuto si sente a disagio e così non vive la socialità per evitare umiliazioni. L’epilessia e la sua nevrosi, non sono l’unica patologia. Recentemente si è operato a due ernie al disco e ha una cardiopatia in seguito a un duplice infarto e ipoglicemia. L’ultima istanza presentata dall’avvocato alla magistratura di sorveglianza riguarda la richiesta di differimento pena con l’eventuale applicazione, nel caso lo ritenessero adeguato, della detenzione domiciliare per infermità fisica. La magistratura ha però rigettato perché gli atti medici che ha a disposizione prevedono che lui è compatibile con il carcere. Però, come già detto, parliamo di una compatibilità stabilita attraverso un adeguamento del detenuto - si pensi all’utilizzo h24 del casco - alle condizioni del carcere e non viceversa come la Cedu stabilisce. “Per contestare questa documentazione medica - spiega l’avvocato Verrengia - si dovrebbe accedere d una perizia di parte che è molto costosa, quindi limitante per il detenuto che non ha disponibilità economica per poter usufruire di questo consulto medico non solo relativo alle patologie fisiche, ma anche di tipo psichiatrico”. Una situazione, quindi, che sembrerebbe ravvisare una vera e propria lesione dei dritti basilari enunciati dall’articolo 27 della Costituzione, così come quelli cristallizzati dalle pronunce della Corte Europea dei diritti umani. Ma cosa chiede la madre di Ezio Prinno? “Io, da madre, - spiega Carmela Stefanoni, credo che neanche un cane vada trattato in questo modo. Il carcere deve essere rieducazione, non tortura. Chiedo soltanto che mio figlio venga trasferito in un’altra struttura più adeguata alle sue condizioni di salute e soprattutto vicino casa. La mia speranza - conclude - è che chi di dovere prenda delle buone decisioni in tal senso”. Roma: madre omicida, sotto inchiesta la psichiatra di Rebibbia di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 14 dicembre 2018 Alice Sebesta malata di mente, il 19 settembre scaraventò i due piccoli giù per le scale. Mostrava segni di insofferenza mentale anche coi bambini, strattonati e lasciati senza latte. Nelle due settimane di carcerazione nel braccio femminile di Rebibbia, prima che il 19 settembre uccidesse i due figlioletti, la detenuta tedesca Alice Sebesta sarebbe stata lasciata senza cure. Una psichiatra della Asl Rm2, associata all’istituto penitenziario, nonostante i solleciti formali della direzione del carcere, non si sarebbe preoccupata di visitarla. La procura ora procede contro la specialista con l’accusa di omissione di atti d’ufficio. L’iscrizione nel registro degli indagati è stata formalizzata ieri dal pm Eleonora Fini e dall’aggiunto Maria Monteleone. Si grattava in continuazione. Pure sulle cicatrici provocate da precedenti tagliuzzamenti. E mostrava segni di insofferenza mentale anche coi bambini, strattonati e lasciati senza latte. Nelle due settimane di carcerazione nel braccio femminile di Rebibbia, prima che il 19 settembre uccidesse i due figlioletti, la detenuta tedesca Alice Sebesta era stata lasciata senza cure. La psichiatra della Asl Rm2 associata all’istituto penitenziario, nonostante i solleciti formali della direzione del carcere, non si è mai preoccupata di visitarla. La procura ora procede contro la specialista con l’accusa di omissione di atti d’ufficio. L’iscrizione nel registro degli indagati è stata formalizzata ieri dal pm Eleonora Fini e dall’aggiunto Maria Monteleone. Con un’assistenza adeguata, la morte di Faith, una femminuccia di 6 mesi, e di Divine, il maschietto di 19, lanciati nella tromba delle scale del nido del penitenziario, forse poteva essere evitata. A giorni la psichiatra indagata dovrà chiarire ai pm perché avrebbe del tutto trascurato la paziente. I comportamenti della Sebesta erano già documentati a Rebibbia e bollati come “strani”. Aveva rubato più volte il latte di altri bimbi nel nido del carcere per berlo lei. Ma anche nascosto la pappa dei suoi piccoli per lasciarli a digiuno. Mentre in una mattinata in cui era particolarmente nervosa aveva fatto battere “involontariamente la testa contro una porta alla figlioletta più piccola”, come riportato nella relazione di un agente della penitenziaria. Il comportamento dietro alle sbarre e la confessione delirante della madre assassina, che ha sostenuto di aver ucciso i bambini per metterli al sicuro in Paradiso lontani dalla mafia, fanno propendere per un grave disagio mentale della detenuta: in Germania aveva subito ricoveri psichiatrici per quasi dieci anni. La detenuta, ieri, si è dovuta presentare a palazzo di giustizia per il procedimento che l’aveva portata in carcere: il traffico di stupefacenti. Era stata fermata sulla Tangenziale, assieme a due nigeriani, con dieci chili di marijuana nascosta pure nei pannolini dei bambini. Si era assunta la responsabilità. “Mi avevano dato un passaggio”, la giustificazione. In aula ha pianto, senza far riferimento ai piccoli. L’avvocato, Andrea Palmiero, ha spuntato un rinvio. Ha chiesto che il rito abbreviato venga celebrato dopo il deposito della perizia sulle capacità mentali. Roma: protocollo tra carabinieri e garante dei detenuti Il Messaggero, 14 dicembre 2018 Un protocollo d’intesa per “il pieno rispetto delle norme nazionali e delle convenzioni interazioni sui diritti delle persone detenute o private della libertà personale” è stato sottoscritto questa mattina tra il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute. A firmarlo sono stati il garante Mauro Palma e il comandante Generale dell’Arma Giovanni Nistri. L’intesa ha l’obiettivo di promuovere progetti formativi comuni, organizzare seminari, conferenze e tavole rotonde per la condivisione delle esperienze e il miglioramento delle rispettive capacità d’intervento. Per i carabinieri l’intesa è “strategica. Fin dalla sua costituzione, oltre due secoli orsono, l’Arma - viene spiegato - si è data al riguardo una regola. Nel regolamento del lontano 1822 era definito delinquente il carabiniere che avesse agito con aspra e cruda maniera verso il detenuto, lasciandosi andare a percosse o maltrattamenti. Oggi la guida è la Costituzione, su cui si fonda il giuramento, che all’art. 13 recita: È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Collaborare con le istituzioni per innalzare gli standard dei diritti delle persone private della libertà, attraverso una implementazione della cultura dei diritti tra chi è chiamato a esercitare il difficile compito di vigilare sulla sicurezza di tutti è uno dei compiti che il Garante nazionale si è posto fin da subito. Bolzano: polo e nuovo carcere, scampato pericolo Alto Adige, 14 dicembre 2018 Dai giudici uno spiraglio per la crisi di Condotte Spa che si è aggiudicata le gradi opere: i lavori cominciano quest’anno. I due grandi cantieri del 2018 bolzanino avranno questa agenda di avvio lavori: il nuovo carcere a giugno, il Polo bibliotecario a ottobre. Di quest’anno, dunque. Non del prossimo. Perché ieri sono arrivate buone notizie dal tribunale fallimentare: secondo la stampa economica i giudici consentiranno a Condotte spa di “rispettare i contratti in essere”. Questo significa che la grave crisi di liquidità, fino all’insolvenza, che ha colpito uno dei più importanti gruppi europei nel campo delle infrastrutture strategiche non si ripercuoterà sulle opere che vedevano coinvolta a Bolzano la Società Condotte. “L’esecutivo del Polo bibliotecario (ex Pascoli-Longon) partirà in autunno” ha confermato Christian Tommasini che ha seguito in questi mesi la procedura di assegnazione dell’appalto integrato. “La situazione per il carcere è diversa - chiarisce invece Thomas Mathà, a capo dell’Ufficio appalti della Provincia - perché siamo ancora in una fase di esame del progetto preliminare e c’è il tempo per esaminare la congruità delle modifiche richieste e apportate prima di giungere all’aggiudicazione”. Il funzionario vuol dire che il percorso del nuovo carcere procedeva indipendentemente dalle vicende che hanno travolto ad inizio anno Condotte spa e che quindi lo spiraglio che si è aperto ieri non fa altro che confermare una tempistica su cui la Provincia contava “a prescindere”. In ogni caso Bolzano vede salvi i due progetti che dovevano avviarsi nel 2018, dopo anni di messe a punto. E si toglie dal tavolo la temuta eventualità di dover riavviare i procedimenti di riassegnazione lavori con tutte le incertezze procedurali e finanziarie che avrebbero potuto celare. All’origine del nuovo orientamento dei giudici fallimentari c’è probabilmente, oltre alla possibile congruità e sostenibilità del piano di ristrutturazione aziendale presentato da Condotte, anche una considerazione di carattere più generale: la società è evidentemente considerata strategica per il “sistema Paese”. I progetti bolzanini sono briciole. L’impresa è pronta, ad esempio, ad avviare l’enorme cantiere della Tav di Firenze, predisposto per l’ammodernamento dell’intera linea di attraversamento ad alta velocità della conca fiorentina. É impegnata anche con Bbt, per il tunnel di base del Brennero sul versante austriaco e in molti altri cantieri infrastrutturali in giro per l’Italia e per l’Europa. Proprio per questo Condotte aveva chiesto un allungamento del debito in virtù della sua esposizione con i debitori: la società ha lamentato infatti continui ritardi nei pagamenti da parte delle committenze, soprattutto pubbliche. Una massa di crediti per una cifra di svariati miliardi che, se incassati, dovrebbero mettere a regime la società. Il carcere bolzanino è dunque di nuovo alle viste. Per la sua costruzione, in zona Agruzzo, nei pressi dell’aeroporto, sono stati stanziati da tempo 25 milioni. Si tratta di finanziamenti dello Stato ma in pratica è denaro provinciale perché Roma li stornerà in base al patto finanziario con Bolzano. In cambio, la Provincia avrà la proprietà dell’area centrale e molto ambita, dove sorge oggi il vecchio carcere in via Dante. Questi due progetti erano strategici per Bolzano non solo per il loro valore in se ma anche per la catena di realizzazioni in programma che avrebbe innescato. Solo la realizzazione del Polo bibliotecario consentirà, infatti, la realizzazione del progettato Polo museale tra via Museo e ponte Talvera: Oetzi dovrà trovare posto proprio negli spazi occupati dalla biblioteca Civica che sarà trasferita, con la Tessmann e la Claudia Augusta alle ex Pascoli. E a suo volta, nell’area di via Dante, dovranno essere strutture universitarie (ad esempio nuove facoltà) ad occupare gli spazi della vecchia struttura carceraria. Il tribunale fallimentare, in conclusione, con le sue decisioni dovrebbe consentire a Bolzano di continuare a disegnare il proprio futuro. Padova: al Due Palazzi ci sono 300 detenuti inoccupati di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 14 dicembre 2018 Due intere sezioni, e cioè ben 300 detenuti, della Casa di Reclusione di Padova sono inoccupati. “Passano il tempo nella cella o all’interno della sezione a fare nulla, cosa che non favorisce certo l’integrazione”. È quanto denuncia la Cgil Polizia Penitenziaria, che ieri in una sua delegazione ha fatto visita al carcere. Presenti Giampietro Pegoraro, responsabile regionale Cgil Polizia Penitenziaria, Salvatore Morgante, delegato interno Cgil Polizia Penitenziaria, Alessandra Stival, segretaria provinciale Cgil e Serena Sorrentino, segretaria nazionale di Funzione pubblica del sindacato. Il fatto che su 550 detenuti del Due Palazzi ben 300 non lavorino secondo i sindacalisti sarebbe uno dei più grossi problemi della Casa di Reclusione, al quale però se ne aggiunge una lista di altri. “Sicuramente un altro problema grosso è quello del sovraffollamento”, ha spiegato Giampietro Pegoraro. “Al momento ci sono 150 detenuti in più rispetto ai 400 che dovrebbero esserci”. Una difficoltà che va di pari passo alla carenza di guardie penitenziarie e ispettori. “Gli agenti in carcere dovrebbero essere 300, ma in realtà ce ne sono circa 100 in meno”, ha sottolineato Salvatore Morgante. Napoli: viaggio nelle scuole dei “rioni in guerra” di Antonio Crispino Corriere della Sera, 14 dicembre 2018 Dove a 13 anni si spaccia e almeno un familiare è in carcere o è stato ucciso. La lotta alla povertà educativa di Save the Children ed Emergency a Napoli. “Cose così le trovi in Afghanistan, in zone di guerra. Ed è giusto, perché qui siamo in guerra”. La povertà educativa si tocca con mano andando a Barra, uno dei dieci municipi in cui è suddivisa Napoli. Rispetto a Scampia, Secondigliano, Sanità, non gode nemmeno della notorietà mediatica. Arriviamo in una strada - via Mastellone - contesa tra due clan: chi abita sul lato destra è assoggettato ai Cuccaro, sulla sponda opposta si obbedisce agli Aprea. Dall’autostrada si vedono rifiuti, scheletri di fabbricati e i casermoni dell’edilizia popolare, più simili a delle carceri. Nei dintorni c’è l’istituto comprensivo “68° Rodinò”. “Quando sono arrivata l’evasione scolastica toccava punte del 30%, non avevamo una segreteria digitalizzata e non tutte le strutture erano fruibili” racconta la preside Teresa Sasso, da appena un anno alla guida della scuola. Adiacente al suo plesso c’è un grande edificio decadente. Era un’altra scuola, il “Salvemini”, più volte occupata dagli ex custodi che la avevano trasformata in abitazione privata. Da opportunità educativa si è trasformata in risorsa per tutti quelli che nel quartiere rivendono il ferro vecchio. Hanno smontato l’edificio pezzo per pezzo lasciando solo lastre di amianto sgretolato. Chi abita attorno vive con le mascherine sul volto. Dal lato opposto c’è l’unica struttura sportiva presente, un campo di calcio rimesso a nuovo da Save the Children. Qui sono arrivati nel 2015 per portare un “Punto luce”, spazi educativi dove viene fornito sostegno allo studio. Il quartiere ha 38mila abitanti, gran parte dei quali alimentano la seguente statistica: in Campania il 32,3% dei bambini vive in condizioni di povertà relativa. E circa il 31% di chi abita qui non studia, non lavora e non è inserito in alcun circuito di formazione. Sono alcuni dei numeri contenuti nel IX Atlante dell’infanzia a rischio. “È già un successo avere i bambini a scuola - ammette Luigi Malcangi, referente in Campania di Save the Children. Faticano a comprendere l’italiano e non ritengono l’istruzione una priorità”. In questo contesto hanno introdotto l’esperienza del circo insieme alla cooperativa sociale “Il tappeto di Iqbal”. Sono tutti ragazzi del quartiere e il pomeriggio intrattengono circa duecento alunni che altrimenti starebbero per strada. “Parliamo di ragazzi che non hanno mai visto un cinema, un teatro, non leggono, non fanno sport. Spesso sono figli di boss. Li abbiamo convinti ad affidarci i loro figli - racconta Giovanni Savino, presidente della cooperativa. Anche se adolescenti sono estremamente affascinati dal rischio. Noi cerchiamo di trasformare questa propensione in “rischio positivo”, ossia tutto ciò che è insito nelle attività circensi”. Lo dice mentre sistema i trampoli ai piedi di Giuseppe, 13 anni: lui frequenta la seconda media, per la seconda volta. Accanto a lui c’è Mario, stessa età, stessi problemi. L’unica attività culturale che ricordano nel loro comune è la festa del Giglio, controversa manifestazione popolare ritenuta “affare della camorra”. Mostrano con orgoglio quello che hanno imparato in palestra. Savino li va a trovare in carcere o nelle case famiglia quando vengono arrestati. Succede spesso? “Quando siamo arrivati avevamo percentuali enormi di ragazzi tra i 13 e i 16 anni arrestati per spaccio di droga o rapina. È capitato che uno dei ragazzi che veniva in palestra è stato ucciso durante una sparatoria, aveva 16 anni. Ci siamo chiesti: “Ha ancora un senso continuare a lavorare qui? Siamo in un quartiere dove c’è Save the Children e a poca distanze c’è Emergency. Cose così le trovi in Afghanista, in zone di guerra. Ed è giusto, perché qui siamo in guerra”. Ciro ha sei anni, grandi occhiali da vista sul viso paffuto. Anche dopo la ginnastica resta incollato a una delle operatrici, Sara Lotta. “Mamma e papà sono contenti che vieni qui?”, chiediamo. “Ho solo mamma, papà è morto”, risponde. “Ammazzato” è il sottinteso. “Non è una novità - interviene Sara -. È vero che la scuola non offre sempre il massimo possibile ma qui quello che manca è la famiglia. Anche quando ci sono, nel senso che non sono stati ammazzati o non sono in carcere, sono molto giovani e immaturi”. Lo constatiamo all’orario di uscita. Anna ha 21 anni, terza media, disoccupata e tre figli al seguito. “Internet? Cos’è? Quella cosa per fare Facebook?” risponde. Nemmeno i suoi figli sanno dare una spiegazione migliore. “Le connessioni presenti nelle scuole sono molto lente, difficilmente imparano a navigare in classe e raramente hanno un docente che gli insegna le opportunità del web” spiega Luigi Malcangi mentre ci mostra un altro Punto luce, quello della Sanità, altro quartiere difficile di Napoli. “Se contiamo quanti asili nido ci sono in tutta la città non raggiungiamo il 5% della copertura rispetto alla domanda”, continua Malcangi facendo notare le grandi disparità che esistono all’interno dello stesso quartiere. Di opportunità parla anche Marco Riccio, un altro educatore, anche lui di Barra. “A 13 anni l’Istituto navale che frequentavo mi espulse, iniziai a spacciare. Sono stato tossicodipendente dai 14 ai 17 anni. Ho conosciuto solo la strada fino a quando non ho incontrato i ragazzi de “Il tappeto di Iqbal”. Qual è il mio sogno oggi? Esportare questo progetto educativo in Romania, dei posti che conosco è quello più simile a Barra”. Torino: Verdessenza promuove l’economia carceraria vocetempo.it, 14 dicembre 2018 Verdessenza ecobottega in via San Pio V n. 20/f a Torino ha selezionato tra i prodotti solidali alcune eccellenze dell’economia carceraria, realizzate da detenuti e persone in semi-libertà. Come i Biscotti Liberi, i panettoni tradizionali e quelli ai tre cioccolati di Guido Castagna, prodotti dalla casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, con lievito madre e ingredienti naturali. Oppure le birre artigianali “Vale la pena” prodotte da detenuti del carcere di Rebibbia, all’interno del progetto cofinanziato dal Ministero dell’Università e Ricerca e dal Ministero della Giustizia e realizzato da Semi di Libertà Onlus, per contrastare le recidive. Dal cibo ai colorati manufatti delle detenute del progetto Made in carcere: sacche per pane (e panettoni) e presine da cucina create e cucite dalle donne delle carceri di Lecce e Trani con materiali di recupero e, infine, shopper griffate Verdessenza ecobottega, stampate dalla cooperativa Extraliberi nel carcere di Torino. Ferrara: le zucche del carcere, il progetto di Via Arginone per una seconda vita telestense.it, 14 dicembre 2018 Si chiama GaleOrto ed è un progetto che coinvolge i detenuti del carcere di Ferrara che volontariamente e gratuitamente coltivano zucche violine e altri prodotti nell’orto della Casa Circondariale. Un progetto dell’Associazione di Viale K, appoggiato dalla Direzione del carcere, che serve per gettare le basi di una nuova vita quando si esce dal carcere, dopo aver scontato una pena. Un progetto che sarà promosso nella Settimana del Dono da Avis e Coldiretti Ferrara. Cinque ore al giorno per coltivare, volontariamente e gratuitamente, tre ettari di terra all’interno della cinta muraria di via Arginone. È il lavoro quotidiano di tre detenuti in carcere a Ferrara che fruiscono del programma di lavoro in pubblica utilità, una sanzione penale sostitutiva in favore della collettività. Tra i prodotti coltivati ci sono le zucche violine che sono al centro del Progetto Galeorto: frutta e verdura coltivata dai detenuti nell’orto della casa circondariale. Un progetto che si estende in cinque ettari di terreno e che vede la partecipazione di molti altri detenuti. Ma soprattutto un progetto che getta le basi per un cambiamento, per ritrovare la strada fuori dal carcere, per dire che c’è la possibilità di cambiare e di ripartire con nuovi progetti. Avis e Coldiretti promuovono le zucche del carcere. Regalare per natale ai soci le zucche violine coltivate dai detenuti della casa circondariale di Ferrara. È la scelta dell’Avis di Ferrara che ad ogni donazione di sangue effettuata, darà in regalo ai propri donatori una zucca a chilometro zero del progetto Galeorto, un progetto di agricoltura sociale, appoggiato dalla direzione del carcere di Ferrara, in piena collaborazione con l’associazione di Viale K. A far conoscere e promuovere le zucche del Galeorto anche Coldiretti Ferrara. Ferrara: Artenuti, l’arte dei detenuti in vendita a Ferrara estense.com, 14 dicembre 2018 Commossi i due artigiani presenti all’inaugurazione alla Bottega della Cattedrale: “Ci sentiamo realizzati”. Giovanni Di Bono, Francesco Micciché, Giuseppe Palermo, Mile Milenkovic, Mirko Succi: sono questi i nomi dei detenuti della casa circondariale “C. Satta” di Ferrara protagonisti del progetto “Artenuti”. Si tratta di un laboratorio di bricolage e artigianato interno al carcere di via Arginone, nel quale i cinque “fratelli ristretti” sono guidati dagli artigiani e creativi professionisti Marco Pigozzi, Alessia Gamberini e Franco Antolini, con il contributo delle cooperative “Il germoglio” e “AltraQualità” di Ferrara. La mostra con i prodotti realizzati grazie al progetto “Artenuti” è stata inaugurata la mattina di giovedì 13 dicembre nella “Bottega della Cattedrale”, sede dell’associazione “Noi per loro” (che si occupa dell’aiuto materiale e spirituale dei detenuti dell’Arginone), in via degli Adelardi 9 a Ferrara. Il progetto è reso possibile grazie al direttore della casa circondariale Paolo Malato, alla comandante Annalisa Gadaleta (assente all’inaugurazione per impegni lavorativi) e all’Area Pedagogica del carcere con la responsabile Loredana Onofri e le educatrici Mariangela Siconolfi, Teresa Cupo e Anna Maria Romano. Dopo il taglio del nastro, il direttore Malato ha ringraziato chi ha reso possibile la mostra e ha spiegato come “il nostro obiettivo è ed è sempre stato il recupero e la rieducazione dei detenuti. Per questo, forte è il contributo del sottoscritto, della comandante e dell’Area pedagogica della casa circondariale. Questa esposizione dimostra ancora una volta come il carcere sia fortemente integrato nel territorio”. “È importante uscire dalla logica della mera vendita occasionale - ha spiegato invece Onofri -, per questo stiamo cercando di farla diventare una vera e propria attività artigianale continuata e per quanto possibile professionale. Questa, come le altre attività svolte dai detenuti in carcere, hanno come obiettivo di cambiare le persone detenute, in modo che riescano a rispettare gli obiettivi posti e la relazione con gli altri”. Commossi i due detenuti artigiani presenti, Micciché e Di Bono. “Dietro questo lavoro - ha spiegato Micciché - non ci siamo solo io e Giovanni Di Bono ma anche gli altri detenuti ‘invisibili’ che hanno realizzato alcuni dei manufatti. Quando sono entrato in carcere, ero una determinata persona, ma ora sono diverso, mi sento realizzato. Non voglio deludere questa fiducia che mi è stata data”. “Dieci anni fa - ha invece spiegato Di Bono - non avrei mai pensato di arrivare a raggiungere gli obiettivi che ho raggiunto”. Presenti all’evento anche il cappellano del carcere padre Tiziano Pegoraro, il presidente della “Noi per Loro” ed ex cappellano monsignor Antonio Bentivoglio e numerose volontarie e volontari dell’associazione stessa. Come ha spiegato Stefania Carnevale, garante dei diritti delle persone private della libertà personale (presente insieme a Monica Tansini, responsabile Segreteria Ufficio Garante), “quest’anno c’è stato uno stanziamento da parte del Comune di Ferrara, tramite l’Ufficio da me guidato, di 3.500 euro per il progetto “Artenuti”, nello specifico per l’acquisto dei prodotti e dei macchinari necessari per la lavorazione del legno, di pellami e bigiotteria. La strumentazione necessaria acquistata con questo finanziamento è da poco giunta in carcere, e a breve i detenuti impegnati nel progetto inizieranno ad utilizzarla, così da poter realizzare manufatti di qualità ancora superiore rispetto a quelli qui esposti”. Questi gli orari di apertura della mostra, visitabile a ingresso libero fino al 6 gennaio 2019: dal lunedì al sabato, dalle ore 9.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19. Palermo: i detenuti-attori creano i costumi del nuovo spettacolo palermotoday.it, 14 dicembre 2018 I detenuti-attori del carcere Pagliarelli, armati di ago e filo, realizzeranno i costumi del nuovo spettacolo che metteranno in scena. Da anni seguono i corsi di teatro dell’Associazione Baccanica e adesso impareranno anche altri mestieri: diventeranno esperti costumisti, sarti e scenografi. Il gruppo di lavoro, capitanato dalla regista Daniela Mangiacavallo, dopo avere messo in scena due applauditi spettacoli, ha coinvolto adesso gli ospiti del Pagliarelli in un nuovo interessante progetto sui mestieri del teatro. L’obiettivo della compagnia teatrale Evasioni è quello di mettere su uno spettacolo interamente realizzato dal lavoro dei detenuti. Un progetto possibile perché l’associazione della regista siciliana, che da tanti anni collabora con la storica compagnia della Fortezza di Armando Punzo, è riuscita a importare nel carcere palermitano il modello del regista di Volterra. Baccanica, insieme ad altre sei realtà che lavorano negli istituti penitenziari italiani, è stata selezionata e finanziata dalla Fondazione Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio Spa) nell’ambito del progetto pilota “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la bellezza e la cultura”. Un obiettivo ambizioso già dal nome: sino alle stelle superando le difficoltà. “Il progetto finanziato dalla Fondazione Acri - racconta la regista Daniela Mangiacavallo - ci vede protagonisti con i detenuti del Pagliarelli, dove per la prima volta dentro alle mura di un carcere abbiamo portato quattro corsi di formazione professionale sui mestieri del teatro, proprio come accade all’interno della trentennale compagnia della Fortezza, con l’intento di giungere un passo alla volta al nostro obiettivo finale: mettere in scena uno spettacolo teatrale interamente realizzato dal lavoro dei detenuti”. Il corso di recitazione e regia è condotto dalla stessa Daniela Mangiacavallo, quello di drammaturgia è condotto dallo scrittore e drammaturgo Rosario Palazzolo. Giulia Santoro guida invece il laboratorio di costumi e scenotecnica. I detenuti hanno già realizzato piccoli e semplici lavori utilizzando la macchina da cucire. “Una piccola sartoria - continua la regista - è nata dentro il carcere. Un obiettivo nell’obiettivo: stimolare e liberare la fantasia dei detenuti che partecipano al corso, donare loro la possibilità di credere nelle proprie potenzialità artistiche, fuori dagli stereotipi di genere. All’inizio quando è arrivata la macchina da cucire la guardavano con sospetto, come un lavoro da femminucce... Anche questo è importante: ribaltare i pregiudizi per restituire, forse inconsapevolmente, un grande insegnamento. Voglio dire che in questi ragazzi esiste un’inossidabile speranza nel futuro, all’interno di un mondo fatto anche di solidarietà che spesso al di là delle sbarre è difficile immaginare”. Torino: lo sport diventa il welfare dei detenuti al carcere Lorusso e Cotugno di oscar serra La Stampa, 14 dicembre 2018 Rosalia Falletta ha 53 anni ed è una delle “ragazze” della casa circondariale Lorusso e Cutugno che ha partecipato al “Programma Welfare per il detenuto attraverso lo sport”, curato dal Cus Torino. È lei la veterana del team di pallavolo che ieri, 12 dicembre, ha affrontato una rappresentativa della Polizia municipale. È entrata in carcere nel 2015, non sa ancora quando uscirà e non vuole parlare di quegli errori che l’hanno rinchiusa in una cella. Da quest’anno fa parte, assieme a una decina di detenute, di un gruppo che una volta alla settimana si allena agli ordini di Giovanni “Vanni” Guerrini, “ma in realtà noi siamo sul campo tutti i giorni per conto nostro”. Sono tutte entusiaste e pazienza se il campo è un rettangolo di cemento con una rete in mezzo e un muro altissimo a circoscriverne il perimetro. “Giochiamo col sole e sotto la neve”, l’importante è spezzare una routine sempre uguale a se stessa, far volare il pallone assieme alla mente, lontano dai brutti pensieri che già fanno compagnia giorno e notte. Così lo sport diventa svago, riscatto, evasione. A credere in questo progetto sono stati più di tutti il presidente del Cus Riccardo D’Elicio e il direttore del carcere Domenico Minervini. Il programma prevede dodici allenamenti di volley e dieci sedute di powerlifting per gli uomini, seguiti da Andrea Mirabelli, l’istruttore dei Bulls Torino Powerlifting, società che da alcuni mesi ha la sede presso l’impianto del Cus in via Quarello. Tra uomini e donne sono una trentina i detenuti inseriti in questo progetto, che, assicura D’Elicio “vogliamo implementare”, magari inserendo nuove discipline o coinvolgendo più persone delle 1.400 rinchiuse all’interno del carcere: tra loro 127 sono donne (di cui 7 in un reparto speciale dove possono stare assieme ai loro figli) tutti gli altri uomini, in buona parte stranieri. Nei loro occhi c’è un passato fatto di rapine, furti, omicidi, ma c’è anche molto spesso la voglia di lasciarsi tutto alle spalle, e lo sport può diventare lo strumento ideale, prima dentro e poi fuori dal carcere. “Ci è stato segnalato un ragazzo che pare sia un mezzo fenomeno nel rugby - racconta D’Elicio - ho garantito che gli faremo almeno un provino, poi si vedrà”. In questi anni al Lorusso e Cutugno si è fatto molto per migliorare la vita dei detenuti. Lungo i bracci dei padiglioni si possono osservare detenuti intenti a realizzare presepi o addobbare alberi di Natale, ci sono le biblioteche, si organizzano cene e momenti conviviali e lo sport s’inserisce proprio in questo contesto: “L’obiettivo è consentire di affrontare meglio la detenzione e curare di più il benessere psicofisico: tutto sotto la guida e la supervisione di istruttori qualificati” spiega Minervini. Il prossimo appuntamento è la Just the Woman I Am, corsa (o passeggiata) per le vie del centro di Torino i cui proventi finiscono alla ricerca universitaria. Quest’anno si svolgerà domenica 3 marzo e “sarebbe bello - conclude D’Elicio - avere tra i partecipanti un gruppo misto, formato da dipendenti e detenuti”. Trieste: domani concerto presso la Casa Circondariale di con il M° Enrico Bronzi Ristretti Orizzonti, 14 dicembre 2018 Il 15 dicembre 2018 ad ore 14.00 il M° Enrico Bronzi - violoncellista e direttore d’orchestra di fama internazionale - eseguirà un concerto presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento, proposto dalla Società dei Concerti di Trieste - importante realtà culturale della città che, oltre a perseguire lo scopo primario di “diffondere la cultura della musica classica promuovendola attraverso prolusioni e progetti dedicati anche ai più giovani”, è impegnata a promuovere eventi musicali di alto livello indirizzati anche alle aree di disagio - è stato condiviso con entusiasmo dalla direzione della Casa Circondariale e dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla - Enrico Bronzi “non è solo un attivissimo musicista, ma anche un divulgatore in ambito musicale. La sua capacità di trasmettere in modo semplice (ma non banale) l’amore e la comprensione della musica è elemento che lo contraddistingue, con l’obiettivo di dare a un pubblico sempre più ampio strumenti per favorire un ascolto consapevole della musica e favorire una crescita culturale”. Proprio queste caratteristiche hanno permesso la collaborazione tra l’Artista e la storica e prestigiosa Società dei Concerti di Trieste e, assieme agli altri attori, è stato pensato e organizzato, questo particolare evento volto proprio alla promozione della crescita culturale nelle sue diverse e molteplici sfaccettature. Il Garante Comunale dei diritti dei detenuti, Elisabetta Burla La missione di Sasà: “Aiutare i giovani a valorizzare i propri talenti” di Domenico Agasso La Stampa, 14 dicembre 2018 Ex carcerato ora attore di successo. Striano, protagonista di “Gomorra”, gira l’Italia per portare la sua testimonianza: “Voglio abbattere il fascino del male”. Lo abbiamo incontrato nel torinese, durante un’iniziativa dell’Associazione Il Disegno di Lorenzo. Lorenzo è un bambino di 6 anni che non c’è più. Dal 2011. Ma il suo spirito continua a soffiare e a portare gioia e forza. Salvatore “Sasà” Striano è un ex criminale, classe 1972: arrestato, in carcere inizia il suo riscatto personale grazie al teatro, si rifà una vita e oggi è uno scrittore e attore - protagonista del film “Gomorra” - che gira l’Italia per trasmettere ai giovani messaggi educativi, incoraggiarli a cercare il bene, stimolandoli a valorizzare i propri talenti. Per abbattere “il fascino del male”. I due, Lorenzo e Sasà, il mese scorso si sono “incontrati”. È successo a Carmagnola, nel torinese, a novembre. Come? Lo spiega Cristina Manconi, 47 anni, la mamma di Lorenzo: “Abbiamo invitato Salvatore nella nostra città per farlo conoscere ai ragazzi delle scuole medie e superiori, e anche agli adulti”, con la collaborazione del Gruppo di Lettura di Carmagnola. Cristina è la presidente dell’Associazione Il Disegno di Lorenzo Onlus, nata nel 2012 dopo la scomparsa del piccolo a causa di un tumore: sostiene “famiglie con bambini malati e in difficoltà economica. E poi ci occupiamo di prevenzione per i giovani, con iniziative come quella di Striano”. Cristina racconta l’origine del “Disegno” presente nel nome e nel simbolo dell’Associazione: “Il disegno nel simbolo è opera di Lorenzo, e mio marito (Giuliano Racco, 49 anni, ndr) ha aggiunto la “L” di Lorenzo. Ci chiamiamo così perché c’è il disegno creato da nostro figlio, e poi perché portiamo avanti quello che lui avrebbe voluto fare: vivere nonostante le difficoltà. Cerchiamo di trasmettere la sua voglia di vivere, e le nostre parole chiave sono forza d’animo e coraggio”. Cristina è entusiasta della tournée di Striano: “Quella con Sasà è stata un’occasione educativa unica per ragazzi e adulti: la sua testimonianza è un prezioso aiuto per formare la propria coscienza civica”. Ecco, Sasà. Salvatore Striano è nato e cresciuto nei Quartieri Spagnoli di Napoli. La sua “carriera” nel crimine è precoce: a 7 anni vende sigarette nei vicoli; a 9 ruba rossetti e mascara nei centri commerciali per rivenderli alle prostitute, alle quali conduce i soldati americani sbarcati nel porto. Accelera: a 14 spaccia cocaina, e in breve tempo diventa uno dei leader del gruppo criminale “Teste Matte”, che osa sfidare la camorra. Nella sua seconda vita racconterà questa storia nel romanzo “Teste matte”, scritto con Guido Lombardi e pubblicato da Chiarelettere. Arrestato dopo un periodo di latitanza in Spagna, è stato poi trasferito in Italia. In prigione a Rebibbia frequenta un laboratorio teatrale: scopre la letteratura, Shakespeare. Il teatro è la svolta. Torna in libertà e diventa un camorrista, ma solo per Matteo Garrone, in “Gomorra”; poi un rapinatore, ma solo per Guido Lombardi in “Take five”. Inizia l’altra sua carriera, quella da attore per il cinema e la tv. Nel 2012 torna a Rebibbia, ma questa volta per la consacrazione cinematografica: gira le scene di “Cesare deve morire”, tratto dal “Giulio Cesare” di Shakespeare (Orso d’oro al Festival di Berlino). Eccolo di nuovo, Shakespeare, decisivo in bene per Striano. Infatti nel 2016 pubblica “La tempesta di Sasà”, sempre con Chiarelettere, in cui racconta la scoperta del teatro a Rebibbia e in particolare il lavoro svolto sui testi del Bardo. Lavorerà anche con Beppe Fiorello in tv per “L’oro di Scampia”. Nel 2017, per le edizioni Città Nuova, pubblica il romanzo “Giù le maschere”. Salvatore, lei ha conosciuto e affrontato il “buio”, ma poi ha saputo ritrovare la “luce”: come descrive la sua vita? “Sono stato in un tunnel, terribilmente buio. Poi sono riuscito a trovare la strada per uscirne. E ritrovare così la luce, appunto. Mi ero messo nei guai, complicandomi tanto l’esistenza: quando frequenti “la strada”, la situazione precipita”. In che senso? “Tutti i piani saltano e inizi a vivere alla giornata, ma non per spensieratezza o leggerezza. No: perché non hai più punti di riferimento, sei sempre con un piede fra la tomba e la galera. Ogni giorno i pericoli sono altissimi. Non è vivere, ma mal di vivere”. A distanza di anni, che senso dai a quei tempi così duri? “Il mio tunnel è diventato prezioso perché ora lo “mostro” alle persone che sono ancora dentro al loro tunnel, e non hanno idee o forza o stimoli per cercare l’uscita. Io l’ho trovata, e ogni giorno mi impegno per rendere salvifica la mia esperienza”. Qual è la principale sensazione che provi nella tua attività educativa? “Questo è un periodo in cui abbiamo pochi esempi sani. Ecco perché una testimonianza di riscatto credo sia una manna dal cielo, soprattutto per tutti coloro che vogliono lasciare il loro carcere. Carcere che non è solo l’istituto penitenziario: ci sono molte persone che hanno “prigioni” diverse, a cominciare dalle dinamiche di sofferenza in casa, oppure le proprie debolezze psicologiche o caratteriali, o malattie; o problemi di lavoro o a scuola. Tutte situazioni in cui c’è bisogno di un riscatto o di una svolta positiva, che spesso nasce da scintille come l’ascolto di storie di rinascita”. Qual è il momento chiave della vita di Salvatore Striano? “Quando mi hanno messo in mano un copione teatrale: ecco che già all’interno della mia cella ha cominciato a entrare qualche raggio di luce”. E la strada verso la serenità quando si è aperta? “Quando ho terminato il lavoro di prove e con la compagnia teatrale siamo andati in scena: il pubblico non smetteva di applaudire, c’era chi si commuoveva. L’intensità delle emozioni in quegli attimi era palpabile, tangibile. Lì ho capito che la mia vita poteva diventare bella e preziosa”. Quali sono stati i passi del “nuovo” Sasà? “Tracciare una via nella mia mente e poi iniziare a percorrerla, con un primo grandissimo obiettivo: non farmi più male e non fare del male ad altri, stare fuori e lontano dalle malefatte. Ho iniziato a lavorare anche sul linguaggio da usare”. Quale ruolo hanno Dio e la fede nella sua vita? “Con Dio fatico ad avere un rapporto costante. Lo percepisco come “troppo grande”, e dunque (quasi) irraggiungibile. Preferisco dire che mi sento amico di Suo Figlio Gesù. L’immagine di Cristo maltrattato e poi messo in croce mi fa soffrire tanto, perciò mi piace pensarlo mentre si ferma a parlare con la gente, offrendo aiuto e una buona parola a chiunque incontri. E poi, c’è sant’Agostino”. Sant’Agostino? “Ha fatto “sbattere” (preoccupare, ndr) molto santa Monica, sua madre, ma poi si è riscattato e ha trovato la fede: io, con estrema umiltà, mi rivedo in lui, perché anch’io ho fatto spesso arrabbiare mia mamma. Purtroppo non ho fatto in tempo a mostrarle la luce che ho trovato, però sono convinto che lei la stia seguendo e se la stia godendo da Lassù. E così finalmente può vedere che non ha partorito un fallimento”. Che cosa consiglia ai genitori? “Di non farsi spaventare dal confronto con i figli, anche se spesso è molto duro. È meglio averlo in casa, il confronto-scontro, in modo che possa essere formativo e rafforzare i ragazzi in vista delle sfide che li aspettano fuori dal focolare. Per riuscirci, i genitori devono essere innanzitutto presenti fisicamente, e super presenti con la testa e con il cuore, senza farsi distrarre da mille cose superflue. Poi, non devono dare nulla per scontato con i figli, ed essere o diventare bravi ad ascoltarli veramente, sia quando i ragazzi parlano, sia quando tacciono”. Con le persone disagiate che incontra che cosa la colpisce sul rapporto con i loro genitori? “Si sentono dei falliti, addirittura venuti al mondo “per colpa di papà e mamma”“. Qual è il suo appello? “I genitori non devono assolutamente trascurare il loro ruolo nella crescita dei figli. Insegnino loro il valore della fatica, perché così sapranno affrontarla quando sarà ora; trasmettano la capacità di entusiasmarsi, di cogliere e apprezzare le cose belle della vita, grandi e piccole che siano. Facciano capire quanto sia decisivo istruirsi: senza gli strumenti che dà la scuola nella vita non si va da nessuna parte, nella migliore delle ipotesi si va “dappertutto” ma in modo superficiale e fragilissimo. Li aiutino a scoprire i loro talenti, e ad applicarsi per valorizzarli. Solo così potranno vivere scuola, lavoro, studio, sport, arti, amicizie, tempo libero e amori con intensità, senza diventarne succubi o schiavi. E alla prima sconfitta non si abbatteranno, perché non saranno troppo vulnerabili in questo mondo che spesso “va al contrario”“. Che cosa le ha lasciato dentro la storia di Lorenzo? “La voglia di lottare ancora di più contro l’indifferenza verso chi soffre. Lorenzo è stato un bambino sfortunato che ha avuto una brevissima vita: ma ci parla ancora, attraverso la tenacia, il sorriso, l’amore e la generosità di sua mamma Cristina e di suo padre Giuliano. Quando li incontri ti sembra che Lorenzo non sia solo figlio loro, ma figlio di tutti noi. Vedere una famiglia di persone così genuine che lottano con così tanto amore per diffondere messaggi di altruismo è una lezione continua e straordinaria”. Che cos’altro ci insegna la loro storia? “A rallentare i nostri ritmi frenetici, altrimenti la nostra esistenza ci sfugge via mentre noi corriamo: occorre assaporare di più e meglio ciò che abbiamo, a cominciare dagli affetti. Assaporare i sentimenti, le emozioni. E bisogna sconfiggere la brama di potere e denaro, perché è uno dei principali nemici della gioia”. Qual è il grande sogno di Salvatore Sasà Striano? “Avere sempre l’energia per essere utile a chi ha più bisogno. In particolare ai giovani, per i quali mi sento umilmente in missione. Sono un conoscitore del male, quindi per me è un dovere morale avvisarli dei pericoli, soprattutto quelli della droga, dell’alcol, del malaffare. Conto di riuscirci anche con la passione che metto nell’essere scrittore, attore e sceneggiatore e in tutto quello che faccio ogni giorno. E spero di toccare le corde giuste del cuore dei ragazzi, in modo da essere un vero, seppur piccolo, aiuto per loro, soprattutto nelle sfide più grandi e complicate: trovare e valorizzare i propri talenti, e il senso del cammino in questa vita”. Togliamo i bimbi perduti al terrorismo di Roberto Saviano La Repubblica, 14 dicembre 2018 In Europa e in Italia aumentano tra i profughi i minori non accompagnati. Che fine fanno? Sono in balia di integralisti e organizzazioni criminali: i governi devono occuparsene. L’Europa sotto attacco terroristico impone un serio ragionamento sul destino di molti bambini e adolescenti dentro e fuori i confini del continente. Cosa c’entrano i bambini con il terrorismo? C’entrano, perché quello che accade oggi è il risultato delle politiche di ieri. Quando lo scorso luglio il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito per discutere la condizione dei bambini nei luoghi di guerra, ha dato questo titolo al dibattito: “Proteggere i bambini oggi significa prevenire i conflitti di domani”. Allora mi domando: i bambini li stiamo davvero proteggendo? Cosa stiamo facendo per il loro e per il nostro futuro? Parlare della condizione dei bambini in luoghi resi instabili da guerre e persecuzioni apparirà forse a qualcuno un argomento di scarso interesse, se non fosse che anche in Italia e in Europa i bambini e gli adolescenti, europei e stranieri, non sono al riparo da sfruttamento e afflizione, nonostante vivano in Stati democratici. E la loro condizione mina seriamente le basi delle nostre democrazie, fondate sul rispetto dei diritti, soprattutto quelli dei più deboli. Se diamo uno sguardo ai dati allarmanti sulla dispersione scolastica in Europa, ci rendiamo conto di come i bambini e i ragazzi che non stanno frequentando le scuole oggi saranno i soggetti più deboli, vittime domani di nuovi populismi, persino peggiori di quelli che stiamo sperimentando adesso. In Italia, secondo l’Eurostat, la dispersione scolastica riguarda il 14,2% dei minori e a un ulteriore approfondimento risulta evidente il divario tra il Nord e il Sud, un divario su cui la politica non ha alcuna intenzione di agire concretamente. Tra qualche tempo anche la scuola dell’obbligo verrà presentata come un privilegio per ricchi... Un esempio concreto degli effetti della dispersione scolastica è rappresentato dalla Turchia, Paese in cui la percentuale di giovani che ha interrotto gli studi supera il 30%: questi dati hanno un legame strettissimo con la salute della “democrazia” e quindi con il futuro del paese. Dall’altro lato, è utile soffermarsi sui dati che riguardano l’arrivo in Europa di minori non accompagnati, provenienti da paesi dove le condizioni di vita per loro sono intollerabili. Nel 2017 ne sono arrivati in Italia 15mila, 32mila in Europa. Nel 2018 il numero di minori soli è aumentato, anche in presenza di una diminuzione degli arrivi totali. Si tratta di 18mila tra bambini e adolescenti, il 15% dei migranti che hanno raggiunto l’Italia. Ma da dove vengono? Attraverso la rotta balcanica, quella che non riguarda direttamente l’Italia, dalla Siria e dall’Afghanistan. In Italia arrivano soprattutto da Gambia, Nigeria, Senegal. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulle condizioni dei 350 milioni di bambini esposti a situazioni di conflitto armato ci dice che nella blacklist ci sono 20 paesi e 66 gruppi armati e che 21mila sono le gravi violazioni dei diritti dei bambini accertate nel 2017 nelle zone di conflitto. Quello che sconcerta è l’aumento del 35% di quest’ultimo dato rispetto al 2016 che spiega l’aumento di minori che scappano da soli anche in presenza di una diminuzione degli arrivi totali di cui si vantano i politicanti nostrani. Sarà interessante confrontare l’elenco dei paesi considerati “sicuri” dal governo italiano (da individuare come previsto dal Decreto Sicurezza) con quello stilato dal Consiglio delle Nazioni Unite dei paesi in cui i minori sono a rischio; chi sa che non ci siano strane coincidenze. Fatto sta che in Italia ogni anno si perdono le tracce di circa la metà dei minori non accompagnati censiti, in Europa si perdono le tracce del 30%. Che fine fanno questi ragazzi? Save the Children, ogni anno, nell’Atlante dell’infanzia a rischio denuncia la gravità di questa situazione e lancia un grido dall’allarme che resta, per lo più, inascoltato. Fin qui ho presentato fatti, su cui non può esserci nessun ministro o sottosegretario che possa rispondere, come è ormai abitudine: “Questo lo dice lei!”. E i dati che abbiamo sono allarmanti, se partiamo dall’assunto che i bambini di oggi, e il modo in cui vengono trattati, determineranno il mondo di domani. Ma c’è una ferita aperta, sanguinante. Leggo le informazioni sull’attentatore di Strasburgo, Chérif Chekkat: nato a Strasburgo (non ha quindi esitato a provocare dolore nella sua città natale) nel 1989. Ventisette condanne per reati comuni commessi in Francia, Svizzera e Germania, dove è stato detenuto. Il giorno dell’attentato si è reso latitante: doveva essere arrestato per estorsione, ma quando la polizia è arrivata a casa sua, non l’ha trovato. Dicono si fosse “radicalizzato”, eppure nessuna traccia nel suo appartamento di legami con l’Isis; quindi ecco che le definizioni che di lui vengono date, oltre ad “assassino”: cane sciolto, avanzo di galera per nulla disposto a farsi saltare in aria. Chérif Chekkat è il rappresentante di questa nuova categoria di attentatori di cui abbiamo già fatto tragica esperienza. Criminali disposti a tutto perché legati a nulla. Di fronte al dolore che tutto questo sta provocando - c’è un giovane e appassionato giornalista, Antonio Megalizzi, che lotta tra la vita e la morte - dobbiamo chiederci in quale direzione stiamo andando. Se l’azione politica è tesa a trovare soluzioni o se, invece, utilizza tutto ciò che è destabilizzante come rampa di lancio per costruire, sulla paura, nuovi confini che creeranno nuovi ghetti, nuove marginalizzazioni e, quindi, nuovo terrore. La risposta che l’Europa ha trovato alla paura è del tutto irrazionale: cercare un capro espiatorio. Più abbiamo paura e più cediamo al rancore e la cattiveria diventa la bussola che ci guida. Viviamo uno stato di conflittualità perenne, alimentato da speculazioni su emergenze che non esistono, o almeno non come ci vengono raccontate, anche perché quanto è difficile dover constatare che “il nemico” ci somiglia più di quanto siamo disposti ad ammettere... Possiamo scegliere. E scegliere è un atto di coraggio, soprattutto quando ci sentiamo, come ora, in balìa degli eventi. Pensiamo ai ragazzi, ai bambini. Ai bambini italiani che al centro di Napoli lasciano la scuola, a quelli che divengono paranze utilizzati dai clan per confezionare dosi di cocaina e gestire piazze di spaccio. E pensiamo a quei bambini, a quegli adolescenti che da soli arrivano in Europa. Che qui non hanno nessuno e diventano proprietà (sì, proprietà!) di chi prima li afferra. Tutti questi bambini non hanno scelta, chiediamo dunque ai nostri governi di occuparsene. Pretendiamolo, per il loro bene di oggi che sarà l’unica condizione per avere un futuro non dilaniato. “Difesi l’attentatore di Strasburgo: era un ladro, ma non un estremista” di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 14 dicembre 2018 A colloquio con Thomas Roder, avvocato tedesco di Cherif Chekatt: “Nessun segno di radicalizzazione. Se ci fosse stata più collaborazione fra i sistemi giudiziari europei forse oggi sarebbe ancora in carcere”. “Quando l’ho difeso io, Cherif Chekatt era un ragazzo dall’aspetto occidentale: senza barba, tifoso di calcio, capelli lunghetti. Certo, a me aveva detto anche che non beveva alcol e che non faceva uso di droghe, ma l’unica richiesta che poteva essere legata alla sua religione musulmana era stata quella di non dover mangiare carne di maiale, in carcere. Alcuni detenuti mi chiedono per esempio di avere un angolo per pregare, cosa che lui non ha mai fatto”. L’ultimo contatto con l’attentatore di Strasburgo risale all’inizio del 2017: sei mesi prima Thomas Röder era stato il suo avvocato difensore in Germania, quando Chekatt aveva confessato di aver rapinato una farmacia a Engen e uno studio odontoiatrico a Magonza. A Repubblica, Röder racconta di “non aver colto alcun segno di una radicalizzazione” fino all’ultimo contatto, un anno e mezzo fa. E confessa di essere rimasto “sconvolto” dalla lettura del suo nome sui giornali, legato “a quella orribile strage di Strasburgo”. Raggiunto telefonicamente nel suo studio di Singen, la città dove Chekatt era stato condannato nel 2016, Röder parla di un “ragazzo tranquillo e timido”, ma che aveva mostrato una certa dimestichezza con le aule di tribunale. “Ogni tanto si lasciava andare a qualche battuta: sembrava abituato ad avere a che fare con avvocati e giudici”. È stato condannato a due anni e tre mesi e rinchiuso per un anno a Friburgo: “in Germania è normale anche che si sconti metà della pena qui e l’altra metà nel Paese di origine”, ma dopo un anno Chekatt era stato espulso in Francia “con un divieto per dieci anni di rientrare in Germania”. C’è una cosa che fa infuriare Röder: “quando il giudice chiese gli atti dei processi che aveva subito in Svizzera e in Francia, non glieli spedirono. Avrebbe facilitato il giudizio e la sentenza su Chekatt”, visto nella Confederazione elvetica e il Francia era stato già lungamente dietro le sbarre, rispettivamente per un anno e sei mesi e per due anni. “È assurdo che, soprattutto in una zona di frontiera come questa, le autorità europee non collaborino, i tribunali non collaborino. A Singen, il giudice di Chekatt non è stato in grado di farsi un quadro completo dei suoi reati, si è dovuto basare sulle testimonianze dello stesso Chekatt. Che ha confessato di essere già stato in carcere”. In teoria, argomenta Röder, “se il giudice non avesse notato la sua familiarità con le aule di tribunale e se i suoi crimini fossero stati un po’ meno gravi, avrebbe potuto avere le libertà condizionata”. Migranti. Rotta alpina, sette condannati per “fraternità” di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 14 dicembre 2018 Pene tra i sei e i dodici mesi, l’accusa è di aver aiutato dei migranti a passare il confine italiano al Monginevro. Ma per lo stesso “reato” la Cassazione assolve il contadino Herrou. Poco distante dal confine di Ventimiglia, in pieno territorio francese, Cèdric Herrou ha ospitato a casa sua oltre mille migranti irregolari dal 2015. Ha assistito, rifocillato e poi salutato coloro che passavano a piedi l’impervio confine tra Italia e Francia lungo le vie della valle del Roia. Lui è un giovane agricoltore e il suo agire è sempre stato palese, volto ad una rivendicazione politica. Messo sotto processo per favoreggiamento dell’immigrazione, nonché della permanenza a casa sua di immigrati clandestini, era stato condannato in primo grado per il primo reato e in appello per entrambi a otto mesi di reclusione. Ieri ha ottenuto dalla Corte di Cassazione l’annullamento della sentenza di secondo grado per quanto concerne il “favoreggiamento della permanenza di immigrati clandestini”, mentre la parte relativa al “favoreggiamento del passaggio” è stata confermata. Lo scorso luglio la Corte Costituzionale aveva stabilito che aiutare i migranti presenti sul suolo francese, anche se irregolari, non costituisce reato. “Il concetto di fraternità conferisce la libertà di aiutare gli altri per scopi umanitari senza tenere conto della legalità o meno della loro permanenza sul territorio nazionale”: queste le motivazioni che sostenevano la sentenza ieri confermate dalla Corte di Cassazione. La “fraternità”, insieme a “libertà” e “uguaglianza” è uno dei tre valori fondamentali della Repubblica francese: l’espressione liberté, egalité, fraternité è esplicitamente citata all’articolo 2 della Costituzione, dove viene definita “motto nazionale”. Cèdric Herrou, un giovane uomo poco più che trentenne, esce quindi parzialmente vittorioso da una vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’intera Francia e ha messo a nudo la vastità del fenomeno migratorio lungo la cosiddetta “rotta alpina”. Ma la giustizia francese ieri si è espressa, a Gap, su un secondo caso, che ha destato molto meno clamore mediatico: questa volta lungo il punto più a nord della “rotta alpina”, sul tratto che va da Claviere, in Italia, a Briançon, Francia. Sei uomini e una donna sono stati condannati a pene comprese tra i sei e i dodici mesi per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”: sentenza in linea con la condanna inflitta a Cèdric Herrou. Aiutare i migranti, anche salvandoli da condizioni ambientali e climatiche estreme, continua ad essere illegale e pericoloso. È caduta invece l’accusa di “associazione a delinquere”. Tra i condannati anche Benoit Ducos, il falegname di Briançon che soccorse una giovane donna africana incinta, portandola all’ospedale: per quel gesto eroico fu indagato per favoreggiamento. Accusa archiviata. I sette sono stati gli unici di un folto gruppo di solidali e volontari che la scorsa primavera forzarono in massa il confine del Monginevro, di fatto scortando alcuni immigrati africani che nei giorni precedenti erano stati intimiditi dalla ronde composte dai giovani di Generazione Identitaria, un gruppo di estrema destra francese molto organizzato, che si pose “a difesa del confine” e “contro l’invasione”. Lungo la rotta alpina da più di tre anni opera una rete di volontari che soccorre i migranti che si trovano in difficoltà o in immediato pericolo di morte. Il decreto sicurezza recentemente approvato ha raddoppiato il numero di coloro che tentano il passaggio dall’Italia alla Francia: uomini e donne che in queste giorni, nelle ore notturne e con temperature anche di quindici gradi sotto lo zero, si incamminano verso la Francia. Annullata la condanna all’agricoltore francese che aiutava i migranti di Greta Sclaunich Corriere della Sera, 14 dicembre 2018 Cédric Herrou era stato condannato a 4 mesi con la condizionale per aver aiutato circa 200 migranti: ora sarà giocato di nuovo dalla corte d’appello di Lione. La Cassazione francese ha parzialmente annullato la sentenza di Cédric Herrou, l’agricoltore condannato nel luglio del 2017 a quattro mesi con la condizionale per aver “facilitato la circolazione e il soggiorno” di circa 200 migranti. La novità non sta tanto nell’annullamento quanto nella motivazione: la giustizia ha infatti applicato il “principio di fraternità”, consacrato a luglio dal Consiglio costituzionale. Herrou sarà quindi giudicato di nuovo dalla corte d’appello di Lione. Il 39enne Herrou, produttore di olive bio, vive nella valle della Roya nei pressi della frontiera franco-italiana: ha aiutato decine di migranti, sia facendoli entrare in Francia che a richiedere i documenti per ottenere asilo. In Francia è molto noto, al punto da essere diventato anche il protagonista del documentario Libre, presentato all’ultimo festival di Cannes. Condannato in primo grado a una multa di 3mila euro e in appello a quattro mesi con la condizionale, non ha mai fatto marcia indietro: “Io non faccio che sostituirmi allo Stato che farfuglia di diritti dei migranti e diritti d’asilo, ma poi non fa nulla perché questi diritti siano rispettati. Ogni buon cittadino avrebbe il dovere di fare altrettanto in una democrazia”, aveva dichiarato. La sentenza della Cassazione, secondo il suo avvocato, è “una grande vittoria”. Insieme a lui è stato rilasciato anche un altro militante. Il “principio della fraternità” evocato, infatti, riconosce “la libertà di aiutare l’altro a fini umanitari senza considerare la regolarità del suo soggiorno sul territorio nazionale”. In attesa di presentarsi al tribunale di Lione, resta a suo carico la multa di mille euro per occupazione illecita di un edificio abbandonato di proprietà delle ferrovie francesi, dove aveva sistemato una cinquantina di migranti in arrivo dall’Eritrea. Brasile. Estradizione più vicina per Cesare Battisti di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 14 dicembre 2018 La decisione del giudice della Corte suprema. Alla difesa spetterebbe ancora un ricorso. Il presidente Temer può decidere entro la fine di dicembre, poi toccherà a Bolsonaro. Cesare Battisti dev’essere arrestato immediatamente e in seguito estradato in Italia. Con una decisione a sorpresa Luiz Fux, uno dei ministri della Suprema corte brasiliana, ha saltato il prossimo incerto passaggio della vicenda giudiziaria dell’ex terrorista e deciso di accogliere le richieste dell’Italia. La decisione di accogliere le richieste dell’Italia - La decisione è stata resa nota a tarda sera e l’ordine di portare in carcere Battisti è giunto alla Polizia federale, la quale dovrà rintracciare l’italiano a Cananeia, la cittadina nello stato di San Paolo nella quale vive da alcuni anni. Fux è lo stesso magistrato che lo scorso anno concesse ancora ossigeno a Battisti, quando l’Italia tornò alla carica per l’estradizione con il presidente Michel Temer, di orientamento opposto ai suoi predecessori (Lula e Dilma Rousseff) i quali invece concessero al fuggitivo la possibilità di risiedere legalmente in Brasile Tentativo di fuga verso la Bolivia - Ci fu nel frattempo l’episodio del tentativo di fuga verso la Bolivia e il rapido passaggio in carcere per traffico di valuta. Da allora le parti in gioco (ambasciata italiana da una parte e difesa di Battisti dall’altra) attendevano una nuova convocazione del Supremo Tribunale Federale e la decisione finale sull’estradizione. La questione da chiarire è se un presidente in carica possa o meno revocare la decisione di un capo di Stato precedente. Fux ora ha deciso di tagliar corto. Sostiene che un capo di Stato può optare diversamente da un suo predecessore e ribaltare una sua posizione, perché l’esecutivo prevale sul potere giudiziario in materia di estradizione. Ha scartato le ragioni della difesa, come la circostanza che il fuggitivo ha un figlio piccolo in Brasile da dover mantenere. Ordinandone l’arresto, Fux consegna Battisti di fatto alla più alta carica del Paese, che per legge è la persona che firma l’estradizione. Michel Temer e Jair Bolsonaro favorevoli all’estradizione - Da oggi al 31 dicembre, poco più di due settimane, il presidente è ancora Michel Temer, dal 1 gennaio 2019 sarà l’ex militare Jair Bolsonaro. Entrambi sono a favore della consegna di Battisti all’Italia, il secondo con più veemenza. Alla difesa dell’ex terrorista spetterebbe ancora un ricorso. Ma non è detto che le cose non accelerino in maniera improvvisa e l’imbarco di Battisti su un aereo con destinazione Italia sia invece soltanto questione di ore. Iran. Attivista politico muore per lo sciopero della fame in carcere di giordano stabile La Stampa, 14 dicembre 2018 Vahid Sayadi Nasiri era in sciopero della fame da ottobre, è morto nell’ospedale di Qom. Era detenuto nella prigione speciale della città santa iraniana, una delle più dure, per aver “insultato” la Guida Suprema Ali Khamenei sui social media. Era stato condannato a otto anni di carcere nel 2015, poi rilasciato, poi di nuovo arrestato lo scorso agosto, per scontare altre due anni e mezzo di prigione. Nasiri ha cominciato lo sciopero della fame a ottobre, per protestare contro le condizioni di detenzione, e l’impossibilità di rivolgersi a un avvocato. Il suo caso era seguito dalla ong iraniana Human Rights Monitor. Nasiri chiedeva prima di tutto di essere trasferito in un carcere ordinario, perché era costretto a stare in cella con criminali comuni, in violazione dell’ordinamento penitenziario, ed era attaccato e molestato dagli altri detenuti. Nelle scorse settimane le condizioni di Nasiri si sono aggravate ed è stato portato all’ospedale. Ma pochi giorni dopo le autorità hanno comunicato il decesso alla sorella Elaheh, senza dare spiegazioni. Nasiri era stato condannato per “insulti”, cioè critiche, alla Guida Suprema e “propaganda contro lo Stato”, un capo di accusa molto vago, che può essere usato per colpire semplici oppositori e dissidenti. Come lo Stato islamico fece terra bruciata nelle zone rurali yazide di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 dicembre 2018 Del genocidio della comunità yazida, altrimenti dimenticato, si è tornati a parlare il 10 dicembre in occasione del conferimento del Nobel per la pace a Nadia Murad. Gli yazidi hanno subito crimini orribili durante l’invasione dei loro territorio, situato nell’Iraq settentrionale, da parte dello Stato islamico (nella foto di Alessandro Rota del 25 gennaio 2016, una fossa comune scoperta a Sinjar). Nell’agosto del 2014, i miliziani dello Stato islamico rastrellarono e uccisero tutti gli uomini e i ragazzi che non erano riusciti a fuggire sulle alture della montagna del Sinjar. Poi rapirono, resero schiave e vendettero circa 6000 giovani donne e bambine in altre zone dell’Iraq e in Siria. A dicembre venne riconquistata la zona a nord della montagna del Sinjar e nel novembre 2015 fu ripresa quella a sud. Il governo regionale curdo assunse il controllo dell’area per poi consegnarla al governo centrale iracheno nell’ottobre 2017. Nel frattempo, il millenario stile di vita degli yazidi, una comunità prevalentemente agricola, era stato semplicemente cancellato. In un nuovo rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato tutta un’altra serie (oltre a omicidio, persecuzione, stupro e riduzione in schiavitù) di crimini di guerra e contro l’umanità commessi dallo Stato islamico nelle zone rurali: inquinamento dei pozzi d’acqua, sabotaggio delle linee elettriche, distruzione di infrastrutture agricole come i sistemi d’irrigazione, incendio sistematico degli alberi da frutta, razzie di bestiame e macchinari agricoli e, per finire, il tragico lascito di un’enorme quantità di mine terrestri lasciate sui terreni. Le autorità locali stimano che nella sola area intorno a Sinune, 400 pozzi su 450 siano stati resi inutilizzabili riempiendoli di calcinacci, rifiuti o petrolio. La produzione agricola risulta calata del 40 per cento rispetto al 2014. Prima dell’arrivo dello Stato islamico, due terzi degli agricoltori iracheni avevano accesso all’acqua per irrigare mentre tre anni dopo la percentuale era scesa al 20 per cento. Circa il 75 per cento del bestiame è andato perso e in alcune aree la percentuale è persino del 95 per cento. Di conseguenza, centinaia di migliaia di agricoltori yazidi sono sfollati e le loro famiglie non possono tornare a casa: riprendere le loro attività è impossibile. Solo la metà delle persone sfollate dopo che lo Stato islamico aveva occupato l’area di Sinjar ha potuto farlo. Numerosi sfollati interni hanno detto ad Amnesty International che non hanno più nulla e che le loro coltivazioni e il loro bestiame sono stati decimati. Lo stesso vale per altre zone agricole dell’Iraq. Nel 2018 il governo iracheno ha adottato un piano quinquennale per la ricostruzione delle zone rurali. Ma, per farlo funzionare, occorreranno somme ingenti oltre naturalmente alla volontà politica di considerare realmente prioritario pulire i pozzi e riparare i sistemi d’irrigazione e le altre infrastrutture agricole per consentire agli sfollati yazidi di tornare alle loro case e ai loro campi.