Minisci: riforme basate su slogan, diritti a rischio di Errico Novi Il Dubbio, 12 dicembre 2018 Richiamo dell’Anm. Ma la prescrizione è blindata. Sarà una maratona di due giorni. Il ddl Anticorruzione approda in Aula stamattina e sarà esaminato a oltranza - con una breve pausa pomeridiana - fino a domani sera. Non si arriverà a venerdì, giorno in cui l’assemblea di Palazzo Madama non è neppure convocata. È la stessa presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberto Casellati, ad annunciare il tour de force. Tempi stretti che lasciano immaginare appunto un via libera “forzato”, senza ripensamenti, in modo da arrivare subito al sì- fotocopia di Montecitorio. Neppure lo stop alla prescrizione sarà rivisto. Nonostante i malesseri che serpeggiano eccome, nel gruppo della Lega, e che ieri sono stati amplificati dagli attacchi del Movimento Cinque Stelle sull’inchiesta che coinvolge il tesoriere Centemero. Non pare destinato dunque a trovare ascolto l’appello rivolto due giorni fa, congiuntamente, da Unione Camere penali e Anm: stralciare dallo “Spazza corrotti” la norma sui termini di estinzione dei reati, in modo da portarla “al centro del tavolo aperto fra noi magistrati e gli avvocati sulla riforma penale”, come proposto dall’ex presidente del “sindacato” dei giudici Eugenio Albamonte. Certo, la tentazione di uno sgambetto sull’Anticorruzione fa fremere i senatori della Lega. Ma quella di oggi sarà una giornata importante anche per un provvedimento caro a Salvini, il ddl sulla legittima difesa. La commissione Giustizia della Camera dovrà decidere se tralasciare una nuova tornata di audizioni e procedere a tappe forzate, come chiede innanzitutto Forza Italia. Ieri la capogruppo azzurra Maria Stella Gelmini ha insinuato che “i Cinque Stelle vogliono rallentare”. Di sicuro un dietrofront leghista sulla prescrizione scatenerebbe un effetto a catena innanzitutto sulla legittima difesa. A sollevare qualche dubbio nel partito di Salvini dovrebbe essere anche l’allarme rilanciato ancora dall’Anm a proposito degli “slogan che rischiano di spazzare via la tutela dei diritti”. Parole pronunciate ieri dal presidente stesso dell’Associazione magistrati, Francesco Minisci, tornato su un tema generale che chiama chiaramente in causa proprio la norma sulla prescrizione. “No alla pratica degli slogan, serve più approfondimento sulle riforme”, ha detto Minisci alla presentazione del libro di Edmondo Bruti Liberati Magistratura e società. “Le riforme devono guardare all’impatto che hanno, non essere pensate sull’onda emotiva. Non bisogna fare riforme con le gambe corte: fanno più danni di quelli che vorrebbero evitare”, ha ricordato il presidente dell’Anm. Un richiamo che però, almeno sulla prescrizione, pare destinato a non trovare ascolto. Intervista a Pietro Grasso “Sulla giustizia i Cinque Stelle troppo timidi: fare di più” di Tommaso Rodano Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2018 “Bocciati gli emendamenti per migliorare il ddl Anticorruzione. Lo capisco, con quegli alleati”. “Mi pare ci sia un certo allentamento, come dire, nel rigore etico dei 5Stelle sulla Giustizia, a loro così cara”. Pietro Grasso ha presentato un pacchetto di emendamenti per rendere più rigoroso, ritiene, il decreto “spazza corrotti” firmato Bonafede. In commissione sono stati bocciati, oggi l’ex presidente del Senato li riporta in aula. Intanto osserva, con sorriso sornione: “Sull’anticorruzione mi pare che i grillini facciano lo stretto indispensabile. Ma capisco: hanno questo contratto da onorare con la Lega...”. La riforma non la convince? È un passo in avanti e ne condivido lo spirito complessivo. Voterò il testo finale, in coerenza con il mio passato e le mie battaglie. Il decreto fornisce strumenti utili per far emergere la corruzione, come la non punibilità se si denuncia il reato prima dell’inizio delle indagini, entro 4 mesi da quando viene commesso. O la previsione dell’agente speciale sotto copertura, come ci chiede la convenzione Onu di Merida. O ancora il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Però? Però si poteva fare di più e di meglio: il nostro processo è tra i più garantiti del mondo. Dove si può migliorare? Sulla prescrizione, ad esempio. Nel 66% dei casi scatta prima dell’inizio del dibattimento (dati del ministero del l’Interno). Significa che spesso il reato viene scoperto tardi. Io ho proposto, con un emendamento, di far iniziare il calcolo della prescrizione dalla data dell’inizio delle indagini e non dalla data in cui viene commesso il reato. Bocciato. Come gli altri emendamenti. Vorrei equiparare la corruzione ai reati di criminalità organizzata. Questo permetterebbe di bloccare il calcolo della prescrizione ogni volta che c’è un’interruzione del processo. Vuole processi infiniti? Ho presentato emendamenti anche per accorciare i tempi dei processi. Perché nei procedimenti civili le notificazioni possono arrivare tramite posta elettronica certificata e in quelli penali no? Basta poco... Oppure: nel dibattimento si perde molto tempo per rileggere gli atti di polizia giudiziaria; si potrebbero dare per letti, e permettere di approfondirli solo in determinate circostanze. O ancora: cosa ci impedisce di autorizzare l’audizione a distanza di testimoni o periti? È più grillino dei grillini... Questo lo dice lei (ride). Però mi trovo in un certo senso solo a difendere le mie idee su questi temi. Alla Camera sono state cancellate pure alcune buone norme che erano nel testo uscito dalla commissione, come l’arresto obbligatorio in flagranza di reato corruttivo. Ho provato - e proverò - a ripristinarlo al Senato. È rimasto fuori anche il carcere per gli evasori. L’evasione fiscale non può non essere una priorità politica del governo… Sarei stato assolutamente favorevole a quel provvedimento. Su questa cautela influisce il periodo non felice per la Lega sul fronte giudiziario? Non so, ma leggo che ci sono diverse indagini aperte... Nemmeno per la sinistra italiana è un periodo felice… Io resto convinto che le ragioni che ci avevano convinto a lanciare Liberi e Uguali oggi siano ancora più valide. Certo le divisioni non aiutano. Mdp ha scelto di far nascere una nuova forza... rossoverde mi pare... non so. Si basano sulla doppia ipotesi che si scindano M5S e Pd. Scommettere in politica non fa bene. Io credo serva ancora un partito di sinistra, autonomo, alternativo al Pd. Quello per cui mi avevano chiamato un anno fa. Gli stessi che ora tornano verso il Pd... Anche questo lo dice lei. “Uffici di prossimità per curare la ferita dei Tribunali chiusi” di Errico Novi Il Dubbio, 12 dicembre 2018 Bonafede: così si riavvicina la giustizia ai cittadini Si chiamano “uffici di prossimità”. Sono al centro di un progetto di via Arenula e impegneranno oltre la metà (36 milioni) dei Fondi europei destinati al comparto giustizia nell’ambito del “Pon” su “Governance e capacità istituzionale”. Il ministro Alfonso Bonafede chiarisce subito di tenerci molto: “Credo che troppo spesso si dia per scontato il disinteresse dei cittadini rispetto all’amministrazione della giustizia. Si presume che il Tribunale rappresenti per le persone un presidio estraneo. Ebbene”, spiega il ministro, “proprio grazie alla soppressione delle sedi operata con la riforma della geografia giudiziaria ci siamo accorti che non è così. I cittadini privati di un ufficio giudiziario hanno avvertito un senso di abbandono. Lo dimostrano le lotte con cui si sono opposti alla eliminazione dei Tribunali. Ecco perché abbiamo deciso di attuare questo progetto”. La sintesi del guardasigilli chiude l’incontro organizzato ieri dal ministero della Giustizia a Palazzo Giustiniani, elegantissima pertinenza del Senato. Con il responsabile del dicastero, descrivono questo “nuovo modello di riavvicinamento della giustizia al cittadino” il direttore generale per il Coordinamento delle politiche di coesione, Francesco Cottone, il capo dell’Organizzazione giudiziaria, Barbara Fabbrini, e il direttore dell’Agenzia Coesione territoriale Antonio Caponetto. Con loro intervengono tre amministratori-testimonial: il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino, il presidente del Tribunale di Torino Massimo Terzi e l’assessore al Bilancio della Regione Toscana Vittorio Bugli. I numeri svelano l’ambizione del progetto: “La quota massima di uffici di prossimità che potranno essere aperti è di 1.014”, illustra Fabbrini. “Abbiamo una base: le tre regioni in cui tale tipo di presidio è stato sperimentato, ossia Piemonte, Toscana - appunto - e Liguria”. Priorità: “Mettere i servizi a disposizione delle fasce più deboli, che hanno minori strumenti di conoscenza e che possono essere aiutate nell’attivare azioni il più delle volte riconducibili non al contenzioso civile classico ma al modello della volontaria giurisdizione”. E sul piano della “filosofia”, per Bonafede l’intervento mira soprattutto a “venire incontro a quel cittadino che per la sua particolare condizione ha più difficoltà nell’accesso ai servizi dell’amministrazione pubblica, e che rischia di percepire se stesso come periferia”. Lodevolissimo intento. Sul quale però grava un “peccato originale”: la mutilazione prodotta dalla riforma del 2012. Gli uffici di prossimità sono il tentativo “di ricucire la ferita aperta con la soppressione di quegli uffici”. Lo dice Bonafede, lo ricordano anche gli altri relatori, a cominciare da Terzi: “Io ho ben presente cosa fosse la giustizia 25 anni fa, cosa volesse dire avere ovunque un pretore al quale rivolgersi proprio per quegli affari civili che spesso attengono alla volontaria giurisdizione”. La giornata di Palazzo Giustiniani è anche il punto di avvio, come spiega Cottone, “per una serie di incontri con i rappresentanti di tutte le Regioni”, chiamate a mettere a disposizione spazi e supporti di personale. E nell’illustrare il nuovo modello di articolazione, il ministero della Giustizia compie una sorta di ammissione di colpa. Certo, Bonafede e i dirigenti di via Arenula non possono essere chiamati a rispondere della riforma Severino, che ha eliminato diverse sedi giudiziarie (e alla cui attuazione lo stesso guardasigilli ricorda di essersi opposto), ma lo Stato in sé si trova ora a interrogarsi, come nota Chiamparino, “sul fatto che un Tribunale distaccato poteva anche non rispondere perfettamente a parametri di efficienza, eppure costituiva un simbolo, un segno di presenza a cui poi è subentrato un sentimento di distanza fra cittadini e Stato”. Cosa faranno gli uffici di prossimità? “Formazione, accesso al Pct e consulenza”, spiega Fabbrini. Che sarà possibile “soprattutto con la collaborazione degli Ordini forensi: la legge professionale sancisce anche il loro obbligo a offrire determinati servizi”. Ma il progetto di via Arenula in sé non potrebbe obbligare gli Ordini a offrire consulenza al di fuori della loro specifica struttura. Se questo avverrà, lo si dovrà, come riconosce l’assessore toscano Bugli, “alla loro disponibilità volontaria e gratuita”. Gli avvocati che hanno provato a suo tempo ad opporsi in tutte le maniere alla soppressione dei Tribunali minori ora sono chiamati a mettere a disposizione la loro competenza. “A Firenze l’Ordine degli avvocati fa parte di un protocollo che coinvolge, con la Regione, innanzitutto la Corte d’Appello”, ricorda ancora Bugli, “ed è grazie a loro se si potrà offrire un vero servizio di consulenza”. Senza la professione forense, il progetto rischia di ridursi a poco più che una mera distribuzione di moduli e istruzioni per l’uso del Pct. Fabbrini a sua volta ricorda che “il coinvolgimento degli Ordini potrà consentire di assicurare un’offerta qualificata”. E Bonafede evoca l’idea generale “del lavoro di squadra, da contrapporre a quella di una giustizia politicizzata a cui abbiamo assistito negli anni scorsi: io voglio superare quella distorsione attraverso la cooperazione fra istituzioni anche di colore politico diverso e con altri presidii come”, appunto, “gli Ordini degli avvocati”. Un riconoscimento che, ove mai ce ne fosse stato bisogno, riafferma il ruolo sociale dell’avvocatura, la centralità della professione nel processo di “uguaglianza sostanziale” pure richiamato dal ministro e in passato forse negato proprio con la soppressione dei Tribunali. Querele infondate e avvocati da pagare di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 12 dicembre 2018 Perché, in certi casi, chi fa perdere tempo ai giudici e al querelato non viene condannato a pagare tutte le spese per fargli passar la voglia la prossima volta? E l’avvocato chi lo paga? Una sentenza della settimana scorsa a Torino ripropone sempre lo stesso tema: perché un cronista querelato a capocchia deve pagare coi soldi propri il difensore che ha dovuto nominare anche se poi il giudice gli dà ragione? Breve riassunto. Silvia Mazza, giornalista specializzata sui temi culturali, pubblica nel 2016 su Il Giornale dell’arte edito da Umberto Allemandi un pezzo critico sulla decisione della soprintendente di Siracusa Rosalba Panvini (successivamente coinvolta nelle polemiche sull’orrida costruzione d’un bar-caffetteria-ristorante nella Piazza d’Armi dello splendido Castello Maniace) di consentire il trasloco temporaneo dell’”Annunciazione” di Antonello da Messina custodita a Siracusa. Destinazione: una mostra nella chiesa dell’Annunziata di Palazzolo Acreide, dove l’opera era stata realizzata ed era rimasta prima d’esser comprata dallo Stato. Un errore, per Silvia Mazza, trattandosi di “un’opera di estrema delicatezza conservativa spostata per un progetto culturale assai debole e in obbedienza a pretese campanilistiche del territorio”. Pretese che, “se fossero ascoltate anche altrove (…) potrebbero svuotare (seppur temporaneamente) i musei di mezzo Paese”. Di più: “il dipinto meno di due anni fa era stato trasferito al Mart di Rovereto”: non era il caso di imporgli nuovi traumi. Giusto? Sbagliato? La Panvini aveva preso la critica come “diffamatoria e gravemente lesiva della (sua) reputazione (…) trasbordando in gratuite aggressioni verbali e insinuazioni oltremodo offensive”. No, ha scritto nell’ordinanza d’archiviazione il giudice Francesca Firrao, ritenendo “che le espressioni utilizzate non siano di per sé offensive e denigratorie, sebbene si sia trattato di un’aspra critica all’operato della parte offesa” e che “a fronte della verità dell’evento storico, tutti gli altri apprezzamenti (o critiche) svolti dall’articolista sono espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero nell’accezione del diritto di critica”. E torniamo al tema: l’archiviazione dimostra quanto la querela fosse così infondata da non meritare neppure un processo. Allora perché, in casi così, chi fa perdere tempo ai giudici e al querelato non viene condannato a pagare tutte le spese per fargli passar la voglia la prossima volta? Perché troppi politici, di destra e sinistra, leghisti o grillini, non hanno intenzione di cambiare la legge. È così comodo poter intimidire un giornalista e non pagare pegno. Via la sequestro esteso dei documenti se c’è il fumus dell’evasione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 8 novembre 2018 n. 50651. Via libera al sequestro probatorio “esteso” se dalle indagini della Guardia di finanza e dalle note dell’Inps emerge il “sospetto” dell’evasione fiscale. L’indagato, dopo un tempo ragionevole, può solo reclamare la restituzione del materiale, anche attraverso i rimedi impugnatori offerti dal sistema. La Corte di cassazione, con la sentenza 50651/2018, respinge il ricorso dell’amministratore di fatto di una Srl, contro il decreto con il quale il Pm disponeva il sequestro probatorio della documentazione contabile, extracontabile e bancaria sia in forma cartacea che informatica, nell’ambito di un procedimento per emissione di fatture false. Ad avviso del ricorrente l’ampiezza dell’oggetto dell’“apprensione” era sintomo, di per sé, non della ricerca della prova, come previsto dalla natura dell’istituto, ma della notizia criminis. La Cassazione non è d’accordo. I giudici della terza sezione chiariscono, infatti, che l’autorità giudiziaria, “al fine di esaminare un’ampia massa di dati i cui contenuti sono potenzialmente rilevanti per le indagini, può disporre un sequestro dai contenuti molto estesi”. Vale comunque il limite del rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza, che impone di provvedere all’immediata restituzione delle cose sottoposte al vincolo una volta scaduto il tempo ragionevolmente necessario per fare le verifiche del caso. Se questo non avviene tempestivamente, l’interessato può proporre domanda per far valere le sue ragioni, se necessario, anche attraverso i rimedi impugnatori offerti dal sistema. Il ricorrente contestava anche il valore probatorio dell’informativa della Gdf e delle note dell’Inps. Nel primo caso il provvedimento impugnato era, ad avviso della difesa, primo di motivazione perché non indicava gli elementi dai quali desumere il coinvolgimento della società nelle fatture per operazioni inesistenti. Motivazione insufficiente anche rispetto alla nota Inps, non esauriente rispetto alla falsa fatturazione e alla sovrafatturazione. Per la Suprema corte però entrambe le “relazioni” erano anche supportate dalla testimonianza di una dipendente. E ai fini dell’emissione del sequestro del sequestro probatorio non serve un’analisi più penetrante. Né è richiesto che emergano dati di colpevolezza in capo alla persona nei confronti della quale scatta in sequestro: basta che ci siano gli elementi della possibile esistenza di illeciti penali. Rifiuti, la raccolta in emergenza diventa reato oltre il termine fissato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2018 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 11 dicembre 2018 n. 55354. L’attività di raccolta dei rifiuti non autorizzata, ma svolta in via del tutto emergenziale in base all’ordinanza del sindaco, diventa reato se prosegue oltre il termine fissato. E il sindaco che colposamente non blocca la raccolta - alla scadenza del termine da lui stesso apposto - incorre nel medesimo reato del gestore per l’attività priva delle autorizzazioni di legge. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 55354 dell’11 dicembre ha respinto il ricorso del sindaco di Anacapri e dell’amministratore unico dell’Anacapri servizi Srl condannati dal tribunale di Napoli al pagamento dell’ammenda di 10mila euro perché responsabili del reato previsto dal testo unico dell’ambiente all’articolo 256 (lettera a). I ricorrenti sostenevano che dopo i sei mesi dell’urgenza rifiuti ad Anacapri, sancita dall’ordinanza del sindaco, l’area incriminata del Comune dell’isola non fosse più utilizzata come centro di raccolta, ma solo come punto di carico dai piccoli veicoli ai grandi camion che avrebbero portato i rifiuti in discarica sulla terraferma. Ma deposizioni e foto delle forze dell’ordine hanno smentito le tesi difensive secondo cui, dopo il semestre che consentiva l’attività in assenza delle autorizzazioni di legge, in realtà nessuna raccolta veniva effettuata, ma solo un’attività di trasferenza dei rifiuti totalmente legale e rientrante nell’articolo 193 dello stesso testo unico (Dlgs 152/2006) che consente lo stazionamento dei veicoli adibiti al trasporto delle immondizie urbane e lo svolgimento del trasbordo purché lo stazionamento nell’area non destinata alla raccolta non ecceda le 48 ore. Nessuna buona fede è stata riconosciuta all’amministratore della società di servizi in quanto - proprio perché autorizzato in via urgente e contingibile - non poteva ritenersi in regola scaduta la validità dell’ordinanza. Niente scusanti anche al sindaco in quanto - anche se non consapevole - aveva comunque il dovere di vigilare sull’inerzia degli uffici comunali, i quali, secondo la tesi difensiva, si erano ‘dimenticati’ di prorogare l’ordinanza oltre i sei mesi iniziali. Al primo cittadino di Anacapri proprio per la violazione del dovere di vigilare sull’operato dei suoi uffici è stata comminata la stessa pena dell’autore materiale del reato ambientale perché ha concorso con la propria colpa a realizzare l’illecito. Infatti, a norma dell’articolo 113 del Codice penale è stata individuata dalla Cassazione la sua cooperazione colposa all’azione di illecita raccolta dei rifiuti su un’area che era evidentemente destinata a stabile concentramento dei rifiuti e non a una sosta provvisoria per il semplice carico. Dimenticanza e inerzia che sono costati la conferma della condanna. Pisa: detenuto si suicida nel carcere Don Bosco pisatoday.it, 12 dicembre 2018 Si tratterebbe di un giovane africano. Da ricostruire la dinamica dell’accaduto. Un suicidio si sarebbe verificato nella tarda serata di ieri, martedì 11 dicembre, all’interno del carcere Don Bosco di Pisa. Lo rende noto il vicesegretario regionale del sindacato Osapp Claudio Caruso. A togliersi la vita un giovane detenuto di origine africana. Secondo le prime informazioni che arrivano dal sindacato di polizia penitenziaria la vittima soffriva di disturbi psichiatrici. In corso le indagini per ricostruire la dinamica della tragedia. Napoli: l’abbraccio tra i figli del bandito e della vittima di Simona Musco Il Dubbio, 12 dicembre 2018 Don Michele Madonna lo ha definito “un piccolo miracolo”. E forse è stato davvero un miracolo l’abbraccio tra Pietro, figlio di Antonio Ferrara, morto d’infarto dopo una rapina, e Antonio, il figlio di chi quella rapina l’ha compiuta. Un abbraccio come risposta alla richiesta di perdono del 24enne, scioccato per il gesto del padre, compiuto per soli 100 euro, in un momento disperato. A raccontarlo è il parroco che ieri ha celebrato il funerale del macellaio del quartiere Montesanto, a Napoli. Lo conoscevano tutti e tutti gli volevano bene. La sua morte ha commosso l’intero quartiere, che nei giorni scorsi ha marciato con le fiaccole in mano per ricordare il commerciante, invocando pene dure per chi lo ha spaventato al punto di ucciderlo. Ma il perdono ha vinto sulla vendetta. Antonio e Pietro, infatti, si sono incontrati nella sacrestia della Chiesa di Santa Maria, dove il 24enne si era presentato la sera precedente, scioccato, pregando il parroco di poter incontrare i figli di Ferrara. E loro hanno accettato. “Si sono incontrati davanti ai miei occhi - ha raccontato don Michele ai giornalisti dopo il funerale - e il figlio del rapinatore ha chiesto perdono. Pietro lo ha perdonato e abbracciato. Credo sia un segno di Dio. È con il cuore che si può salvare questo rione”. Il salumiere è morto la sera del 6 dicembre, quando nel suo negozio ha fatto ingresso un rapinatore e il suo cuore non ha retto. Ma la fuga del colpevole è durata poco: l’uomo si è infatti consegnato alla Polizia lunedì notte, accompagnato dal suo avvocato. Per senso di colpa, forse, o perché “costretto dal quartiere”, dice qualcuno fuori dalla chiesa. Si tratta di un 46enne di Napoli, dello stesso quartiere in cui è avvenuta la rapina. Ha confessato tutto, ammettendo di aver chiesto quei soldi ma negando la colluttazione e l’aggressione. Una versione alla quale gli inquirenti non credono del tutto, dato che Ferrara, 62 anni, è stato stroncato da un infarto. Il figlio del rapinatore ha scoperto tutto soltanto dopo che suo padre ha deciso di confessare. Un uomo incensurato, conosciuto in paese, così come suo figlio Antonio, che frequenta la parrocchia dove ieri si sono svolti i funerali. “È una famiglia che conosco, non mi aspettavo potessero vivere un momento di tale difficoltà, che di certo non giustifica il gesto. Spero di poter parlare con il colpevole”, ha detto don Michele. Antonio, ha poi spiegato il parroco, “sta facendo un cammino in parrocchia. Era scioccato e ha voluto chiedere perdono. Se realmente una persona fa un cammino la vita cambia ha aggiunto - il modo di pensare non segue la mentalità del mondo, che cerca sempre la vendetta. Ha voluto imitare Cristo, chiedendo perdono”. E il perdono, ha aggiunto don Michele, non solo c’è stato, ma è arrivato tramite un segno concreto, un abbraccio. “Credo che Cristo possa cambiare i cuori. Per cambiare la città bisogna partire dal cuore, se cambia il cuore cambia la persona e se cambia la persona cambiano anche quelli che ci stanno attorno. Il gesto che ha compiuto sia una spinta per tutti noi. Parlatene a casa, nelle scuole. Noi, popolo napoletano, abbiamo scelto la vita, la speranza, la pace”, ha concluso il parroco. Di questo gesto don Michele ha parlato alla folla accorsa ai funerali, durante l’omelia, invitando a seguire l’esempio di Pietro e dei suoi fratelli. Ad ascoltare c’era una folla commossa, soprattutto quando a prendere la parola è stato Francesco, uno dei cinque figli di Antonio, che ha voluto ricordare il padre. “Ho imparato tanto da te - ha detto davanti al feretro del padre Tutti ti vogliono un gran bene, perché l’umiltà e l’onestà ripagano”. E tutti, in chiesa, hanno applaudito, commossi. Catania: un agente denuncia “detenuti stranieri vessati e sfruttati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2018 È il caso di Salvatore Morando, in servizio presso il carcere di Catania. Presunte vessazioni e sfruttamento nel carcere catanese di Bicocca, ferie e riposi non concessi ai detenuti lavoranti, in particolar modo nei confronti degli stranieri. Addirittura i detenuti sarebbero stati costretti a svolgere mansioni diverse rispetto al lavoro per cui erano pagati e, in particolare, venivano mandati a pulire le camere del comandante. Questo e altro ancora si può leggere nel dossier consegnato a Rita Bernardini del Partito Radicale e Sergio D’Elia, presidente di Nessuno Tocchi Caino. A compiere questa coraggiosa denuncia è Salvatore Morando, un agente della polizia penitenziaria in servizio presso il carcere di Bicocca. “Li facevano lavorare quasi sempre in nero - spiega l’agente penitenziario a Il Dubbio, - senza riposo e addirittura non potevano neppure avere il tempo di lavarsi gli abiti”. Morando dice di averlo appreso parlando con loro. “Ho controllato i registri per scrupolo racconta l’agente, e ho visto che effettivamente avevano ragione”. Morando prontamente aveva fatto un rapporto al Direttore del carcere. “Il comandante però non era d’accordo, - spiega l’agente -, contestandomi di fare l’avvocato dei detenuti”. Lui non ci sta e reagisce a questa affermazione: “Io sono pagato dallo Stato, non dal comandante e mi sento di difendere chi non può farlo da solo e chi non ha voce: indosso una divisa per dare garanzie a chi è dentro e a chi è fuori, proteggendoli”. In seguito al suo esposto alla Procura di Catania c’è stato un procedimento giudiziario, ma ora rischia l’archiviazione. Lo scorso 6 dicembre, infatti, si è svolta l’udienza davanti il Gip di Catania che doveva decidere sulla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura in relazione all’esposto presentato il 9 maggio dell’anno scorso nei confronti del Comandante dell’Istituto e del suo Vice. La motivazione dell’esposto riguardava, appunto, condotte che gli indagati avrebbero tenuto nei confronti di alcuni detenuti per essere stati irregolarmente impiegati nelle mansioni di pulizia e manutenzione dell’Istituto, al di fuori dei termini dell’ordine di servizio, e in particolare, senza il rispetto del loro diritto di fruire dei giorni di riposo garantitegli dall’art. 20 dell’ordinamento penitenziario. Il Pm, ricevuta la notizia di reato, aveva iscritto il procedimento e rinvenuto i reati di abuso d’ufficio, omissione d’atti ufficio, ma anche maltrattamenti e abuso di autorità contro i detenuti: gli episodi che l’Assistente Capo Morandi ha elencato sono riassunti non solo nella sua denuncia, che fece a sua firma, ma anche nelle sommarie informazioni di testimone che rese innanzi al Pm il successivo 25 gennaio 2018, quando segnalava che i detenuti cosiddetti “sconsegnati” - nel gergo carcerario ci si riferisce a coloro che possono occuparsi dei lavori di ordinaria manutenzione del carcere senza essere controllati dagli agenti -, spesso, anziché come doveva essere previsto dall’ordine di servizio, erano invece impiegati per mansioni ulteriori e diverse da quelle che avrebbero dovuto svolgere. Morandi precisa nel suo esposto che i detenuti in questione erano praticamente quasi tutti extracomunitari. Attraverso le sommarie informazioni rese nel corso delle indagini agli inquirenti, l’agente penitenziario denuncia tra le altre cose: “Ho assistito a diversi episodi in cui l’Ispettore Capo, all’epoca Vice Comandante, e Comandante facente funzioni, urlava contro i detenuti extracomunitari impartendo disposizioni inerenti al lavoro che stavano facendo, a mio avviso senza motivo e in modo del tutto sproporzionato rispetto a quelle che potevano essere le eventuali mancanze. Devo dire che non ho mai assistito ad episodi analoghi nei confronti di detenuti in regime di Alta Sicurezza”. All’udienza del 6 dicembre, Morando con il suo legale, l’avvocato Salvatore Napoli di Enna, ha quindi rappresentato le sue argomentazioni a sostegno dell’opposizione presentata contro la richiesta di archiviazione che la Pm Tasciotti ha trasmesso al Gip. Così scrive l’accusa a sostegno della sua valutazione di non perseguire i denunciati: “Veniva disposta l’acquisizione dei registri relativi alle giornate di lavoro dei detenuti ammessi a tale regime, da cui emergeva che effettivamente alcuni di essi non avevano fruito del riposo settimanale per periodi di tempo di durata variabile (da 10 giorni a circa due mesi)”, con ciò confermando le denunce di Morando in merito alle violazioni delle norme che impongono il rispetto del diritto al riposo e di quello alla adeguata retribuzione del detenuto. Non solo, lo stesso Pubblico ministero conferma che, dalla visione dei registri acquisiti agli atti, emergevano senza dubbio delle correzioni a penna effettuate in un secondo momento sull’ordine di servizio, ciò a riprova di episodi che aveva denunciato Morando. Dopo aver riportato le dichiarazioni testimoniali del denunciante e le prove documentali, la Procura giunge ad una conclusione: i fatti non sono sufficienti a provare l’accusa in giudizio perché a fronte di una condotta - che riconosce violazione di legge, “non si rinviene la volontà di procurarsi l’ingiusto profitto né quella di recare il danno ingiusto altrui”. Il Pubblico ministero, nell’argomentare la sua ritenuta assenza della penale rilevanza dei fatti, specifica che il vantaggio sarebbe della struttura carceraria e che comunque non ci sarebbe la prova della vessazione laddove i detenuti starebbero solo provvedendo alle necessità di manutenzione. Sempre l’accusa aggiunge che non c’è la prova che la mancanza di fruizione dei riposi settimanali non sia non occasionale ma continuativa, osservando che la normativa consentirebbe che il riposo venga recuperato con l’astensione dal lavoro per più giorni continuativi. Il Pm sul fatto che l’Assistente Capo Morando, dopo la sua denuncia, avesse ricevuto un procedimento disciplinare si limita a osservare, tra l’altro, che “l’irrogazione della sanzione nei suoi confronti appare frutto di un clima di contrasto venutosi a creare sul luogo di lavoro”. Morando e il suo legale però si oppongono a queste argomentazioni. In udienza hanno ribadito le motivazioni dell’opposizione precisando che l’assenza del dolo nel reato di abuso d’ufficio si possa anche “presumere dalla macroscopica violazione di un dovere giuridico” - scrive la difesa di Morando nell’atto di opposizione - e che “l’intenzionalità del comportamento contra ius degli indagati risulta ancora più pregnante, esacerbato e pervicace ove si consideri che gli stessi non hanno tenuto conto delle segnalazioni dell’opponente, reiterando il comportamento e pervenendo financo ad alterare i registri di transito (commettendo falso ideologico) al fine di non incorrere in sanzioni specie quando sono venuti a conoscenza dell’indagine”. Sempre l’avvocato Napoli aggiunge che “sugli altri reati non è stata svolta alcuna indagine”, in particolare riferendosi al reato di maltrattamenti con riguardo alle condotte vessatorie illustrate da Morando. Per questo che al Giudice per le indagini preliminari è stato chiesto di procedere ad un supplemento di indagini, assumendo a sommarie informazioni i detenuti indicati nella denuncia - attività investigativa non effettuata come oggetto delle violazioni, considerato che agli atti della Procura, che chiedeva l’archiviazione, oltre alla denuncia dell’agente Morando, c’erano delle “indagini che forniscono un quadro probatorio inequivocabile” ovvero le testimonianze di altri due colleghi di Morando e le registrazioni ambientali che proverebbero quanto esposto. Ora starà al giudice valutare se sia necessario approfondire con altre attività investigativa. Diversamente, se dovesse sposare la tesi della Procura, il Gip disporrà l’archiviazione. Lecce: carceri che scoppiano, l’allarme lanciato dall’associazione Antigone di Marina Schirinzi lecceprima.it, 12 dicembre 2018 La popolazione nell’istituto penitenziario di Lecce è di mille e 40 unità, ben oltre la capienza regolamentare. “I dati del XXVI rapporto sono preoccupanti, l’attenzione deve rimanere alta”. La popolazione carceraria, che già trabocca, è aumentata ulteriormente. I dati sono stati diffusi questa mattina dall’associazione Antigone in occasione del XIV Rapporto dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione: un lavoro svolto in collaborazione con l’Università del Salento, presentato oggi presso il Codacci Pisanelli. Dal 2017, infatti, i detenuti sono complessivamente aumentati di 60 mila unità. L’istituto penitenziario di Lecce invece ospita mille e 40 persone (dato relativo al 30 novembre 2017) su 606 posti di capienza regolamentare. Un vero e proprio sovraffollamento che però, fortunatamente, non raggiunge la drammatica media italiana e il primato pugliese che spetta al carcere tarantino. “La situazione non è delle migliori - ha spiegato la referente di Antigone, Mariapia Scarciglia -. Leggiamo nei numeri un cambiamento di rotta nel Paese, legato a leggi che producono poca sicurezza e molta carcerazione. È cresciuta la repressione, il decreto sicurezza divenuto legge ha messo in ginocchio il sistema Sprar e con esso tutto il lavoro fatto in materia di accoglienza e integrazione”. “Il nostro obiettivo è quello di tutelare lo stato di diritto perché l’esibizione della forza muscolare non produce gli effetti voluti. L’attenzione su questi temi deve rimanere alta”, ha aggiunto l’avvocato. Tornando al sistema carcerario, invece, il Rapporto ha evidenziato come il budget per i detenuti sia diminuito e all’interno degli istituti penitenziari vi sia poca scuola, poco lavoro e ben poco da fare. Eppure, ha evidenziato Scarciglia, i costi per la collettività rimangono alti: “Abbiamo stimato che lo Stato versa 133 euro per ciascuno al giorno e, se moltiplicati per il numero dei detenuti, la cifra complessiva non è bassa”. Eppure, dicono i responsabili dell’associazione, il 2017 sarebbe dovuto essere l’anno della “svolta” per il sistema penitenziario italiano. La chiusura di un ciclo, idealmente iniziato nel 2013 con la sentenza Torreggiani, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo condannava l’Italia per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Era atteso un nuovo ordinamento penitenziario, che, dopo quarant’anni avrebbe dovuto modificare e “ammodernare” l’impianto originario del 1975, sulla base del cospicuo lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale. “La riforma ha avuto tempi lunghi, la versione definitiva del testo legislativo è finita in pasto agli appetiti elettorali, troppo a ridosso della fine della legislatura. Si è cercato di elevare lo standard del rispetto dei diritti delle persone detenute, avvicinandosi alle indicazioni degli organismi sovranazionali senza con questo mettere in pericolo la sicurezza dei cittadini ma, piuttosto, garantendola maggiormente attraverso misure di comprovata efficacia nell’abbattimento della recidiva”, hanno spiegato i relatori in conferenza stampa. La ricetta proposta tra gli altri anche da Salvatore Cosentino, sostituto procuratore presso la Corte d’Appello di Lecce, è quella di alleggerire le carceri depenalizzando i reati minori (da punire con sanzione amministrativa) e lasciar posto “ai pesci grandi” della criminalità. “Ci sono troppi processi per troppi reati così la giustizia si ingolfa. E processi lenti producono una minore giustizia per tutti”, ha aggiunto lui. Alla conferenza stampa ha partecipato anche Claudio Sarzotti, docente ordinario di Sociologia del diritto presso l’Università di Torino e Presidente Antigone Piemonte che ha stigmatizzato il numero di suicidi aggressioni che avvengono nelle celle, ai danni di altri detenuti e dei poliziotti: “È necessario bandire nuovi concorsi per riportare i direttori nelle carceri, diversamente qualunque riforma del sistema è destinata a fallire”. Cagliari: pochi medici, centinaia di detenuti, “emergenza nel carcere di Uta” L’Unione Sarda, 12 dicembre 2018 L’associazione Socialismo Diritti e Riforme denuncia la situazione “insostenibile”. Un esempio? Un solo psichiatra per decine di casi. “Da 7 mesi, in assenza di un coordinatore sanitario stabile, con una carenza di medici specialisti e un aumento costante di detenuti, spesso affetti da gravi problemi di salute, la situazione della nella casa circondariale ‘Ettore Scalas’ appare gravemente deficitaria”. A lanciare l’allarme sulla situazione del carcere di Uta è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha ricevuto diverse segnalazioni dai familiari dei detenuti, “preoccupati per la difficoltà che i congiunti incontrano nel veder rispettato il diritto alla salute e per le infinite liste d’attesa per una visita odontoiatrica o psichiatrica”. “Nel Villaggio Penitenziario di Cagliari-Uta - prosegue Caligaris - sono attualmente recluse 584 persone, di cui 27 donne e144 stranieri, a fronte di 561 posti. In una situazione così pesante e complessa, dove ci sono anche persone con insorgenze tumorali, non solo è fondamentale il ruolo di un coordinatore sanitario, stabile e a tempo pieno, ma è indispensabile un’organizzazione articolata sul fronte dei bisogni”. E il quadro diventa ancora più allarmante se si pensa che all’alta percentuale di persone con problemi psichiatrici e psicologici, disturbi dell’umore e situazioni borderline, fanno fronte solo una psichiatra e una psicologa. Manca poi un referente medico per ogni detenuto e il dentista presente effettua solo 18 ore settimanali, contro le 36 del collega attivo presso il carcere di Badu e Carros, che contiene 222 detenuti. Abbastanza per far dire a Maria Grazia Caligaris che “l’organizzazione della sanità penitenziaria di Cagliari-Uta ha necessità di un riordino e di una seria presa in carico da parte dell’Ats”. Occorre insomma una verifica sull’efficienza del sistema, per garantire il diritto alla salute ai detenuti e per consentire agli agenti della polizia penitenziaria, agli educatori e a tutti gli operatori sanitari di poter svolgere il proprio ruolo serenamente e in completa sicurezza. Piacenza: scrivere di se stessi per capire gli sbagli. E il reato si estingue di Patrizia Soffientini Libertà, 12 dicembre 2018 Sono già una quarantina le persone affidate all’associazione Verso Itaca Onlus per affrontare percorsi di “messa alla prova”. Basta indagare dentro se stessi, attraverso il bisturi della scrittura biografica, per sciogliere il nodo di uno sbaglio, di un reato commesso e così risarcire la società? Non solo basta, ma genera effetti positivi a catena. Taglia di netto le percentuali di recidiva, alleggerisce le agende stracolme dei Tribunali con la sospensione del processo. Perché la “messa alla prova”, se ben riuscita, estingue il reato di chi ha commesso le cosiddette “bagatelle”, cose da poco, e lascia la fedina penale pulita. Marco Bouchard, presidente della Sezione Penale al Tribunale di Firenze, ne ha parlato a Piacenza ricordando che questo impianto (non ancora legge) arriva in Italia nel 1988, suscitando anche “diffidenza”, per rivelarsi invece utilissimo già negli Anni ‘90 in casi che avevano dei minori come protagonisti. L’occasione per riparlare di messa alla prova - durante un appuntamento dei “Dialoghi sulla giustizia” - si deve all’attivismo dell’associazione Verso Itaca Onlus, presieduta dalla giornalista Carla Chiappini, che attraverso la rivista “Sosta Forzata” nata in carcere ma ora diffusa insieme ad altre pubblicazioni, ha già seguito i percorsi di una quarantina di persone autori di reati di lieve entità, piccoli episodi di spaccio, guida in stato di ebrezza, infrazioni, persone invitate a scrivere di sé con uno sguardo introspettivo sui propri errori. “E a diventare migliori, più consapevoli dei propri limiti” dice Chiappini. In Santa Maria della Pace molte di queste persone hanno letto le loro storie, sostenute anche dalla presenza di Alberto Gromi (altro attivista di Verso Itaca) e suscitando commozione tra il pubblico. Graziella Mingardi, presidente dell’Ordine degli Avvocati, ha trovato molto apprezzabile questa capacità di mettersi a nudo e tutto il lavoro che si sta facendo sulla messa alla prova che funge da argine alle recidive. Naturalmente non è solo la scrittura, vigilata da alcune operatrici sociali, il solo tipo di riparazione in atto a Piacenza, c’è chi, su indicazione dell’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) che ne decide anche la durata, svolge attività in Caritas o in altre strutture di volontariato, non c’è invece una ristorazione materiale in denaro. Con una popolazione carceraria di 60 mila detenuti, il picco nel 2010 di 67 mila generò una condanna europea verso l’Italia, con un perenne rischio-sovraffollamento, diventano fondamentali gli strumenti alternativi, capaci di generare un cambiamento vero nell’autore di reato. Ad oggi, ha detto Bouchard, sono 40 mila le persone che hanno sperimentato un affidamento (“erano zero otto anni fa”) e 14 mila le persone messe alla prova, con forte incremento anno dopo anno. “Si passa da un’idea della pena incentrata sul patire una misura restrittiva all’esatto contrario, a un fare, un agire” è un capovolgimento filosofico. Un lavoro sul presente rivolto al futuro, mentre la pena classica “guarda costantemente al passato”. Azione riparativa per piccole infrazioni. Una formula sempre più applicata Cos’è la messa alla prova? L’imputato di reati lievi invece di affrontare il giudizio del Tribunale viene affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) per svolgere un programma di trattamento che preveda come attività obbligatorie: l’esecuzione gratuita di un lavoro di pubblica utilità o l’attuazione di condotte riparative, volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, o il risarcimento del danno cagionato e, se possibile, l’attività di mediazione con la vittima del reato. Possono chiedere la messa alla prova gli imputati per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore a quattro anni (reati connessi a piccolo spaccio, a guida in stato di ebbrezza etc.). Non può essere concessa più di una volta ed è esclusa nei casi in cui l’imputato sia stato dichiarato dal giudice delinquente abituale. “Ero finito con le spalle al muro, ho trovato la forza di tirarmi fuori” Alcune storie scritte per “Sosta Forzata” che pubblichiamo anonime per motivi di riservatezza “Da bambino dovevo andare bene a scuola per dimostrare che un Macedone non è ignorante, non dovevo essere maleducato per evitare che la gente dicesse “Guarda quel figlio del Macedone!” e persino mentre portavo i sacchi dell’umido dovevo stare attento a non far sgocciolare per evitare che qualcuno potesse dire “Guarda il Macedone cosa fa!”. Dunque sono cresciuto con la paura che i miei sbagli potessero essere ricondotti alle mie origini, come se poi il peso degli errori non fosse già di per sé sufficiente. “Il Macedone”, ecco quando sbaglio non vengo mai chiamato per nome, mai! Leggendo i giornali oggi mi rendo conto di quanto mio padre avesse paura di quello che oggi sta succedendo. Leggere una nazionalità, invece di un nome, seguita da un fatto di cronaca negativo rende una nazione intera colpevole per l’errore di un singolo, con nome e cognome. Di quel bambino è rimasto il ricordo di quando siamo partiti verso un altro paese, senza sapere nulla, aspettando solo di tornare indietro per vedere i nonni, gli amici e avere la libertà di prima”. * “Se penso alla mia infanzia penso a quando mamma e papà stavano insieme, cosa poteva andare storto? Pensavo che niente potesse essere tanto male, che c’era sempre un lieto fine”. * “Caro mio amico, è da tanto tempo che volevo dirti che il tempo trascorso insieme si è fermato nel febbraio del 2007. Sono passati ormai tanti anni che non ti vedo. Ti ricordi quando eravamo bambini e giocavamo al pallone tutto il giorno al vecchio campo della Marina? Sono certo di sì. E quando siamo venuti in Italia con la nostra squadra? Ti ricordi? Che siamo andati via dal centro sportivo e siamo stati in giro tutto il giorno e abbiamo fatto preoccupare tutti? Sai ho un mare di ricordi belli con te, amico mio! Ma non posso dimenticare il giorno che sei venuto a casa a Milano alle 3 di notte con la testa piena e gonfia di bastonate dicendomi di aver fatto qualcosa di grave, stavo ancora dormendo mentre mi parlavi e dormo, dormo con la mia mente ogni volta che penso a quel giorno. E non ci posso credere che è passato così tanto tempo senza vederti”. Quella volta che ho capito che qualcosa stava cambiando “Quella volta che ho capito che qualcosa stava cambiando è stato quando tanti anni fa ho avuto la terza paresi del nervo facciale. Ne avevo già avute due. La prima durante il primo anno di università a causa di un colpo d’aria, la seconda dopo gli esami di abilitazione alla libera professione e all’insegnamento, al termine di un periodo di grosso stress emotivo. La terza si è verificata nel bel mezzo della cosiddetta crisi del settimo anno di matrimonio. La psicologa che allora mi seguiva e con la quale parlai dell’aspetto psicologico del fenomeno mi disse “è un segnale che il tuo corpo ti sta dando…dentro di te qualche cosa sta morendo”. Era vero. Presi coscienza che la storia d’amore che avevo tanto desiderato nell’adolescenza e che poi finalmente avevo avuto era inesorabilmente finita. Fu un grosso dolore ma, alla fine, dopo molto tempo, sono riuscito a nascere nuovamente. * “Quella volta che ho capito che qualcosa stava cambiando era già troppo tardi, ma, con le spalle al muro, ho avuto la forza di tirarmi fuori”. * “Sicuramente anche nella mia vita c’è stata una volta particolare quando ho fatto l’incidente e mi hanno ritirato la patente, perché a quel punto penso di essere arrivata al limite e di aver capito che la situazione con il bere mi era sfuggita di mano senza che me ne accorgessi. Mi spaventava molto la situazione che dovevo affrontare perché ero consapevole che avrei dovuto cambiare il modo di vivere. Questo all’inizio mi ha portato ad allontanarmi drasticamente da tutto e tutti, perché dovevo fare chiarezza su tante cose, ma soprattutto avevo bisogno di mettermi in testa che non dovevo più bere, perché fino a quel giorno l’alcol dirigeva la mia vita…” * “Quella volta che ho capito che stava cambiando qualcosa era il giorno in cui mi sono alzato e ho deciso di affrontare un viaggio molto pericoloso per cambiare la mia vita. In quella mattina ho visto il sole che sorgeva e ho sentito dentro di me che era una giornata bellissima per poter cambiare tante cose nella vita, anche se non era facile lasciare un padre malato, un fratello che camminava con un bastone e andare a rischiare la mia vita per una vita migliore. Quella volta era una giornata che aspettavo da tanto tempo per rendermi felice”. * “Per me, invece, quella volta è stata quando sono stato fermato per un controllo della polizia dallo stesso uomo che mi aveva arrestato. Preso tra un mix di panico e rabbia mi ero messo sulle difese pensando che quell’uomo era un uomo sbagliato, un uomo che mi aveva fatto un torto, uno da non rispettare. Invece mi ha parlato in privato da solo. Ho capito che qualcosa era cambiato da come mi parlava, da come mi ha spiegato le cose e da come mi ha aiutato. In quel momento ho cominciato a ragionare e ho capito che in verità sono io che ho sbagliato fin dall’inizio con lui, che nonostante tutto mi ha perdonato, e mi ha aiutato in cose personali. Devo dire che quell’incontro mi ha fatto ragionare e mi ha convinto che tra i due il vero coglione sono stato io”. Ho capito che qualcosa stava cambiando, che ero realmente considerata “grande” nel momento in cui il ruolo di cura si è invertito e mi sono dovuta prendere cura del mio adorato nonno. Quel momento ha coinciso con i miei 18 anni ma non era quel numero a farmi sentire più responsabile e più adulta. La bambina che aveva bisogno di cure, attenzioni, di essere seguita o anche solo ascoltata ha lasciato il posto alla ragazza che doveva mettere da parte la stretta allo stomaco ogni volta che entrava nella casa di riposo. Ho capito che la mia vita stava cambiando e che doveva prepararsi ad accogliere il dolore e imparare ad andare avanti, nonostante l’assenza…”. * “Un’altra volta saprei valorizzarmi di più. Saprei dare più valore alle mie capacità, e a ciò che mi circonda. Un’altra volta imparerei ad ascoltarmi maggiormente e a dar voce al mio sentire, alle emozioni e alle passioni. Un’altra volta saprei dire “BASTA!” a ciò che mi logora e ferisce. Un’altra volta saprei godermi di più ciò che ho. Questo è ciò che vorrei ma chissà cosa un’altra volta davvero saprei o farei”. * “Un’altra volta saprei capire che avrei potuto non rivederti più. Un’altra volta saprei godere dei momenti insieme, anche quelli in cui eravamo costretti a vederci. Un’altra volta saprei esserci per te, anche senza che tu me lo chieda. Un’altra volta saprei conoscerti creando ricordi indelebili Un’altra volta saprei ricordarmi la tua voce senza scordarla mai”. Firenze: i Garanti chiedono risposte a tutela dei minori toscanamedianews.it, 12 dicembre 2018 Difensore civico e Garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale lanciano un appello per accelerare le pratiche dei minori. In seguito ad una segnalazione di una mamma che lamenta una “apparente mancata attuazione di quanto disposto dal Tribunale dei Minori di Firenze nell’aprile 2018”, il Difensore Civico della Toscana, Sandro Vannini, ed il Garante dei Detenuti Franco Corleone lanciano un appello affinché in particolare gli iter procedurali e giuridici che riguardano l’infanzia e l’adolescenza siano abbreviati a tutela dei minori. Nella lettera pervenuta al Difensore Civico una mamma dell’area fiorentina nord ovest lamenta infatti che “la figlia è ancora presso la casa famiglia ove si trova da 13 novembre 2017 e che vorrebbe frequentare una scuola fiorentina” nonostante il Giudice abbia invitato il Servizio sociale e la Ufsmia/Ufsma “ad elaborare un progetto alternativo alla permanenza della minore in comunità che tenga conto delle possibili risorse in ambito familiare, e dell’evolversi della sua situazione clinica riferendo in merito entro il 30 agosto 2018” Qui sotto i video con dichiarazioni del Difensore Civico della Toscana, Sandro Vannini, e del Garante dei Detenuti e delle persone private della libertà personale Franco Corleone che auspicano una soluzione del caso specifico entro Natale e la nuova nomina del Garante dell’ Infanzia e dell’adolescenza da parte del Consiglio regionale della Toscana Milano: nelle carceri si sperimentano i Centri per l’impiego di Giuseppe Motisi momentoitalia.it, 12 dicembre 2018 È la prima esperienza in Italia di uno sportello di ricerca lavoro collocato direttamente in un istituto penitenziario. Un passato da galeotto ma un futuro da cuoco, idraulico, elettricista o parrucchiere. Per i detenuti delle carceri milanesi di Opera e San Vittore la reclusione ha oggi una prospettiva più rosea, perché mentre il tempo della pena trascorre è già possibile mettere un piede nella società civile attraverso un lavoro proposto ed offerto dai centri per l’impiego di Afol Metropolitana, l’ente partecipato da Città metropolitana di Milano e da 62 Comuni del suo hinterland che si occupa di politiche di formazione ed occupazione. Così per trovare un impiego non serve aspettare di tornare in libertà: Afol Metropolitana ha infatti aperto, per la prima volta in Italia, due sportelli di ricerca lavoro proprio all’interno dei due istituti penitenziari di Milano; il primo lo scorso anno a Opera, e il secondo a San Vittore inaugurato a novembre. In entrambe queste strutture è presente un ufficio al quale i detenuti possono rivolgersi per iscriversi a corsi di formazione professionale, sperimentare lavori di vario genere e tentare di inserirsi nel mondo del lavoro. A San Vittore sono impegnati lavorativamente 250 detenuti, pari a circa il 30 per cento della popolazione dell’istituto carcerario, che tra varie mansioni attendono di uscire di prigione. Ma dopo, quale sarà il loro destino? Come potranno reinserirsi nella società ed evitare di tornare a delinquere? A queste domande cerca dunque di dare una risposta l’ultimo Centro per l’impiego, in ordine di tempo, aperto in carcere da Afol Metropolitana. “Due operatori del nostro sportello hanno il compito di supportare gli utenti in una serie di servizi per il lavoro, come ad esempio la possibilità di stipulare un patto di servizio personalizzato, che prevede l’individuazione del percorso di politica attiva a cui l’utente si impegna a partecipare - afferma Giuseppe Zingale, direttore generale di Afol Metropolitana. Sono inoltre previste attività di partecipazione a iniziative e laboratori per il rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di un impiego, la stesura del curriculum vitae, la preparazione per sostenere colloqui di lavoro o iniziative di orientamento, di carattere formativo o di riqualificazione. Questo passaggio, compatibilmente con le condizioni dello stato detentivo, consente al soggetto di accedere alle misure di politica attiva di carattere nazionale, come Garanzia giovani e l’assegno di ricollocazione, o di carattere regionale, come la Dote unica lavoro”. Non è naturalmente possibile ipotizzare un percorso lavorativo standard per tutti i detenuti, soprattutto in considerazione della difformità dei vari reati commessi. Alcuni lavori si attagliano quindi meglio di altri a un futuro ritorno alla “normalità”, e per la maggior parte si tratta di lavori manuali. A San Vittore, ad esempio, c’è forte richiesta di cuochi, addetti alla lavanderia, idraulici, elettricisti, imbianchini, piastrellisti, saldatori, installatori di impianti di condizionamento, addetti alle pulizie, barbieri e parrucchieri per uomo e donna. “Esistono categorie di detenuti, autori di reati di particolare gravità, che hanno limitazioni alla loro movimentazione all’interno dell’istituto penitenziario e all’incontro con altre persone, e non possono accedere a parte delle attività interne - spiega Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore. Alcune di queste attività si svolgono infatti in ambienti esterni al carcere, e per il loro svolgimento sono necessarie procedure di osservazione particolare da parte degli operatori, insieme a valutazioni della magistratura di sorveglianza. Per il resto, però, tutti sono iscritti ora al collocamento interno, e quelli che hanno competenze particolari vengono inseriti in speciali graduatorie per le mansioni da svolgere sulla base delle competenze certificate”. Torino: gli imam in carcere per occuparsi dei detenuti “radicalizzati” di Jacopo Ricca La Repubblica, 12 dicembre 2018 Una decina di detenuti radicalizzati o a rischio di avvicinamento verso le dottrine più radicali dell’Islam è monitorata dentro al carcere delle Vallette. Da alcuni mesi però ad occuparsi di loro, o meglio delle loro anime, ci sono gli imam autorizzati a entrare nella casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. È una delle novità più rilevanti illustrate durante la firma del nuovo protocollo d’intesa per “Agevolare e gestire il pluralismo religioso nei luoghi di detenzione”. È stato confermato ieri dal direttore della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, Domenico Minervini, che ha sottoscritto il documento insieme all’assessore ai Diritti della Città di Torino, Marco Giusta, alla direttrice dell’Istituto penale per minorenni “Ferrante Aporti”, Gabriella Picco, e alla Garante dei diritti delle persone private della libertà, Monica Gallo. “Avremmo voluto che valesse anche per il Cie, ma hanno ritenuto che non ci fosse un tempo di permanenza sufficiente per avviare un percorso sulla religione - racconta Gallo - Questo accordo garantisce un rafforzamento della presenza dei ministri di culto nelle strutture detentive, ma avvia anche un dialogo che permetterà di avere la cosiddetta animazione spirituale, cioè il dialogo tra le religioni tra i detenuti. Si partirà coi religiosi, ma si arriverà anche a un dialogo tra i detenuti stessi”. Alle Vallette solo dal 2015 è stata ammessa la presenza degli imam: “Questo è un aspetto importante anche per migliorare il clima dentro il Lorusso Cotugno - spiega Minervini - Fino a un paio d’anni fa mancava la tutela per i detenuti di fede musulmana, ora siamo a tre venerdì su quattro per la preghiera collettiva cui partecipano anche i detenuti per reati sessuali”. Diverso è il discorso per i radicalizzati: “Loro non possono andare nelle aree comuni - chiarisce il direttore - Anche loro hanno però colloqui con gli imam, concertati con il gruppo di monitoraggio, per far loro capire che la fede non c’entra nulla con la strada che stavano prendendo o hanno preso”. Per ora non si parla di stanze del silenzio nelle carceri, ma il protocollo potrebbe portare a una presenza maggiore dei religiosi, non solo cattolici, anche nel minorile: “La presenza dell’imam ci è stata di grande aiuto, i ragazzi attendono i venerdì con grande dedizione - conferma Picco - Speriamo di poter aprire ad altre religioni”. Soddisfatto l’assessore Giusta: “Ora l’obiettivo è avere un tavolo di lavoro con il comitato Interfedi per lanciare iniziative ancora più efficaci”. Parma: rieducazione ed istruzione, nasce il Polo Universitario Penitenziario di Mattia Celio parmateneo.it, 12 dicembre 2018 Un progetto per dare la possibilità ai detenuti di partecipare ai corsi universitari, anche in regime di massima sicurezza. A Parma, in accordo tra l’Università e gli Studi Penitenziari di Parma, è stato inaugurato il primo Polo Universitario Penitenziario (PUP), un contesto di studio istituito per dare la possibilità ai detenuti di partecipare ai corsi universitari o continuare un percorso già iniziato. Tra futuri fruitori di questo progetto saranno vi saranno anche i detenuti in regime di massima sicurezza, primo nel suo genere. Si presenta, dunque, come una sorta di sfida particolare nel panorama nazionale e gli organizzatori sono d’accordo sul fatto che sia giusto dare loro una possibilità per integrarsi nella società civile. Avvicinare il carcere alla città - La presentazione del progetto, tenutasi il 4 dicembre presso la Sede del Consiglio dell’Ateneo, ha visto la partecipazione del Rettore Paolo Andrei, il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, il Direttore degli Istituti Penitenziari di Parma Carlo Berdini, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna Antonietta Fiorillo, la Delegata del Rettore per i rapporti tra Università e carcere Vincenza Pellegrino, il Direttore Generale della Formazione del Ministero della Giustizia Riccardo Turrini Vita, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per Emilia Romagna e Marche Gloria Manzelli, la docente di Diritto Costituzionale dell’Ateneo Veronica Valenti e la responsabile amministrativa dell’Ateneo per le attività negli Istituti Penitenziari, Annalisa Andreetti. Il Rettore Andrei si è detto molto contento di questo progetto, sul quale stavano lavorando da qualche mese: “Già durante la consegna della laurea ad honorem a Don Ciotti, questi temi sono stati posti all’attenzione della comunità. Temi che per noi non sono nuovi ed è per questo che sono contento di arrivare oggi alla formalizzazione di tale intervento che sancisce una collaborazione anche al livello formale, oltre che istituzionale. Abbiamo sempre cercato di intravedere questo progetto con un fine fondamentale, ovvero riconoscere la dignità di tutte le persone, a seconda dei ruoli che coprono in un determinato momento”. Questo sarà il primo protocollo in favore dei detenuti in massima sicurezza, a livello regionale, anche se tutti i membri sperano che questa iniziativa sia la prima di una lunga serie. Su questo è intervenuta la professoressa Gloria Manzelli: “Ho accettato questa sfida perché va a dedicare i propri sforzi su una tipologia di detenuti per i quali c’è spesso una sorta di rassegnazione, dato che fuori dal carcere ci sono pochi progetti disponibili ad accoglierli a causa della loro cattiva reputazione. Per cui credo, a maggior ragione, che essere magnanimi con i nostri studenti, nonostante possano fare grande fatica, porterà a grandi risultati”. La formazione e lo studio saranno le strade principali con cui valutare e dare uno strumento ai detenuti per cercare di cambiare positivamente la propria vita. Come ha affermato la Presidente Fiorillo: “È scorretto pensare che il trattamento complichi la sicurezza: se è fatto seriamente aiuta ad arrivare alla sicurezza. Dobbiamo dare ai detenuti la possibilità di farsi conoscere perché anche il carcere fa parte della società. Non è certo la parte migliore, ma non per questo deve essere rimossa. I problemi si risolvono affrontandoli. Si tratta di fare questo non solo per loro ma anche per la collettività; dobbiamo fare in modo che il detenuto, una volta uscito dal carcere, non commetta più reati”. La nuova sede - La nuova sede si inserisce all’interno della rete dei 27 poli già esistenti in altri atenei italiani che, tramite l’esempio dell’università di Torino, negli anni hanno avviato progetti analoghi per garantire il diritto allo studio universitario a studenti detenuti. La particolarità del nuovo Polo Penitenziario sta nell’accogliere studenti detenuti in regime di alta sicurezza, presentandosi quindi come una sfida particolare nel panorama nazionale. Oltre agli esami, alle sedute di laurea e agli incontri con i docenti, all’interno dell’Istituto verranno svolti incontri di orientamento e brevi cicli di lezioni in presenza di studenti detenuti e non, sempre nel totale rispetto delle condizioni di sorveglianza. L’Università, dunque, si metterà a disposizione per funzioni di docenza, consulenza e supervisione delle attività di studio e di orientamento condotte negli Istituti penitenziari, e si impegnerà a fornire nei prossimi anni supporti culturali e didattici per lo studio dei detenuti, implementare l’accesso dall’esterno alle lezioni e ai materiali di studio con l’utilizzo di piattaforme informatiche, ad esplorare attivamente la possibilità di canali streaming, fornendo supporto allo studio dei detenuti con forme specifiche di tutoraggio, attraverso la selezione di figure in grado di svolgere in modo adeguato l’approfondimento dei programmi. Da parte loro, gli Istituti Penitenziari cercheranno nei prossimi anni di fornire supporto organizzativo sulla base delle proprie funzioni: dall’allestimento di spazi per lo svolgimento delle attività, all’entrata dei tutor e dei docenti finalizzata allo studio e al sostenimento delle prove di valutazione; dalla concessione ai detenuti dello studio negli spazi appositi delle biblioteche per un numero di ore adeguato e più ampio di quelle previste, sino all’utilizzo delle piattaforme e-learning nelle forme consentite dalle istanze di sicurezza. Metodi di rieducazione - Era il 19 maggio 2015 quando venne inserita la delega al Governo per la riforma dell’Ordinamento Penitenziario e il Ministro della Giustizia Andrea Orlando convocò addetti ai lavori ed esperti del settore, dando avvio agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Diciotto tavoli di lavoro sui temi più importanti relativi alla detenzione. Circa duecento persone coinvolte, in un percorso che si concluse ufficialmente il 12 aprile 2016 e che avrebbe dovuto segnare l’inizio di un nuovo modo di vedere il carcere, anche da parte del potere esecutivo. Con l’entrata in vigore della legge n. 203 del 23 giugno 2017, la delega diventò norma ed il Parlamento affidò al Governo la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, indicando i criteri da rispettare e gli istituti su cui intervenire. Come ha spiegato la professoressa Vincenza Pellegrino: “La forza del lavoro educativo che uno può svolgere è molto vasta ma, al di là di questo, gli Stati Generali affermano che il lavoro non è solo una questione di ore, ma è soprattutto la forza della cultura che anima l’operato della polizia penitenziaria. Non esiste la differenza cattivo/buono. Tutti questi tentativi di rieducazione cambiano anche il carcere. Rieducazione vuol dire anche istruzione - continua la professoressa - ed è per questo che oggi abbiamo firmato l’apertura dell’istituto penitenziario, in modo da fare credere al detenuto che, nonostante tutto, può ancora cambiare”. Primi ad essere convinti di questa possibilità di cambiare devono essere gli stessi detenuti, e su questo filtra ottimismo. “Tanti detenuti parlano del loro futuro, di quello che vogliono fare nella vita, della loro voglia di riallacciare i contatti con le loro famiglie, di studiare e manifestano questa loro voglia. Anche i poliziotti fanno parte di questo trattamento, quindi devono sentirsi responsabili del fatto che stanno accompagnando questa persona alla trasformazione. Tale sostegno, però, deve esserci anche nel momento in cui l’ormai ex-detenuto viene rilasciato, perché non è escluso che possa trovare enormi difficoltà a riambientarsi nella comunità”. Sulla procedura di rieducazione da parte dei detenuti è intervenuta la psichiatra Maria Inglese, che molte volte ha lavorato a contatto diretto con i detenuti, osservando quindi ancora più da vicino la vita che questi ultimi conducono. Come afferma la psichiatra: “Un cambiamento può avvenire solo in maniera collettiva, non si può pretendere da una persona di cambiare; anzi dobbiamo essere in grado di accompagnarla in questo lungo percorso, nel quale è molto importante il modo in cui la si guarda in faccia. Noi operatori rappresentiamo una piccola parte dello stato ed è per questo che il nostro inter-faccia con un detenuto gioca un ruolo importante, perché se lo guardiamo con negligenza, lo stesso faranno i cittadini quando il detenuto uscirà dal carcere. Inoltre, è importante anche il tono con cui ci si rivolge a quest’ultimo e bisogna stare anche attenti alle parole. Dobbiamo fare in modo che il detenuto non si senta giudicato”. Roma: il futuro del carcere? Luogo di opportunità per un reale reinserimento di Davide Dionisi vaticannews.va, 12 dicembre 2018 Convegno alla Lumsa promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza, Economia, Politica e Lingue. Obiettivo: avviare un tavolo di confronto sul sistema penitenziario e promuovere una cultura dell’attenzione educativa dietro le sbarre. Valorizzare il tempo del carcere quale tempo di espiazione e di riscatto; collegare realtà carceraria e società civile, puntare su itinerari formativi per un opportuno reinserimento. Sono questi i temi principali affrontati ieri nel corso della giornata di studio promossa dalla Lumsa intitolata “Carcere: tra presente e futuro”. Nel 70° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia, Politica e Lingue moderne dell’ateneo ha voluto aprire un tavolo di confronto (il primo del genere), che ha l’obiettivo di favorire momenti di studio e di riflessione multidisciplinare sul carcere con l’obiettivo di avviare una sinergia tra diverse competenze. Tre panel per sottolineare che il futuro del sistema penitenziario, ad un mese dall’entrata in vigore dei decreti legislativi sulla riforma dell’ordinamento, deve guardare al carcere non più come ad un luogo di sola detenzione, ma come ad un organismo che deve fornire a tutti la possibilità di acquisire nuove competenze, educative e formative, per un reinserimento nella società al termine della pena. Ma come facilitare tale processo? Secondo Giacinto Siciliano, Direttore della casa circondariale di Milano San Vittore, “È fondamentale utilizzare il tempo della detenzione nel miglior modo possibile”. Nel dibattito è emersa la necessità di evitare che il sistema carcerario diventi una sorta di imbuto nel quale far confluire tutte le contraddizioni sociali, politiche e amministrative che stanno fuori dal carcere. Anche perché dai problemi che attraversano il sistema, dal modo di affrontarli o dal loro degenerare, si giocano i destini del nostro sistema democratico. Secondo Rosella Santoro, Direttrice della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso: “È necessario implementare le attività lavorative e i percorsi formativi. Sicurezza e trattamento rieducativo costituiscono un circolo virtuoso e devono accompagnare il detenuto”. La rieducazione non è un astratto percorso comportamentale, bensì una crescente consapevolezza del danno individuale e sociale del proprio comportamento. Una consapevolezza che deve maturare attraverso un’offerta sempre più ampia e qualificata di opportunità. Ne è convinto Pierpaolo D’Andria, direttore della Casa Circondariale di Viterbo-Mammagialla. Firenze: teatro in carcere, “Destini incrociati” fa il punto sulle esperienze in Italia di Dante Bigagli Corriere Nazionale, 12 dicembre 2018 Dal 13 al 15 dicembre a Firenze e Lastra a Signa spettacoli, convegni, proiezioni e incontri nel segno del teatro fatto in carcere, tra gli ospiti anche l’attore Marcello Fonte, Palma d’oro a Cannes per “Dogman”. Il teatro fatto in carcere, con il pubblico che applaude i detenuti attori, non va classificato soltanto alla voce “intrattenimento”, spettacolo puro e semplice, perché la sua valenza è molto più ampia. Basti pensare che solo il 6% degli ex detenuti, passati attraverso il teatro fatto in carcere, è recidivo, ovvero torna a delinquere, contro il 65% di chi dietro le sbarre non ha goduto di quella esperienza. Un’esperienza formativa insomma, che diventa fondamentale anche per la società grazie alla sua funzione educativa, e che in effetti in Italia è un’esperienza matura sia sul piano artistico che su quello organizzativo, con oltre i due terzi degli istituti penitenziari che svolgono attività teatrale per adulti e per ragazzi. Che adesso si racconta al pubblico nella rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini incrociati”, in programma da giovedì 13 a sabato 15 dicembre tra Firenze e Lastra a Signa, con spettacoli, conferenze, proiezioni, video e incontri. Tra gli ospiti della tre giorni l’attore Marcello Fonte (Palma d’oro come migliore attore a Cannes 2018 con il film “Dogman”), in scena con lo spettacolo “Famiglia” di Valentina Esposito, il regista e drammaturgo Fabio Cavalli, il direttore del Teatro delle Arti e responsabile dei laboratori teatrali nelle carceri di Arezzo e Pistoia Gianfranco Pedullà e Claudio Collovà, da anni attivo nel carcere minorile di Palermo. Il programma degli spettacoli sarà inaugurato nel segno di Samuel Beckett, poeta della scena che ebbe un rapporto profondo con l’universo carcerario: alle ore 21, al Teatro delle Arti di Lastra a Signa, prima nazionale di “Talking Crap” di Teatro Metropopolare, regia di Livia Gionfrida, Compagnia operante nella Casa Circondariale di Prato. Venerdì 14 alle ore 11, alla Casa Circondariale di custodia attenuata “Mario Gozzini” di Firenze, Compagnia Carpe Diem e Centro di Teatro Internazionale di Firenze presentano “Commedia Divina, prima di tutto non c’era niente”, atto unico tratto dall’opera di Isidor Shtok, regia di Olga Melnik, prima nazionale. Alle ore 15 al Teatro delle Arti di Lastra a Signa approda “Un’isola. Dalla mia finestra si vedono le montagne”, spettacolo della Compagnia del carcere di Vigevano (sezione maschile) diretta da Alessia Gennari, liberamente tratto da “La tempesta” di W. Shakespeare. Sempre al Teatro delle Arti, alle ore 21,30 “Famiglia”, spettacolo di Fact Fort Apache Cinema Teatro, compagnia fondata e diretta da Valentina Esposito che coinvolge attori ex detenuti e detenuti in misura alternativa, attori professionisti e studenti dell’Università La Sapienza di Roma. Dal programma di sabato 15 spicca “La Classe”, primo studio per un nuovo spettacolo dedicato a Don Lorenzo Milani della Compagnia Voci Erranti, regia di Grazia Isoardi, con gli attori della Casa di Reclusione di Saluzzo (Cuneo), al Teatro delle Arti di Lastra a Signa. E ancora, il convegno “Il Teatro in Carcere: un’azione necessaria per adulti e minorenni che giovedì 13 dicembre (ore 11) alla sala Il Fuligno di Firenze aprirà la tre giorni: un momento di confronto fra i rappresentanti delle Istituzioni e i protagonisti delle esperienze teatrali. In questa quinta edizione della rassegna, così come accaduto nelle precedenti (Firenze 2012, Pesaro 2015, Genova 2016, Roma 2017), agli spettacoli, frutto di laboratori produttivi realizzati con detenuti, si alterneranno conferenze, dimostrazioni di lavoro, rassegna video e attività di formazione degli spettatori nel carcere e nelle scuole. Verrà in questo modo restituito un panorama ampio delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che da anni lavorano sul campo. Assisteremo a spettacoli natii con la partecipazione di detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura oltre che di allestimento. Non mancherà una sezione interamente dedicata alla proiezione di video, selezionati e scelti dalla direzione artistica dell’intera rassegna composta da Ivana Conte, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi e Gianfranco Pedullà. L’audiovisivo è uno strumento indispensabile per documentare le esperienze di teatro in carcere, in grado di restituire la ricchezza, l’articolazione e la diffusione ormai capillare di questo importante settore del teatro italiano, che ha evidenti ricadute sulla funzione di riabilitazione che il carcere deve istituzionalmente sviluppare. “La diversità di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato - spiega il Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere Vito Minoia - non appare come una moda teatrale, ma come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale, con una forte connotazione artistica e al tempo stesso educativa e inclusiva, una zona pratica della scena contemporanea ricca di implicazioni sociali e civili. Tra gli altri spicca il dato della sensibile diminuzione della recidiva in chi fa teatro in carcere: si riduce dal 65 al 6%”. La rassegna si colloca nell’ambito del Progetto Nazionale di Teatro in Carcere Destini Incrociati con il contributo del Ministero dei Beni e Attività Culturali, Direzione Generale Spettacolo, ai sensi del D.M. 27 luglio 2017, articolo 41, Promozione/Progetti di Teatro di coesione e inclusione sociale. È promossa in Rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, avendo come soggetto capofila l’Associazione Teatro Aenigma. Firenze: Marcello Fonte e il teatro oltre ogni prigione di Edoardo Semmola Corriere Fiorentino, 12 dicembre 2018 L’attore in scena a Lastra a Signa con la compagnia Fort Apache di detenuti e ex. “Sarà la mia rovina, ma non importa” pensa Marcello Fonte. “Persevererò nel portare il messaggio del teatro sociale e dell’importanza del recupero di detenuti ed ex detenuti attraverso l’arte, perché non si abbandona mai la propria famiglia. E la compagnia Fort Apache è la mia famiglia”. I progetti di inclusione sociale legati al recupero dei carcerati vivono una stagione difficile: “I segnali intorno a noi sono preoccupanti” dice Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro Carcere, pensando alle politiche del nuovo governo. Ma hanno trovato in Fonte, l’attore rivelazione dell’anno, premiato a Cannes per la sua straordinaria interpretazione in Dogman di Matteo Garrone, un inaspettato ariete per avere una rinnovata attenzione mediatica. Venerdì alle 21.30 Marcello Fonte e i detenuti di Fort Apache saranno in scena al Teatro delle Arti di Lastra a Signa con lo spettacolo Famiglia, regia di Valentina Esposito, fondatrice della compagnia nel carcere di Rebibbia. “Indosso ancora, dopo anni - prosegue Marcello Fonte - le scarpe di un detenuto che è morto per un aneurisma durante le prove di uno spettacolo, e del quale ho preso il posto in compagnia. Mi aiuta e ci aiuta a rimanere con i piedi per terra”. Famiglia - da cui è previsto prossimamente un film per il cinema - è l’appuntamento clou della quinta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere Destini incrociati: spettacoli, conferenze, proiezioni e incontri. Da domani a sabato con un omaggio a Samuel Beckett, che ebbe un rapporto profondo con l’universo carcerario, nella prima nazionale (domani alle 21 nella Casa Circondariale di Prato) di Talking Crap di Teatro Metropopolare, regia di Livia Gionfrida. Protagonista anche la Casa Circondariale Mario Gozzini, altrimenti detta Solliccianino, con la compagnia Carpe Diem in Commedia Divina, prima di tutto non c’era niente, dall’opera di Isidor Shtok per la regia di Olga Melnik in prima nazionale. Mentre domani alle 11 il convegno “Il Teatro in Carcere: un’azione necessaria per adulti e minorenni” si svolge al Fuligno, via Faenza. “La diversità di queste esperienze-spiega Vito Minoia- è una condizione genetica con forte connotazione artistica e al tempo stesso educativa e inclusiva. Con una sensibile diminuzione della recidiva in chi fa teatro in carcere dal 65 al 6%”. Per conoscere tutto il programma: teatrocarcere.it. Acireale (Ct): un disco dai poetici “pizzini” dei giovani detenuti di Giuseppe Attardi sicilianpost.it, 12 dicembre 2018 Da un laboratorio di scrittura tenuto nel carcere minorile acese l’esordio discografico dell’Orchestra Jacarànda diretta da Puccio Castrogiovanni. Le storie di Manuel, il rapper che ha regalato un suo testo a Ghali, e di Francesco, il poeta “che l’ha combinata grossa”, prendono il volo sulle ali della piccola orchestra giovanile dell’Etna. La musica e le canzoni per sentirsi uguali ai coetanei e costruire un nuovo percorso Da un laboratorio di scrittura tenuto nel carcere minorile acese l’esordio discografico dell’Orchestra Jacarànda diretta da Puccio Castrogiovanni. Le storie di Manuel, il rapper che ha regalato un suo testo a Ghali, e di Francesco, il poeta “che l’ha combinata grossa”, prendono il volo sulle ali della piccola orchestra giovanile dell’Etna. La musica e le canzoni per sentirsi uguali ai coetanei e costruire un nuovo percorso Chissà se è proprio vero che la musica ti cambia la vita. Lo credeva […] Chissà se è proprio vero che la musica ti cambia la vita. Lo credeva il grande direttore d’orchestra Claudio Abbado. Anche Manuel crede che la vita possa offrirti una seconda chance per sentirsi uguali ai coetanei e costruire un nuovo percorso. Con la musica e le canzoni. Partendo dal carcere minorile. Questa speranza l’ha affidata a un “pizzino” consegnato a Ghali, che lo scorso 10 novembre ha fatto visita ai ragazzi dell’Istituto penale per minorenni di Acireale. Il rapper milanese, anni fa, per quindici giorni è stato ospite delle patrie galere al Beccaria. “È venuto con la mamma tunisina, prima del concerto al Palasport” racconta Girolamo Monaco, educatore del carcere acese. “È stato molto gentile, la madre ha parlato con i ragazzi maghrebini nella loro lingua, lui ha raccontato la sua esperienza ai ragazzi”. Manuel e Ghali. A Manuel piace Ghali, “anche se preferisco il rap vero, quello di Marracash”. Meglio il rap “perché il trap non dice un cazzo, mi scusi il termine” ride arrossendo. Manuel, invece, ne ha da raccontare. “A Ghali ho dato un mio testo, mi ha detto che ne terrà conto per il suo prossimo disco”. Nel frattempo si accontenta di cullare il suo sogno ascoltando la Piccola orchestra giovanile dell’Etna Jacarànda suonare “Quattru” su un testo scritto da lui. “Quattro, come gli angoli del mondo. Quattro, come le mura intorno a me. Quattro, come terra, acqua, fuoco e vento. Quattro, i pilastri della mia vita”. Quattro, come gli anni che Manuel deve scontare a causa della somma delle condanne per una serie di piccoli reati. Il ragazzo di Milazzo è un po’ la mascotte dell’Istituto. Ha 22 anni, “ma come nel caso di altri ragazzi le linee ministeriali suggeriscono di tenerli qui, piuttosto che trasferirli in un penitenziario fra gli adulti, dove molto probabilmente avremmo rischiato di non rimetterli sulla giusta strada”, spiega Monaco. Compagni di disavventura di Manuel altri diciassette ragazzi tra i 18 ed i 24 anni, tre dei quali nordafricani. Sono lì per reati contro il patrimonio, furto e rapina, spaccio, violenza, omicidio, violazione delle norme sull’immigrazione. Tutti in tuta e scarpe da ginnastica, convivono dietro le sbarre in un ambiente quasi familiare. Il carcere, diretto da Carmela Leo, è ospitato in un antico convento: sembrerebbe una residenza di lusso, se non fosse per le grate alle finestre, le porte blindate all’interno che si aprono singolarmente, gli ambienti asettici e freddi e il divieto di introdurre telefonini. Tabù anche internet. Ci sono una scuola, una discreta biblioteca, laboratori di cucina e ceramica, corsi di pittura e di scrittura, e c’è la possibilità di lavorare fuori dal carcere. “Due di loro curano la vigna di proprietà del Parco dell’Etna” sottolinea Girolamo Monaco, animatore di diversi laboratori che si sono conquistati premi: “Attività che svolgiamo tra grandi difficoltà per gli esigui finanziamenti del Ministero. Dobbiamo confidare sul volontariato”. “Spazi di umanità” definisce questi corsi di scrittura l’educatore dell’Istituto penitenziario minorile. “È un momento per potersi raccontare - spiega -. La partecipazione è libera, ma se scegli di essere presente devi esserci davvero, devi metterti in gioco. Ci siamo resi conto che la quotidianità di questa esperienza allenta le tensioni tra i ragazzi”. A uno di questi corsi, intitolato “Il peso delle parole”, ha aderito l’Orchestra Jacarànda. Un insieme di oltre una dozzina di ragazzi, in continuo movimento, diretto e coordinato dal “lautaro” Puccio Castrogiovanni per l’Associazione musicale etnea, il cui deus ex machina Biagio Guerrera vorrebbe trasformare questa esperienza in una istituzione. Canzoni su testi di detenuti. Manuel, uno spilungone dinoccolato, tutto ossa e nervi, dalla pelle abbronzata e con i capelli corti, e i brufoli che lo collocano ancora nella fase adolescenziale, ha gli occhi che brillano di festa. Anche per i suoi compagni è un giorno particolare. C’è musica sul piccolo palco di legno del carcere. L’Orchestra Jacarànda presenta il suo album di debutto, frutto di quel laboratorio al quale molti di loro hanno preso parte. “Le canzoni sono nate dai temi sviluppati dai detenuti” spiega Puccio Castrogiovanni. “Partendo da una lettera dell’alfabeto, bisognava scegliere tre parole, attorno alle quali scrivere. Sono uscite storie legate alla loro vita e alla loro condizione di detenzione. Non avendo avuto alcuna scolarizzazione, possiedono un vocabolario ristretto, dimostrando tuttavia di avere uno spiccato dono della sintesi”. L’Haiku di Francesco - Dai racconti emergono la paura, il senso di ingiustizia, la fragilità e la voglia di pagare per i propri errori per poter poi ricominciare. Quelli che all’apparenza sembrano scarabocchi, vengono rielaborati, tradotti in siciliano e trasformati in testi per essere adattati alla musica. Tutti tranne uno. La poesia di Francesco, un ragazzo di 24 anni di Adrano che dietro le sbarre ci deve restare per un altro po’. “L’ho fatta grossa”, ammette abbassando gli occhi. Nessuno dei detenuti ha voglia di parlare del passato, preferisce pensare al dopo. Ed è davvero difficile credere che dietro quel volto innocente, che neanche un accenno di barba riesce a far diventare adulto, e a quel ragazzo timido ed educato che scrive poesie si nasconda un omicida. “La rissa, l’aggressione, il diverbio che degenera possono essere quotidianità” sottolinea Monaco. Francesco conserva ancora come un tesoro il cartoncino che consegnò quel giorno a Puccio Castrogiovanni. “Sopra c’era una specie di haiku, quei componimenti antichi giapponesi che esprimono un concetto o una emozione con pochi termini” ricorda il musicista. “Una ventina di parole appena, con le quali esprimeva la confusione che aveva in testa. Scriveva del suo stare in carcere e di quello che gli mancava, ovviamente la libertà”. Sono nate così una decina di canzoni che fanno parte di un album che l’Orchestra Jacarànda ha voluto presentare in anteprima nel luogo dove è stato concepito. Una sigaretta veloce prima del concerto, poi Manuel si siede incurvato con il mento appoggiato sulla mano. Attento, ascolta quei brani cantati in siciliano, frutto di contaminazioni musicali. “Io devo dire che non lo conosco bene il dialetto” confessa. “La musica popolare, quella che fanno loro però mi piace, è intensa”, commenta. Anche se loro, i ragazzi in tuta, amano altro - Laura Pausini, Biagio Antonacci, il rap, i neomelodici, Gigi D’Alessio “che ci ha regalato una batteria” - oggi l’attenzione è tutta per la musica etnica dell’Orchestra Jacarànda. Alle voci e agli strumenti di quei loro coetanei hanno affidato il compito di fare uscire da dietro le sbarre le proprie storie, i propri sentimenti. E le speranze. L’Orchestra Jacarànda. “Quello che inizialmente doveva essere un laboratorio di musica d’insieme è diventato un’Orchestra” sorride Castrogiovanni che si è buttato anima e corpo in questo progetto. “È la mia eredità” si emoziona. “Sono tutti diventati amici tra di loro. Non s’incontrano soltanto per suonare” continua il “re del marranzano”. “Ci sono anche i miei figli”. Francesco e Sara che non ha potuto partecipare all’evento perché prossima al parto. E poi ci sono Alessandra Pirrone, Simone Ardita, Benedetta Carasi, Luca e Riccardo Conte, Giuliano Ursino, Gabriele Ricca, Andrea Mirabella e Alessandro Pizzimento, che Castrogiovanni ha forgiato a sua somiglianza. “Ma attorno all’orchestra ruotano tanti altri ragazzi, bravi musicisti che in questi giorni partecipano a stage in Spagna o in Inghilterra, come Giulio Matheson, Giuseppe Sapienza, Daniele Giustolisi e Luca Bordonaro” tiene a sottolineare il maestro. Ragazzi tra i 18 ed i 25 anni che suonano con grande professionalità e perizia, mantenendo lo spirito ludico della loro età; con grinta e leggerezza. Portando nella musica dell’Orchestra i propri gusti musicali, dall’elettronica minimalista di Thom Yorke, amato da Benedetta, alla classica, passione di Alessandro, studente modello del Bellini. Hanno cominciato con la rilettura delle canzoni di autori siciliani contemporanei, poi le prime promettenti prove di composizione, adesso il debutto discografico dal forte impegno sociale. Storie dure. Sul palco s’intrecciano vite e storie di chi sta dentro e fuori il carcere, trovando punti in comune in “Porti insirrati”. Testi asciutti, duri, malinconici, commoventi, stemperati dal suono di una zampogna, di un flauto o di un canto femminile. Quando è il turno della sua canzone, “Quattru”, Manuel si fa serio. Era stato invitato a unirsi ai Jacarànda per improvvisare un suo rap. Un po’ l’emozione, un po’ il rispetto per gli amici dell’Orchestra, non se l’è sentita. Ascolta raggomitolato nella sua tuta blu notte, senza mostrare emozione, sfuggendo ai complimenti. Lo tradiscono i suoi occhi grandi e scuri. Ridono, sprizzano gioia. La stessa felicità che non riesce a nascondere Francesco quando viene chiamato sul palco a leggere il suo “pizzino”: “A cunfusioni pigghia u so postu / Vinci, / Propriu comu successi intra a me testa / Manca a quieti intra e fora” recita. In “Talìo fòra” un detenuto racconta di aver sentito in sogno il profumo del caffè della madre: “Rapu l’occhia, e un sorriso mi rimase stampato”. “Munnu persu” arriva a tempo per smorzare l’emozione. Si balla. Musicisti sul palco, detenuti, direttrice, educatori e ospiti in platea, tutti vengono coinvolti dalla frenesia del ritmo. Nel finale, a grande richiesta, sale in cattedra il maestro Puccio Castrogiovanni, che fino a quel momento si era limitato a seguire i suoi allievi con gli occhi lucidi e con il sorriso sulle labbra. Alla chitarra coinvolge i giovani detenuti nel coro di “Malarazza”, desiderio e voglia di riscatto e rivincita che si tramanda da secoli. Poi tutti in fila dietro ai tamburi e in cerchio per ballare. Come in una sorta di rituale. Per divertirsi, fare casino, per riempire il silenzio, per scacciare incubi e paure. Manuel, eroe per un giorno, saluta tutti alla fine del concerto. Fa le prove da star. “Ci vediamo a XFactor?”. “Talent? Noo” si schermisce sorridente. Come spera l’educatore Girolamo Monaco (“vorrei altri Ghali”), Manuel sogna di tornare un giorno per raccontare la sua esperienza. Libero. Da rapper, magari. Catanzaro: al carcere di Siano una mostra e un convegno sulle leggi razziali cn24tv.it, 12 dicembre 2018 La Storia è passata dal carcere. Per non dimenticarlo ieri nella Casa Circondariale di Catanzaro sono stati organizzati, in collaborazione con l’Anpi, Associazione Nazionale Partigiani Italiani, un convegno ed un’esposizione documentaristica costituita da oltre trenta pannelli, sulle leggi razziali entrate in vigore nel 1938, ottant’anni fa, e sulla Dichiarazione universale dei diritti umani, entrata in vigore dieci anni dopo. Al tavolo dei relatori la direttrice dell’istituto Angela Paravati, il presidente dell’Anpi Mario Vallone, il magistrato di sorveglianza Laura Antonini ed il docente di diritto costituzionale Andrea Lollo. Le leggi razziali fasciste in Italia furono emanate nel 1938. Esattamente dieci anni dopo, nel 1948, dopo la Seconda guerra mondiale e lo sterminio di sei milioni di ebrei, l’Italia aderisce alla Dichiarazione universale dei diritti umani, che ne costituisce l’esatto contrario. “I riflessi che le leggi razziali ebbero nella storia d’Italia sono visibili negli archivi di molte carceri italiane, in cui furono detenuti ingiustamente non solo ebrei, ma anche oppositori politici” ha spiegato la direttrice Paravati. Il magistrato Laura Antonini si è soffermato sull’atteggiamento ostile diffuso oggi nei confronti dei migranti, pericolosamente simile a quello che negli anni Venti iniziò a diffondersi contro gli ebrei. Il costituzionalista Lollo ha affermato: “Entrambi i regimi, fascista e nazista, hanno approfittato di un momento di debolezza delle coscienze; non occorre mai perdere di vista la bussola dell’ordinamento, che è la dignità umana, anche e soprattutto in carcere. La nostra Costituzione al 4° comma dell’art.13 stabilisce, in opposizione al regime fascista, che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.” Vallone ha sottolineato che nonostante nel 2018 ricorrano l’80° anniversario dall’entrata in vigore delle leggi razziali ed il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani e dell’entrata in vigore della Costituzione, la presidenza delle comunità ebraiche italiane continua a chiedere di tenere alta l’attenzione su atti di intolleranza ancora di attualità. Grande interesse da parte dei detenuti che hanno potuto visitare la mostra allestita già dai giorni precedenti presso il teatro del carcere e durante l’incontro hanno formulato domande soprattutto sulle differenze sociali, che talvolta, in contesti particolarmente difficili, sono la premessa per la delinquenza; hanno inoltre riportato queste riflessioni sulle loro esperienze di vita detentiva, soffermandosi sull’importanza dell’attività rieducativa. La legislazione antisemita fu il contributo più negativo dato dall’Italia alla Germania di Hitler. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale e lo sterminio di due milioni di ebrei entra in vigore la Dichiarazione universale dei diritti umani, che all’articolo 1 rovescia radicalmente queste idee, affermando: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.” È il momento in cui si inizia a scrivere una nuova Storia. Viviamo in un paese libero? La riposta dello Human Freedom Index di Massimiliano Trovato wired.it, 12 dicembre 2018 “Viviamo in un paese libero”: quante volte abbiamo usato quest’espressione per rintuzzare l’ingerenza di qualche soggetto molesto che pretendeva d’insegnarci a campare o, più semplicemente, per giustificare le nostre risoluzioni più eccentriche? Si tratta di una frase fatta piuttosto innocua, ma che tende a farci dimenticare che la libertà è come la febbre: i tuoi 39 gradi non valgono i miei 37,3. La vera domanda, insomma, non è se un paese sia libero o meno, ma quanto sia libero. E un tentativo di rispondere a quest’interrogativo ci viene dalla quarta edizione dello Human Freedom Index, il rapporto annuale curato da Ian Vásquez e Tanja Porc?nik e pubblicato dall’influente think tank Cato Institute in collaborazione con il Fraser Institute e la Friedrich Naumann Foundation. In un panorama piuttosto folto di studi che mirano a misurare libertà specifiche, lo Human Freedom Index si premura di prendere a riferimento - sin dal titolo vagamente ridondante - una nozione unitaria e onnicomprensiva di libertà umana, come somma di tante libertà scomponibili sul piano analitico ma non su quello politico, se non a rischio d’indebolirle reciprocamente. Per questa ragione, gli autori hanno assemblato una griglia di 79 indicatori diversi, suddivisi in 12 aree che vanno dallo stato di diritto alla libertà religiosa, dalla libertà di movimento alla libertà di commercio e dalla libertà d’espressione alla tutela dell’identità personale, e alla luce dei quali ognuno dei 162 paesi considerati ha ricevuto una valutazione su una scala da 0 a 10. Quante linee di febbre ha, dunque, il mondo? L’anno di riferimento di questa nuova edizione è il 2016, e la risposta non benissimo, visto che il livello medio registrato si attesta a 6,89. La situazione è sostanzialmente stazionaria, con un declino di appena un centesimo di punto rispetto a quanto fatto segnare nell’edizione precedente - frutto della crescita di 63 paesi e del calo di 87 paesi - e di sei centesimi di punto sul 2008, l’anno d’inizio delle rilevazioni. La testa della classifica presenta qualche sorpresa: con Nuova Zelanda e Svizzera, sale sul podio Hong Kong; mentre completano la top ten Australia, Canada, Paesi Bassi, Danimarca, Irlanda e Regno Unito. Solo diciassettesimi, gli Stati Uniti di Donald Trump, uno che con la libertà ha tavolta un rapporto burrascoso. Agli ultimi posti, invece, i soliti sospetti: Egitto, Sudan, Libia, Iraq, Yemen, Venezuela e Siria - che chiude la graduatoria con un punteggio di appena 3,77, ultima tra le nazioni considerate dal Cato Institute. Un punto su cui gli autori della classifica insistono molto è il fatto che i paesi con maggiori libertà economiche tendano ad avere risultati più soddisfacenti anche rispetto alle libertà personali (con alcune eccezioni: Singapore, per esempio, che passa dal secondo posto nelle prime al sessantaduesimo nelle seconde). Una situazione speculare a quella dell’Italia, che si piazza al trentesimo posto nelle libertà politiche e nel cinquantaquattresimo in quelle economiche, per un trentaquattresimo posto complessivo, con un punteggio di 7,98 - in leggero calo rispetto all’8,01 dell’anno precedente. Il risultato del nostro paese lo posiziona sul lato della lista occupato dai paesi perlopiù liberi, ma gli costa anche l’ultima piazza nella classifica parziale dell’Europa occidentale. Anche a questo serve l’Index: a mettere i valori in prospettiva. In questo senso, il risultato complessivo sostanzialmente stabile non deve ingannare: dal 2008 al 2016, a livello globale, lo stato di diritto ha perso 0,41 punti; la libertà di movimento 0,54 punti; la libertà di religione, addirittura 0,65. Il che ci ricorda che, in un mondo in cui solo il 15 per cento della popolazione vive nel primo quartile dei paesi più liberi, il lavoro da fare rimane molto. “Time” sceglie i giornalisti e la battaglia per la verità contro le dittature di Vittorio Zucconi La Repubblica, 12 dicembre 2018 La rivista americana nomina come Persona dell’anno i reporter “guardiani” che sfidano i regimi, dalle Filippine all’Arabia Saudita. “Non respiro più”: in queste tre parole, le ultime pronunciate dal giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi strangolato dai sauditi nel consolato di Istanbul, c’è lo stato del giornalismo oggi nel mondo, il senso straziante del riconoscimento di “persona dell’anno” che la rivista Time ha voluto attribuire a lui, ad altri colleghi in diverse nazioni e alla professione in generale. Il giornalismo, per decenni descritto e auto-descrittosi come “Quarto Potere”, capace di far scoppiare guerre e di demolire presidenti, boccheggia, asserragliato in una fortezza sempre più piccola e sempre più minacciata. Approfittando delle difficoltà oggettive dell’informazione tradizionale, il potere politico si prende quotidianamente e impunemente la sua vendetta. Quando un presidente americano come Donald Trump arriva a definire giornali e televisioni come “nemici del popolo” e non ne soffre conseguenze, il mondo ascolta e prende esempio. Ma allo stesso tempo le parole di Trump offrono la prova paradossale, con la loro rabbiosa, volgare e violenta energia, di quanto, al contrario dei molti annunci di morte, il giornalismo oggi sia ancora rilevante. Sa colpire, e duro. La conseguenza è che i guardiani della verità, come li definisce Time con qualche enfasi, possono pagare la voglia di raccontare con la vita o con la libertà. Nella lista oltre Khashoggi, opinionista saudita che scriveva editoriali critici contro l’onnipotente principe ereditario Mohammed Bin Salman che ne avrebbe ordinato l’esecuzione, c’è Maria Ressa, capo della redazione di Rappler, un giornale filippino online che il presidente Duterte, entusiasta emulo di Trump, tormenta per le sue critiche al regime e per le rivelazioni sulle stragi ordinate da lui. Ci sono poi Wa Lone e Kyaw Soe Oo, giornalisti del Myanmar, la già Birmania, in carcere da un anno per avere raccontato la strage dei Rohingya musulmani da parte dell’esercito e del governo birmano, a maggioranza buddista. E alla lista si aggiunge un piccolo quotidiano locale americano, la Capital Gazette di Annapolis, cittadina alle porte di Washington, dove un lettore armato entrò lo scorso giugno uccidendo a colpi di arma da fuoco cinque giornalisti. Semplicemente perché “ce l’aveva” con quel giornale e i maledetti reporter. Ma se questi episodi sono l’espressione più cruenta e brutale della controffensiva del potere politico e degli esaltati che ne seguono i dettati contro l’impertinenza dell’informazione, sono l’impunità e la diffusione globale della prepotenza a creare il senso di soffocamento e di asfissia che Time nota e qualsiasi giornalista nel mondo avverte. Dai piccoli episodi, come l’espulsione dalla Casa Bianca dell’inviato di Cnn Jim Acosta, che osa fare domande scomode a Trump, all’uccisione di Khashoggi, non ci sono scotti da pagare per i nuovi bulli. Il lavoro capillare e professionale di screditamento del giornalismo professionale, definito “fake news” se è critico e bombardato da quella falsa comunicazione che si esprime in monologhi video sui Facebook in raffiche di tweet, funziona e si aggiunge agli errori, alle debolezze, ai cedimenti del giornalismo stesso, costruendo una combinazione micidiale. Se i giornalisti sono diffusori di “fake news”, “puttane”, “nemici del popolo”, “venduti” hanno ragione i tiranni e gli aspiranti tirannelli a zittirli e a restringere sempre più il loro spazio. Eliminare la fastidiosa intermediazione offerta dai “media” professionali spalanca quella prateria di propaganda che pare spontanea, ma che è meticolosamente “manipolata”, scrive Time, da spregiudicati mini Goebbels dei Social Network e dai loro algoritmi. Così, mentre il pubblico va al cinema a vedere l’epopea del Watergate narrata da Steven Spielberg, nella realtà la libertà di stampa muore nella Russia di Putin, è minacciata nel resto del mondo attraverso strani account in Rete, si restringe in Turchia, soffoca in Italia quando il governo dice di voler eliminare i pochi soldi con i quali ancora sostiene alcuni giornali politici e pubblicazioni locali, rischia di finire dietro le sbarre nelle Filippine, è inesistente in Cina. Il risultato è che “guardiani” della verità, che non è la mai la Verità assoluta, ma la risultante di varie tessere del mosaico di opinioni, interpretazioni, scelte, errori, devono soprattutto fare la guardia a se stessi e difendere un fortino via via più diroccato. La sola risposta possibile è forse quella del caporedattore della Capital Gazette, davanti ai corpi dei colleghi trucidati. E ora che farete? gli fu chiesto dopo la strage: “Pubblicheremo il nostro fottuto giornale, ecco che faremo”. Il giornalismo respira ancora. Il Papa: “i diritti umani siano al centro di tutte le politiche” di Pier Giuseppe Accornero vocetempo.it, 12 dicembre 2018 70 anni dalla Dichiarazione universale - In un messaggio alla Conferenza internazionale “I diritti umani nel mondo contemporaneo: conquiste, omissioni, negazioni” Papa Francesco si appella ai governanti perché pongano “i diritti umani al centro di tutte le politiche, incluse quelle di cooperazione allo sviluppo, anche quando ciò significa andare controcorrente”. “Ignorati i diritti dei nascituri, dei disoccupati, dei detenuti, delle vittime dell’intolleranza, della discriminazione e della violenza”. È il 70° della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, adottata a Parigi nel Palazzo de Chaillot dall’assemblea delle Nazioni Unite (58 Paesi) il 10 dicembre 1948. In un messaggio alla Conferenza internazionale “I diritti umani nel mondo contemporaneo: conquiste, omissioni, negazioni” Papa Francesco si appella ai governanti perché pongano “i diritti umani al centro di tutte le politiche, incluse quelle di cooperazione allo sviluppo, anche quando ciò significa andare controcorrente”. Tutti hanno diritto a essere felici - Ricorda che “la famiglia delle Nazioni ha riconosciuto l’eguale dignità di ogni persona umana, dalla quale derivano diritti e libertà fondamentali, universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi”. Diritti ma anche doveri, perché la “Dichiarazione” riconosce che “ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della personalità”. È necessario che la riflessione sui diritti “porti a un rinnovato impegno in favore della dignità umana, con speciale attenzione per i membri più vulnerabili della comunità”. Il Pontefice si chiede se “l’eguale dignità di tutti gli esseri umani sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza”. Persistono numerose forme di ingiustizia - Le violazioni “sono nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che sfrutta, scarta e perfino uccide l’uomo. Parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata, calpestata e i suoi diritti ignorati e violati”. Cita espressamente “i nascituri a cui è negato il diritto di venire al mondo; coloro che non hanno accesso ai mezzi indispensabili per una vita dignitosa; quanti sono esclusi da un’adeguata educazione; chi è ingiustamente privato del lavoro o costretto a lavorare come schiavo; i detenuti in condizioni disumane, che subiscono torture; le vittime di sparizioni forzate”. Coloro “che vivono in un clima dominato da sospetto e disprezzo, che sono oggetto di intolleranza, discriminazione e violenza per l’appartenenza razziale, etnica, nazionale o religiosa, le vittime dei conflitti armati mentre i mercanti di morte senza scrupoli si arricchiscono al prezzo del sangue dei fratelli e sorelle”. Le ingiustizie alimentano i conflitti - Il rapporto della Caritas Internationalis conta 378 conflitti registrati nel mondo nel 2017 con un giro d’affari di 1700 miliardi di dollari per la produzione di armi. Quando i diritti sono garantiti solo a determinati gruppi, “si verificano gravi ingiustizie, che a loro volta alimentano conflitti” all’interno delle Nazioni e nei rapporti fra esse. “Siamo tutti chiamati a contribuire al rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona, specialmente di quelle “invisibili” che hanno fame e sete, sono nudi, malati, stranieri, detenuti, che vivono ai margini della società o sono scartati”. Il Papa ricorda che per i cristiani “questa esigenza di giustizia e di solidarietà riveste un significato speciale. Il Vangelo ci invita a rivolgere lo sguardo verso i più piccoli, a muoverci a compassione, a impegnarci concretamente per alleviare le sofferenze”. L’auspicio: “Si risveglino le coscienze e nascano iniziative volte a tutelare e promuovere la dignità umana”. Francesco rilancia la “Dichiarazione universale” - Lo fece già nel discorso al corpo diplomatico l’8 gennaio 2018. Anche i rapporti fra le Nazioni, come i rapporti umani, “vanno regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà, nella libertà”. Ciò comporta “il principio che tutte le comunità politiche sono uguali per dignità di natura”, come pure il riconoscimento dei vicendevoli diritti, unitamente all’adempimento dei rispettivi doveri. Premessa fondamentale di tale atteggiamento è l’affermazione della dignità di ogni persona umana, il cui disprezzo e disconoscimento portano ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità. D’altra parte, “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” come afferma la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Per la Santa Sede parlare di diritti umani significa “riproporre la centralità della dignità della persona, in quanto voluta e creata da Dio a sua immagine e somiglianza. Il Signore Gesù, guarendo il lebbroso, ridonando la vista al cieco, intrattenendosi con il pubblicano, risparmiando la vita dell’adultera e invitando a curare il viandante ferito, ha fatto comprendere come ciascun essere umano, indipendentemente dalla sua condizione fisica, spirituale o sociale, sia meritevole di rispetto e considerazione”. Relazione fra messaggio evangelico e diritti umani - “L’uomo è un fine, non un mezzo; come tale, lungi dall’essere un oggetto o un elemento passivo della vita sociale, ne è invece e deve essere e deve rimanere il soggetto, il fondamento e il fine”. Dalla “Rerum novarum” (1891) di Leone XIII in poi la Chiesa parla sempre più spesso e con grande convinzione dei diritti umani Pio XI nell’enciclica “Brenneder Sorge” (1937) presenta la difesa dei diritti umani come un bastione che si oppone alla prepotenza dello Stato nazista; nella “Divini Redemptoris” (1937), contro il comunismo, offre i fondamenti dei diritti stessi. Pio XII nel radiomessaggio del 1942 invita il mondo a formulare una “Carta dei diritti” che emanano dalla dignità della persona e Papa Pacelli prova grande amarezza quando vede fallire i suoi sforzi perché nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” non è inserito alcun riferimento all’Assoluto. Giovanni XXIII sottolinea il valore della “Dichiarazione” e nella “Pacem in terris” (1963) formula la cosiddetta “Dichiarazione cattolica dei diritti umani”. Droghe in Europa, tra riforme e populismo di Susanna Ronconi Il Manifesto, 12 dicembre 2018 La 4° Conferenza europea sulla Riduzione del Danno (RdD) che si è tenuta a Bucarest ha messo in scena un andamento disomogeneo: a discapito delle linee guida che Strategia e Piano d’azione comunitari da un lato, e l’Osservatorio Europeo sulle Droghe (Emcdda) dall’altro, con cui la Commissione cerca di orientare i governi, le droghe restano questione esposta ai venti della politica nazionale. La voce entusiasta di Arild Knutsen, norvegese, e quella accorata di Peter Sarosi, ungherese, ben rappresentano le diverse traiettorie che le politiche sulle droghe stanno prendendo in Europa. La 4° Conferenza europea sulla Riduzione del Danno (RdD) che si è tenuta a Bucarest dal 21 al 23 novembre, promossa da Correlation - European Harm Reduction Network, ha ben messo in scena un andamento disomogeneo: a discapito delle linee guida che Strategia e Piano d’azione comunitari da un lato, e l’Osservatorio Europeo sulle Droghe (Emcdda), organismo scientifico, dall’altro, con cui la Commissione cerca di orientare i governi, le droghe restano questione esposta ai venti della politica nazionale. Nel bene e nel male. Così la Norvegia, baluardo con la Svezia dell’approccio iperproibizionista e spina nel fianco del fronte comunitario, ha annunciato a due voci - quella delle associazioni e quella governativa - il suo epocale cambiamento, verso una legge che rinuncia a sanzionare il consumo come reato penale e sviluppa le politiche di Riduzione del Danno. D’altro canto, Drug Reporter, a nome dei paesi dell’Est, ha denunciato l’approccio muscolare dei populismi autoritari (anche) sulle politiche sulle droghe, che sta chiudendo servizi, limitando diritti, penalizzando i consumatori. Sullo sfondo, una preoccupazione palpabile rispetto agli esiti delle elezioni europee 2019, il rischio che si perda quell’approccio comunitario bilanciato che, tra l’altro, potrebbe rappresentare un riferimento importante per l’appuntamento dell’Onu a Vienna nel marzo 2019. La Conferenza, comunque, ha reso evidente come la Riduzione del Danno sia diventata in molti paesi un approccio mainstreaming, anche oltre quel “4° pilastro” che l’ha consolidata come set di interventi: le esperienze che ne fanno una politica trasversale a prevenzione, trattamento e politiche sociali (per esempio per l’inclusione e l’housing) sono moltissime, così come quelle che riguardano gruppi quali sex workers, migranti, giovani. Una centralità particolare hanno avuto le metodologie che stanno dimostrando efficacia nel fronteggiare rischi e danni all’ordine del giorno: la distribuzione del naloxone e le stanze del consumo contro le overdosi, il contrasto alla diffusione dell’epatite C, l’emergenza carcere, le nuove sostanze, per cui il drug checking e la prospettiva di pratiche di autoregolazione indicano strade importanti. In filigrana, tre temi che rimandano ad altrettante necessarie campagne politiche. I finanziamenti: da un lato i tagli ai sistemi di welfare in tutta l’Unione, e la relativa debolezza che ancora connota in molti paesi la scelta a favore della Riduzione del Danno; dall’altro la crisi dell’Est, che fino a ieri si è basato su finanziamenti di agenzie internazionali che oggi si stanno ritirando, in assenza di governi che rilevino il testimone. Secondo, il ruolo cruciale delle associazioni non governative, sia sul piano dell’innovazione che su quello dell’azione politica e di advocacy e di “collante” del nesso politiche sulle droghe - diritti umani. Terzo e non ultimo, la necessità di non rinunciare al ruolo delle evidenze nel dibattito politico, anche se ai populismi in generale non importa molto. Tenere su questo punto, e promuovere un discorso pubblico razionale è un compito irrinunciabile. E su questo una novità c’è: la rete europea di Correlation ha stipulato un accordo con l’Emcdda per un dialogo costante e strutturato attorno alla ricerca e a quali studi siano necessari per dare alla politica gli strumenti giusti per intervenire in modo razionale e non muscolare. Per i materiali della Conferenza, correlation-net.org. Iran. A 30 anni dal massacro nelle prigioni responsabili impuniti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 dicembre 2018 Alireza Avaei, ora ministro della Giustizia; Hossein Ali Nayyeri, ora presidente del tribunale disciplinare dei giudici della Corte suprema; Ebrahim Raisi, candidato alla presidenza nel 2017 e procuratore generale fino al 2016; Mostafa Pour Mohammadi, ministro della Giustizia dal 2013 al 2017; Mohammad Hossein Ahmadi, ora membro dell’Assemblea degli esperti, l’organismo costituzionale che nomina o revoca la Guida suprema. Queste persone, che hanno avuto (e in due casi hanno ancora) ruoli importanti all’interno delle istituzioni dell’Iran, hanno preso parte alle “commissioni della morte”, che esattamente 30 anni fa organizzarono le esecuzioni sommarie di almeno 5000 dissidenti e prigionieri politici. Nella seconda metà del 1988, poco dopo la fine della guerra con l’Iraq e una fallita incursione armata dell’Organizzazione dei mojahedin del popolo, che in Iraq aveva le basi, le autorità iraniane applicarono una fatwa dell’allora Guida suprema, l’ayatollah Ruollah Khomeini ed eseguirono quello che da allora è conosciuto come il “massacro delle prigioni”. La maggior parte delle vittime stava scontando lunghe condanne inflitte per aver espresso dissenso, aver preso parte a manifestazioni contro il governo o per la reale o presunta militanza in movimenti di opposizione, soprattutto mujahedin ma anche curdi e di sinistra. In alcuni casi la condanna era stata completata ma i prigionieri erano rimasti in carcere per aver rifiutato di sottoscrivere una dichiarazione di “pentimento”. Non appena circolarono le prime voci, le famiglie iniziarono a cercare nei pressi dei cimiteri segni di scavi recenti, le fosse comuni in cui avrebbero potuto essere stati sepolti i loro cari. Ma dal 2003 - e negli ultimi anni con sempre maggiore insistenza - le autorità iraniane stanno cercando di cancellare ogni traccia delle fosse comuni, che secondo l’organizzazione Giustizia per l’Iran sarebbero oltre 120, sparse in tutto l’Iran. Naturalmente nessuno è stato mai chiamato a rispondere di quel massacro, ufficialmente liquidato come “uccisione di pochi terroristi”. Ovvio, dato che alcuni dei responsabili hanno avuto per decenni o continuano ad avere ruoli influenti. L’ex ministro della giustizia Mostafa Pour Mohammadi, all’epoca rappresentante del ministero dell’Intelligence nella “commissione della morte” di Teheran, continua a rivendicare la legittimità del massacro. Nel 2016 ha dichiarato: “Siamo fieri di aver eseguito il comandamento di Dio. In tutti questi anni non ho mai perso un minuto di sonno”.