Cresce il numero dei detenuti. Gherardo Colombo: “non si educa reprimendo” di Alessandra Gaetani romasette.it, 13 dicembre 2018 L’ex magistrato invita a puntare su misure alternative e su progetti di lavoro. Cresce il numero dei detenuti, “livelli mai raggiunti dal 2014”, commenta il Garante regionale del Lazio dei diritti delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, che denuncia come si sia varcata la “soglia di sicurezza” del sistema penitenziario nazionale, 60mila unità. “È una tendenza preoccupante, che pregiudica le condizioni di vita e di lavoro all’interno degli istituti”. Da qui l’urgenza di una riflessione sul problema e sulle alternative al carcere promossa dallo stesso Garante con un ciclo di convegni concluso martedì 11 dicembre alla Regione Lazio. Partendo dall’idea, secondo l’ex magistrato del “pool Mani pulite” Gherardo Colombo, al tavolo dei relatori, che “il carcere è un male” e che “non si può educare reprimendo”. Anche se, Colombo ne è consapevole, “il pensiero collettivo va in direzione opposta: il carcere è luogo di salvezza sotto il profilo della rassicurazione, chi sta fuori pensa di essere una brava persona perché i cattivi stanno dentro”. Una rassicurazione rispetto alla percezione di un’insicurezza dilagante. Eppure, osserva Colombo, “i dati dicono che da oltre 20 anni il numero degli omicidi diminuisce e in genere avvengono in casa”. Colombo, impegnato nella promozione della cultura della legalità e delle alternative al carcere, presiede la Cassa per le Ammende, un ente istituito presso il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che finanzia progetti mirati ad aiutare il reinserimento e a migliorare le condizioni dei detenuti e dei familiari. “Oggi - sottolinea l’ex pm - si può fare di più con bandi a evidenza pubblica, finanziare progetti con la Conferenza delle Regioni. Altra iniziativa è il lavoro di pubblica utilità, devono essere lavori formativi. Si possono realizzare molti progetti poco costosi sotto questo profilo”. Per Colombo la vera alternativa al carcere è la giustizia riparativa, che “prevede un percorso tra il responsabile e la vittima, con il primo che si rende conto di ciò che ha fatto perché non lo commetta ancora”. “La visione punitiva - afferma Lucia Castellano, già direttrice del carcere milanese di Bollate e ora direttore generale dell’esecuzione penale esterna e della messa alla prova presso il Ministero della giustizia - è effimera e non soddisfa neanche le vittime perché il reo deve avere una punizione commisurata al reato. Ma ci vuole la certezza della pena e non aspettare 10 anni. La velocità della risposta punitiva è la proporzionalità all’offesa creata ma non riusciamo a garantirlo né alle vittime né agli autori del reato”. Castellano si sofferma proprio sulla messa alla prova, l’istituto cui possono accedere gli imputati per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con reclusione non superiore a quattro anni. “Oltre 13.000 persone sono persone messe alla prova, non condannate. Questo strumento ha una potenzialità enorme perché sospende il processo e prevede un lavoro di pubblica utilità che estingue il reato, se portato bene a termine. Si deve saper cogliere la rivoluzione del legislatore. Permette di deflazionare i processi, intercettare la persona prima che accumuli un fascicolo di recidiva”. “Bisogna cambiare il carcere”, sottolinea Maria Antonia Vertaldi, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, l’organismo cui spetta decidere sulle condizioni di detenzione e sull’accesso alle misure alternative al carcere. “Il legislatore, senza saltare i dovuti passaggi, deve vedere come riformare l’intero sistema penitenziario. Per la società civile ci vorrebbe un’opera di comunicazione per farle capire e renderla attenta al problema perché il carcere è un non luogo. La magistratura di sorveglianza è pronta a lavorare di più per raggiungere questo obiettivo”. In 30 anni ventisettemila “ingiuste detenzioni “, risarcimenti quasi impossibili di Valter Vecellio lindro.it, 13 dicembre 2018 Una situazione esplosiva; una bomba ad orologeria, basta un nonnulla e può esplodere con effetti imprevedibili e devastanti. L’allarme viene, ancora una volta, da Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, da sempre impegnata sul fronte carcere, giustizia, diritti della persona: “I detenuti sono di nuovo sessantamila. E questo malgrado le condanne già avute dall’Italia in sede europea per la condizione disumana in cui sono costretti i detenuti italiani. Solo nell’ultimo anno ci sono stati 61 suicidi. Il problema non è solo il sovraffollamento che pure è spaventoso. Con il ministro abbiamo visioni completamente diverse e anche questa idea di trasformare le caserme in carceri mi sembra una follia. Il problema non sono solo gli spazi ma il personale che manca”. Bernardini snocciola cifre e fatti: “Oggi il 98% degli agenti penitenziari è addetto alla sicurezza, solo il 2,15% sono educatori, alla faccia dell’articolo 27 della Costituzione che chiarisce che la detenzione deve essere finalizzata alla rieducazione. Inoltre vengono usati trucchi e trucchetti per aggirare le sentenze di risarcimento che vengono vinte dai detenuti. È quasi impossibile per i detenuti ottenere il risarcimento di 8 euro per detenzione disumana: sto seguendo il caso di un signore di Reggio Calabria che deve avere 9mila euro. La sentenza è definitiva ma non ha avuto un euro dal ministero”. È una situazione a dir poco imbarazzante: nei 50.583 posti ufficiali spalmati nelle 190 carceri, vengono stipati 60.002 detenuti; uno su sei è in attesa della prima sentenza e dunque non necessariamente fuorilegge come lo Stato che lo rinchiude. Lo sbilancio tra detenuti e posti a inizio anno era di 7.160; a fine marzo è salito a 7.610, a settembre a 8.653; ora è di 9.419. I 50.583 posti ufficiali, sono teorici: vanno sottratti quelli inagibili, il cui numero varia ma che ad esempio nella rilevazione del Garante dei detenuti del 23 febbraio ammontavano a ben 4.700. Il sovraffollamento reale quotidiano non è di 9.419 detenuti, ma di circa 14.000 persone. Dato emblematico, quello dei cosiddetti “errori giudiziari”. Dagli anni 90 ad oggi le ingiuste detenzioni censite sono 27.000. Prima di finire questa nota, un ricordo: oggi, 49 anni fa, a Milano, la strage di piazza Fontana, la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura: causa 17 morti e 88 feriti. È l’inizio della strategia della tensione, la stagione delle stragi ‘stabilizzanti’. Quattro giorni dopo, il 16 dicembre, un ferroviere anarchico, Pino Pinelli, che con la strage non c’entrava nulla, ‘volava’ dal quarto piano della Questura di Milano. “Cuore di tutti”, così gli avvocati difendono la salute dei detenuti di Valentina Stella Il Dubbio, 13 dicembre 2018 Il progetto per l’assistenza cardiologica voluto da Dap, Ordine di Pisa e Cnf. Il progetto è intitolato “Cuore di tutti”, ed è stato presentato ieri presso la sede del Consiglio nazionale forense. L’obiettivo, ispirato a un principio di civiltà basilare, è realizzare un servizio di teleconsulto e screening cardiologico per i detenuti reclusi nell’istituto Don Bosco di Pisa, a Porto Azzurro sull’Isola d’Elba e sull’Isola Gorgona, in vista di una diffusione nazionale. Tutto nasce dalla collaborazione tra Ordine degli avvocati di Pisa, Fondazione Scuola Forense - Alto Tirreno e Fondazione Toscana “Gabriele Monasterio”, col patrocinio del Cnf e insieme al Dap. E ancora, con la collaborazione della Camera Penale di Pisa e del Soroptimist International Club di Pisa. A fare gli onori di casa il presidente del Cnf Andrea Mascherin: “Si tratta di un progetto straordinario per il Consiglio nazionale forense e quindi per l’avvocatura italiana perché tocca un tema centrale che è la tutela dei diritti dei soggetti deboli, quali sicuramente sono i detenuti, e afferma un principio di civiltà: quando si tratta di soggetti sotto la custodia dello Stato, questo è chiamato a custodire attraverso di loro gli aspetti fondanti lo Stato di diritto, che corrispondono appunto alla tutela della dignità e del decoro della persona detenuta. E in questo, un passaggio centrale non può che averlo la cura della salute”. Nell’esprimere gratitudine a enti e istituzioni che da mesi stanno lavorando al progetto, Mascherin ha ringraziato “tutte le persone di buona volontà consapevoli della responsabilità che una democrazia avanzata ha nei confronti anche dei soggetti detenuti, una consapevolezza che l’avvocatura italiana ritiene di dover richiamare particolarmente in un momento storico in cui forse si ha una visione troppo carcerocentrica, si guarda a un sistema fondato sulla punizione piuttosto che su una idea di pena rieducativa, come pure l’hanno concepita 70 anni fa i nostri padri costituenti, che certamente avevano un concetto molto chiaro di quella che doveva essere la democrazia rispetto al sistema autoritario da cui si veniva fuori. Un insegnamento che dobbiamo tener presente, e se si rischia che sfugga a qualcuno, in questo momento, l’avvocatura è qui per ricordarlo e richiamarlo”. A moderare gli interventi l’avvocato Antonio De Michele, coordinatore della Commissione del Cnf in materia di iniziative per le carceri: “L’auspicio di tutti è che questo progetto possa essere trasposto in tutta Italia. Si ripristinerebbe così quella situazione che purtroppo è venuta meno per evenienze legate al mondo della politica e che ci ha visto sconfortati nel momento in cui la riforma dell’ordinamento penitenziario a cui tutti abbiamo lavorato si è bloccata. Questo progetto fa parte di un percorso di civiltà opposto alle attuali strade che pullulano di “buttatori” di chiavi. Ed è per questo che mi appello a tutti gli Ordini forensi affinché possano accogliere, lavorando in sinergia e convincendo le Asl regionali, a fare propria questa iniziativa di telemedicina”. A spiegare i dettagli del progetto ha provveduto Luciano Ciucci, direttore generale della Fondazione Toscana “Gabriele Monasterio”: “Come ente pubblico abbiamo non solo l’obiettivo ma anche il dovere sociale di mettere la tecnologia a disposizione di tutti, anche di chi ha sbagliato. Non bisogna aver paura di fare del bene alle persone che hanno commesso degli errori. Ci auguriamo che questo modello possa essere ripetibile per altre patologie, in altre strutture e regioni. E aiutare altresì ad effettuare all’interno degli istituti di pena ricerche epidemiologiche”. Gli obiettivi del progetto pilota sono molteplici, a cominciare dall’idea di effettuare una diagnosi in ipotesi di primo soccorso nel caso di eventi acuti sospetti, ma anche una serie di controlli programmati per i cardiopatici cronici e infine predisporre indagini clinico- scientifiche di supporto per lo sviluppo di un programma di screening delle patologie cardiovascolari. I vantaggi saranno notevoli: il progetto, infatti, consentirà di evitare, almeno in una prima fase, il trasferimento in altre strutture sanitarie dei reclusi, se non vi sono condizioni di effettiva emergenza clinica, riducendo così in maniera significativa i tempi di risposta diagnostica oltre che i costi organizzativi per il trasferimento del detenuto, con particolare riguardo per sedi particolarmente disagiate, quali ad esempio gli istituti collocati nelle isole minori. E ancora, si potrà assicurare l’immediato trasferimento in un centro idoneo in caso di emergenze cardiologiche e realizzare una attività di prevenzione delle patologie cardiovascolari nei detenuti. Motore del progetto l’avvocato Alberto Marchesi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Pisa: “Il carcere deve essere un luogo dove si vive dignitosamente, ed è con questo tipo di iniziative che noi avvocati assumiamo un ruolo sociale a favore delle persone più deboli ma anche verso gli operatori e il personale di polizia penitenziaria a cui molto probabilmente sarà esteso il servizio di screening cardiologico”. E conclude: “A fronte di una situazione nella quale si stanno imponendo, non tanto con la forza ma con la mancanza di conoscenza, ideologie repressive e punitive, credo che ciascun avvocato abbia il dovere di diffondere nei confronti dell’opinione pubblica idee coerenti con la Carta costituzionale e gli ordinamenti sovranazionali”. Secondo l’avvocato Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, “il progetto è molto importante perché tocca il diritto primario tra i diritti fondamentali, ossia la tutela della salute. Il carcere raccoglie malattie perché accoglie persone con vissuti di povertà e incuria; ma allo stesso tempo il carcere produce malattia per le precarie condizioni materiali in cui si ritrovano a vivere i reclusi, e perché la privazione della libertà fa ammalare”. Rossi lancia quindi l’allarme sul sovraffollamento: “Questa mattina (ieri, ndr) siamo a 60.184 detenuti. Ieri sera eravamo a 60.154. Vi è stato un aumento di 30 detenuti in una notte. Solo quindici giorni fa eravamo a 59.990. Questi numeri crescenti creano importanti interrogativi su come possano essere garantite ai ristretti le condizioni minime di umanità”. Accanto a ciò l’avvocata Rossi traccia comunque una nota positiva rispetto alle modifiche dell’articolo 11 dell’Ordinamento penitenziario che, nella tutela del diritto alla salute, prevede il principio della parità tra detenuti (e internati) e soggetti liberi. Per la Fondazione Scuola forense Alto Tirreno, che fa riferimento gli Ordini degli avvocati di Pisa, Livorno, Lucca, Massa Carrara e La Spezia, è intervenuto il presidente, avvocato Alessandro Cardosi: “Cuori di tutti” ha tre significati principali: il cuore è un organo che appartiene a tutti e sublima l’eguaglianza tra le persone come fa l’articolo 3 della Costituzione, che tutela anche i detenuti. Poi il cuore è quello di tutti quelli che gravitano nel mondo penitenziario, quindi sia dei detenuti che dei detenenti a cui sarà rivolto il servizio. L’ultimo significato è quello relativo al cuore dell’avvocatura che si impegna in queste iniziative meritevoli”. Hanno concluso la presentazione del progetto gli interventi delle dottoresse Angela Venezia (direttore Ufficio III Detenuti e trattamento - Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria Toscana- Umbria) e Paola Montesanti (direttore dell’Ufficio IV Servizi sanitari, della direzione generale Detenuti e trattamento del Dap), le quali hanno ribadito come il Dap sia sempre orientato, nei limiti delle competenze, alla tutela della saluta dei detenuti, che molto spesso proprio in carcere per la prima volta incontrano un medico e ricevono le cure. Di Maio: stop a svuota-carceri, costruire subito nuovi penitenziari tgcom24.mediaset.it, 13 dicembre 2018 “Dobbiamo costruire nuove carceri: rispetto agli svuota-carceri del passato. Noi siamo per assicurare condizioni umane, nel rispetto delle leggi e dei detenuti, ma le carceri si devono fare e si devono potenziare”. Lo ha detto Luigi Di Maio presentando il dl semplificazioni: “Grazie a queste norme semplificheremo la vita del ministero della Giustizia che vuole ampliare gli spazi e crearne di nuovi ma prima era bloccato dai mille lacci burocratici”. Bazoli (Pd): da smantellamento pene alternative più insicurezza agvilvelino.it, 13 dicembre 2018 “Come temevamo, la risposta del ministro Bonafede è molto elusiva e insoddisfacente”. Lo ha dichiarato Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia. “Negli anni passati - ha ricordato - abbiamo potenziato gli uffici che si occupano di misure alternative al carcere. Nella legge di Bilancio non c’è nulla: su 34 dirigenti in pianta organica oggi ne mancano 14, il 40 per cento. Manca personale, mancano figure professionali. Quegli uffici a noi interessano perché le pene alternative al carcere sono molto efficaci: ampliano il numero di condannati che sono effettivamente sottoposti a una pena e riducono enormemente la recidiva, cioè la probabilità che un condannato ricommetta un reato. In parole semplici, le misure alternative al carcere garantiscono certezza ed efficacia della pena. E soprattutto aumentano la sicurezza perché, per garantire la sicurezza del cittadino è meglio un pregiudicato, che, una volta scontata la pena, torna a delinquere o un pregiudicato che, scontata la pena, non delinque più? Puntare sulle pene alternative accanto al carcere aumenta la sicurezza dei cittadini ma il governo, non dotandolo delle risorse adeguate per funzionare, sta smantellando questo sistema. Il Movimento 5 Stelle, insieme alla Lega - alla quale, anche su questo, si è completamente piegato, sulla sicurezza state consumando il più grande inganno degli italiani. Con il decreto Salvini, in pochi mesi, provocherete 19.000 nuovi senza tetto. 19.000 fantasmi che andranno a ingrossare le fila di chi dorme sui marciapiedi delle nostre città. Altro che sicurezza! Con la legge sulla legittima difesa, non cambierete nulla sul piano giuridico. I processi ci sono oggi, ci saranno domani, ma lanciate un messaggio devastante agli italiani: lo Stato non è in grado di difendervi, fatelo da soli e questa è la sicurezza che garantite?”. “Questo è il grande inganno. Voi invocate e vendete la sicurezza ma produrrete solo paura e insicurezza e noi non ci stancheremo di denunciarlo”, conclude. Portare i detenuti in Tribunale costa 20 milioni l’anno di Maurizio Tortorella Panorama, 13 dicembre 2018 Alla fine del 2018 i trasporti dal carcere al tribunale saranno 30 mila. Il ministero propone l’aumento delle videoconferenze. Venti milioni possono bastare. I trasferimenti dei detenuti per “motivi di giustizia” sono sempre più dispendiosi. In base a una circolare firmata dal nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, Francesco Basentini, negli ultimi anni le traduzioni di reclusi dal carcere al tribunale per partecipare alle udienze dei processi, oppure per le cosiddette “convalide degli arresti”, hanno subito un fortissimo incremento. L’incremento dei trasferimenti, sostiene il capo del Dap, è determinato “dall’assenza o dall’impossibilità di utilizzo delle Camere di sicurezza nonché dalla (in qualche caso) consuetudinaria celebrazione delle udienze di convalida presso le aule di giustizia dei tribunali, ove appunto i detenuti vengono tradotti, invece che presso le aule site all’interno degli Istituti penitenziari”. Scrive Basentini, che è stato procuratore aggiunto a Potenza e ha preso possesso della carica lo scorso settembre: “A partire dal 2016, l’incidenza e il numero delle traduzioni dei detenuti per le udienze di convalida è andato irrimediabilmente aumentando”. Se nel 2015 erano stati 14.667 i reclusi “tradotti per la convalida dell’arresto”, su un totale di 157.891 soggetti “tradotti per motivi di giustizia”, nel 2016 i due numeri sono poi aumentati a 15.963 per le convalide su un totale di 158.045 trasferimenti, per un costo di circa 9 milioni di euro. Nel 2017, poi, “i soggetti tradotti per convalida sono saliti a 17.218, su un totale di 162.685, con un costo di oltre 9,5 milioni”. Quest’anno, fino a settembre, sono stati 121.982 i detenuti portati avanti e indietro dalla cella a un’aula di giustizia, e di questi 25.251 sono quelli che lo hanno fatto per la sola convalida dell’arresto. Il costo, sempre alla fine di settembre, superava i 14 milioni di euro. “La previsione per fine anno” scrive il capo del Dap “è che il costo sarà di oltre 20 milioni e che circa 30 mila saranno i detenuti tradotti per motivi di convalida. Si tratta di cifre decisamente consistenti, non solo per l’impiego di risorse, ma soprattutto per la sicurezza del personale che vi opera”. Basentini si riferisce ai numerosi casi critici che si verificano nel corso delle “traduzioni”: proprio durante gli spostamenti, le aggressioni nei confronti degli agenti della Polizia penitenziaria sono divenute purtroppo una costante. Per fare fronte ai costi e al fenomeno, il capo del Dap propone una soluzione: “Potrebbe risultare utile, oltre che un più ragionevole impiego degli arresti domiciliari, ricorrere al sistema delle videoconferenze e delia partecipazione a distanza nelle udienze di convalida anche per i detenuti arrestati”. Conclude Basentini che “il risparmio di uomini e risorse economiche sarebbe considerevole, e in questo modo si potrebbero ottenere le risorse finanziarie per assumere più personale di polizia penitenziaria, da impiegare come ufficiale di polizia giudiziaria che assiste a distanza alle udienze”. La soluzione delle video conferenze, fin qui utilizzata per i detenuti a più elevata pericolosità (in gran parte mafiosi e terroristi), ha sempre trovato l’opposizione dei difensori. Gabrielli: “Polizia penitenziaria importante per prevenire atti di terrorismo” di Carlo Mion Il Mattino di Padova, 13 dicembre 2018 Il Capo della Polizia: spesso la radicalizzazione avviene in carcere. L’intelligence in Italia finora ha funzionato. “Non nego che questa è una giornata di grande mestizia per tutti, perché l’Europa si risveglia ancora sotto attacco. E un nostro connazionale in queste ore sta combattendo una battaglia disperata per poter vivere”. Sono le prime parole pronunciate ieri dal prefetto Franco Gabrielli, capo della Polizia, appena arrivato a Venezia. Lo fa a margine della firma dell’accordo per la realizzazione della nuova cittadella della polizia a Mestre. Ancora una volta un attentato in Europa? “È il campanello d’allarme di una minaccia che sappiamo essere immanente e che riguarda il nostro continente. Aspettiamo di capire le dinamiche del gesto, ma quando un’azione colpisce così in modo indiscriminato si tratta di terrorismo, al di là delle motivazioni. Tutti i feriti e le vittime sono degni di rispetto ma quando si parla di connazionali siamo più coinvolti emotivamente. Il fatto che un giovane connazionale sia in condizione di pericolo è motivo di dolore”. Le autorità francesi hanno ricordato di essere riuscite a prevenire in due anni un migliaio di attentati. In Italia questa prevenzione c’è stata e in che misura? “La prevenzione non sempre è raccontabile. Dal 15 gennaio 2015, (attentato a Charlie Hebdo, ndr), 360 persone sono state allontanate perché pericolose. I risultati positivi ci sono e spesso sono frutto di concause. Però lasciatemi rivendicare il lavoro della Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di finanza. La veicolazione di informazioni permette di prevenire forme di radicalizzazione. Di questo il merito va alle forze di polizia e voglio ricordare anche la Polizia penitenziaria. Nel nostro Paese è forza di polizia e questo consente di veicolare informazioni importanti. Un lavoro, quello di questi agenti, fondamentale perché ha impedito, in diversi casi forme di radicalizzazione. In questo momento, nel nostro Paese, il carcere è il principale incubatore di radicalizzazione. Le continue informazioni raccolte all’interno delle carceri, infatti, sono state molto importanti nel lavoro di prevenzione”. Ma l’Italia è un Paese sicuro? “Il lavoro dei nostri Servizi, quello delle forze di polizia serve a veicolare informazioni anche con altre nazioni. Questo ci fa dire che oggi l’Italia è un Paese sicuro, Ma tutto questo lavoro serve? Se uno pensa che non ci sia rischio, dico che non ci può essere un rischio zero. Al tempo stesso mi sforzo di dire che i cittadini non possono cambiare le loro abitudini, devono vivere e pretendere che le forze di sicurezza, di polizia, gli apparati di intelligence e la Magistratura facciano al massimo la loro attività. Fino ad ora ci siamo riusciti. Raccontiamo un fatto passato, non possiamo ipotecare il futuro ma è innegabile che il nostro impegno è sempre massimo e questo i cittadini lo devono percepire”. Testi blindati. doppia fiducia su sicurezza e anticorruzione di Dino Martirano Corriere della Sera, 13 dicembre 2018 Doppio voto di fiducia oggi per il governo M5S-Lega che - per evitare scrutini segreti - ha blindato alla Camera il decreto fiscale e al Senato il disegno di legge anticorruzione. Due i motivi per la blindatura dell’anticorruzione: i) non piace ai leghisti il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (anche con l’assoluzione); 2) il governo è già andato sotto alla Camera sull’emendamento Vitiello (Misto) che derubricava ad abuso d’ufficio alcune fattispecie di peculato. Ma quella modifica, gradita a chi nella Lega è processato per aver distratto fondi dei gruppi regionali, è poi stata cancellata in commissione al Senato. Invece, sul dl fiscale la fiducia taglia i tempi e sedai mal di pancia nel M55 sulla “tassa sui poveri” targata Lega. Ovvero il prelievo forzoso dell’1,5% sulle rimesse degli immigrati in Italia. Anticorruzione, nella riforma mancano strumenti a effetto premiale di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 13 dicembre 2018 Il cammino del disegno di legge che mira ad introdurre nuove e più incisive misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, con particolare riguardo alla lotta alla corruzione, sta giungendo al suo epilogo e presto entrerà in vigore, dando seguito alla Legge Severino del 2012. Fin da subito è stato denominato come il provvedimento “spazza- corrotti”, salendo alla ribalta della cronaca, proprio per l’incisività e la rigidità delle regole inserite nel testo. Un esempio del rigore della normativa può essere rinvenuto nella circostanza per la quale anche per i colpevoli di reati contro la Pubblica Amministrazione, come già avviene per i condannati per i reati di mafia, sono state fin dalla prima approvazione introdotte alcune limitazioni per l’accesso ai benefici penitenziari. Dunque, possiamo annotare come il ddl anticorruzione incida non solo sulla parte di diritto penale - sostanziale e procedurale - ma anche sulla parte che concerne l’esecuzione della pena, inasprendo le regole per la fruizione dei benefici che l’ordinamento penitenziario ha approntato per i condannati definitivi. Un secondo elemento che ha fatto discutere e che gli ha fatto avere un grande spazio in tutti i giornali è l’inasprimento delle pene. Nella versione iniziale il ddl prevedeva, infatti, l’aumento di pena per i reati di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c. p.). Il minimo cambierebbe dall’attuale anno di reclusione a tre anni, mentre il massimo passerebbe da sei a otto anni. In sintesi, come detto, viene introdotto un inasprimento per alcune fattispecie di reato, tra cui “Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”, “Corruzione per l’esercizio della funzione”, “abuso di ufficio”. Vengono, altresì, introdotte nuove regole in materia di confisca, tra cui l’art. 322 ter, rubricato “Custodia giudiziale dei beni sequestrati”. Il punto da cui sono generate innumerevoli discussioni riguardava l’emendamento Vitiello, approvato a seguito della votazione a scrutinio segreto e che verteva sul reato di abuso di ufficio e peculato. In particolare, il testo, inserito nell’art. 1, lettera r del ddl ed oggetto delle critiche, consisteva nell’introduzione di una modifica all’articolo 323 del codice penale, rubricato “abuso d’ufficio”, che, in sintesi, avrebbe fatto ricadere sotto la pertinenza del reato di abuso di ufficio - meno grave - alcuni comportamenti che ora sono puniti con il reato di peculato - più grave - In altre parole, possiamo dire che era prevista, con tale modifica, l’introduzione della fattispecie di reato di abuso di ufficio aggravato, a scapito del reato di peculato. Tale modifica riduceva l’ambito di applicazione del reato di peculato ed abuso di ufficio. L’unica modifica al testo riguarda proprio la norma sul peculato, contestata a seguito della votazione della Camera e che ora è stata cancellata dalla commissione Giustizia del Senato. La riforma si può modificare nell’ottica di arrivare ad un sistema in cui il fattore rischio del fenomeno corruttivo sia ridotto al minimo. Occorre innanzitutto rilevare come sia del tutto assente la previsione di nuovi e più incisivi strumenti premiali per le imprese, pubbliche e private. Infatti, la normativa è parziale e incompleta proprio perché, come visto, agisce solo sul trattamento sanzionatorio, inasprendo le pene e ponendo più incisive regole per godere dei benefici in esecuzione di pena, ma non prende in alcun modo in considerazione l’introduzione di nuovi strumenti ad effetto premiale. In un’ottica di complessiva lotta alla corruzione, l’uno - la previsione di un inasprimento di pene - non può esistere senza l’altro - una puntuale adozione di misure di prevenzione, premiali, alla corruzione. Occorre rilevare come allo stato sia assolutamente necessaria una riforma organica dell’intero titolo dei reati contro la Pubblica Amministrazione, e non solo sporadiche modifiche di varie fattispecie di reato senza un effettivo collegamento. *Direttore dell’Ispeg Istituto degli Studi Politici, Economici e Giuridici Ex convivente, resta reato non pagare il mantenimento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 55744/2018. Non c’è bisogno di forzature del Codice per continuare a ritenere penalmente rilevante il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento da parte dell’ex convivente. E questo anche dopo la riforma della scorsa primavera. Lo chiarisce, intervenendo per la prima volta sul punto, la Corte di cassazione con la sentenza n. 55744 della sesta sezione penale depositata ieri. Ad accendere un faro sul tema è stata la modifica del Codice penale inserita nel decreto legislativo n. 21 del 2018, in esecuzione di una delle tante deleghe contenute nella riforma del processo penale voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il testo, nell’introdurre il principio della “riserva di codice” nel nostro ordinamento penale, ha riscritto la materia, introducendo un articolo 570 bis per sanzionare il “coniuge” che si sottrarre all’obbligo di corresponsione di qualsiasi tipologia di assegno dovuto nel caso di cessazione del matrimonio. Il riferimento esplicito al solo “coniuge” aveva obbligato l’autorità giudiziaria a un’interpretazione equilibratrice. Sulla conservazione, così, nell’area penale della condotta dell’ex convivente, si sono registrati interventi dei giudici di merito che, con l’obiettivo di evitare una discriminazione evidente ai danni dei figli nati al di fuori del matrimonio, avevano valorizzato l’articolo 570 del Codice penale. Una misura, quest’ultima, che da una parte individua il genitore e non il coniuge come soggetto attivo del reato, visto che è posta a tutela della famiglia, da intendere in senso lato e non solo di quella fondata sul vincolo del matrimonio; dall’altra, colpisce la violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti dei figli, che certo si può realizzare anche attraverso la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento fissato dal giudice. Interpretazioni però, puntualizza la Corte, che non sarebbero necessarie. Infatti, si legge nella sentenza, “l’unica interpretazione sistematicamente coerente e costituzionalmente compatibile e orientata, è quella dell’applicazione dell’articolo 570 bis del Codice penale, che si limita a spostare la previsione della sanzione penale all’interno del Codice penale, anche alla violazione degli obblighi di natura economica che riguardano i figli nati fuori del matrimonio”. Per arrivare a questa conclusione, la Cassazione ricorda che è la stessa legge delega all’origine del decreto, la n. 103 del 2017, a legittimare un intervento di natura solo compilativa, con il passaggio di reati già esistenti all’interno del Codice, senza però prevedere cambiamenti sostanziali. In questo senso milita anche la relazione al decreto legislativo. Inoltre, avverte la sentenza, la giurisprudenza della Corte costituzionale precisa che quando la delega, come nel caso della disciplina sulla riserva di codice, ha per oggetto il riordino di norme già esistenti, allora non si giustifica l’introduzione di soluzioni innovative rispetto al sistema legislativo precedente Omessi versamenti, patteggiamenti soft di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sentenza 55498/2018. Gli omessi versamenti, a differenza degli altri reati tributari, accedono al patteggiamento anche senza il pagamento del debito fiscale. Ciò in quanto il versamento al Fisco, necessario per la pena patteggiata, costituisce, per i soli omessi versamenti, causa di non punibilità e pertanto non si può patteggiare un illecito che non è più tale. Così la Cassazione, III penale, con la sentenza n. 55498 depositata ieri. Un imprenditore patteggiava la pena per la dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false. Il Pg ricorreva in Cassazione lamentando che era stato consentito il patteggiamento pur in assenza dei requisiti. I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso rilevando che la norma vigente all’epoca dei fatti, già prevedeva l’applicazione del patteggiamento solo in ipotesi di estinzione mediante pagamento dei debiti fiscali relativi ai fatti costitutivi dei delitti tributari. Il Gip, nella specie, aveva erroneamente ammesso l’imputato al rito, pur in assenza dell’integrale pagamento del debito tributario. Da qui l’accoglimento del gravame. Nella circostanza i giudici di legittimità hanno ribadito un importante principio. Con il Dlgs 158/2015 è stata infatti prevista una causa di non punibilità per l’omesso versamento Iva, ritenute e l’indebita compensazione di crediti non spettanti, se l’interessato salda il debito prima dell’apertura del dibattimento di primo grado. In tale ipotesi va esclusa l’applicazione del patteggiamento, poiché la procedura non può interessare un reato divenuto non punibile per effetto del pagamento. Sulla questione, peraltro, la Suprema Corte era già intervenuta in questi termini con la sentenza 38684/2018. Ora una conferma particolarmente importante perché molti giudici di merito per questi illeciti non consentono di patteggiare la pena in assenza del pagamento al fisco. Da considerare che la pena patteggiata, una volta divenuta definitiva, comporta la confisca del profitto del reato. Ne consegue che se il reo dovesse disporre di tale somma converrebbe versarla prima dell’apertura del dibattimento conseguendo la non punibilità ed evitando così la condanna (ancorché patteggiata). Calabria: i Radicali “Il Consiglio regionale elegga subito il Garante dei detenuti” Giornale di Calabria, 13 dicembre 2018 “La Legge regionale approvata lo scorso mese di gennaio, su proposta del presidente del Consiglio regionale Nicola Irto, ha poco meno di un anno ma la Calabria, per la criticità in cui versa il sistema penitenziario nonché quello di custodia degli immigrati e viste le emergenze dettate dalla nuova legge sulla ‘sicurezza’, non può attendere oltre l’elezione di questa importante e fondamentale figura di garanzia e tutela dei diritti”. Lo affermano Silvia Manzi, segretaria di Radicali italiani e Rocco Ruffa, esponente del partito, che, riporta una nota congiunta “valutano positivamente la rosa dei candidati al ruolo di Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, figura istituita dalla Legge Regionale della Calabria n.1 del 2018”. “Per questo, è urgente - sostengono Manzi e Ruffa - che la votazione sui candidati ammessi sia all’ordine del giorno della prossima seduta del Consiglio regionale e, una volta eletto, il Garante regionale dei detenuti diventi immediatamente operativo. Del resto, in un incontro con una delegazione radicale nel luglio scorso, il presidente della Commissione Affari costituzionali, Franco Sergio, aveva garantito che entro l’autunno la Calabria si sarebbe dotata del proprio Garante delle persone private della libertà personale. Contiamo perciò di non dover attendere il nuovo anno”. Pisa: suicidio in cella, esplode la protesta dei detenuti di Antonia Casini La Nazione, 13 dicembre 2018 Don Bosco: i detenuti bruciano indumenti e lenzuola. “Carcere sovraffollato e inadeguato”. Aveva 30 anni, alcuni parenti a Pisa ed era stato arrestato a novembre dai carabinieri per inosservanza del divieto di dimora, una misura, quest’ultima, presa in seguito all’accusa di spaccio. Aveva alcuni problemi ed era seguito proprio per questo motivo. Si è impiccato nella sua cella martedì sera, dopo essere rientrato proprio dall’infermeria. È stato l’agente addetto alla sezione a trovarlo e a lanciare l’allarme, ma le manovre di rianimazione non sono servite (è stato chiamato anche il 118). Il compagno di stanza - afferma il garante delle persone private della libertà della Toscana Franco Corleone - ha riferito di non essersene accorto perché era in bagno. Nuovo suicidio nel carcere Don Bosco che mercoledì ha scatenato la protesta di alcuni detenuti di origine africana: durante l’ora d’aria, hanno bruciato “indumenti e lenzuola, danneggiando il cortile passeggi e le finestre lanciando contro le stesse quanto riuscivano a recuperare e a divellere dal locale passeggi”, spiega il vicesegretario regionale Osapp Claudio Caruso. Sarebbero stati in possesso anche “di lamette”, riferisce l’Ansa. “Con l’intervento del personale di polizia penitenziaria si è riuscito a far rientrare alcuni reclusi, tranne 3, probabilmente i fautori della protesta, i quali dopo una piccola mediazione con il direttore (Francesco Ruello, ndr), sono anch’essi rientrati nelle sezioni di appartenenza”, prosegue Caruso. Quindi, l’organizzazione sindacale parla dell’organico: “La carenza di personale di polizia penitenziaria è ormai un fatto tristemente noto; si fa fatica in una struttura tanto fatiscente a fare i controlli dovuti e ad adeguare la tecnologia. Sventiamo tantissimi episodi simili, salvando la vita di tanta gente disperata. Questo è uno di quei casi in cui non ci siamo riusciti, pure impegnando le risorse umane al massimo. Come sindacato da tempo interessiamo l’opinione pubblica e le autorità sui rischi congeniti di un carcere tanto vecchio, dove la pena assume un carattere estremamente afflittivo. Serve una struttura leggera, con ampi spazi dove poter organizzare delle attività per i detenuti; che permetta al personale di polizia penitenziaria di svolgere i propri compiti con dignità.”, spiega. Sul caso sono intervenuti, oltre all’ex direttore Fabio Prestopino, ora a Sollicciano, esprimendo il suo “dolore per quanto accaduto”, anche Corleone, appunto. “Pare che il giudice abbia disposto l’autopsia e che sia stata aperta un’indagine”, dice. Il 30enne era dentro per “piccolo spaccio”, “per questo reato non ci può essere la pena di morte. L’ho detto fino alla noia, ma la questione delle droghe porta attualmente in carcere oltre il 30 per cento dei detenuti”. Poi il garante si rivolge a governo e ministro. “Non c’è consapevolezza della gravità della situazione”. E il sovraffollamento: “A ieri, nel Don Bosco di Pisa erano detenute 285 persone, di cui 42 donne e 162 stranieri. La capienza è di 206”. “Due episodi nella stessa serata”, commenta anche il garante nazionale, l’avvocato Emilia Rossi (l’altro è avvenuto a Catania). “Trasmetteremo alla procura di Pisa una comunicazione. Il garante si costituirà come persona offesa chiedendo notizie sullo svolgimento dell’indagine e l’eventuale richiesta di archiviazione. Al momento ci sono 60mila 184 detenuti adulti in tutta Italia, tantissimi. I suicidi devono essere messi in relazione anche a questi dati”. Catania: tragedia nel carcere Bicocca, detenuto si impicca in cella con un lenzuolo newsicilia.it, 13 dicembre 2018 Una tragedia si sarebbe consumata all’interno dell’istituto penitenziario di Bicocca, nel capoluogo etneo, dove un 47enne, che era detenuto nell’aera di alta sicurezza avrebbe deciso di togliersi la vita. L’uomo si sarebbe suicidato impiccandosi tramite l’utilizzo di un lenzuolo, all’interno della propria cella del carcere, dove era recluso da solo. Il 47enne era stato arrestato nei mesi scorsi, in esecuzione di un’ordinanza cautelare, durante un’operazione antidroga contro dei gruppi che pare avessero collegamenti con un clan mafioso. Sul tragico episodio suicida la procura di Catania ha deciso di aprire un’inchiesta per far luce su quanto accaduto. Salerno: Potere al Popolo “carcere sovraffollato, anche 7 detenuti nella stessa cella” seitv.it, 13 dicembre 2018 Potere al Popolo denuncia le condizioni esistenziali inaccettabili in cui versano i detenuti della Casa Circondariale di Salerno nell’indifferenza dell’amministrazione penitenziaria, la cui direzione è affidata a Stefano Martone. A seguito della nostra visita all’interno della struttura, è stato rilevato un sovraffollamento medio stimabile intorno al 135% rispetto al numero di posti previsti, con un sottorganico di circa 70 unità, per una struttura che solo 15 giorni fa ospitava 164 detenuti in più della capienza massima prevista pari a 367 persone, dati confermati dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. Il numero di ospiti a fine novembre è pari a 531 persone, di cui 398 sono uomini di nazionalità italiana, 52 donne e 81 stranieri. Secondo i dati denunciati anche dall’Associazione Antigone, Osservatorio di Detenzione, nelle celle si è raggiunta anche la presenza di 7 detenuti in 3 mq. Sono stati rilevati 136 casi di autolesionismo nel 2017 e 2 morti. Recentemente i detenuti si sono sottoposti per 94 volte allo sciopero della fame per denunciare le condizioni di vita all’interno del carcere. Si contano circa 786 eventi critici in riferimento a manifestazioni di protesta, autolesionismo, infortuni accidentali, perquisizione straordinaria, atti di oppressione, colluttazione, danneggiamenti ai beni dell’amministrazione, scioperi collettivi per protesta contro l’amministrazione, tentato suicidio, isolamento, incendio doloso. Nella casa circondariale di Salerno gli spazi vitali sono ridotti all’osso. Costruito nell’80 e attivo dall’81 il carcere di Fuorni, in barba a tutte le pronunce Cedu di condanna dell’Italia per trattamenti inumani, urge di ristrutturazioni importanti: le condizioni delle celle di detenzione sono quelle di una favela brasiliana, in cui alle donne da quasi due mesi è impossibile lavarsi per mancanza assoluta di acqua calda all’interno del reparto femminile; tutta la rete idrica dovrebbe essere rimodernata ma non lo è per carenza di fondi statali adeguati. Tutti i lavori di ristrutturazione o riparazione sono affidati esclusivamente alle capacità dei detenuti “lavoranti” non essendo possibile appaltare a ditte specializzate sempre per carenza di fondi. Una struttura in cui le donne non possono usufruire di una cucina, di nessun progetto di scolarizzazione o avviamento al lavoro, di un’adeguata cura per le loro malattie. Le celle visitate sono apparse molto piccole, circa 3 mq, in difformità dai 6 mq calpestabili per detenuto previsti dagli standard del Cpt. I bagni sono stretti e sporchi, alcuni senza doccia all’interno. Non tutti i bagni della struttura hanno la finestra, quelli che non ce l’hanno sono provvisti di aeratore. Le finestre - nelle celle visitate - sono piccole e alte, alcune non lasciano passare abbastanza luce. Non ci sono spazi per la socialità e le aree per i colloqui e la palestra sono ambienti piccoli. L’idea - a detta degli operatori - è stata quella di ridurli per creare più stanze. Quanto al personale, le unità di polizia penitenziaria prevista è di 235 agenti ma risultano effettivamente in servizio 193 guardie in un rapporto di 2,6 detenuti per ogni agente; gli educatori sono 4 a tempo pieno invece degli 8 previsti da pianta organica per un rapporto di 90,4 detenuti per ogni educatore. Potere al Popolo denuncia con forza tutto questo, ed è vicino ai detenuti e alle loro famiglie. Il carcere dovrebbe essere luogo di riabilitazione, e non luogo dove seppellire, torturare e poi dimenticare il diverso, o chi ha sbagliato. Perché ogni reato è spesso un segno del fallimento dello Stato, un frutto della povertà e dell’abbandono in cui lo Stato stesso lascia i suoi figli, sopraffatti dal capitale, dal mercato, dalla solitudine. Napoli: il falò dei clan e quel legame inaccettabile tra fede e boss di Antonio Mattone Il Mattino, 13 dicembre 2018 I segni della fede popolare e religiosa che la camorra cerca di fare propri. È una storia che si ripete a Castellammare di Stabia. Già alcuni anni fa, durante la processione di San Catello, la statua del patrono fu fatta fermare dai portatori in segno di rispetto sotto il balcone del vecchio boss Renato Raffone, affiliato al clan D’Alessandro. Fu la determinazione del vescovo Francesco Alfano ad impedire che questo gesto di deferenza si ripetesse. Nei giorni scorsi, la vicenda del falò dell’Immacolata nel quartiere Savorito, dove in cima alla catasta di legna è stato collocato un manichino raffigurante un pentito con la scritta “così devono morire i pentiti, abbruciati”, ha destato molto scalpore. Il sentimento religioso negli anni è stato cavalcato da personaggi legati alla malavita per acquisire spazi e rilevanza all’interno dei quartieri più degradati, dove la camorra fa sentire la sua presenza asfissiante. Si tratta di piccola manovalanza, composta soprattutto da giovani che si sentono irrilevanti e che cercano di accreditarsi agli occhi dei boss che contano amplificando messaggi minacciosi, pensando in questo modo di far piacere ai capi dei clan camorristici. E così gli arresti dei giorni scorsi, scaturiti dalle dichiarazioni di alcuni pentiti che hanno fatto venire alla luce legami e complicità tra criminali e imprenditori, hanno ispirato gli organizzatori del falò nel quartiere Savorito. Una vicenda che sta svelando il mondo di mezzo di Castellammare di Stabia, e che potrebbe far emergere collusioni con la politica locale protagonista negli ultimi anni di oscure trame, tra cui la caduta delle precedenti giunte comunali. Nella città stabiese in alcune zone c’è una contiguità fisica tra le famiglie camorriste e le persone oneste, soprattutto provenienti dal ceto operaio in dissoluzione, con la crisi dei cantieri navali e di altre fabbriche manifatturiere. Un prete mi raccontò che i suoi genitori abitavano accanto al boss Michele D’Alessandro. Le due famiglie si conoscevano benissimo e c’era un certo rispetto tra loro, pur non condividendo le scelte. Questa commistione può spingere le persone che vivono un disagio economico e sociale sulla via della devianza. In una realtà dove mancano prospettive di lavoro, con una forte percentuale di disoccupazione, molti giovani possono essere attratti dalle sirene del guadagno facile e dai modelli di rispetto e potere che impongono i capi malavitosi. Un altro sacerdote mi ha detto che ha visto alcuni ragazzi indossare una maglietta dove davanti c’era l’immagine della Madonna mentre sul retro era raffigurato Osama Bin Laden con la scritta 112 - 113, come a dire fuoco contro Polizia e Carabinieri. La vicenda del falò dell’Immacolata ha generato indignazione e preoccupazione all’interno della diocesi di Sorrento-Castellammare. Dopo una prima presa di posizione del parroco del rione Savorito, una lettera aperta che prende le distanze dagli autori del gesto e chiede l’intervento delle istituzioni per riqualificare il territorio ridotto in uno stato di degrado e abbandono, ci sono state molte reazioni. Alcuni affermano che una manifestazione non basta, lascia il tempo che trova e mettono in evidenza tutto il lavoro quotidiano delle parrocchie fatto di aiuto e solidarietà a gente povera e marginale, un impegno educativo per strappare i giovani dalle maglie della criminalità. Altri vorrebbero un impegno più deciso da parte della chiesa per “purificare” e sottrarre definitivamente i riti religiosi dalle mani di gente che vive ai margini della legalità. Probabilmente c’è bisogno di entrambe le cose, di ribadire il “no” alle ingerenze della malavita all’interno della vita religiosa e nello stesso tempo di continuare la sollecitudine pastorale per formare le coscienze contro il malaffare. In questi giorni si sono susseguiti incontri tra i preti delle zone interessate ed è nata una riflessione appassionata che vede coinvolti insieme clero e i laici impegnati. Questo confronto darà vita ad una lettera che sarà letta domenica prossima durante le messe in tutte le parrocchie, una presa di posizione forte e decisa. La chiesa di Castellammare soprattutto dopo gli anni del Concilio è stata una realtà vivace, profetica e attiva. Una presenza e un impegno ecclesiale da rinnovare, di cui in questi tempi oscuri c’è un grande bisogno. Milano: alla Triennale quaranta giorni per conoscere San Vittore di Francesca Bonazzoli Corriere della Sera, 13 dicembre 2018 Come ha sempre detto l’ex direttore Luigi Pagano, dietro le sbarre di San Vittore vivono persone con emozioni, sogni e fallimenti, spesso in attesa di rientrare nella stessa comunità che le ha cancellate. Eppure pochi milanesi sanno com’è fatto l’interno di quella cittadella; come si dorme, si mangia, si fa sport. Cosa si vede dalle finestre. Da oggi (inaugurazione alle ore 18) fino al 20 gennaio alla Triennale di viale Alemagna una mostra fotografica, un video, un quadro realizzato dall’artista Marco Petrus e una serie di incontri - il tutto raccolto sotto il titolo “Ti porto in prigione” - provano ad accorciare le distanze. Innanzi tutto l’esposizione “In transito. Un Porto a San Vittore”, è un racconto per immagini realizzato da Nanni Fontana nel reparto di trattamento avanzato, la Nave, dove da sedici anni si curano i detenuti con problemi di dipendenza. Il pubblico potrà anche farsi guidare tra le fotografie da ex pazienti del reparto. Sarà possibile nei 4o giorni di esposizione entrare nel carcere (prenotazioni via mail a info.amicidellanave@gmail.com) per visitare l’altra mostra “Gianni Maimeri: la musica dipinta”, prima tappa di un percorso iniziato dalla Fondazione Maimeri in vista di una prossima collaborazione fra artisti e detenuti per produrre opere d’arte. “Il senso di questo evento “bicefalo”, con un’anima in Triennale e una a San Vittore, sta nella convinzione che l’esercizio del verbo aprire, riferito alle menti più ancora che ai cancelli, sia sempre più produttivo che non il suo contrario”, spiega Eliana Onofrio, presidente Associazione Amici della Nave. Infine “Ora Daria”, interviste di Daria Bignardi a detenuti ed ex e un progetto del gruppo 5Vie art+design di una cella con colori e arredi innovativi per rendere più dignitosa la detenzione. Palermo: tessere una nuova vita oltre le sbarre, una sartoria dentro il Pagliarelli Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2018 Ago e filo per tessere una nuova vita e realizzare un sogno: protagonisti sono i detenuti-attori della Casa Circondariale Pagliarelli Lo Russo di Palermo che ormai da anni seguono i corsi di teatro dell’Associazione Baccanica. Il gruppo di lavoro, capitanato dalla regista Daniela Mangiacavallo, dopo avere messo in scena due applauditi spettacoli, ha coinvolto adesso gli ospiti del Pagliarelli in un interessante progetto sui mestieri del teatro. Non solo attori dunque, ma anche costumisti, sarti e scenografi. L’obiettivo della compagnia teatrale Evasioni è quello di mettere su uno spettacolo interamente realizzato dal lavoro dei detenuti. Un progetto possibile perché l’associazione della regista siciliana, che da tanti anni collabora con la storica compagnia della Fortezza di Armando Punzo, è riuscita a importare nel carcere palermitano il modello del regista di Volterra. Baccanica, insieme ad altre sei realtà che lavorano negli istituti penitenziari italiani, è stata selezionata e finanziata dalla Fondazione Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di risparmio Spa) nell’ambito del progetto pilota “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la bellezza e la cultura”. Un obiettivo ambizioso già da nome: sino alle stelle superando le difficoltà. “Il progetto finanziato dalla Fondazione Acri - racconta la regista Daniela Mangiacavallo - ci vede protagonisti con i detenuti del Pagliarelli, dove per la prima volta dentro alle mura di un carcere abbiamo portato quattro corsi di formazione professionale sui mestieri del teatro, proprio come accade all’interno della trentennale compagnia della Fortezza, con l’intento di giungere un passo alla volta al nostro obiettivo finale: mettere in scena uno spettacolo teatrale interamente realizzato dal lavoro dei detenuti”. Il corso di recitazione e regia è condotto dalla stessa Daniela Mangiacavallo, quello di drammaturgia è condotto dallo scrittore e drammaturgo Rosario Palazzolo. Giulia Santoro guida invece il laboratorio di costumi e scenotecnica. “Il sogno sta prendendo forma - spiega ancora la regista - Dai primi approcci all’uso della macchina da cucire, che ha già portato i detenuti a realizzare piccoli e semplici lavori, fino ad arrivare alla completa messa in scena dello spettacolo. Una piccola sartoria è nata dentro il carcere. Un obiettivo nell’obiettivo: stimolare e liberare la fantasia dei detenuti che partecipano al corso, donare loro la possibilità di credere nelle proprie potenzialità artistiche, fuori dagli stereotipi di genere. All’inizio quando è arrivata la macchina da cucire la guardavano con sospetto, come un lavoro da “femminucce”. Anche questo è importante: ribaltare i pregiudizi per restituire, forse inconsapevolmente, un grande insegnamento. Voglio dire che in questi ragazzi esiste un’inossidabile speranza nel futuro, all’interno di un mondo fatto anche di solidarietà che spesso al di là delle sbarre è difficile immaginare”. Oltre a Baccanica gli altri istituti penitenziari coinvolti, poiché al loro interno esistono realtà teatrali significative, sono: Casa Circondariale di Modena (Teatro dei Venti), Casa di Reclusione di Milano Opera (Opera liquida Teatro), Casa Circondariale di La Spezia (Compagnia degli scarti), Casa Circondariale di Torino (teatro e società), Casa di Reclusione di Volterra (Compagnia della Fortezza). Trieste: nel carcere incontro letterario con Valerio La Martire, autore di “Intoccabili” di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2018 Il 15 dicembre 2018 ad ore 10.00 Valerio La Martire presenterà il libro “Intoccabili” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. Dialogherà con l’Autore Roberto Scaini di Medici Senza Frontiere L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla - di concerto con la direzione della Casa Circondariale Il libro racconta la gravissima epidemia di Ebola affrontata - a partire dal 26 dicembre 2013 giornata in cui un bambino di due anni si ammala in un villaggio della Guinea - dall’umanità e l’apporto fornito da Medici Senza Frontiere. Il racconto si focalizza sull’esperienza di Roberto, un medico italiano, che decide di partire per una missione con Medici Senza Frontiere per un’esperienza che appare di breve durata; Roberto vorrebbe poter contribuire per un periodo maggiore ma il rischio è quello di assuefarsi alle regole “salvavita”. Un’epidemia di tale portata comporta delle condotte precise, al limite dell’umano, dove è inibito darsi la mano perché potrebbe costituire ponte di contagio. L’orrore di vedere decine e decine di morti, l’impossibilità di soccorrere tutti e addirittura di dare sepoltura ai numerosi, troppi cadaveri. L’arrivo di un antropologo non è compreso, quale l’utilità in un gruppo di lavoro di medici? Dove medici e infermieri sembrano essere gli unici indispensabili. E invece. Invece le persone associano quei medici “disumani” alla causa dell’epidemia, li vedono come corpi estranei, invasori, untori. Un antropologo è necessario. Il lato umano, pur nella tragedia, pur nella necessità di effettuare delle scelte dolorose ma indispensabili emerge, emerge quando sono aperti i cancelli e si accoglie anche coloro che non dovevano essere accolti. Si allestisce in fretta un altro padiglione e si presta il necessario soccorso. Intoccabili è la testimonianza di un operatore umanitario che, assieme a tanti altri colleghi, ha deciso di contrastare l’Ebola, di aiutare il prossimo. Un’epidemia drammaticamente ancora attuale: l’8 maggio scorso infatti, un’epidemia di Ebola ha colpito la Repubblica Democratica del Congo dove Medici Senza Frontiere è subito intervenuta; ad agosto un nuovo focolaio è scoppiato in Nord Kivu. Le novità nell’approccio clinico stanno rendendo l’intervento efficace anche se la situazione non è ancora sotto controllo. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Foggia: concerto di Natale del Conservatorio “U. Giordano” per i detenuti Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2018 Il 17 e 18 dicembre la musica di Barber, Strauss, Carlomè, Joplin e Villa-Lobos allieteranno i detenuti della Casa Circondariale. L’iniziativa benefica è organizzata in collaborazione con il CSV Foggia. Dall’Adagio di Samuel Barber a Johann Strauss, dalle opere di Paolo Carlomè al ragtime di Scott Joplin, fino al neoclassicismo musicale del compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos. Lunedì 17 e martedì 18 dicembre, a partire dalle ore 15.00, un ensemble di sassofoni del Conservatorio “U. Giordano” di Foggia si esibirà nel teatro della Casa Circondariale di Foggia. I musicisti Stefano Russo (sax soprano), Melanie Armillotta (sax contralto), Gabriele Cosimo Gramazio (sax tenore) e Girolamo Ferri (sax baritono), allievi dei maestri Daniele Berdini e Leonardo Sbaffi, allieteranno i detenuti e gli operatori dell’Istituto Penitenziario foggiano con un dono musicale, a pochi giorni dalle festività natalizie. “La musica è un linguaggio universale che supera barriere fisiche e geografiche - sottolinea il Direttore del Conservatorio U. Giordano, il maestro Francesco Montaruli - può avere un grande potere terapeutico, come abbiamo avuto modo di sperimentare in passato, grazie a un corso di musicoterapia. Il nostro Conservatorio è attento a iniziative di impegno sociale: il costo del libretto di ‘Corti di Capitanata’, per citare solo un esempio, viene devoluto in beneficenza all’Ass. Libera di don Ciotti e, periodicamente, organizziamo concerti per associazioni attive sul territorio. Con il carcere di Foggia abbiamo già collaborato in passato e siamo felici di poter dare il nostro contributo, grazie all’impegno e al talento dei nostri allievi, con la guida fondamentale dei loro insegnanti”. La musica è, dunque, terapeutica e può aiutare ad elaborare il disagio causato dal sentirsi recluso; è in grado di alleviare la percezione del dolore e favorisce reazioni e relazioni emotive. “L’esperienza nella gestione di altre Istituzioni culturali - evidenzia il Presidente del Conservatorio ‘U. Giordano’, il prof. Saverio Russo - ha dimostrato come la cultura rappresenti un elemento essenziale nelle politiche di integrazione sociale. L’inclusione culturale può esercitare un impatto sulle altre dimensioni, da quella sociale a quella politica ed economica. La musica cancella le differenze e le divisioni, per questo non è soltanto un atto estetico, ma anche etico. Attraverso questi due appuntamenti desideriamo contribuire al ponte ideale e culturale che collega la comunità carceraria alla società esterna, offrendo non soltanto momenti di svago, ma anche una visione di speranza e di cambiamento rispetto alla condizione attuale di privazione della libertà”. I due concerti sono organizzati dal Conservatorio “U. Giordano”, in collaborazione con il Csv Foggia, il Centro di Servizi al Volontariato. “Ringraziamo per il prezioso sostegno la Direzione, l’Area Trattamentale e tutta la Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Foggia, con cui - sottolineano dal Csv Foggia - collaboriamo da tempo per la promozione del volontariato in carcere. Queste occasioni rappresentano momenti importanti, perché dimostrano l’apertura dell’Istituto Penitenziario al mondo della cultura e dell’associazionismo e l’interesse crescente della comunità esterna a realizzare attività in carcere. Ringraziamo anche la Presidenza, la Direzione, i docenti e gli allievi del Conservatorio U. Giordano, che hanno accettato, senza esitazione, il nostro invito ad organizzare due concerti in un momento particolare per la popolazione detenuta che, durante le festività natalizie, avverte maggiormente la lontananza dagli affetti familiari. Una sinergia importante, quella tra il mondo del volontariato e quello istituzionale, che speriamo possa dare presto ulteriori frutti”. Per l’occasione è previsto l’ingresso della stampa: i giornalisti (muniti di tesserino dell’Ordine dei giornalisti) e gli operatori di ripresa (muniti di videocamera o fotocamera; non sono ammessi telefoni cellulari) interessati dovranno inviare una mail di accredito a cc.foggia@giustizia.it entro le ore 11.00 di lunedì 17 dicembre. Si precisa che i detenuti potranno essere ripresi esclusivamente di spalle. Torino: il Cus porta l’attività fisica in carcere custorino.it, 13 dicembre 2018 Si è chiuso oggi con un match interno di pallavolo femminile tra la rappresentativa della Polizia Municipale di Torino e le detenute della Casa Circondariale il “Programma Welfare per il detenuto attraverso lo sport”, organizzato dal CUS Torino presso la Casa circondariale ‘G. Lorusso - l. Cutugno’ in seguito all’accordo tra il Presidente cussino Riccardo D’Elicio e il Direttore Domenico Minervini. Sono stati organizzati dodici allenamenti di pallavolo per le detenute e dieci sedute di powerlifting per i detenuti; gli allenamenti di volley sono stati seguiti dal coach delle giovanili del Barricalla CUS Torino Giovanni “Vanni” Guerrini e le sedute di powerlifting dall’istruttore dei “Bulls Torino Powerlifting” Andrea Mirabelli, società che da alcuni mesi ha preso sede presso l’impianto CUS Torino di via Quarello 15. Per il Direttore Domenico Minervini: “L’obiettivo principale di tale progetto è quello di potenziare la fruibilità dello sport per la popolazione detenuta, grazie al quale affrontare meglio la detenzione e curare maggiormente il benessere psicofisico: tutto ciò sotto la guida e la supervisione di qualificati istruttori”. Soddisfazione nelle parole del Presidente CUS Torino Riccardo D’Elicio: “Un progetto che sicuramente qualifica altamente il sistema universitario sportivo torinese e a cui il CUS tiene particolarmente. Lavorare all’interno della casa circondariale è un’esperienza unica per i nostri istruttori”. L’obiettivo finale del progetto è quello di organizzare un gruppo misto, formato da detenuti e dipendenti, che prenderà parte domenica 3 marzo a Just the Woman I Am, evento di sport, cultura, benessere e socialità a sostegno della ricerca universitaria sul cancro organizzato dal Sistema Universitario torinese (torinodonna.it). Siracusa: creazioni artistiche degli studenti-detenuti esposte nel Mercatino di Natale siracusanews.it, 13 dicembre 2018 All’interno del chiostro del convento di Siracusa, in piazza dei Cappuccini 2 di fronte al Monumento ai Caduti che sarà inaugurato domani alle 18,30 e proseguirà nei giorni 14, 15 e 16. Saranno esposte anche le creazioni in ceramica e le opere artistiche degli studenti detenuti della casa circondariale di Caltagirone nel “Mercatino di Natale 2018” allestito dai Frati minori cappuccini di Siracusa all’interno del chiostro del convento di Siracusa, in piazza dei Cappuccini 2 di fronte al Monumento ai Caduti che sarà inaugurato domani alle 18,30 e proseguirà nei giorni 14, 15 e 16. Un “contributo solidale” che arriva dal Liceo artistico statale per il Design e la ceramica “Bonaventura Secusio” la cui sede distaccata è ubicata in seno al carcere e frequentata da studenti detenuti di età compresa fra 18 e 80 anni. L’iniziativa di esporre negli stand del mercatino dei frati cappuccini alcune delle creazioni artistiche realizzate con ceramica di Caltagirone è stata sposata dal dirigente scolastico del Liceo artistico statale Concetta Mancuso e portata avanti dal corpo docente impegnato nelle sei aule del carcere. “Un grazie particolare va al dirigente scolastico - spiega il professore Raffaele Adamo - che mostra sempre grande sensibilità verso qualsiasi iniziativa di recupero, integrazione e socializzazione dei nostri studenti “ristretti”. Il progetto è stato sostenuto anche dallo staff di direzione del carcere di Caltagirone e nello specifico dall’Area educativo-trattamentale”. Il ricavato della vendita degli oggetti verrà interamente devoluto all’Associazione senza scopi di lucro “Cento mamme per cento bambini” impegnata a fianco dei bambini che vivono nelle zone più povere del Brasile. L’evento, quest’anno giunto alla terza edizione, vede in prima linea l’equipe del servizio “Missio ad Gentes” della Provincia religiosa dei Frati minori cappuccini di Siracusa di cui è coordinatore fr. Emiliano Strino. Il mercatino, organizzato con il patrocinio del Comune di Siracusa, prosegue il 14 dicembre dalle 18,30 alle 22, il 15 dicembre dalle 17 alle 23.30, ed il 16 dicembre dalle 9,30 alle 23,30. Gli ospiti potranno gustare le arance bio-francescane e i dolci natalizi fatti in casa, nonché l’aperitivo francescano, i cavatelli con sugo che verranno cucinati nel chiostro del convento e vin brûlé sabato 15 e domenica 16 alle h 20. Non mancherà lo spazio per i bambini che potranno divertirsi sabato 15 pomeriggio a partire dalle ore 17 con i giochi proposti dal servizio animazione. Terrorismo. I jihadisti d’Europa dopo il ko del califfato di Lorenzo Vidino La Stampa, 13 dicembre 2018 Mentre tutta l’attenzione del Paese era rivolta ai “gilet gialli”, la Francia è tornata ad essere colpita dalla minaccia che negli ultimi anni l’aveva attanagliata e che sembrava quasi dissipata: il terrorismo di matrice islamista. I dettagli sono ancora frammentari, ma pare che l’attentatore di Strasburgo ricalchi un copione già visto e rivisto, Oltralpe come nella maggior parte degli attentati in Europa negli ultimi anni: nato in Francia, noto alle forze dell’ordine, ha agito da solo e contro un obiettivo difficilmente difendibile. Il primo punto è stata una delle caratteristiche nuove della mobilitazione jihadista europea legata allo Stato Islamico: sebbene ci siano stati vari attacchi perpetrati da immigrati di prima generazione e da rifugiati, la maggior parte dei radicalizzati presenti nel Continente sono soggetti nati e cresciuti in Europa, seconde se non terze generazioni (con qualche convertito): la minaccia è pertanto perlopiù autoctona e solo in alcuni casi collegabile ad arrivi esterni (anche se ci sono stati esempi importanti in tal senso). Farà poi discutere un altro fatto comune a molti attentati degli ultimi anni: l’attentatore era conosciuto dall’intelligence sia come criminale sia come radicalizzato - era un “fichier S”, la categoria con cui i francesi bollano gli estremisti violenti. Partirà subito la polemica: perché allora non è stato arrestato? Pare che la dimora dell’attentatore fosse stata perquisita la mattina dell’attentato, un fatto che forse ha precipitato le sue azioni. I dettagli emergeranno col tempo e forse ci sono stati degli errori di valutazione. Ma rimane un fatto: essere un fichier S, un radicalizzato, in Francia come in ogni altro Paese europeo dove vige lo stato di diritto, non rappresenta di per sé un crimine. Fa di sicuro scattare l’interesse di servizi e forze dell’ordine, che possono monitorare, anche se nei limiti di quello che la legge consente e con le risorse limitate che si posseggono. In Francia, caso limite con i numeri più alti d’Europa, ci sono circa 18.000 fichier S: impossibile controllarli tutti, anche solo sporadicamente. Per questo si fa un’allocazione delle risorse e dell’attenzione a seconda di un’inevitabilmente imperfetta valutazione del livello di pericolosità di ogni soggetto. Non sempre ci si prende. Ma, in ogni caso, più di tanto non si può fare. Ed è il prezzo della democrazia: avere idee radicali, dichiarare apertamente di volere la fine della democrazia e instaurare la legge islamica al suo posto, dichiarare fedeltà al Califfo, sono espressioni costituzionalmente protette della libertà di parola. L’antiterrorismo può intervenire quando ci sono indizi concreti che il soggetto intenda passare dalle parole ai fatti, dalla militanza da tastiera all’attentato. E nel terrorismo dei lupi solitari, delle azioni isolate e senza grossi preparativi (come pare essere stato l’attentato di Strasburgo), questo passaggio è spesso pressoché impercettibile e quindi difficilmente intercettabile. Pare prematuro parlare di recrudescenza del terrorismo jihadista. La minaccia non era mai scomparsa, né in Medio Oriente, dove lo Stato Islamico ha perso il territorio ma esiste ancora e dove altri gruppi, inclusa al Qaeda, rimangono attivi, né in Occidente, dove le sirene del jihadismo continuano ad attrarre simpatizzanti. Al tempo stesso va detto che quello di Strasburgo è solo il settimo attentato a colpire l’Occidente nel 2018, mentre si erano visti 22 attacchi nel 2016 e 27 nel 2017. E si tratta sempre di attentati amatoriali e compiuti da un solo soggetto, nulla a che vedere con le stragi del Bataclan o alcuni dei più sanguinosi episodi degli anni precedenti. La comunità dell’antiterrorismo europea temeva un’ondata di violenza compiuta dai “foreign fighter di ritorno”, i reduci del califfato che avrebbero potuto mettere in mostra le doti di guerra acquisite sul campo in Siria e Iraq nelle nostre città. Si temeva anche che simpatizzanti che mai si erano recati in Medio Oriente potessero cercare di vendicare la sconfitta del Califfato. Tutto ciò fortunatamente non si è realizzato. Pare però chiaro, e Strasburgo ce lo ricorda, che la minaccia esiste ancora. Terrorismo. Chérif Chekatt, il killer 29enne radicalizzato in carcere di Michele Sasso La Stampa, 13 dicembre 2018 L’autore dell’attentato di Strasburgo è nato in Francia e avrebbe origine magrebina. Ha venti condanne per rapine, furti, violenze. L’uomo che ha sparato ai mercatini di Natale a Strasburgo è un 29enne, schedato in Francia come radicalizzato islamico. Si chiama Chérif Chekatt e dopo aver sparato, uccidendo due persone e ferendone altre 14, è stato ferito in uno scontro dai soldati dell’operazione Sentinelle. È fuggito su un taxi e le forze dell’ordine gli stanno dando la caccia in una massiccia operazione di caccia che coinvolge più di 400 agenti. La sezione antiterrorismo della procura di Parigi è stata incaricata delle indagini; la procura ha aperto un’inchiesta per “omicidi, tentati omicidi in relazione ad azione terroristica e associazione a delinquere terroristica criminale”. Il giornale francese Est Republicain ha diffuso una fotografia che ritrarrebbe il volto dell’uomo, affermando sia stata confermata da una fonte di polizia. I media hanno identificato il sospettato come Chérif Chekatt, nato il 4 febbraio 1989 e condannato nel 2011 a due anni di carcere per aver aggredito un 16enne con un coccio di bottiglia. Nato a Strasburgo, avrebbe origine magrebina, dice Europe 1 citando fonti di polizia e prefettura. La “fiche S” per radicalizzazione, cioè persona potenzialmente pericolosa per lo Stato, gli è stata assegnata nel 2016. La radicalizzazione islamica sarebbe avvenuta in una delle permanenze in carcere, dove è stato rinchiuso più volte. Era stato anche segnalato dalla direzione generale della sicurezza interna per proselitismo religioso. Alle spalle il 29enne ha venti condanne per reati comuni tra cui per rapine, furti, violenze, danni. È stato condannato sia in Francia sia in Germania. “Ha un casellario molto pesante”, ha detto il sottosegretario di Stato del ministero dell’Interno, Laurent Nunez. Ha anche aggiunto che la sua radicalizzazione veniva considerata limitata alla pratica religiosa, senza segnali che facessero pensare l’uomo sarebbe passato all’azione. Poche ore prima di compiere l’attacco, il sospettato era sfuggito a un tentativo di fermo. Le forze dell’ordine durante la mattina avevano cercato di catturarlo in relazione a una rapina con tentato omicidio, legato a estorsione e contraffazione. Altre quattro persone sono state prelevate a Eckbolsheim, a est di Strasburgo ma lui non è stato trovato. Nella sua abitazione, durante le perquisizioni, sarebbero stati trovati almeno una granata, un’arma da fuoco e dei coltelli. E in molti Oltralpe sono concordi nel dire che quel mancato arresto di ieri mattina lo abbia indotto a passare all’attacco, la stessa sera, nella strage prenatalizia che sconvolge la Francia e l’Europa. Chi lo ha visto durante la sua folle spedizione di morte per le strade del centro, descrive un fisico prestante, circa 1 metro e 80 di altezza, con i capelli neri. Chérif Chekatt era coperto da un mantello scuro. Pare che stasera abbia anche aperto il fuoco contro dei militari di Sentinelle, rimanendo ferito nello scontro a fuoco. Colpito a sua volta, secondo l’Obs, anche un militare coinvolto nella sparatoria. Secondo informazioni raccolte da Bfm-Tv, frequentava gli ambienti radicali di Strasburgo. Nouvelles d’Alsace precisa che nel 2011 venne condannato a due anni di carcere, di cui sei mesi senza condizionale, per aggressione armata. L’inchiesta si baserà anche sulle tante immagini catturate dai sistemi di videosorveglianza durante il massacro. Migranti. Mauro Palma: “picco di rimpatri forzati verso l’Egitto” di Dario Pasquini Ristretti Orizzonti, 13 dicembre 2018 Il Garante nazionale ha monitorato un volo con destinazione Il Cairo. Picco di rimpatri forzati verso l’Egitto nonostante l’interruzione della cooperazione istituzionale a seguito della mancata collaborazione egiziana sul delitto Regeni. Nelle ultime settimane si è verificata un’impennata di voli di rimpatrio forzato verso l’Egitto. A questo proposito, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, registra che, proprio nel momento in cui, dopo la conferma della mancata collaborazione delle autorità egiziane nelle indagini sui responsabili della tortura e dell’assassinio di Giulio Regeni, forme di cooperazione istituzionali con l’Egitto vengono sospese, si ha la sensazione che, viceversa, la collaborazione fra i due Paesi in tema di rimpatri forzati sia entrata in una fase di rilancio. A questo si aggiunga che, come sottolineato nella Relazione 2018 al Parlamento, il Garante nazionale, in quanto autorità responsabile lato sensu della tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, esprime forti perplessità sull’opportunità di organizzare voli di rimpatrio forzato verso Paesi, come l’Egitto e la Nigeria, che non hanno istituito un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura (l’Egitto in quanto Stato non firmatario dell’Opcat e la Nigeria in quanto Stato firmatario che non ha ancora implementato le disposizioni riguardanti il Meccanismo nazionale di prevenzione). Dopo queste doverose premesse il Garante nazionale informa che una delegazione del proprio Ufficio ha monitorato nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2018 un’operazione di rimpatrio forzato verso l’Egitto, nel corso della quale sono stati accompagnati nel Paese africano 16 cittadini egiziani precedentemente trattenuti nei Centri di Bari, Potenza e Trapani. L’operazione si è svolta in modo regolare, anche se permangono alcune delle criticità che il Garante nazionale ha più colte sollevato nel corso dei monitoraggi realizzati. Fra tali criticità ci sono: il mancato preavviso ai rimpatriandi; l’uso generalizzato e preventivo delle fascette in velcro ai polsi dei rimpatriandi, a prescindere da valutazioni individuali del rischio e da una effettiva e concreta necessità; le verifiche di sicurezza effettuate con modalità non sempre rispettose dei diritti della persona. *Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Abu Dhabi. Detenuto italiano, l’appello della compagna: sta male, lo Stato mi aiuti tgcom24.mediaset.it, 13 dicembre 2018 La compagna a Mattarella e al governo: “Viene minacciato, non è curato, fate qualcosa per un italiano”. Lettera aperta al Presidente della Repubblica italiana, al presidente del Consiglio, al ministro degli Esteri. Mi chiamo Monia Moscatelli, sono la compagna di Massimo Sacco, un cittadino italiano detenuto da marzo ad agosto a Dubai e ora nella prigione federale ad Abu Dhabi. Massimo è malato ed è accusato di spaccio di sostanze stupefacenti. All’epoca dei fatti avevamo insieme una vita felice a Dubai: poi, una maledetta sera le nostre esistenze sono state stravolte. Con la presente vorrei informare tutte le autorità italiane che Massimo Sacco viene sottoposto a minacce. Per rispetto di Massimo e delle istituzioni e dei magistrati di Dubai non entro nel dettaglio. Lui sta però dimagrendo a vista d’occhio. Le condizioni fisiche sono al limite. È stato in ospedale perché si è sentito male: il medico gli ha riscontrato una forma di anemia e gli ha prescritto una cura a base di ferro. Massimo ha rifiutato perché è affetto da una malattia genetica chiamata microcitemia che comporta una eccessiva produzione di ferro: per regolare quello in eccesso dovrebbe assumere acido folico ma i medici non hanno voluto sottoporlo a un esame specifico. Le forze dell’ordine volevano che firmasse una dichiarazione dove si assumeva ogni responsabilità in caso di morte “per non aver assunto ferro”. Non l’ha fatto e non se l’è passata bene. Secondo me, l’ambasciata italiana finora ha fatto il minimo: come da “protocollo” gli è stata fatta visita in carcere dall’ambasciatore in persona. Ricordo che Massimo rischia la pena di morte per un reato che non ha commesso. Prima dell’udienza del 14 novembre scorso, il mio compagno ha richiesto un materasso, un cuscino e la possibilità di effettuare più di una chiamata a settimana visto che è da solo a Dubai e nessuno può fargli visita. Purtroppo non ha ottenuto nulla. Un’altra cosa importante che vorrei far presente sta nel fatto che molti detenuti con reati ben peggiori sono stati aiutati dalle rispettive ambasciate inserendoli nella lista del Pardon (o della Grazia) del 2 dicembre. Per la festa nazionale infatti lo sceicco concede la grazia ad alcuni detenuti in tutti gli Emirati. Io, cittadina italiana, ho pregato l’Ambasciata italiana di includere il nome di Massimo nella mail di richiesta. Il nostro avvocato era pronto ma l’ambasciata non si è mossa. Io confido sempre e comunque nelle istituzioni italiane: a voi chiedo di aiutare un cittadino italiano. Venezuela. Morto in carcere l’ex ministro Nelson Martinez interris.it, 13 dicembre 2018 L’ex presidente del colosso petrolifero Pdsva era detenuto da circa un anno per corruzione. I colleghi accusano Maduro. È morto l’ex ministro Nelson Martinez, già presidente della compagnia petrolifera statale venezuelana Pdvsa e arrestato nel 2017 con l’accusa di corruzione. A rendere noto l’accaduto è stato un altro ex numero di Pdvsa, Rafael Ramirez, il quale ha parlato di Martinez spiegando che “è appena morto ex ministro del petrolio ed ex presidente di Pdvsa, sequestrato e maltrattato per un anno per ordine di Maduro che era a conoscenza della sua malattia cronica”. E ancora, l’atto di accusa di Ramirez è decisamente pesante: “Lo hanno umiliato e gli hanno negato il diritto alla difesa e alla vita. Maduro sei tu il responsabile”. L’ex ministro del Petrolio è morto all’età di 67 anni e le accuse che pendevano su di lui riguardavano presunte attività di corruzione (legate soprattutto a un contratto di rifinanziamento) emerse quando gesitva l’ente petrolifero statale. La detenzione - Professionista e patriota, lo definisce ancora il collega Rafael Ramirez, il quale ha sottolineato che, sabato scorso, le condizioni di Martinez erano peggiorate, tanto che era stato disposto il suo trasferimento nel reparto di rianimazione di un ospedale di Caracas dalla sede della direzione del controspionaggio militare ad est della Capitale, dove era detenuto. Il peggioramento delle sue condizioni, soprattutto dal punto di vista cardiaco, era coinciso con il suo trasferimento nell’ospedale militare. Per alcune ore non erano arrivate prese di posizione ufficiali da parte del governo ma, alla fine, una nota del Ministero Publico venezuelano ha riportato l’avvenuto decesso di Martinez, spiegando che l’ex funzionario ha ricevuto fino all’ultimo il trattamento e l’attenzione medica necessari: “Il Ministero Publico si rammarica della morte dell’ex ministro Nelson Martínez ed esprime le sue condoglianze alla sua famiglia e ai suoi amici”. Il collega Ramirez ha terimanto il suo atto d’accusa a Maduro scrivendo “a tutti gli operai della Pdvsa: la morte di Nelson Martinez è responsabilità di Nicolás Maduro, che, dopo averlo nominato ministro e presidente della compagnia, lo ha rapito per un anno sapendo che era malato, lo hanno umiliato e contrariato come hanno fatto con Pdvsa”. Venezuela. Così il regime tortura i prigionieri politici. Parla il Premio Sakharov di Maurizio Stefanini Il Foglio, 13 dicembre 2018 Intervista a Lorent Saleh, ex prigioniero di Maduro. “Il regime venezuelano sottomette i detenuti politici a vari tipi di torture e li considera mercanzia. Io sono stato sequestrato in Colombia dal governo di Juan Manuel Santos e consegnato al regime venezuelano come merce in cambio della sua mediazione con le Fare. Dopo quattro anni sono stato liberato e consegnato al governo spagnolo come mercanzia per distrarre l’attenzione dall’omicidio di Fernando Alban”. La denuncia è di Lorent Enrique Gómez Saleh: tra gli otto venezuelani insigniti nel 2017 del Premio Sakharov del Parlamento europeo, mentre era ancora detenuto. È venuto a Roma in contemporanea con il conferimento del Premio Sakharov del 2018 apposta per dare la sua testimonianza. Attivista per i diritti umani; esule in Colombia; arrestato e consegnato al Sebin, il Servizio bolivariano di intelligence: “La persecuzione contro di me e i miei compagni inizia già dal 2007, quando nasce il movimento studentesco venezuelano. Il 4 ottobre 2014 sono stato non deportato, ma sequestrato. Così hanno stabilito il Gruppo di Detenzioni Arbitrarie dell’Onu e la Commissione Interamericana dei Diritti Umani. Sono stato consegnato al Sebin, che mi ha chiuso in quel centro che è chiamato La Tumba”. La Tomba! “Perché si trova cinque piani sotto terra. Un luogo molto freddo, un laboratorio di tortura bianca molto moderno e sofisticato. Nei due anni e due mesi che sono stato lì recluso mi hanno sottoposto a vari trattamenti crudeli, inumani e degradanti, per obbligarmi a girare video in cui accusassi leader dell’opposizione. Mi hanno tenuto in isolamento, al freddo, sottoposto anche a torture fisiche. Dopo un duro pestaggio mi hanno portato in un altro centro di detenzione. Sono stato all’Helicoide, altro luogo simbolo della tortura in Venezuela. Ma mia madre ha iniziato a denunciare il mio caso, e fortunatamente in alcuni paesi abbiamo potuto ottenere di essere ascoltati: tra questi l’Italia”. Saleh è diventato suo malgrado un esperto nel tipo di torture utilizzate in Venezuela. “Ce ne sono di due tipi: le torture fisiche e quelle bianche, o psicologiche. Queste ultime sono le peggiori, perché trascendono nel tempo. Le chiamano torture bianche perché non lasciano tracce fisiche. Ad esempio, sottomettere una persona a luce bianca intensa per tempo prolungato. Sottoporla a temperature basse. Toglierle qualunque percezione dei colori, facendole vedere solo bianco e nero. Giocare con i nervi attraverso minacce di suoni e di luci. All’Helicoide sono specializzati in tortura fisica. Scosse elettriche. Percosse con tubi. Persone sospese per le braccia. Un sistema di catene e manette chiamato ‘polpo’ che immobilizza braccia e gambe, generando contusioni. A 70 anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sono avanzati i i meccanismi di protezione e vigilanza in materia di diritti umani e contro la tortura, ma purtroppo i metodi di tortura sono evoluti ancora di più”. Saleh è stato liberato dal Sebin il 18 ottobre. Fernando Alban, un altro celebre dissidente, era volato da una finestra al decimo piano nella sede del Sebin appena dieci giorni prima. “È stato un assassinio: non il primo! La mia liberazione è stata decisa proprio per sviare l’attenzione da quello che avevano fatto con il consigliere Alban, in un affanno del governo per sviare l’attenzione da questo vile e crudele assassinio. Un regime che sequestra un consigliere eletto dal popolo, lo tortura per assassinarlo e poi lo butta giù dalla finestra non è un sistema politico ma un sistema criminale, che si comporta così per terrorizzare la popolazione civile e obbligarla a due alternative: o scappare, o sottomettersi”. Ucraina. Premio Sakharov a Oleg Sentsov, regista dissidente ancora in carcere di Daniele Zappala Avvenire, 13 dicembre 2018 Questo premio deve diventare una leva e una molla per la liberazione di tutti i prigionieri politici ucraini in Russia. Oleg Sentsov ha sempre detto di non battersi per sé, ma per una causa collettiva”. Presso l’Europarlamento di Strasburgo, l’ha dichiarato ieri Dmitriy Dinze, il legale del cineasta 42enne divenuto il simbolo delle repressioni di Mosca contro il nemico ucraino. La ricompensa è il premio Sakharov per la libertà di pensiero, assegnato ogni anno dall’emiciclo di Strasburgo. Imprigionato in una colonia penale dell’estremo Nord russo, Sentsov non ha potuto ritirare il premio, facendosi rappresentare da Dinze così come dalla cugina Natalya Kaplan. Davanti all’appello “free Oleg Sentsov” esibito da molti eurodeputati, il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani ha spiegato la motivazione del riconoscimento: “Sentsov viene premiato per la sua protesta pacifica contro l’annessione illegale da parte della Russia della Crimea, sua terra natale. Il premio gli viene attribuito anche per la sua determinazione e il suo impegno in difesa dei diritti e della dignità umana, della democrazia e dello stato di diritto”. Tajani ha ribadito che il riconoscimento è pure un appello per il “rilascio immediato” del dissidente. Dinze ha descritto le “comunicazioni molto limitate” con l’esterno del suo assistito, “praticamente in isolamento e sempre sotto controllo”. Ma al contempo, “le autorità russe lo vogliono in vita”, ha sottolineato il legale che ha usato parole durissime verso la strategia del potere russo: “È come un grande mercato di schiavi. I prigionieri politici finiscono per divenire oggetto di mercanteggiamenti. Se non presentano un grande interesse, rimangono nelle colonie penitenziarie”. Per l’avvocato, il presidente russo Putin “terrà stretto Oleg Sentsov fin quando non si presenterà uno scambio utile”, ad esempio per allentare le pressioni internazionali su Mosca. Descrivendo il cugino come “una persona con un forte senso della giustizia”, e come “un lottatore che non si arrende mai”, Natalya Kaplan ha denunciato che “i diritti umani sono calpestati in Russia”, auspicando una convergenza delle pressioni internazionali per accelerare la liberazione dei prigionieri politici. Congo. 13 milioni di persone allo stremo, l’allarme di Oxfam di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 13 dicembre 2018 Crescono in modo esponenziale i casi di Ebola nella parte orientale della Repubblica democratica del Congo: dallo scorso agosto ormai sono più di 500 le persone contagiate di cui 280 sono già morte. Dopo quella del 2014, è la più grave epidemia che il mondo abbia mai visto. Quasi 6 milioni di persone stanno rimanendo senza cibo a causa del conflitto in corso. Più di 4,5 milioni gli sfollati, quasi 100 mila in fuga dal conflitto in Sud Sudan. A lanciare l’allarme è l’Oxfam che ha lanciato una raccolta fondi (per donare clicca qui) per ridare la speranza a milioni di persone che hanno perso tutto. Una delle donne della comunità di Nangina, nella provincia di Nord-Kivu, descrive la situazione: “All’inizio pensavamo che l’Ebola fosse una stregoneria. Poi ci hanno spiegato che si tratta di una malattia terribile per cui possiamo morire da un momento all’altro, se non ci proteggiamo. Dall’inizio dell’epidemia nel mio villaggio ci sono già stati tanti morti, soprattutto donne, che per prime si occupano dei malati. E ora i loro figli restano senza niente da mangiare anche per giorni interi, perché qui abbiamo perso tutto”. Quella dell’Ebola è solo una pagina della grandissima emergenza umanitaria che si consuma in questa parte di mondo: 13 milioni di congolesi sono allo stremo, senza cibo e con quasi nessun accesso all’acqua pulita, dipendono dagli aiuti umanitari per la propria sopravvivenza. Sullo sfondo una guerra che alimenta la fame e la diffusione di epidemie: si stima che negli ultimi 20 anni abbiano perso la vita 6 milioni di persone. Mentre giorno dopo giorno la violenza continua a minacciare i civili. Il più alto numero di sfollati dell’Africa - Ad oggi la sanguinosa guerra civile in corso nel Paese e il nuovo picco epidemico di Ebola ha costretto oltre 4,5 milioni di uomini, donne e bambini a lasciare le proprie case per sfuggire alla violenza e al contagio nelle zone più colpite, nella Provincia di Nord-Kivu e dell’Ituri. “Molte famiglie sono scappate da qui, forse torneranno quando l’epidemia sarà finita”, racconta una delle beneficiarie del lavoro di Oxfam. Nel frattempo milioni di persone, senza più nulla, sono costrette a rifornirsi da fonti di acqua sporca, con il rischio di aumentare la diffusione del colera che già conta circa 26 mila casi. In una situazione umanitaria ormai al limite del collasso, la Repubblica Democratica del Congo è diventata anche meta e rifugio per centinaia di migliaia di persone che scappano da guerra e violenza nei paesi vicini: si tratta di centinaia di migliaia di persone, di cui circa 360 mila in fuga dalla violenza in Angola e quasi 100 mila dal sanguinoso conflitto in Sud Sudan. Anche qui quasi la metà della popolazione, oltre 4 milioni di persone sono alla fame e dipendono dagli aiuti. Oxfam è stata una delle prime organizzazioni umanitarie ad intervenire nelle zone più colpite dal nuovo focolaio di Ebola in Repubblica Democratica del Congo, per garantire l’accesso acqua pulita e servizi igienico sanitari e spiegare alla popolazione, con l’aiuto dei leader delle comunità delle zone colpite, come si può prevenire il contagio. “In tutto il Paese in questo momento stiamo soccorrendo 400mila persone, per garantire al maggior numero possibile di sfollati l’accesso al cibo, all’acqua potabile ai servizi igienico-sanitari. Quasi 6 milioni di persone stanno rimanendo senza cibo, tra cui 400mila bambini che al momento sono gravemente malnutriti solo nella regione del Kasai. Un’emergenza aggravata dalla nuova epidemia di Ebola riesplosa 4 mesi fa, dopo che era appena stata messa sotto controllo quella precedente” ha spiegato il responsabile dell’ufficio umanitario di Oxfam Italia, Riccardo Sansone - I nostri operatori lavorano per purificare l’acqua, costruiscono latrine e installano cisterne, ma soprattutto fanno formazione sulle pratiche igieniche per impedire il diffondersi delle epidemie. Quest’ultimo è un lavoro cruciale, data la crescita del numero dei casi di Ebola, saliti dell’80% solo ad ottobre. Anni di violenza prolungata, sfollamenti forzati e carestia hanno creato un clima di paura e sfiducia tra le comunità colpite. Molte persone sono ancora terrorizzate nell’andare nei centri di trattamento. Per questo stare a fianco delle comunità ogni giorno è cruciale. Facciamo appello alla generosità di tutti, perché con un piccolo gesto si può fare la differenza per tanti”.