Circolare Dap. Le “traduzioni” dei detenuti costano troppo, udienze in videoconferenza di Gennaro Scala Cronache di Napoli, 11 dicembre 2018 I trasferimenti per “motivi di giustizia” sono dispendiosi e rischiosi per il personale. Circolare del capo del Dap Francesco Basentini ai direttori dei penitenziari. “Il documento ha lo scopo di puntare e di individuare quei possibili cambiamenti da realizzarsi mediante - pur importanti - modifiche organizzative o strutturali, che comunque non richiedano l’impiego di poderose risorse economiche e che sono attuabili grazie anche ad un nuovo approccio che coinvolga indistintamente tutto il personale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria”. È quanto si legge nella Circolare che il capo del Dap Francesco Basentini ha diffuso ai direttori dei penitenziari e agli altri organismi che afferiscono all’universo carcerario. Emergono dei dettagli importanti dal documento in questione. In un’era politica che marcia verso i tagli e un’austerity di ritorno, spiccano i venti milioni di euro spesi solo nel 2018. Si chiamano tecnicamente “traduzioni”. A partire dal 2016 “l’incidenza ed il numero delle traduzioni dei detenuti per le udienze di convalida è andato irrimediabilmente aumentando”, riferisce il Dap. Si è passati dai 14.667 detenuti “tradotti per convalida” su un totale di 157.891 soggetti “tradotti per motivi di giustizia” nel 2015, ai 15.963 su 158.045, pari al 10%, per un costo di circa 9.000.000 nel 2016. Ma i costi vivi sono aumentati in maniera esponenziale. Nel 2017 “i soggetti tradotti per convalida sono saliti a 17.218 su un totale di 162.685 per motivi di giustizia, pari all’11%, per un costo di oltre 9.500.000 milioni di euro”. Nel 2018, da genuino a settembre, ben 25.251 sono i soggetti tradotti per convalida su 121.982 tradotti per motivi di giustizia, dunque pari al 21% del totale, per un costo presunto di oltre 14.000.000 milioni di euro. “La previsione per fine anno è che il costo sarà di oltre 20.000.000 milioni e circa 30.000 saranno i detenuti tradotti per motivi di convalida. Si tratta di cifre decisamente consistenti, non solo per l’impiego di risorse ma soprattutto per la sicurezza del personale che vi opera”. Sì, perché sono numerosi gli eventi critici che si verificano nel corso delle cosiddette “traduzioni”. Il fenomeno, meglio noto come “tornelli” o “porte girevoli”, è determinato “dall’assenza o dall’impossibilità di utilizzo delle Camere di sicurezza nonché dalla (in qualche caso) consuetudinaria celebrazione delle udienze di convalida presso le aule di giustizia dei Tribunali, ove appunto i detenuti vengono tradotti, invece che presso le aule site all’interno degli Istituti penitenziari”. Per ovviare al fenomeno lo stesso Dipartimento del Ministero della Giustizia propone una soluzione. “Potrebbe risultare utile (oltre che un più ragionevole impiego dei domiciliari) ricorrere al sistema delle videoconferenze e delia partecipazione a distanza nelle udienze di convalida anche per i detenuti arrestati”. Il risparmio di uomini e risorse economiche sarebbe considerevole e in questo modo “si potrebbero ottenere le risorse finanziarie per assumere più personale di polizia penitenziaria, da impiegare come ufficiale di polizia giudiziaria che assiste “a distanza” alle udienze”. Per quanto riguarda l’organizzazione interna il Dap si orienta in maniera netta: “Va assolutamente abbandonato qualsiasi approccio di tipo esclusivamente centralistico: l’azione degli organi centrali e dì quelli periferici deve risultare sempre coordinata e simultanea. A tale scopo, il Capo del Dipartimento ha creato alcune unità organizzative della Segreteria Particolare, dotate al loro interno di personale e di posizioni organizzative con funzioni di interfaccia operativo con tutti gli ambiti - anche territoriali - dell’Amministrazione penitenziaria. Ciò nondimeno, anche gli altri organismi locali devono essere partecipi e protagonisti dei cambiamento: il Dipartimento nutre molte aspettative sui contributo che ciascun Provveditore, Direttore e Comandante può dare alla pianificazione e alla gestione quotidiana, sia nei rapporti con il Dipartimento che, soprattutto, nell’attività degli uffici di cui si è al vertice. Si ritiene necessario evitare l’attuale parcellizzazione dei moduli gestionali, non apparendo funzionale all’esigenze dell’Amministrazione il mantenimento di tutti - e sovente opposti - i criteri organizzativi, adottati dai direttori degli istituti penitenziari”. Infine il capitolo sicurezza: “È assolutamente utile l’istituzione di gruppi di intervento operativo, dotati di equipaggiamento idoneo ad affrontare ogni possibile evento critico “addestrati per l’utilizzo di tecniche operative che tutelino la propria incolumità e quella dei detenuti. “Anche in tale direzione dovrà lavorare il gruppo di lavoro, istituito il 17 settembre 2018. Altro importante ambito su cui occorre lavorare è quello relativo agli stimoli motivazionali e alla mobilità del personale”. Circolare Dap. Rems inadeguate, ex internati degli Opg spesso ospitati nei penitenziari di Gennaro Scala Cronache di Napoli, 11 dicembre 2018 Per il Dap la gestione dei detenuti merita “una più adeguala ed attenta programmazione amministrativa, con particolare riferimento all’attività trattamentale”. Per il Dipartimento c’è la necessità di un modello o di un protocollo di riferimento, da utilizzare come guida o come linea programmatica, che sia “fruibile dalle strutture territoriali”. Perché mancando un riferimento, si assiste ad una “variegata e poliedrica realtà penitenziaria, dove proliferano le più differenziate forme di autogestione. Tale condizione non appare assecondabile e deve essere sostanzialmente modificata nel più breve tempo possibile”. A tale obiettivo dovrà dedicarsi la Direzione Generale dei Detenuti e Trattamento, in linea con i criteri che saranno suggeriti dal capo e dal vice capo del Dipartimento: sarà necessaria “l’istituzione di specifici tavoli di lavoro che creino protocolli unici di gestione dei detenuti e delle loro esigenze trattamentali, diversificabili in base al circuito di appartenenza”. Il quadro di partenza è problematico. In primis a causa del “tendenziale sovraffollamento, del bisogno di un disegno progettuale di gestione e di trattamento dei detenuti, nella complessa attività di osservazione scientifica della personalità e del trattamento dei condannati e nella necessità di una vera opera di risocializzazione e di prevenzione speciale post poenam”. A ciò si deve aggiungere l’inadeguata attivazione delle cosiddette Rems, che hanno sostituito gli Opg, ovvero gli ospedali psichiatrici giudiziari. “La loro numerica insufficienza e l’incompiuta distribuzione ha prodotto come conseguenza una quantità importante di detenuti, inseriti nel circuito penitenziario per la gestione dei problemi psichici-psichiatrici”. Il passaggio dagli Opg alle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle misure di sicurezza detentive) ha prodotto una serie dì criticità, non tutte risolte o risolvibili: le Rems in funzione accolgono un numero limitato e definito (venti internati al massimo) di soggetti reclusi, lasciando una cospicua quantità di soggetti, che avrebbero diritto al trattamento in queste strutture nei vari istituti di pena: di conseguenza si sono dovute attrezzare (senza sempre riuscirci) articolazioni psichiatriche all’interno del carcere, con le difficoltà che si possono avere nel gestire questo tipo di pazienti. Simulatori d’impresa negli istituti di pena: strumenti per l’inclusione sociale di Eleonora Maglia welforum.it, 11 dicembre 2018 “Banda Biscotti, fatti di un’altra pasta” è un laboratorio dolciario, avviato in Piemonte dalla Cooperativa sociale Divieto di Sosta, e ha la particolarità di realizzare prodotti di pasticceria interamente all’interno delle carceri di Verbania e di Saluzzo, grazie al lavoro degli ospiti delle due strutture detentive. L’iniziativa coinvolge persone in situazioni di marginalità e svantaggio, ma altamente motivate, cui vengono offerti l’opportunità e gli spazi dove esprimere e valorizzare il proprio potenziale. In questo modo, facendo leva sull’impegno, sulla determinazione e sulla dedizione per realizzare il proprio riscatto e la propria realizzazione personale, i detenuti sono resi protagonisti attivi di un percorso volto al reinserimento sociale a fine pena. Questo progetto si fonda sull’esperienza d’intervento in contesti penali maturata in oltre 30 anni dalla Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri Onlus, nonché sulla collaborazione territoriale tra le Direzioni degli istituti penali e gli Enti locali. È inoltre il felice risultato della prima sperimentazione di Simulatori di impresa avviata tra il 2009 e il 2013, per saggiare la possibilità di passare dalle attività di formazione professionale classiche a reali forme di attività di natura lavorativa, economicamente sostenibili e socialmente rilevanti (Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, 2018). Il Simulatore di impresa è sostanzialmente un incubatore, dove, dopo aver trasmesso expertise specifiche con un corso di formazione professionale, si coinvolgono gli ex-allievi nella produzione e nella commercializzazione di un bene, secondo le fasi indicate nella successiva tabella. Dal punto di vista economico, l’avvio dell’attività viene sostenuto all’inizio con finanziamenti specifici, poi tramite l’autonomia finanziaria ed organizzativa dell’incubatore stesso, che diviene, così, una vera e propria impresa. La fase di commercializzazione avviene tramite un ente strumentale, creato ad hoc per consentire lo sviluppo e la realizzazione di attività accessorie (nel caso di “Banda Biscotti”, tramite la cooperativa sociale Divieto di Sosta citata). La sperimentazione dei Simulatori di impresa di Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri (che, oltre al laboratorio dolciario “Banda Biscotti, fatti di un’altra pasta”, ha concorso a realizzare l’attività di produzione di complementi di arredo “Ferro & Fuoco Jail Design”), nel biennio successivo all’avvio (2014-2016), è evoluta in un’iniziativa di coinvolgimento del territorio circostante (“Progetto Libero”) e, grazie al finanziamento di Compagnia di San Paolo e alla partnership dell’Amministrazione Comunale e delle Associazioni locale, 24 detenuti in misura alternativa hanno partecipato operativamente anche alla commercializzazione dei prodotti, in una struttura esterna, comunale e destinata alle attività culturali. I progetti di economia carceraria: Il panorama italiano L’iniziativa descritta non è un unicum nel panorama nazionale dove, oltre a “Banda Biscotti, fatti di un’altra pasta”, sono attivi progetti di stamperia, come “Extra Liberi” a Torino; sartoriali, come “Sartoria San Vittore” a Milano; agricoli, come “Vale la Pena” a Roma (Raitano, 2011). Per garantire visibilità agli esperimenti di economia carceraria e agevolare gli acquisti degli articoli artigianali, delle creazioni e dei prodotti agricoli realizzati dai detenuti, all’interno del portale del Ministero della Giustizia è stata creata la “Vetrina dei prodotti dal carcere”, con opzioni di query per prodotto e per istituto penitenziario che ha avviato l’impresa. Inoltre, nel 2018, è stato realizzato il Festival dell’Economia Carceraria, per promuovere l’inclusione e l’aggregazione tra attività intra ed extra murarie, grazie al racconto diretto di storie e vissuti che ne consentano una conoscenza diretta e suggeriscano una riflessione personale e sociale. In più, per riunire queste e tutte le altre eccellenze dell’economia carceraria italiana e facilitarne la fruizione, è stato anche realizzato a Torino, “Freed-Home Creativi Dentro”, un concept store dedicato, ubicato in uno spazio di proprietà del Comune e sostenuto da Compagnia San Paolo, in cui convergono le produzioni di 45 istituti di pena e che dà offre una localizzazione stabile dopo le esperienze dei temporary store realizzate in occasione di fiere dedicate al consumo critico o delle principali festività. Si tratta di un interessante risultato, ottenuto in logica collaborativa multi-stakeholder da una rete di istituzioni, cooperative, professionisti, manager, agenti di polizia penitenziaria, detenuti e volontari, che attesta anche come percorsi opposti e contrari possono incontrarsi e convergere felicemente. Qui, si trovano i prodotti di “Fine Pane Mai”, il panificio della Casa circondariale di Rebibbia e di “Sprigioniamo Sapori”, il laboratorio dolciario della Casa circondariale di Ragusa, e molti altri articoli, ottime idee per regali natalizi etici e di alta fattura. L’obiettivo di questo pionieristico progetto è fornire un modello che sia esportabile in altre città per realizzare una rete nazionale, secondo il coordinatore Gian Luca Boggia, infatti, l’auspicio è che “Freed-Home Creativi Dentro” non sia solo uno spazio per commercializzare prodotti, ma un luogo attivo dove sviluppare idee, oggetti e servizi partendo dal lavoro in carcere come possibilità di creare un ponte con il futuro per chi è attualmente recluso (Vespa, 2016). Motivi e modalità per sostenere l’economia carceraria Tutte le iniziative citate corroborano le rilevazioni empiriche per le quali, per un verso, punizioni più severe non implicano una sensibilità maggiore alla minaccia di una sanzione futura ma, piuttosto, la reazione opposta e, per un altro verso, l’esperienza della punizione tende a neutralizzare la risposta comportamentale alla deterrenza generale (Drago et al., 2007), inoltre dimostrano la forza riabilitativa del lavoro come strumento di dignità. Scorrendo tra i progetti più recentemente mappati poi, si riscontra anche un’attenzione particolare ad aspetti solidali e rigenerativi (Iannone, 2018). Conoscere l’esistenza e gli effetti positivi dei progetti di economia carceraria è particolarmente opportuno posto che, culturalmente, permane una certa convinzione diffusa secondo cui la detenzione è l’unica e la sola possibilità, anche se ciò aumenta il rischio di recidiva, quando, invece, le misure alternative migliorano la possibilità di reinserimento, soprattutto ove si riesca ad attivare reti sociali (Saracino, 2018). L’attività lavorativa svolta in carcere, infatti, previene l’esasperazione di equilibri mentali e relazionali e contrasta la restrizione delle capacità fisiche, inoltre la scansione tra momenti di lavoro e di riposo, avvicinando il mondo dei liberi a quello dei reclusi, normalizza (Lunghi, 2012). La necessità di interventi per migliorare la qualità della vita negli istituti di pena è evidenziata dai dati sul sovrappopolamento carcerario - giudicato sistemico e strutturale (Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, 2013) - e sulla diffusione di forme di protesta. Secondo le rilevazioni Istat, risultano detenute 62.536 persone, quando la capienza regolamentare è pari invece a 47.709 posti; si registrano 7.851 casi all’anno di rifiuto ad alimentarsi e 6.902 episodi annui di atti di autolesionismo, che sfociano in suicidio in 1.067 casi (Istat, 2015). All’interno di queste dinamiche, l’Amministrazione penitenziaria si attiva fattivamente affinché tutte le persone detenute possano acquisire adeguata professionalità, capacità e competenze specifiche per inserirsi nel mercato del lavoro, da un lato, assegnando fondi assegnati crescenti (49.664.207 euro nel 2013 e 60.381.793 euro nel 2015) e, da un altro lato, stipulando intese ed accordi con le associazioni cooperative (Senato, 2015). Inoltre, vi sono interventi normativi agevolativi (come la legge n. 193 del 2000, nota come Smuraglia), che prevedono sgravi contributivi e fiscali per le imprese e le cooperative che assumono detenuti. Così, grazie a questo orientamento, 12.345 detenuti lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria stessa e 2.225 presso soggetti terzi, come imprese private o cooperative, (Santagata, 2016), con effetti positivi sull’acquisizione di professionalità spendibili sul mercato del lavoro al termine dell’esecuzione della pena (Istat, op. cit.). Oltre agli interventi statali citati, per sostenere i progetti di lavoro nei carceri affinché il carcere non sia meramente un luogo di espiazione della pena, ma effettivamente il luogo dove si riacquista dignità e nuove competenze per una seconda chance (Magliaro, 2015), anche i singoli consumatori hanno un potere di intervento, infatti, chi compra questi prodotti sa che aiuterà a realizzare un lavoro dignitoso, capace di alleviare uno stato di disagio, ridando fiducia e speranza per il futuro, in una parola, a riscattarsi. Sondaggio. Un italiano su due è favorevole a estendere la legittima difesa di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 11 dicembre 2018 E il 49% si aspetta che il decreto Sicurezza sarà positivo per gestire l’immigrazione. La sicurezza rappresenta un tema molto sensibile nel nostro Paese, spesso al centro di polemiche per il divario tra la sicurezza percepita dai cittadini e il reale andamento del numero dei reati. Fatto sta che oggi un italiano su quattro cita spontaneamente la sicurezza quale priorità su cui il governo dovrebbe intervenire. Non stupisce quindi che il dibattito che ha accompagnato l’approvazione definitiva del decreto Sicurezza abbia riscosso un’elevata attenzione da parte dell’opinione pubblica, dato che il 37% ne ha approfondito i contenuti e i relativi commenti e il 48% ne ha almeno sentito parlare. I pronostici sull’efficacia dei provvedimenti previsti dal decreto sono improntati all’ottimismo (circa la metà degli italiani), anche se non mancano perplessità riguardo ai risultati che si potranno ottenere (un terzo è dubbioso). In particolare, il 49% si aspetta risultati positivi in termini di gestione dell’immigrazione, mentre il 34% è di parere opposto, e il 47% è convinto che il decreto migliorerà l’ordine pubblico e il contrasto dei fenomeni criminosi, mentre il 36% non pare fiducioso in proposito. Le attese positive prevalgono nettamente tra gli elettori della maggioranza, ma anche tra quelli del centrodestra non governativo, nonché in misura più contenuta tra indecisi e astensionisti, e fanno pure breccia nel centrosinistra, sia pure minoritariamente (tra il 16% e il 18%). A esprimere più fiducia sull’efficacia dei provvedimenti sono le persone più anziane, quelle meno istruite, gli operai e i lavoratori esecutivi, artigiani e commercianti, e coloro che risiedono nei comuni di piccole o medie dimensioni. Insomma, i ceti più popolari, tradizionalmente più esposti agli allarmi sociali. Fin dalla sua presentazione il decreto ha suscitato posizioni distanti. Abbiamo quindi voluto conoscere le opinioni degli italiani sugli aspetti giuridici e le implicazioni culturali e sociali. Riguardo ai primi, molti giuristi ed esperti di immigrazione ritengono che il decreto Sicurezza possa presentare profili di incostituzionalità in alcune parti e che la sua applicazione avrà effetti controproducenti perché farà aumentare il numero di stranieri che si trovano in situazioni di irregolarità nel nostro Paese. Su questo le opinioni si dividono: il 40% concorda e il 37% dissente, mentre quasi uno su quattro non è in grado di esprimersi. Abbiamo quindi approfondito un aspetto delicato, posto al centro dell’attenzione dall’ex segretario della Cei Nunzio Galantino, che dichiarò che inserire il tema dell’immigrazione in un decreto sulla sicurezza è “un brutto segnale, perché non possiamo considerare la condizione degli immigrati come una condizione di delinquenza”. Quasi un italiano su due (49%) dissente da Galantino, il 37% concorda con lui. È interessante che tra i credenti che partecipano alla messa tutte le domeniche, come tra quanti hanno una frequenza più saltuaria, le opinioni si dividono nettamente: tra i primi il consenso prevale 45% a 42%, tra i secondi 41% a 40%. Da ultimo il sondaggio ha affrontato la legge sulla legittima difesa. Un italiano su due (51%, con punte più elevate tra i ceti più popolari) è convinto che sia indispensabile cambiare le norme attuali e legittimare sempre e comunque il diritto alla difesa personale; il 19% ritiene che le norme attuali siano equilibrate (perché prevedono un criterio di proporzionalità tra la difesa e l’offesa subita) e non vadano modificate, mentre il 16% si mostra preoccupato ed è del parere che si debba evitare di legittimare sempre e comunque la difesa personale con il rischio di cadere in una sorta di Far West. Il fatto che la proposta di ampliare i diritti alla legittima di difesa venga avanzata dal ministro degli Interni, che è preposto alla tutela della sicurezza dei cittadini, potrebbe essere considerata una dimostrazione di impotenza da parte dello Stato, una sorta di resa. Ma forse è una riflessione troppo sofisticata che collide con la tendenza alla semplificazione che di questi tempi si è affermata nel Paese, insieme alla incessante ricerca del consenso. “Stralciare la prescrizione dall’Anti corruzione” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 11 dicembre 2018 La proposta che può vedere insieme magistrati e avvocati metterebbe in difficoltà il governo (soprattutto la Lega). Ma per il dibattito interno all’Anm rischia di essere formalizzata tardi: in settimana conclusa la seconda lettura della legge al Senato. Sulla prescrizione magistrati e avvocati sono vicini a una proposta condivisa che la maggioranza di governo avrebbe difficoltà a rifiutare. Ma la richiesta rischia di essere formalizzata troppo tardi. Da domani e fino a venerdì l’aula del senato discuterà la legge anti corruzione, al cui interno è prevista la norma sulla fine della prescrizione dopo la sentenza di primo grado che tante critiche ha ricevuto dal mondo giuridico. Gli avvocati penalisti la respingono del tutto, giudicandola contraria alla Costituzione (ragionevole durata del processo) e controproducente (può lasciare le vittime senza giustizia), i magistrati la condividono ma solo all’interno di una riforma del processo penale in grado di diminuire i tempi della giustizia. Ed ecco allora che l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte (magistrato della corrente di sinistra Area) ha proposto ieri - non per la prima volta - di stralciare la norma sulla prescrizione dalla legge anti corruzione per portarla nella sede “naturale” della riforma del processo. La proposta è stata immediatamente accolta dall’Unione delle camere penali: “Formidabile” ha detto il presidente Giandomenico Caiazza. E anche il presidente dell’Anm Francesco Minisci (esponente della corrente centrista Unicost) ha mostrato disponibilità: “Siamo pronti a ogni soluzione perché siamo convinti che da sola la riforma della prescrizione non serva. Valuteremo la proposta al prossimo comitato direttivo dell’Anm”. In calendario sabato 15 dicembre. A quel punto il senato avrà già chiuso la seconda lettura del testo, necessaria dopo che alla camera nel voto segreto era stato approvato un emendamento che depenalizza il peculato, non sgradito alla Lega ma rifiutato dai 5 Stelle. I grillini vogliono approvare definitivamente la legge entro natale, per questo hanno prenotato l’ultima settimana di lavori della camera (che pure dovrebbe occuparsi di nuovo della legge di bilancio). Hanno già organizzato per il 22 dicembre una giornata di mobilitazione nelle piazze con i volantini sulla legge che chiamano “spazza corrotti”. Il sì dei magistrati alla proposta dello stralcio appare in linea con le posizioni fin qui assunte. Eppure Minisci non si è potuto sbilanciare perché guida una giunta già sufficientemente divisa. Il caso Spataro, che non è stato difeso dall’attacco di Salvini da nessuna delle correnti della magistratura con l’eccezione della corrente di sinistra Area, sarà al centro del prossimo comitato direttivo. E la terza corrente rappresentata in giunta, la destra di Magistratura indipendente, ha già dimostrato di non voler creare ostacoli alla maggioranza Lega-5Stelle. Ucpi e Anm hanno già l’idea per Bonafede: si deve depenalizzare di Errico Novi Il Dubbio, 11 dicembre 2018 Il confronto tecnico chiesto innanzitutto dall’avvocatura, accolto con favore dalle toghe e subito istruito dal ministro Bonafede ha di fatto già prodotto la sua sintesi. Il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza e il numero uno dell’Associazione magistrati Francesco Minisci sono d’accordissimo sulla necessità di ricorrere a tre o quattro interventi prima che entri in vigore lo stop alla prescrizione: “Ampliare i riti alternativi”, rafforzare “i poteri del giudice dell’udienza preliminare”, ovviamente “incrementare le risorse perché altrimenti”, parole testuali di Minisci, “è chiaro che per passare dal primo al secondo grado ci vogliono almeno 6 mesi ed ecco dov’è il primo vero tempo morto” e soprattutto “depenalizzare”. Non c’è bisogno di attribuire le singole proposte a una delle due parti, Anm o Ucpi. Le hanno invocate praticamente in coro. Anzi si potrebbe dire che da ieri il guardasigilli ha una nucleo assai consistente di quelle risposte sulla delega al processo penale che attendeva dai due soggetti della giurisdizione. Il punto è: la politica ascolterà i suggerimenti? “Depenalizzare!” non suona proprio come uno di quegli slogan che la maggioranza gialloverde rilancerebbe senza esitazioni. E poi c’è da fare i conti con un timore appena appena malizioso eppure sorretto dai crismi della verosimiglianza: è quello avanzato da un altro autorevole relatore intervenuto al dibattito di ieri, il predecessore di Minisci, Eugenio Albamonte, tuttora componente del direttivo Anm e figura di primo piano di Area, la corrente delle toghe progressiste: “Non vorrei che la norma sulla prescrizione rispondesse a una logica deresponsabilizzante, comoda dal punto di vista della politica”. Silenzio. “Mi spiego: se da qui a quando la norma sarà in vigore, e poi nei mesi successivi, si rivelerà l’inefficacia dello stop alla prescrizione rispetto alla durata dei processi e al sovraccarico della macchina, la politica potrebbe dire ‘ guardate, noi abbiamo fatto il massimo, abbiamo eliminato il rischio che i processi si prescrivano: se ancora le cose non vanno, la colpa non è nostra ma di magistrati, avvocati, cancellieri. Ecco”, scandisce Albamonte alla fine del suo intervento, “questo noi non lo dobbiamo permettere”. Applausi convinti da tutti. Dagli altri relatori e dai numerosissimi spettatori all’”Aula B” del Tribunale di Roma, dove appunto la Camera penale presieduta dall’avvocato Cesare Placanica ha riunito alcuni fra i protagonisti del dibattito: oltre a Minisci, Caiazza e Albamonte, un altro leader dell’associazionismo togato, ossia il segretario di Magistratura indipendente Antonello Racanelli, il responsabile del Centro studi della Camera penale capitolina Luca Marafioti e un altro suo componente, Riccardo Olivo, che porta un contributo esperienziale meno legato alla politica forense tout court e più al vissuto delle udienze. Ebbene, a quel sospetto di Albamonte applaudono tutti, come detto. Così come consensi suscita un’altra idea dell’ex presidente Anm: “Chiediamo al Parlamento di scorporare la norma sulla prescrizione dal ddl Anticorruzione e trasferirla a pieno titolo sul tavolo della riforma: si tratta di un tema di diritto sostanziale”. Sarebbero tutti d’accordo, tanto è vero che questo è anche un appello contenuto nella lettera aperta inviata proprio ieri da Caiazza a tutti i senatori affinché riflettano sul fatto che “non un solo giurista italiano - dico: non uno solo - ha ritenuto di esprimere sostegno ad una riforma quale quella che vi apprestate ad approvare”. Due invocazioni probabilmente destinate a cadere nel vuoto. Così come non sarà facile arrivare a una depenalizzazione e a soluzioni analoghe a quelle sulle quali ieri si è registrata la maggiore convergenza, come l’estensione dei riti alternativi, già ampiamente sconfessata dalla eliminazione dell’abbreviato per i reati da ergastolo. E il rischio davvero è che l’incudine delle responsabilità scivoli via dalla politica e vada a cadere proprio sulla testa di giudici, pm e avvocati, come detto da Albamonte. Del valore di un incontro come quello di ieri si può dire meglio se si cita l’intervento finale del presidente Minisci: “Vi siete stupiti di ascoltare da parte nostra un sì tanto convinto alla depenalizzazione? Bene, allora ve lo diciamo chiaro e tondo: siamo assolutamente d’accordo. E mentre prima ne parlavo, tra lo stupore di alcuni degli avvocati venuti qui ad ascoltarci, ho notato che Eugenio (Albamonte, ndr) annuiva da una parte e Antonello (Racanelli, ndr) annuiva dall’altra. Sono cioè d’accordo tutte le componenti della giunta Anm che oggi rappresento”. Verissimo: Albamonte è di Area, Racanelli guida MI, Minisci è di Unicost. Resterebbe Autonomia & Indipendenza, il gruppo di Davigo, che non a caso non fa parte della giunta. “E non sorprendetevi per il sì degli avvocati alla depenalizzazione”, chiosa Caiazza, “noi abbiamo sempre messo i diritti dei cittadini prima dell’interesse professionale”. Altri passaggi di notevole rilievo: il pro memoria di Minisci sui “1860 candidati tutto inclusi nella graduatoria del concorso per assistente giudiziario e non ancora assunti: basterebbe ricorrere a loro per evitare che “quota 100” faccia allargare addirittura il vuoto nell’organico dei cancellieri”. Il presidente dell’Anm si sofferma anche “sulla necessità di smetterla con la storia dei difensori che ricorrerebbero ai cavilli e sarebbero dunque responsabili della lunghezza dei processi: gli avvocati applicano la legge, esattamente come i magistrati, e le leggi vengono approvate dal Parlamento”. Significativo anche il sì di Racanelli “alla costituzionalizzazione dell’avvocato, proposta dal Cnf: vorrei solo che qualcuno non la snaturasse e ne facesse il grimaldello per la separazione delle carriere”. Quando alla fine tira una riga sulle proposte condivise Caiazza ricorda che “se decidessimo di proporre queste soluzioni comuni, saremmo davvero forti”. È la tesi del presidente del Cnf, Andrea Mascherin: magistrati e avvocati, se si uniscono, sono una forza non contrastabile. Forse potrebbe esserne sorpresa la politica, di questa convergenza. Al punto da restarne spiazzata. Quando boss e notabili tengono sotto tiro i cronisti di Lucio Luca La Repubblica, 11 dicembre 2018 Stipendi da fame, padroni-redazione, sindacati che si guardano bene dal disturbare i manovratori. E minacce. Una quantità di minacce senza precedenti. Ben 34 giornalisti sotto assedio ogni mille iscritti all’ordine contro i 6 del Piemonte e gli 8 della Lombardia e i 12 del Lazio. La leggevo l’altro giorno questa statistica, dopo che anche a me è arrivata in redazione una busta con un “consiglio”: “Finiscila a Cassano se no ti facciamo saltare la testa”. Lì per lì l’ho presa a ridere, poi le facce preoccupate dei miei colleghi mi hanno fatto capire che pure io ero entrato in lista. Che la mia vita sarebbe cambiata, e pure quella della mia famiglia. Perché, diciamolo francamente, vivere sotto scorta è una rottura di palle infinita. Semplicemente, non sei più libero. E per chi ha fatto della libertà l’unica sua fede è un dramma. Senza chiacchiere. Cassano è un piccolo centro dalle mie parti. Me ne sono occupato soltanto una volta per la storia del presidente della Provincia, uno di centrosinistra, teoricamente amico nostro, che aveva nominato come suo consulente un ex consigliere di centrodestra, teoricamente non un amico suo (e nostro), con precedenti per voto di scambio politico mafioso. Non proprio una vicenda edificante, direi. Ne ho scritto quando per quell’ex consigliere è arrivato il rinvio a giudizio e per il presidente della Provincia la questione stava diventando parecchio imbarazzante. E niente, evidentemente a qualcuno deve aver dato fastidio un giornalista che dà le notizie. E che, magari, chiede conto e ragione a un politico delle sue scelte. No, in Calabria questo non si può fare. Non si deve fare. Altrimenti ti arriva la lettera anonima, ti bruciano la macchina, ti mettono la testa di capretto davanti casa e devi sperare che non vada ancora peggio. In quel rapporto dicono che qui ci sono 89 giornalisti minacciati a vario titolo, il 2,8% del dato nazionale, su un totale di ben 1.276 persone. Peggio di noi solo la Basilicata, ma ci piazziamo nettamente davanti a Sicilia e Campania. Che vi devo dire, sono soddisfazioni... Ma siccome noi di Cosenza non ci accontentiamo, scopro pure che siamo in testa alla classifica regionale assieme a Reggio: 7 episodi su 10 arrivano proprio da queste due province, il 37,1% da Cosenza con 33 cronisti minacciati e il 35,5% da Reggio con 32 colleghi nel mirino. Numeri che si aggiornano continuamente, probabilmente fra qualche mese o fra qualche anno saranno molti di più. Perché qui i criminali, i politici, gli imprenditori collusi, i massoni, quelli che comandano nelle città e che certo non si fanno intimorire da consigli comunali sciolti per mafia e inchieste giudiziarie, non tollerano le voci di dissenso. I giornali devono stare allineati e coperti. E di solito si adeguano. Magari ogni tanto ne nasce qualcuno come “Calabria Ora” che scardina certi equilibri non scritti. Poco male, saltano i direttori e cambia la linea. O chiude direttamente il giornale, che per i potenti è pure meglio. Di colleghi minacciati e sotto scorta ne conosco tantissimi: Michele, che a Cinquefrondi racconta le infiltrazioni dei clan negli appalti del Comune e vive 24 ore al giorno con i carabinieri sotto casa; Angela che in quel paese ha fatto un’inchiesta sui rifiuti e una notte si è svegliata con il boato di una bomba che gli aveva disintegrato l’auto; Antonio, l’ex professore di liceo che per il suo giornale si è occupato dei desaparecidos tra il Vibonese e il Lamertino, 43 casi di lupara bianca in 26 anni, quasi sempre giovani e in carriera nelle ‘ndrine; Peppe, il corrispondente del grande giornale di Roma, che per i suoi reportage ha ricevuto una busta con tre pallottole e una scritta: “Andare oltre significa la morte”. E ancora, Antonino, il blogger di Reggio Calabria, Agostino, il fotografo che è stato persino sequestrato per qualche ora solo perché era andato a documentare l’omaggio dei paesani a un boss ucciso con i manifesti affissi sui muri di Papanice, vicino a Crotone. Un elenco interminabile del quale adesso faccio parte anche io. La verità è che in Calabria siamo tutti sorvegliati speciali. Tutti i giornalisti che vogliono fare il loro lavoro da uomini liberi lo sono. Le nostre cronache sono sotto osservazione ogni giorno. E ogni giorno qualcuno si lamenta perché non è contento di ciò che scriviamo. Qualche volta devi persino augurarti che si è dispiaciuto un boss, perché se invece a incazzarsi è il politico di turno ti può andare pure peggio: il mafioso ti manda le pallottole, ti brucia l’auto, non ti fa dormire la notte. Il politico ti fa togliere il lavoro. Ed è peggio. Vi assicuro che è molto peggio. 41bis: via libera alla preparazione di cibi cotti anche per i condannati al carcere duro di Gelsomina Cimino filodiritto.com, 11 dicembre 2018 Con la sentenza n. 186/2018 la Corte Costituzionale ha statuito sulla questione di legittimità sollevata da un magistrato di sorveglianza di Spoleto, nell’ambito del procedimento di reclamo avanzato da un detenuto in regime differenziato, avverso il dettato dell’articolo 41bis (cd carcere duro) comma 2 quater, lettera f) della legge 26/7/1975 n. 354. Per meglio chiarire la fattispecie occorre premettere che ai sensi dell’articolo 41bis 2 quater “i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria” e che nei confronti di tali detenuti sono previste specifiche misure limitative delle libertà tra le quali, figura, il divieto di cuocere i cibi previsto dalla lettera f dell’articolo 41bis, su cui verte il reclamo de quo. Ed invero, in relazione al suddetto divieto il detenuto lamentava un pregiudizio grave da scontare in condizioni di parità di trattamento, ai sensi dell’articolo 3 Cost, rispetto alle altre persone detenute presso il medesimo istituto penitenziario. Il reclamante lamentava altresì la violazione del proprio diritto alla salute, in quanto, non potendo acquistare cibi da cuocere o, comunque, cucinare quelli per cui gli è autorizzato l’acquisto, gli sarebbe stato impedito di seguire una dieta alimentare idonea per le patologie certificate di cui era affetto (ndr. gastrite cronica, reflusso, ipercolsterolemia). La questione di legittimità costituzionale così sollevata dal detenuto, è stata ritenuta dal Giudice a quo di non manifesta infondatezza e, attesa la sua rilevanza ai fini del decidere, ha rimesso il tutto alla Corte Costituzionale. In punto rilevanza, il rimettente ha esposto che l’oggetto del reclamo è costituito dalla richiesta di eliminare i divieti imposti dall’amministrazione penitenziaria con ordini di servizio in materia di cottura dei cibi. Quanto alla valutazione di non manifesta infondatezza, secondo il giudice a quo, risultavano violati tre parametri costituzionali: 1. articolo 3 Costituzione, poiché la disposizione sospettata d’incostituzionalità determinerebbe una disparità di trattamento tra detenuti, non giustificata dalle esigenze poste alla base dell’imposizione del regime differenziato; 2. articolo 27 Costituzione in quanto il divieto di cottura del cibo, riveste carattere meramente vessatorio, sia perché contrario al senso di umanità che deve caratterizzare l’esecuzione della pena, sia perché d’ostacolo alla funzione rieducativa della pena; 3. infine l’articolo 32 in quanto soltanto la libertà di prepararsi autonomamente anche i cibi che richiedono cottura consentirebbe al detenuto interessato di prescegliere e variare la dieta alimentare che ritenga congrua per le proprie condizioni di salute, in ragione delle riscontrate patologie gastriche. Secondo la Consulta le questioni sono fondate in quanto la disposizione censurata viola entrambe le disposizioni di rango costituzionale. Ed invero, quanto alla violazione dell’articolo 3 Costituzione, la Corte osserva che il divieto de quo è riservato ai detenuti soggetti alla disciplina differenziata dell’articolo 41bis ordinamento penitenziario, mentre per gli altri detenuti è previsto un regime meno restrittivo. Questi ultimi, infatti, possono acquistare il sopravvitto, nonché ricevere dall’esterno anche generi alimentari di consumo comune eventualmente da consumarsi previa cottura e, di conseguenza, utilizzare, nelle camere di detenzione, i fornelli personali, non solo - come è previsto per i detenuti in regime differenziato - per riscaldare liquidi e cibi già cotti oppure per preparare bevande, ma anche per la preparazione di cibi di facile e rapida realizzazione. Inoltre, ulteriore disparità di trattamento è rilevabile sulla base della regola, non applicabile ai detenuti soggetti al regime di cui all’articolo 41bis ordinamento penitenziario, secondo la quale la legge autorizza il regolamento interno di ciascun carcere a prevedere che sia consentita ai detenuti comuni la cottura di generi alimentari, stabilendo i generi ammessi nonché le modalità da osservare. Quanto, invece, alla violazione dell’articolo 27, la stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 376 del 1997, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993) ha sottolineato, più volte, che le misure, considerate singolarmente e nel loro complesso, non devono essere tali da vanificare del tutto la necessaria finalità rieducativa della pena (sentenza n. 149 del 2018) e tale da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, “verifica quest’ultima tanto più delicata trattandosi di misure che derogano al trattamento carcerario ordinario”. Quanto al divieto in parola, la Consulta osserva che nel silenzio dei lavori preparatori della legge n. 94 del 2009 circa la ratio dell’introduzione del divieto di cottura dei cibi per i detenuti assegnati al regime differenziato di cui all’articolo 41bis ordinamento penitenziario, si è comunemente ritenuto, come accenna anche il giudice rimettente, che tale ratio possa essere scorta nella necessità di contrastare l’eventuale crescita di “potere” e prestigio criminale del detenuto all’interno del carcere, misurabile anche attraverso la disponibilità di generi alimentari “di lusso”. Ciò nonostante, la Corte ha ritenuto opportuno rilevare non solo che la crescita di “potere” e di prestigio all’interno del carcere potrebbe derivare anche dalla disponibilità di generi alimentari “di lusso” da consumare crudi, ma anche che, al di là di questo ovvio rilievo, è la stessa ordinaria applicazione delle regole di disciplina specificamente previste a rendere pressoché impossibile qualunque abusiva posizione di privilegio o di “potere” all’interno del carcere collegata alla cottura del cibo. Le regole carcerarie ordinarie prevedono, infatti, precisi limiti alla ricezione, all’acquisto e al possesso di oggetti e generi alimentari da parte di tutti i detenuti. Ed invero, anche il detenuto in regime differenziato può acquistare al sopravvitto generi alimentari (con l’esclusione, attualmente, di quelli che richiedono cottura), ma può farlo nei limiti di quantità e valore comunemente previsti. Inoltre, lo stesso regime differenziato di cui all’articolo 41bis ordinamento penitenziario rende assai improbabile il possesso, da parte del detenuto, di generi alimentari pregiati, che risultino motivo di discriminazione fra detenuti o mezzo improprio di scambio, o tali comunque da distinguere la sua posizione, pur all’interno del limitatissimo “gruppo di socialità” entro il quale al detenuto è concesso di convivere. Caduta questa prima ed abituale giustificazione, non potrebbe poi ritenersi che siano peculiari e differenziate esigenze di ordine e sicurezza (esterne o interne al carcere) ad imporre l’adozione del divieto in questione, con particolare riferimento, da un lato, alla necessità che il detenuto sottoposto al regime speciale non abbia contatti con le imprese esterne presso le quali acquista generi alimentari al sopravvitto e, dall’altro, alla potenziale pericolosità degli utensili (arnesi da cucina e fornello personale) necessari alla cottura dei cibi. Tuttavia, posto che, come si è detto, anche i detenuti in regime differenziato possono svolgere (limitati) acquisti di generi alimentari al sopravvitto, non è certo il divieto di cottura dei cibi a risultare congruo e funzionale all’obiettivo di recidere i possibili contatti con l’esterno che tali acquisti potrebbero comportare. Inoltre, i detenuti in regime differenziato, come pure si è visto, dispongono comunque del fornello personale, anche se possono allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, oppure per preparare bevande. E poiché le esigenze di sicurezza personale dei detenuti trovano protezione in varie altre regole del complessivo regime carcerario, il divieto di cottura dei cibi non è ovviamente idoneo ad aggiungere nulla alla pur indispensabile opera di prevenzione degli utilizzi impropri di tale strumento, che risultino pericolosi per il detenuto stesso o per gli altri. Risulta da tutto quanto detto che il divieto di cottura dei cibi, in quanto previsto in via generale ed astratta in riferimento ai detenuti soggetti al regime carcerario di cui all’articolo 41bis ordinamento penitenziario, è privo di ragionevole giustificazione, e, per tali motivi da considerarsi costituzionalmente illegittimo. Abusi edilizi, il silenzio della Pa sull’istanza di sanatoria non impedisce la demolizione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2018 In materia di abusi edilizi, non basta che si formi il silenzio-assenso della Pa sulla domanda di sanatoria, perché il giudice dell’esecuzione sia tenuto a revocare o sospendere l’ordine di demolire emanato dal giudice di merito con sentenza definitiva. La sentenza n. 55028 depositata ieri dalla Corte di cassazione ribadisce che solo il rilascio della concessione o del permesso di costruire “in sanatoria” estingue il reato edilizio limitando il sindacato del giudice alla corrispondenza tra opere sanate e titolo abilitativo. Al contrario il giudice dell’esecuzione può - anzi deve - valutare sotto il profilo tanto formale quanto sostanziale, l’istanza di sanatoria portata alla sua attenzione per ottenere la conservazione dei manufatti abusivi e, di conseguenza, giudicare se le opere di cui il tribunale con sentenza definitiva aveva deciso la demolizione vadano mantenute o meno. Il principio della Cassazione - La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso con cui si sosteneva che il giudice dell’esecuzione avesse esorbitato dai propri poteri sconfinando in quelli dell’amministrazione locale. Infatti, la sentenza di legittimità ha ribadito che il giudice dell’esecuzione, in presenza di una domanda di sanatoria non deve limitarsi a prenderne atto ai fini della sospensione o della revoca dell’ordine di demolizione, impartito con la sentenza di condanna, ma deve esercitare il potere-dovere di verifica della validità ed efficacia del titolo abilitativo, valutando la sussistenza dei presupposti per l’emanazione dello stesso e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio oltre, ovviamente, alla rispondenza di quanto autorizzato con le opere destinate alla demolizione, con l’ulteriore precisazione che il rispetto dei principi generali fissati dalla legislazione nazionale richiesto per le disposizioni introdotte dalle leggi regionali riguarda anche eventuali procedure di sanatoria. La pretesa respinta - Secondo il ricorrente la regolarizzazione prevista dalla norma siciliana (comma 5 dell’articolo 20 della legge regionale n. 4/2003) si sarebbe compiuta per effetto del decorso del tempo, seguito alla presentazione della sua istanza per opere contemplate dalla sanatoria come “precarie” e “già esistenti”. Determinando - sempre secondo il ricorrente - il mutamento della situazione giuridica alla base dell’ordine di demolizione. Invece, per la Cassazione ben ha fatto il giudice dell’esecuzione a dare prevalenza al testo unico dell’edilizia - rispetto alla norma regionale - sul punto della validità di un silenzio-assenso e dell’esatto momento estintivo dell’abuso. Per il Dpr 380/2001 vale infatti la regola opposta del silenzio-rifiuto. Infine, sempre legittimo è il giudizio di merito, contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui le opere non erano affatto precarie, anche a voler applicare il criterio “funzionale” e non strutturale adottato in via di eccezione dalla Regione siciliana, in quanto tassativo e non interpretabile in chiave estensiva. La responsabilità del committente nell’infortunio sul lavoro. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2018 Prevenzione infortuni - Contratto di appalto - Responsabilità del committente - Titolare di autonoma posizione di garanzia - Omissioni nell’adozione di misure precauzionali - Rilevanza. In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d’appalto, se è vero che il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle misure che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine, è comunque titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere dell’infortunio subito dal lavoratore qualora l’evento si colleghi causalmente a una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l’inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini o conoscenze. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 3 dicembre 2018 n. 54010. Prevenzione infortuni - Appalto - Responsabilità del committente - Individuazione - Criteri. In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d’opera, è riferibile, oltre che al datore di lavoro (di regola l’appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche), al committente, anche se detto principio non conosce una applicazione automatica, non potendo esigersi da quest’ultimo un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 agosto 2016 n. 35185. Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Prevenzione - Adozione misure di sicurezza - Committente ed appaltatore - Obbligo di cooperazione - Limiti. In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, quantunque l’obbligo di cooperazione tra committente e appaltatore (o tra appaltatore e subappaltatore) ai fini della prevenzione antinfortunistica con informazione reciproca, non esiga che il committente intervenga costantemente in supplenza dell’appaltatore quando costui, per qualunque ragione, ometta di adottare le misure di prevenzione prescritte, deve tuttavia ritenersi che, quando tale omissione sia immediatamente percepibile (consistendo essa nella palese violazione delle norme antinfortunistiche), il committente, che è in grado di accorgersi senza particolari indagini dell’inadeguatezza delle misure di sicurezza, risponde anch’egli delle conseguenze dell’infortunio eventualmente determinatosi. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 24 marzo 2015 n. 12228. Lavoro - Prevenzione infortuni - Destinatari delle norme - Destinatari delle norme antinfortunistiche - Committente - Posizione di garanzia - Responsabilità - Condizioni - Limiti - Fattispecie. In materia di responsabilità colposa, il committente di lavori dati in appalto deve adeguare la sua condotta a fondamentali regole di diligenza e prudenza, scegliere l’appaltatore e più in generale il soggetto al quale affida l’incarico, accertando che tale soggetto sia non soltanto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa. Egli ha l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 7 marzo 2013 n. 10608. Campania: il Garante denuncia “95 educatori e 43 psicologi per 8mila detenuti” ildenaro.it, 11 dicembre 2018 “Tra i risultati ottenuti durante questa annualità, che vale la pena menzionare, vi è sicuramente la capacità che abbiamo avuto, anche grazie al lavoro sinergico e di raccordo svolto con l’assessore Regionale alle Politiche Sociali Lucia Fortini, di reperire fondi, 100.000 euro per l’annualità che sta per trascorrere e 100.000 già stanziati per il prossimo anno, che ci hanno consentito di avviare diverse progettualità all’interno delle carceri campane aumentando, al contempo, il numero di figure professionali e sociali specifiche che operano all’interno degli istituti penitenziari”. A snocciolare i dati è il garante dei Detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, durante la conferenza stampa di presentazione delle attività messe in campo durante l’anno in corso. “In Campania vi sono circa 8.000 detenuti, per 95 educatori e 43 psicologi. L’obiettivo sarà quello di aumentare gradualmente il numero di figure sociali a supporto di chi sconta la pena. Già durante quest’anno il numero di psicologi, assistenti sociali, educatori sociali, avvocati che con continuità si sono recati nelle carceri, per mettere in campo nostre progettualità, sono aumentati. Il prossimo obiettivo che ci poniamo è quello di avviare corsi di formazione professionale da destinare ai detenuti”, continua il Garante. “I detenuti che, finita di scontare la pena, non ritornano in carcere rappresentano il 20% circa del totale e sono quasi sempre coloro che sul proprio percorso hanno incrociato una associazione, una cooperativa, un volontario e delle progettualità che l’abbiano messi nelle condizioni di redimersi e capire che non vale la pena delinquere. C’è un lavoro di organizzazione della vita del detenuto che va fatto all’esterno e che è fondamentale”. “Sul totale di 60.000 detenuti italiani poi - dice Ciambriello - il 40% è tossicodipendente o immigrato e un altro 40% è addirittura in custodia cautelare, molti dei quali non arriveranno nemmeno a giudizio. Cinquemila, poi, sono dentro a scontare un solo anno di pena. È assurdo non consentire a questi ultimi di scontare pene alternative”. Questi alcuni dei progetti messi in campo negli istituti di pena Campania: Casa Circondariale di Poggioreale: “ascoltare e condividere attraverso l’arte creativa”, rivolto ai detenuti del padiglione Roma sex offender; Casa Circondariale di Benevento: progetto “Prison-visiting, genitori dentro”, rivolto alle madri che scontano la pena, a sostegno del rapporto genitori - figli; Casa Circondariale di Arienzo: progetto di “scrittura creativa”, volto a far sperimentare ai detenuti una lettura libera attraverso la scrittura creativa; Casa Circondariale Eboli e Salerno: “sportello socio legale ed assistenziale con lo scopo di fornire supporto tecnico, legale e sociale, in stretto raccordo con gli uffici del garante”; Casa Circondariale Santa Maria Capua Vetere: progetto “genitori - figli condividere insieme”, a supporto della genitorialità, per provare a far riallacciare un rapporto autentico tra i detenuti ed i propri cari; Istituto per minorenni di Airola: progetto “arte terapia” che mira ad insegnare ai minori ristretti l’arte della ceramica; Istituto per detenute madri di Lauro: progetto “percorsi di sostegno alla maternità”; Casa Circondariale di Salerno, Ariano Irpino, Carinola e Santa Maria Capua Vetere: progetto “attrezzature e spazio giallo minori”, con la finalità di far incontrare ai detenuti i loro figli più piccoli in uno spazio accogliente e ludico. Piemonte: i Garanti avviano una collaborazione contro razzismo, sessismo, omofobia agenzianova.com, 11 dicembre 2018 Via alla collaborazione tra gli organi regionali di garanzia e parità e la rete regionale contro le discriminazioni in Piemonte. L’impegno a un maggiore raccordo è stato preso oggi, in una data simbolo come la giornata mondiale dei diritti umani, alla presenza dell’assessora regionale, Monica Cerutti. L’obiettivo è offrire a tutte le persone che vivono in Piemonte una tutela più forte contro ogni forma di discriminazione. L’esperienza maturata dopo l’approvazione della legge regionale numero 5 del 2016, che sancisce il principio di pari opportunità e il divieto di discriminazione nelle materie di competenza regionale, ha fatto emergere l’esigenza di rafforzare il sistema di tutela dei diritti delle persone. Gli sportelli della Rete regionale contro le discriminazioni, distribuiti sul territorio, raccolgono le segnalazioni dei cittadini e d’ora in poi potranno indirizzarle agli organi competenti per la risoluzione dei casi. Così il cittadino avrà punti di riferimento certi. “Abbiamo creato una rete unica in Italia - afferma l’assessora Cerutti - questo è un patrimonio importante soprattutto in un momento in cui i diritti sono sotto attacco. Con questa rete vogliamo comunicare che stiamo con i più fragili, i portatori di differenze che sono un valore non un difetto. Non è una presa di posizione di principio ma di un’azione concreta che dà la possibilità concreta la cittadino di difendersi meglio e con più facilità”. “L’adesione a tale intesa costituisce la tappa importante di un cammino che potrebbe trovare anche nell’istituzione del Difensore civico nazionale ulteriore impulso e vitalità alla soluzione di casi di discriminazione conseguenti all’attività amministrativa posta in essere da Amministrazioni operanti a livello centrale”, spiega il Difensore Civico, Augusto Fierro. “La collaborazione che viene sancita oggi - aggiunge la garante dell’Infanzia, Rita Turino - nasce anche dalla necessità di tutelare meglio le persone minori di età da ogni forma di discriminazione. L’intesa si propone quindi, in via sperimentale, di attivare una reale collaborazione nel proposito fondamentale di mantenere elevatissimo il livello di attenzione da parte delle istituzioni che in questo modo saranno più facilmente informate su quanto accade sul territorio”. “Questa collaborazione ci permetterà di aiutare meglio i familiari di detenuti o ex-detenuti esposti a forme esplicite o nascoste di discriminazione: nell’affitto di una casa, nel trovare lavoro, nell’inserimento sociale, nell’approccio ai servizi - racconta il garante dei Detenuti, Bruno Mellano - Potremo aiutare meglio anche la popolazione detenuta che a fine novembre ha superato il muro delle 60mila persone in Italia, di cui 4.483 in Piemonte. La comunità penitenziaria raccoglie in sé tutte le principali categorie e target a rischio: dai tossicodipendenti, fino ai detenuti sex-offenders di Biella, Torino e Vercelli, le detenute trans di Ivrea, gli omosessuali della sezione speciale di Verbania”. “In una materia delicata come quella in questione, creare degli incroci stabili tra organi di garanzia significa migliorare l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa. - afferma il vicepresidente del Corecom, Gianluca Nargiso - Nell’ottica del cittadino ciò vuol dire vedere davvero tutelati i suoi diritti: nel caso di specie, tutelata la sua dignità”. “La firma di questo protocollo d’intesa - dice la consigliera di Parità della Città metropolitana, Gabriella Boeri - significa rafforzare e formalizzare una collaborazione e definire modalità operative, in molti casi già presenti a livello territoriale, al fine di non sovrapporre gli interventi ma di costruire, proprio attraverso la rete istituzionale, un percorso che accompagni e tuteli le persone che segnalano la discriminazione”. Viterbo: ha perso l’udito il detenuto che ha denunciato di essere stato picchiato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 dicembre 2018 Ha perso l’udito dopo essere stato picchiato, come ha raccontato alla moglie. Parliamo del 31enne, Giuseppe De Felice, ristretto nel carcere di Viterbo che ha denunciato di essere stato selvaggiamente picchiato da una decina di agenti penitenziari dopo la perquisizione della sua cella. Come ha riportato Il Dubbio, la segnalazione è partita immediatamente dalla moglie Teresa dopo averlo visto, durante il colloquio, pieno di lividi. La moglie ha chiamato l’attivista napoletano Pietro Ioia che si è attivato, consigliandole di contattare Rita Bernardini del Partito Radicale. L’esponente radicale ha inviato la segnalazione urgente agli organismi preposti, dal garante nazionale Mauro Palma a quello regionale Stefano Anastasìa. Ma, soprattutto al Dap e al direttore del carcere di Viterbo pregandolo di verificare quanto denunciato dalla signora e di “far visitare urgentemente il detenuto in modo da mettere agli atti della sua cartella clinica il relativo referto”. Sì, perché il detenuto ha anche riferito che dopo il presunto pestaggio, l’hanno spedito per un’ora in isolamento senza refertare la sua condizione fisica. La buona notizia è che Teresa, ieri, ha ricevuto la lettera di Giuseppe nella quale ha scritto di essere stato chiamato dall’ufficio del comando per sapere cosa gli è accaduto. Ma non solo. Il direttore del carcere ha raccolto la sua denuncia e il direttore sanitario l’ha visitato diagnosticandogli la perdita di udito nell’orecchio. Giuseppe è stato quindi mandato urgentemente all’ospedale per una visita dove i medici gli hanno prescritto delle gocce, ma in carcere non ci sono. Rita Bernardini ha scritto alla direzione del penitenziario laziale per fargliele avere il più possibile. Dopo aver appreso della denuncia da parte della moglie, è giunto a fargli visita nella giornata di ieri Alessandro Capriccioli, il capogruppo di +Europa Radicali al consiglio regionale del Lazio. “Nell’ambito della visita - spiega il consigliere dei Radicali italiani, la terza da me effettuata negli ultimi due mesi, ho avuto modo di incontrare anche il detenuto in questione, che ha ribadito la versione dei fatti riportata dalla moglie. Si tratterebbe, se confermato, di un episodio gravissimo, tra l’altro in un carcere che ha fama, tra i detenuti, di essere un istituto “punitivo’“, e in cui negli ultimi mesi si sono verificati due suicidi. Credo sia necessario che le autorità competenti facciano rapidamente luce sull’accaduto, perché avere certezza sulle reali condizioni degli istituti penitenziari nella nostra regione, e in particolare sul rispetto dei diritti delle persone quando si trovano nelle mani dello Stato, è una priorità che non riguarda solo i detenuti ma tutti i cittadini”. Il racconto che il detenuto ha fatto alla moglie è agghiacciante. Giuseppe è ristretto nel carcere di Viterbo da circa un mese - prima era a Rebibbia, si trovava nel quarto piano D1 quando sarebbe stato picchiato selvaggiamente dagli agenti. “Gli hanno perquisito la cella, messo a soqquadro tutto e hanno calpestato la foto che ritraeva noi due - ha raccontato Teresa, mio marito ha reagito urlandogli contro, prendendoli a parolacce”. A quel punto, secondo la versione di Giuseppe De Felice, un agente penitenziario lo avrebbe chiamato in disparte, portato sulla rampa delle scale e una decina di agenti penitenziari, senza farsi vedere in volto, lo avrebbero massacrato di botte. Il marito le ha raccontato che gli agenti avrebbero indossato dei guanti neri e una mazza bianca per picchiarlo. “Lo hanno portato in infermeria - prosegue Teresa, ma senza visitarlo, dopodiché lo hanno messo in isolamento per un’ora”. Ora, finalmente, la visita è stata effettuata, così come cristallizzata anche nell’attuale riforma dell’ordinamento penitenziario dove si prevede che, fermo l’obbligo di referto, il medico che riscontri “segni o indici che facciano apparire che la persona possa aver subito violenze o maltrattamenti” deve darne comunicazione al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza. Roma: dove mangiare, vestirsi e dormire, ecco la “Guida Michelin” dei senzatetto di Matteo Marcelli Avvenire, 11 dicembre 2018 Presentata a Roma la nuova edizione della guida della Comunità di Sant’Egidio: tutti gli indirizzi per l’accoglienza. Sono 8mila le persone che vivono per strada nella Capitale. Soltanto a Roma sono circa 8.000 le persone costrette a vivere in condizioni di povertà estrema. Secondo le stime della comunità di Sant’Egidio, almeno 2.500 dormono in strada e altrettante trovano rifugio in edifici abbandonati o altri insediamenti. Solo una parte può contare sull’ospitalità di centri parrocchiali (1.700) o di strutture convenzionate con il Comune (800). Eppure la solidarietà non manca e nelle molte città in cui opera la Comunità crescono i punti di assistenza e ricovero a cui rivolgersi. La “Guida Michelin dei poveri”, giunta ormai alla sua 29esima edizione, ne raccoglie indirizzi e contatti per offrire ai senza tetto uno strumento utile alle prime necessità, e ai volontari la possibilità di mettersi a disposizione più facilmente. Assieme alle persone senza fissa dimora (oltre 50mila in tutta Italia secondo l’Istat), aumentano infatti anche quelle che hanno voglia di dare una mano, cresciute del 20% nel 2018. “C’è un popolo solidale che cresce e trova in Sant’Egidio un riferimento. Un popolo variegato e fantasioso - ha detto don Marco Gnavi, parroco di Santa Maria in Trastevere, nel corso della conferenza stampa di oggi. Viviamo in un tempo complesso, ma dobbiamo mostrare a tutti che è possibile uscire dalla strada. Le istituzioni devono fare la loro parte ma anche i cittadini: siano solidali sentinelle, si accorgono degli invisibili e facciano qualcosa. A volte basta un interesse piccolo a cambiare la vita delle persone ferite, ma anche per cambiare la nostra”. “Dove mangiare, dormire, lavarsi”, che è poi il vero nome della guida, contiene gli indirizzi di 879 servizi, tra cui mense, centri di ascolto, strutture doccia e sportelli per alcolisti e tossicodipendenti. Sarà stampata in 10mila copie e distribuita ai poveri e agli operatori. “Molti centri non hanno chiesto di essere censiti perché si tratta di piccole iniziative di accoglienza, ma sono comunque importanti - ha continuato il sacerdote -. Le istituzioni dovrebbero assecondare questa creatività solidale passando da una gestione emergenziale della povertà alla progettualità. A queste persone e stata sottratta la dignità e la loro esistenza è una domanda aperta, dare una risposta è un dovere di tutti”. A sponsorizzare la guida c’è anche chi ne ha fatto uso in prima persona e ora si adopera per gli altri assieme alla comunità: “La cosa peggiore della povertà è la solitudine - dice Sergio, 76 anni, molti dei quali vissuti in strada -. Grazie alla Comunità di Sant’Egidio sono tornato ad essere una persona normale e ho iniziato anche io a dare una mano. La guida Michelin dei poveri è uno strumento necessario e c’è tutto quello che serve per vivere dignitosamente e tornare ad essere quelli di prima”. La rete di Sant’Egidio distribuisce nella Capitale cinque tonnellate di cibo a settimana e tre di indumenti. Consegna 22mila coperte all’anno, assieme a 12mila prodotti per l’igiene personale. Un impegno continuo che si affianca a quello degli oltre 5mila operatori impegnati nella distribuzione di cene in strada. Come da tradizione, anche questo Natale l’associazione organizzerà centinaia di pranzi ospitati da mense sociali, centri per gli anziani e carceri. L’obiettivo per il 2018 è quello di mettere a tavola 60mila persone tra bisognosi e volontari di cento città italiane. Lo stesso si farà in 77 paesi in tutto il mondo. Per sostenere l’iniziativa Sant’Egidio ha attivato la campagna “A Natale aggiungi un posto a tavola” per aiutare gli organizzatori donando 2 euro con un sms o una telefonata da rete fissa al numero 45586. Genova: “Sc’Art!”, striscioni e ombrelli riprendono vita in carcere Il Secolo XIX, 11 dicembre 2018 Materiale destinato al macero viene trasformato in borse, zainetti, accessori. E opportunità di futuro per chi li lavora Una nuova vita per gli striscioni pubblicitari dismessi da teatri e musei genovesi e per la tela degli ombrelli rotti, trasformati in borse e zainetti, accessori e complementi d’arredo. E anche per le donne che li lavorano, che in carcere imparano un mestiere che regala loro impegno e autostima e potrà aiutarle una volta tornate in libertà. È quello che fa l’associazione di promozione sociale Sc’Art!, il nome unisce le parole scarti e arte, con il progetto “Creazioni al fresco”, in corso ormai da qualche anno, che sta per fare un nuovo passo avanti. “Vogliamo dare un’altra chance a materiali e persone, unendo il concerto di reinserimento sociale a quello di riciclo creativo”, spiega la presidente Etta Rapallo, che porta avanti il progetto insieme con la scenografa e costumista Emanuela Musso. I luoghi dove si svolge sono: la casa circondariale di Pontedecimo, dove attualmente lavorano 6 detenute; il circolo Arci Barabini di Trasta, con 3 persone tornate in libertà che sono state assunte; e lo spazio espositivo Vico Angeli 21 rosso, dove si trovano una donna in misura alternativa alla carcerazione e una che ha finito il suo percorso detentivo. La novità riguarda proprio quest’ultimo luogo, dove finora i lavori finiti erano esposti e venivano ceduti in cambio di offerte. Perché qui aprirà anche un nuovo laboratorio. “Abbiamo acquistato due macchine da cucire semi-professionali, e si produrrà anche lì. Lo spazio, un ex magazzino del Cinquecento perfettamente ristrutturato, ci è stato dato in comodato d’uso gratuito da Amiu, che voleva accendere una luce in questo angolo di centro storico e accogliere una realtà benefica” prosegue. Il vincolo era di far vivere lo spazio proponendo occasioni di sensibilità civica contraria allo spreco con progettualità innovative”. Per festeggiare la novità, lo show room si apre alla città esponendo tutti i suoi manufatti, si tratta di creazioni belle e resistenti che potrebbero diventare regali di Natale un po’ diversi dal solito, venerdì dalle 10 alle 19. E si racconta. Lo faranno a voce le volontarie e lo farà anche una piccola mostra di fotografie, scritti e oggetti che ripercorrono i primi 5 anni di vita di questo progetto, che finora ha coinvolto 90 donne detenute in un percorso di formazione e reinserimento lavorativo. “Creiamo connessioni estetiche ed emotive tra culture e storie diverse”, conclude Rapallo. Il progetto è anche un virtuoso gioco di squadra, perché fa rete con altre opere di bene. A smontare gli ombrelli rotti sono infatti le persone seguite dal centro Anffas di Mignanego. E Sc’Art! lavora in sinergia con la cooperativa sociale Il Laboratorio e l’associazione Al Verde. Cagliari: in carcere un corso per le detenute, al via “Impara l’arte del ricamo” di Alessandro Congia sardegnalive.net, 11 dicembre 2018 Un’iniziativa fortemente voluta da Socialismo Diritti Riforme rivolta alla sezione femminile della Casa Circondariale “Ettore Scalas”. Ventisette detenute della Casa Circondariale di Cagliari-Uta apprenderanno l’arte del ricamo e realizzeranno una tovaglietta per la colazione con la guida della maestra ricamatrice Alma Piscedda. Il progetto “Impara l’Arte” è il risultato della collaborazione tra l’area educativa dell’Istituto, in particolare della dott.ssa Mariangela Bandino, che ha accolto e resa possibile l’iniziativa, e l’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha promosso e sostiene la proposta della ricamatrice originaria di Domusnovas. “Dopo la Parruccheria, che consente alle detenute nell’ambito progetto “Benessere dentro e fuori”, la cura dei capelli, grazie a 5 volontarie, la nuova proposta - sottolinea Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - permetterà alle detenute di conoscere nei prossimi due mesi i tessuti più idonei al ricamo e i punti base per realizzare piccoli lavori artistici. Punto erba, punto seme e punto lanciato non saranno più un segreto per mani esperti ma diventeranno un piccolo iniziale patrimonio di conoscenza tecnica utile non solo per sé ma anche per poter lavorare fuori dal Penitenziario”. “L’arte del ricamo - afferma Alma Piscedda - esprime una cultura antica tesa a decorare con ago e filo un anonimo tessuto. Non è quindi un semplice hobby ma un vero e proprio lavoro artigianale con finalità artistiche che affina la capacità di concentrazione, il gusto e la precisione. Può quindi essere uno strumento di formazione e di educazione. Favorisce lo scambio di esperienze e agisce sull’autocontrollo e può anche diventare un’occasione di riscatto sociale offrendo occasioni di lavoro autonomo. Il ricamo infatti è intramontabile e sempre apprezzato”. Articolato in tre momenti di apprendimento su tessuti, disegno e filati, il percorso prevede la creazione di una tovaglietta per la colazione con una natura morta. Ciascuna detenuta disporrà quindi di uno scampolo di lino, un piccolo telaio, 3 matassine di filo da ricamo, forbicine, ditale e ago. Le detenute saranno divise in due gruppi per lezioni, ciascuna di 2 ore, che si terranno il martedì pomeriggio e il sabato mattina. A sostegno dell’iniziativa è stata coinvolta anche l’amministrazione comunale di Domusnovas. Crotone: il Garante “tra gli obiettivi fissati collegamento skype e inserimento lavorativo” cn24tv.it, 11 dicembre 2018 Crotone è stata inserita sin dallo scorso settembre nella rete nazionale dei garanti territoriali, ed ha avuto modo di farsi portavoce di alcune criticità evidenti durante la Conferenza dei garanti territoriali dello scorso 19 ottobre presso il Consiglio Regionale del Lazio, a cui hanno preso parte il Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini, Mauro Palma garante Nazionale, e Stefano Anastasìa Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali. Il ruolo dei Garanti dei detenuti mira proprio a non trascurare tutte quelle delicate situazioni nei quali soggetti cittadini, soggetti vivono in particolari privazioni della libertà personale seppur in virtù di provvedimenti motivati dell’autorità giudiziaria. “L’impegno che come garanti stiamo portando avanti, guidati dalle direttive e dai costruttivi indirizzi della Rete Nazionale dei Garanti, che si riunirà a Roma il prossimo 14 dicembre a Palazzo Valentini, vuole realizzare una tutela piena ed una sensibilizzazione vera in tutti i cittadini ed in special modo ai giovani. Tra le prime problematiche segnalate e da segnalare nel prossimo incontro - precisa la nota dell’ufficio crotonese del garante dei detenuti - sicuramente vi è certamente la carenza delle camere di sicurezza che porta ad una equiparazione di fatto e ad una convivenza negli stessi ambienti tra detenuti per sentenze definitive e persone sottoposte a misure restrittive solo temporanee. Tutto ciò contrariamente a quanto prescrive la legge”. “Inoltre - prosegue - vi sono carenze di mediatori culturali, l’annoso tema della carenza di organico del personale di polizia penitenziaria e della stessa amministrazione; si ricorda poi la grave situazione del sovraffollamento carcerario, causa questa di numerosi ed intollerabili suicidi. È doveroso potenziare, altresì la rete di contatti tra detenuti e famiglie, tanto che il mantenimento delle relazioni affettive rientra tar i diritti fondamentali della persona umana, e pertanto non trascurabili”. “Di fronte a tali emergenze noi Garanti abbiamo ricevuto dal Capo Dipartimento Basentini, - si legge ancora nella nota - rassicurazioni per cui entro 6 mesi ci sarà Skype in tutte le carceri italiane, come strumento aggiuntivo per potenziare la vicinanza tra detenuti e loro famiglie. In riferimento ai problemi della carenza di organico Basentini ha annunciato una richiesta di assunzioni straordinarie da inserire in un apposito “pacchetto sicurezza” al vaglio delle Camere, per un totale di 1300 unità che andranno a ricoprire le carenze sia del personale di polizia che della stessa amministrazione”. “Per quanto concerne il lavoro futuro del garante, esso verterà da un alto sul reinserimento sociale degli ex detenuti: occorre promuovere con enti ed associazioni progetto sociali per la formazione lavorativo ed il recupero in modo da evitare che gli ex detenuti ritornino a delinquere per problemi economici e lavorative; dall’altro lato ci sarà un impegno per realizzare dei momenti di sensibilizzazione coinvolgendo gli studenti e le scuole: i giovani rappresentano infatti cittadini non solo del futuro ma soprattutto del presente. Infine dal mese di gennaio 2019 - termina la nota - il Garante inizierà alcune lezioni sul diritto penale e la legalità in generale, in date da concordare su disponibilità della Direzione carceraria”. Torino: protocollo d’intesa “Ministri di culto di tutte le religioni nelle carceri” di Pier Francesco Caracciolo La Stampa, 11 dicembre 2018 Il protocollo d’intesa ha l’obiettivo di favorire il pluralismo religioso nei penitenziari, dove è in aumento il numero di confessioni religiose tra i detenuti. Lo hanno firmato oggi, lunedì 10 dicembre, a Palazzo Civico l’assessore Marco Giusta (Comune di Torino), Gabriella Picco (direttrice istituto minorile Ferrante Aporti), Domenico Minervini (direttore Casa circondariale Lorusso e Cutugno) e Monica Gallo (garante dei diritti dei detenuti della Città). Prevede di fornire a tutti i detenuti l’assistenza spirituale dei propri ministri di culto (cappellani, imam, etc.) e garantire a tutti uno spazio nel quale pregare, qualunque sia la religione professata. Prevede, inoltre, di aprire un tavolo cui i responsabili dei due penitenziari siederanno per scambiarsi informazioni sul tema al fine di prevenire tensioni: si confronteranno, dunque, sulle misure da adottare per scongiurare episodi di violenza tra detenuti di diverse religioni e contrastare il fenomeno della radicalizzazione. “L’auspicio è che il protocollo sia firmato anche dalla prefettura per portare queste direttive nei Cpr”, ha detto Monica Gallo, ricordando come la stesura del documento sia iniziata un anno e mezzo fa. Si tratta di un percorso in parte già avviato, che sarà rafforzato. Come ha ricordato Minervini, già oggi un imam si reca tre volte al mese nel carcere Lorusso e Cutugno per la preghiera dei detenuti di fede musulmana (tra loro non ci sono quelli monitorati per rischio radicalizzazione, una decina in tutto, che non possono partecipare alle preghiere collettive: gli imam parlano singolarmente con loro). Anche il Ferrante Aporti, un anno fa, ha deciso di avvalersi della collaborazione di un imam per supportare i giovani detenuti di fede islamica: “Sarà importante - ha sottolineato Monica Gallo - realizzare attività interreligiose che permettano di aprire un dialogo in prima battuta tra i diversi ministri di culto e, a un secondo livello, anche tra i detenuti di diverse religioni”. Pescara: intervista a Flavio Insinna “Il teatro in carcere? Un viaggio oltre le sbarre” di Antonella Barone giustizia.it, 11 dicembre 2018 Flavio Insinna con alcuni protagonisti dello spettacolo di Pescara. Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle (Itaca Edizioni), è il racconto di una vita difficile, quella di Attilio Frasca, oggi detenuto nel carcere di Pescara. Un’opera inconsueta per struttura - pagine autobiografiche alternate a lettere all’amico Massimo - e, soprattutto, per sincerità. Il suo protagonista rievoca, infatti, la propria crescita criminale - dalla tifoseria violenta, ai furti, allo spaccio di droga all’omicidio per il quale è stato condannato a 30 anni di reclusione - senza invocare nessuna attenuante di emarginazione o di carenze affettive. Un racconto del passato che rende autentica la riflessione sul presente e la volontà di scegliere una strada diversa. “Non posso accettare di uscire peggio di come sono entrato - scrive in una delle sue lettere -. Desidero un nuovo orizzonte davanti a me; oggi, come mai prima d’ora, voglio poter immaginare un futuro”. “Cento lettere”, scritto a quattro mani da Attilio Frasca con il regista RAI Fabio Masi, è ora anche un’opera teatrale, messa in scena dai detenuti della casa circondariale di Pescara per la regia di Ariele Vincenti. Nello spettacolo, che ha debuttato il 1°dicembre sul palcoscenico dell’istituto penitenziario, prendono voce altri due amici fraterni di Attilio, anch’essi reclusi, che da vari carceri italiani arrivano a casa di un altro loro amico, Massimo, l’unico ad essersi costruito una vita pulita e solida, con una famiglia e dei figli. A interpretare Massimo sarà l’attore Flavio Insinna che ha partecipato al percorso teatrale di sette mesi, sostenuto dal Teatro Stabile d’Abruzzo con la direzione artistica di Simone Cristicchi, tenuto da Ariele Vincenti, in collaborazione con Fabio Masi. L’attore e noto personaggio televisivo ci racconta come è stato fare teatro dentro un carcere. Lei scrive che la propensione alle esperienze scomode si ha nel DNA. Aver fatto teatro con i detenuti in carcere, rientra tra le esperienze scomode? “Innanzitutto dovremmo accordarci su cosa si intende per scomodo, vuol dire forse: difficile e doloroso. Per esempio quando uno dice “non starò mai con la maggioranza” è perché probabilmente ce l’ha iscritto nel DNA. Mio padre curava i malati di mente, i disabili, i tossicodipendenti e mi ha insegnato a non giudicare, mi ha insegnato ad aiutare. Quando dico scomodo mi riferisco al fatto che non siamo andati in un luogo di allegria, ma l’abbiamo comunque trovata, abbiamo riso, abbiamo condiviso le sigarette durante la pausa come fanno gli attori in una compagnia tradizionale. Io credo che sarebbe più comodo la domenica andarsene al mare visto che fino al venerdì notte lavoro, ma siccome non mi lascio mai in pace, probabilmente come l’anima di Attilio che non lo lascia in pace e che gli presenta a un certo punto della sua vita lo spettro del suo passato, ho preferito fare questa cosa. Penso che la vita sia fatta per andare dove è più scomodo e se mi dovessi rifugiare in una citazione di un libro ne sceglierei una tratta da “La città della gioia” di Dominique Lapierre: “Se vuoi capire la vita devi andare dove puoi guardare il dolore dritto negli occhi”. Io sono curioso della vita e delle persone, non voglio giudicare ma voglio capire e quindi il fine settimana vado a incontrare queste persone in carcere, senza la pretesa di riuscire ad aiutarle ma con il primo pensiero di dire senza dirlo: non siete dimenticati, c’è qualcuno che vi odia, c’è qualcuno che vi ha dimenticato ma esiste anche chi non vi dimentica. Credo che si debba dare una seconda possibilità soprattutto a chi ha sbagliato, darla a chi ha fatto tutto giusto è facile. Mio padre mi diceva che avrei dovuto fare il sindacalista non l’attore, proprio per la mia attitudine a essere contro quasi a prescindere e soprattutto dalla parte dei meno fortunati e quindi lo stesso sentimento che mi porta in una casa di riposo, in un ospedale o dai bambini di Amatrice con un audio libro è la stessa spinta che mi porta oggi in carcere per vivere questa occasione che nasce dall’amicizia con Fabio Masi”. Sembra che il teatro per Attilio sia la prova di un cambiamento in parte già avvenuto. Prima di andare in scena ha perso tutta la sua spavalderia, conosce finalmente un’emozione nuova. Crede che questo sperimentarsi diverso, individuale e collettivo, sia la forza “pedagogica” del teatro in carcere? “È un incontro tra persone, il teatro ti dà questa possibilità e io credo che le cose belle nascano dai tentativi e che il mondo lo cambino i pazzi e quelli che non hanno paura di sfidare il ridicolo, se il giorno della prima dovessimo fare qualche figuraccia questo non toglierebbe comunque nulla alla sincerità del tentativo e alla voglia di stare dalla parte di chi perde. È un’attitudine, mi viene naturale, si va per chi è in difficoltà, chi ha già tutto non ha bisogno di una mano, io credo che la fortuna che ho avuto vada rimessa in circolo. Era da molto tempo che nelle prove a teatro non mi emozionavo così, quindi la domanda è: “Chi ha dato di più a chi?”, la vera domanda è questa, chi se ne va più ricco tra me e loro? Io ci ho messo un grande entusiasmo, mi sono speso ma quello che ho ricevuto è tantissimo, di più. E vedere accadere delle cose meravigliose in un teatrino di un carcere molto semplice con le luci accese a mezzogiorno, senza scenografia… vuol dire che la vita e il teatro ancora una volta si intrecciano e fanno quel piccolo miracolo lì. Io non sono un insegnante né un teorico, faccio questo lavoro da artigiano e posso dire che il teatro ha salvato ampie parti della mia vita, è un incontro tra viventi, tra corpi, tra persone, tra dolori. Il teatro ti permette di tirare fuori il tuo dolore, incanalarlo in battute, si può ridere e fare delle risate che in altre circostanze non faresti, il teatro ti può proteggere. Quando arrivo alle prove, spengo il telefono ed entro in un mondo tutto mio che è meraviglioso, quello che abbiamo fatto con Fabio Masi e con Ariele Vincenti è stato quello, quando prima di entrare lasciavamo i telefoni fuori entravamo poi in un altro mondo. Io non lo so se i detenuti della compagnia hanno studiato per fare teatro, io so di averlo fatto, ma quello che ho imparato da loro è stato tanto. Io non lo so se questa esperienza potrà davvero cambiarli, ma resto convinto che i tentativi vadano fatti, io sono andato lì perché avevo capito che avrei dovuto leggere qualche lettera tratta dal libro ma poi sono stato risucchiato da una forza che ho trovato là e questo va detto. Io non so se il teatro ha valore pedagogico e salvifico, io so che per l’ennesima volta ho incontrato persone che non conoscevo, mi sono aperto e loro si sono aperti a me e sono stato risucchiato a di là della mia volontà in uno spettacolo che poi è un viaggio, è riduttivo chiamarlo spettacolo, è un viaggio dove li ho visti soffrire veramente, li ho visti intristirsi, riflettere sulle loro cose e ritornare a pensare alle battute in maniera diversa, anche trovare un modo di dare delle indicazioni, di dare suggerimenti. Non è scontato perché sai che davanti hai una persona che ha sofferto e che ha fatto soffrire. È la magia del teatro ma è soprattutto la forza degli incontri veri, quelli in cui tu ti apri e lasci che la vita ti conquisti. Siamo andati lì e loro ci hanno annusato, ci hanno pesato e si sono fidati, noi gli abbiamo messo l’anima sul palcoscenico e ci hanno creduto”. Dopo averlo frequentato, è cambiata la sua idea del carcere e di chi ci vive (detenuti e operatori)? “Credo che la proposta da parte dello Stato debba essere quella di sforzarsi il più possibile per cercare di creare occasioni di lavoro vero in tutte le carceri, in modo che tu possa “fare” e che ti possa innamorare. È troppo facile dire “ una volta usciti torneranno a delinquere”, se però noi non gli abbiamo fatto neanche vedere il mare. Il carcere deve avere e dare la possibilità di riabilitare, per farlo non basta il teatro, serve la scuola e serve il lavoro. I detenuti della compagnia hanno capito che la vita è fatica, perché io li ho visti faticare, li ho visti stancarsi, ci hanno regalato la loro fatica e la loro obbligazione, questo è un passaggio da sottolineare. Hanno capito che per migliorare e per crescere devi faticare, il famoso sudore di cui sempre parliamo, abbiamo sudato con loro e forse qualcuno avrà pensato che così magari è più bello piuttosto che fare una rapina per avere più soldi. La vita è fatica e ne abbiamo avuto conferma e ci siamo emozionati perché finire la giornata stremati e vedere anche loro sfiniti per averci dato la loro forza e la loro dedizione nel provare e riprovare, a volte addirittura chiedendoci di riprovare una scena, è come il segno di vita su Marte”. Reggio Calabria: “Le Voci di Dentro, conversazioni in carcere su giustizia e legalità” newz.it, 11 dicembre 2018 Mercoledì 12 dicembre 2018, alle ore 12:00, presso il Salone dei Lampadari di Palazzo San Giorgio, Sede dell’Amministrazione Comunale e del Garante Comunale di Reggio Calabria, si terrà la Conferenza Stampa relativa alla presentazione del Progetto “Le Voci di Dentro: Conversazioni in Carcere su Giustizia e Legalità”, ideato in accordo fra il Garante Comunale di Reggio Calabria dei diritti dei detenuti, l’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) sezione di Reggio Calabria, il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria ed in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria e la Direzione degli istituti penitenziari di Reggio Calabria “Arghillà” e “G. Panzera”. Prenderanno parte alla Conferenza Stampa, durante la quale verranno forniti alla Stampa ed alla cittadinanza i dettagli dell’iniziativa, il Garante Comunale dei diritti dei detenuti, Agostino Siviglia; il Referente dell’Anm di Reggio Calabria, Stefano Musolino; il Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane dell’Università Mediterranea, Massimiliano Ferrara ed il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria, Massimo Parisi. Sarà presente la Direttrice delle carceri reggine, Maria Carmela Longo. Milano: San Vittore in Triennale, il carcere apre alla città di Diana Cavalcou Corriere della Sera, 11 dicembre 2018 Il carcere di San Vittore e i suoi detenuti approdano alla Triennale di Milano. E il carcere medesimo apre nello stesso tempo le porte alla città: non solo una volta di più, per quanto riguarda l’istituto di Piazza Filangieri, ma in una misura finora (quasi) inedita per un carcere italiano. Succederà a partire da giovedì 13 dicembre (inaugurazione) e fino al 20 gennaio con “ti Porto in prigione”, iniziativa poliedrica promossa dall’associazione Amici della Nave che vedrà una mostra fotografica in Triennale, una di pittura con la Collezione Maimeri esposta dentro il carcere, un dipinto di Marco Petrus espressamente realizzato per l’occasione, una serie di dibattiti e incontri distribuiti tra i due luoghi sul tema della pena come recupero, cura e reinserimento della persona. La mostra in Triennale (“in Transito. Un Porto a San Vittore”) raccoglie gli scatti di Nanni Fontana sulle attività de La Nave, reparto di trattamento avanzato e gestito dalla Asst Santi Paolo e Carlo per i detenuti di San Vittore con problemi di dipendenza. Dentro il carcere invece saranno esposte opere (“I musicisti”) della Collezione di Gianni Maimeri. Tutti gli eventi in carcere sono aperti al pubblico su prenotazione, da fare in Triennale dopo il 14 oppure via email a info.amicidellanove@gmait.com. Ancona: reinserimento e socializzazione, quello che lo sport può fare per i detenuti di Peppe Gallozzi centropagina.it, 11 dicembre 2018 Oggi alle 14.00 presso l’Istituto penitenziario Barcaglione di Ancona andrà in scena la Partita con papà, una partita di calcio tra detenuti per vivere qualche ora con i propri cari. Parteciperà anche una delegazione dell’Anconitana. Ne abbiamo parlato con il Garante dei diritti dei detenuti Avv. Andrea Nobili. Oggi pomeriggio alle ore 14, presso l’Istituto penitenziario Barcaglione di Ancona, andrà in scena la “Partita con papà”, aderendo così alla campagna nazionale promossa dall’Associazione BambiniSenzaSbarre di Milano, volta a far disputare una partita di calcio tra detenuti genitori con figli e detenuti senza figli, per sensibilizzare sulla difficile condizione dell’ essere detenuti e nello stesso tempo genitori con figli minori. Parteciperà anche l’US Anconitana con una delegazione dei propri giocatori. Un’iniziativa senza dubbio lodevole, come precisato anche dall’Avvocato Andrea Nobili, garante per i diritti dei detenuti nelle Marche: “Sono cose positive, è importante sapere che lo sport può aiutare tantissimo in questo senso. L’obiettivo è quello di far vivere al detenuto delle ore in serenità così da fargli pesare meno il senso afflittivo ed oppressivo che delle volte il carcere può dare. L’obiettivo è il reinserimento e la socializzazione ed in questo lo sport, il calcio in questo caso, possono essere molto utili”. Le strutture detentive non sempre ospitano zone per praticare discipline sportive. Le palestre sono spesso fatiscenti e delle volte le mancanze sono tali da non permetterne l’utilizzo: “La situazione al momento è abbastanza critica perché in molti penitenziari mancano proprio queste aree, che invece sono fondamentali a mio parere. Ci stiamo impegnando anche come privati per cercare di fornire gli istituti delle attrezzature adatte ma il percorso è ancora lungo”. Lo sport, il Coni, in questo senso sta facendo tanto: “Il Coni ha già portato avanti dei percorsi mirati. Il calcio, il rugby sono attivi da sempre. Nelle carceri si pratica anche lo Yoga. Ognuno cerca con la sua disciplina di perseguire gli scopi che dicevo sempre e gli effetti iniziano ad intravedersi”. I diritti umani hanno 70 anni: e per troppi restano parole di Lucia Capuzzi Avvenire, 11 dicembre 2018 Si afferma la tendenza a escludere intere categorie, mentre aumenta la soglia di tolleranza verso i responsabili. Il messaggio del Papa: ogni persona è un valore. Sono passati 70 da quando l’Assemblea generale Onu, riunita nel Palais de Chaillot di Parigi, approvò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Tecnicamente si tratta di una risoluzione ossia di una serie di raccomandazioni non vincolanti per gli Stati firmatari: non sono, perciò, previste sanzioni per chi le viola. Il documento - formato da trenta articoli - è diventato, tuttavia, fonte del diritto internazionale a tutela dei diritti umani. Al centro del documento il riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana, quale fondamento della libertà, della giustizia e della pace: i fondamenti dello Statuto Onu. I primi 21 articoli riconoscono le prerogative civili e politiche. Altri sei i cosiddetti diritti di seconda generazione che riguardano le garanzie in ambito economico, culturale e sociale. I tre punti finali dettano i criteri di applicazione. E oggi Papa Francesco ha mandato un messaggio ai partecipanti alla Conferenza Internazionale su “I diritti umani nel mondo contemporaneo: conquiste, omissioni, negazioni”, promossa dalla Pontificia Università Gregoriana e dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. “Un accorato appello a quanti hanno responsabilità istituzionali, chiedendo loro di porre i diritti umani al centro di tutte le politiche, incluse quelle di cooperazione allo sviluppo, anche quando ciò significa andare controcorrente. Tutti siamo chiamati in causa”, sottolinea il Pontefice. “Quando, infatti, i diritti fondamentali sono violati, o quando se ne privilegiano alcuni a scapito degli altri - spiega - o quando essi vengono garantiti solamente a determinati gruppi, allora si verificano gravi ingiustizie, che a loro volta alimentano conflitti con pesanti conseguenze sia all’interno delle singole Nazioni sia nei rapporti fra di esse”. E poi su Twitter: “Ogni persona umana, creata da Dio a sua immagine e somiglianza, è un valore di per sé stessa ed è soggetto di diritti inalienabili. Nessuno l’ha detto a Marie. Gli “zii” le rivolgono la parola sono per darle degli ordini. A 11 anni, Marie non sa niente del mondo fuori dalla casa di Port-au-Prince dove l’hanno mandata i poverissimi genitori. Ufficialmente, insieme a quella famiglia della capitale, la piccola avrebbe dovuto avere maggiori opportunità. In realtà, s’è trasformata in una schiava tuttofare. “Restavek” li chiamano ad Haiti: un esercito di almeno 300mila bimbi senza diritti. Come Marie, nessuno di loro sa che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Così ha sancito solennemente la comunità internazionale all’indomani della Seconda guerra mondiale. Oggi sono trascorsi 70 anni esatti da quando l’Assemblea generale delle nascenti Nazioni Unite approvò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In cui la dignità dell’individuo viene riconosciuta quale fondamento del diritto internazionale. Tutti, nessuno escluso, recita il primo articolo, come ha voluto sottolineare l’Alto commissariato Onu per i diritti u mani, Michelle Bachelet. La frase iniziale della Dichiarazione è “semplice”, eppure - ha detto - per le donne e le altre minoranze, essa assume un carattere “rivoluzionario”. Grazie alla lungimiranza dell’indiana Hansa Mehta che, all’interno del comitato di redazione, si batté per cambiare la formula “tutti gli uomini” in, appunto, “tutti gli esseri umani”. Sette decenni dopo, tuttavia, “duole rilevare come molti diritti fondamentali siano ancor oggi violati”, ha detto papa Francesco nell’incontro con il corpo diplomatico di quest’anno. A cominciare proprio dalla pari dignità tra uomini e donne. Queste ultime sono ancora escluse da alcune professioni dalle leggi in vigore in 104 Stati mentre solo il 23 per cento dei parlamentari è di genere femminile. Per non parlare dei limiti all’istruzione femminile, delle mutilazioni genitali e del dramma delle spose bambine. “La Dichiarazione resta, tuttavia, un documento di importanza straordinaria poiché pone, in modo netto, limiti al potere dei governanti sui governati. Prima, nella giurisdizione internazionale, i diritti umani non esistevano - spiega ad Avvenire Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International -. Il documento, tuttavia, resta una meta da raggiungere”. Per quanto riguarda gli effetti pratici, dunque, la distanza tra la carta e la realtà è palese. Il panorama attuale è cangiante, luci e ombre sono intrecciate. Gli elementi di preoccupazione sono molti. In particolare, “la “disumanizzazione” dell’altro, attraverso la negazione delle prerogative riconosciute nella Dichiarazione ad alcune categorie di persone, le più vulnerabili. Come se i diritti umani fossero un “merito” da assegnare in modo arbitrario”, afferma Marchesi. Si assiste, inoltre, a un grave deterioramento della situazione in alcuni Paesi. “Dal Messico - dilaniato da violenza, corruzione e impunità - alle Filippine, dall’Egitto - in cui sparizione e tortura sono comuni “strumenti” di repressione - alla Turchia, trasformato nel più grande carcere a cielo aperto per giornalisti”, sottolinea il presidente di Amnesty. Nella stessa Europa, a livello culturale, si vanno “sdoganando” atteggiamenti in palese contrasto con i principi della Dichiarazione. La soglia di tolleranza globale rispetto ai responsabili di gravi abusi si è, infine, abbassata, rispetto alla stagione dei tribunali internazionali degli anni Novanta. Però s’è consolidata una comunità di attivisti, Ong e movimenti che sfida il potere - spesso a rischio della vita - per difendere i diritti umani. Una rete di solidarietà contro il mugugno di Dacia Maraini Corriere della Sera, 11 dicembre 2018 C’è qualcosa di profondamente irrazionale nelle scelte che fa la maggioranza. E l’irrazionalità è contagiosa, in brevissimo tempo la furia passa da un Paese all’altro scavalcando le frontiere e gli oceani. Che brutto ritratto dell’Italia viene fuori dal nuovo rapporto Censis. Un Paese scontento, infelice, arrabbiato e vendicativo. Eppure stiamo vivendo un periodo di pace, di relativo benessere e di relativa libertà. La crisi c’è stata ma ne stavamo uscendo, l’immigrazione c’è ma non si tratta di una invasione. Per chi ha conosciuto guerra, fame, paura e povertà sembrava di avere conquistato molte buone giornate. Ma quando tira il vento di insoddisfazione e di rabbia, butta giù gli alberi, anche i più robusti. C’è qualcosa di profondamente irrazionale nelle scelte che fa la maggioranza. E l’irrazionalità è contagiosa, in brevissimo tempo la furia passa da un Paese all’altro scavalcando le frontiere e gli oceani. Anche la politica, che dovrebbe riguardare la difesa degli interessi sociali di classi diverse, sbanda e prende strade inattese: il sud vota in favore di chi lo insolentiva chiamandolo “ladrone e inefficiente”, le donne per chi sta decidendo di tagliare i fondi per gli asili nido e per le case riparo delle donne maltrattate; gli universitari per chi teorizza l’inutilità degli studi e delle specializzazioni, gli internazionalisti per chi vuole disgregare e annullare l’Europa. A perdere è la ragione, la più semplice, quella che potremmo chiamare buon senso, accortezza. Stiamo combattendo, dicono le maggioranze, per difendere la nostra civiltà e i nostri valori (democrazia, libertà) ma come si fa a difendere la democrazia usando metodi antidemocratici e la libertà usando sistemi autoritari)? Si grida “Prima gli italiani!”. Ma cosa vuol dire? Un mafioso che tiene in scacco un quartiere, che uccide, ricatta, fa strozzinaggio è meglio di un africano che ha attraversato con coraggio il deserto e le prigioni libiche per cercare un lavoro che gli permetta di mantenere la famiglia anche di lontano? I diritti umani possono presumere dalla qualità delle persone? Di fronte a questa visione catastrofica, la domanda è: che fare? Certamente non avvilirsi e smettere di votare. Se invece di sputare continuamente contro il Paese e i suoi difetti, si mettessero in luce le tante straordinarie iniziative dal basso che stanno crescendo fino a formare una rete di solidarietà e resistenza al mugugno nazionale, si comunicherebbe la voglia di ricominciare, con nuovi entusiasmi, nuove generosità, nuovi importanti progetti per il futuro. “Politiche razziste e repressive”. Amnesty contro il governo di Marina Della Croce Il Manifesto, 11 dicembre 2018 L’organizzazione denuncia la violazione dei diritti umani di rom e migranti mentre prosegue la vendita di armi a Paesi in guerra. Dal giorno del suo insediamento il governo Conte “si è subito distinto per una gestione repressiva del fenomeno migratorio. Le autorità hanno ostacolato e continuano a ostacolare lo sbarco in Italia di centinaia di persone salvate in mare infliggendo ulteriori sofferenze e minando il funzionamento complessivo del sistema di ricerca e salvataggio”. Nel giorno in cui si celebrano i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, il giudizio che Amnesty International esprime su governo giallo verde non potrebbe essere più netto. L’organizzazione non esita infatti a bollare come “repressive” le politiche esse in atto contro i migranti sottolineando come i diritti dei richiedenti asilo siano messi in forse dal decreto sicurezza voluto da Matteo Salvini. Che risponde subito alle accuse che gli rivolge Amnesty: “Ho la coscienza a posto. Il decreto sicurezza erode i diritti dei delinquenti e non dei richiedenti asilo”, replica il ministro degli Interni. E con lui si schiera anche l’altro vicepremier, Luigi Di Maio: “In Francia ho visto minorenni fatti inginocchiare dalla polizia. Se queste cose le avesse fatte il governo italiano sarebbe arrivata l’Onu con i caschi blu”. Battute, che non bastano però a sminuire la gravità della accuse lanciate da Amnesty. L’occasione è la presentazione del rapporto “la situazione dei diritti umani nel mondo. Il 2018 e le prospettive per il 2019” nel quale si traccia un quadro preoccupante del nostro Paese per il crescente clima di diffidenza e razzismo nei confronti degli stranieri, Un clima, sottolinea l’organizzazione, alimentato anche dal linguaggio utilizzato nella perenne campagna elettorale italiana da alcuni esponenti politici per veicolare sentimenti populisti e identitari. Un modo di parlare che “incita all’odio e alla discriminazione e che sta alimentando un clima di crescente intolleranza, razzismo e xenofobia nei confronti delle minoranze e di rifugiati e migranti”. E la scelta dell’Italia come di altri Paesi di non aderire al Global compact sull’immigrazione siglato ieri a Marrakech lascia “costernati”, scrive Amnesty. Particolare attenzione viene inoltre riservata alla politica degli sgomberi messi in atto da nuovo governo e che colpiscono in particolare rom e migranti senza offrire in cambio nessuna sistemazione alternativa. Una politica che per l’organizzazione rischia nel 2019 di far aumentare il numero delle persone e delle famiglie senza un tetto mentre a Roma e in altre città migliaia di rom continuano a vivere segregati in campi senza adeguate sistemazioni abitative. Ma ne mirino di Amnesty non ci sono solo le politiche sull’immigrazione, mentre in Italia si discrimina, prosegue la vendita di armi a paesi in guerra come Arabia saudita e Emirati arabi, attivi nel conflitto in Yemen. Queste esportazioni, denuncia Amnesty, violano la legge 185/90 e il trattato internazionale sul commercio delle armi ratificato dall’Italia nel 2014, mentre restano inascoltati gli appelli che l’organizzazione ha lanciato al nostro governo perché si adoperi per un cessate il fuoco in Yemen e per imporre un embargo sulle armi. “L’assenza di Conte Marrakech indica che, al di là delle belle parole, la politica del governo è dettata da valori e azioni tipiche delle destre nazionaliste”, è stato il commento del capogruppo dem Graziano Delrio, mentre per Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) quelle di Amnesty sono “parole pesanti sulla credibilità di un governo”. Amnesty: in Italia “gestione repressiva delle migrazioni” di Franco Insardà Il Dubbio, 11 dicembre 2018 Nel rapporto dell’ong critiche al governo. La denuncia di Amnesty International è durissima e non lascia spazio a interpretazioni. Dopo l’analisi del Censis di un’Italia rancorosa dal rapporto di Amnesty International, in occasione del 70esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, emerge anche un Paese guidato da un governo che “si è subito distinto per una gestione repressiva del fenomeno migratorio. Le autorità hanno ostacolato e continuano a ostacolare lo sbarco in Italia di centinaia di persone salvate in mare, infliggendo loro ulteriori sofferenze e minando il funzionamento complessivo del sistema di ricerca e salvataggio marittimo”. Critiche molto decise anche per il dl Sicurezza che, secondo l’Organizzazione non governativa, contiene misure “che erodono gravemente i diritti umani di richiedenti asilo e migranti e avranno l’effetto di fare aumentare il numero di persone in stato di irregolarità presenti in Italia, esponendole ad abusi e sfruttamento”. Inoltre, segnala il rapporto, “Amnesty International Italia ha documentato il massiccio ricorso da parte di alcuni candidati e partiti politici a stereotipi e linguaggio razzista e xenofobo per veicolare sentimenti populisti, identitari nel corso della campagna elettorale”. Nel 2018, si legge ancora nel documento, “gli sgomberi forzati sono continuati, colpendo soprattutto famiglie rom e gruppi di rifugiati e migranti, senza l’offerta di alternative abitative adeguate da parte delle autorità”. E Amnesty denuncia, “la linea dura dettata dal nuovo governo sugli sgomberì che secondo l’organizzazione ‘ rischia di fare aumentare nel 2019 il numero di persone e famiglie lasciate senza tetto e senza sistemazioni alternative”. Ma Amnesty International bacchetta l’Italia anche per l’industria delle armi. Secondo la Ong, infatti, nel corso del 2018 “è proseguita la fornitura di armi a paesi in guerra come Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, attivi nel conflitto in Yemen. Tali esportazioni - evidenzia la Ong - violano la Legge 185/ 90 e il Trattato internazionale sul commercio delle armi ratificato dall’Italia nel 2014”. Inoltre, “a settembre è partita la sperimentazione sulle pistole a impulsi elettrici (Taser) in dotazione alle forze di polizia. Amnesty International ha da subito espresso pubblicamente preoccupazione sui rischi per la salute, sulla necessità di formare adeguatamente gli operatori e anche sui requisiti di opportunità nell’utilizzo dello strumento”. Il presidente di Amnesty International Italia, Antonio Marchesi, ha anche commentato la posizione di alcuni Paesi riluttanti a firmare il Global Compact, il patto delle Nazioni Unite sulla migrazione al centro della conferenza in corso a Marrakech: “Siamo costernati dalla scarsa disponibilità dei governi, compreso quello italiano, ad assumersi impegni che dal nostro punto di vista sono generici”. In occasione della Giornata mondiale dei diritti umani papa Francesco in un tweet ha scritto: “Ogni persona umana, creata da Dio a sua immagine e somiglianza, è un valore di per sè stessa ed è soggetto di diritti inalienabili”. E nel messaggio inviato alla Conferenza Internazionale su “I diritti umani nel mondo contemporaneo”, promossa dalla Pontificia Università Gregoriana e dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ha lanciato “un accorato appello a quanti hanno responsabilità istituzionali, chiedendo loro di porre i diritti umani al centro di tutte le politiche, incluse quelle di cooperazione allo sviluppo, anche quando ciò significa andare controcorrente. Quando, infatti, i diritti fondamentali sono violati, o quando se ne privilegiano alcuni a scapito degli altri - spiega - o quando essi vengono garantiti solamente a determinati gruppi, allora si verificano gravi ingiustizie, che a loro volta alimentano conflitti con pesanti conseguenze sia all’interno delle singole Nazioni sia nei rapporti fra di esse”. Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricordato che “il riconoscimento a livello globale che tutti gli esseri umani nascono liberi e godono di inalienabili e uguali diritti rappresenta oggi un principio che precede gli stessi ordinamenti statali. Il rispetto della dignità della persona non è, infatti, dovere esclusivo degli Stati, bensì un obbligo che interpella la coscienza di ciascuno. Tutti sono chiamati a darne quotidiana e concreta testimonianza. Purtroppo sono ancora diffusi in tutto il mondo gli abusi, le violenze e le discriminazioni che affliggono individui e intere comunità, spesso colpendo i più vulnerabili. È quindi necessario che la comunità internazionale intensifichi gli sforzi in tutte le direzioni per promuovere un’efficace protezione delle libertà fondamentali, nel rispetto dei principi di universalità, indivisibilità e interdipendenza dei diritti umani”. Quel diritto diseguale penetrato nell’ordinamento di Tomaso Montanari Il Manifesto, 11 dicembre 2018 Sono trascorsi settant’anni dall’approvazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il 10 dicembre 1948. Un documento che nasce dalla consapevolezza che il “disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”. E dalla convinzione che solo superando la logica del nazionalismo, e di quello che oggi si chiama “sovranismo”, sarà possibile porre fine alla guerra, alla discriminazione razziale, allo sfruttamento, garantendo a ogni essere umano, indipendentemente dal luogo in cui è nato, un insieme irrinunciabile di diritti civili, politici e sociali. Di quello spirito, oggi, sembra essere rimasta poca cosa. Se pensiamo alla politica di casa nostra, non si può non provare sgomento di fronte alla maggioranza schiacciante di 336 “sì” con cui è stato convertito in legge, alla Camera, il cosiddetto “decreto sicurezza”. Un provvedimento vergognoso, che sembra stato scritto apposta per negare sicurezza, dignità, diritti alle persone straniere (attraverso lo smantellamento del modello di accoglienza diffusa degli SPRAR, l’abolizione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, il prolungamento del periodo di detenzione senza processo nei Cas e nei Cpr, il divieto di iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo). E che si distingue per una previsione dal sapore inequivocabilmente razzista, come l’introduzione della “cittadinanza revocabile” per i soli stranieri naturalizzati. Sarebbe facile e in un certo senso liberatorio sostenere che tutto ciò non ci riguarda: che è l’effetto di un virus che ha aggredito il corpo sano del paese con l’ascesa al potere dei “populisti”. Sappiamo, purtroppo, che non è così. Ciò che accade oggi viene da lontano: la prassi della detenzione prolungata di persone colpevoli solo di trasgressioni di tipo amministrativo - in assenza addirittura delle garanzie previste per la carcerazione vera e propria - è iniziata con la legge Turco-Napolitano; la trasformazione dell’immigrazione da diritto a reato e l’introduzione dell’aggravante di clandestinità (poi dichiarata incostituzionale) risalgono alla Bossi-Fini; la compressione dei diritti della difesa dei richiedenti asilo è stata voluta da Minniti, per non parlare del “codice di condotta” per le Ong impegnate nei salvataggi nel Mediterraneo, che hanno aperto la strada alla criminalizzazione della solidarietà e alla chiusura dei porti da parte di Salvini. Se oggi provvedimenti francamente razzisti non suscitano la reazione di indignazione e di resistenza che ci aspetteremmo (a partire dal Presidente della Repubblica, che ha rinunciato a rinviare alle Camere il decreto sicurezza) è anche perché da tempo l’idea di un “diritto diseguale” è penetrata nel nostro ordinamento, e nelle nostre coscienze, normalizzandosi e finendo col passare (quasi) inosservata. È allora urgente tornare a riflettere sui fondamenti del nostro vivere associato, proprio a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, di cui è bene ricordare alcuni articoli: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese” (art. 13), “Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni” (art. 14), “Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza” (art. 15). L’abisso che separa quelle parole dal mondo di oggi di Luigi Ciotti* Il Manifesto, 11 dicembre 2018 A settant’anni dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani” l’orizzonte è dominato da povertà, disoccupazione, guerre, disastri ambientali, migrazioni o, per meglio dire, deportazioni indotte. Un mondo dove il sogno di una società inclusiva, democratica, è stato abbandonato in nome di una logica economica selettiva, “algoritmi” del profitto non di rado coincidenti con dinamiche mafiose e criminali. Settant’anni ma è come se fosse stata scritta ieri. Ieri perché molti degli articoli della “Dichiarazione universale dei diritti umani” sono ancora lettera e non “spirito”, carta e non “carne”, vita e storia delle persone. I diritti sono un cammino e una responsabilità. Qualcosa che nasce da un’aspirazione alla libertà e alla dignità, da un desiderio di pace e di giustizia. Dal sogno di una società dove chiunque, a prescindere da condizione, sesso, appartenenza etnica e culturale, riferimenti politici e religiosi, possa esprimere la sua personalità e mettere a disposizione le sue qualità e il suo talento. I diritti sono l’anello di congiunzione tra il bene del singolo e quello della comunità, nell’inesauribile tessitura che li lega e, vicendevolmente, li nutre. Ma per arrivare a questo non basta la politica - che pure ha come prioritario compito il tradurre quell’aspirazione in realtà. Occorre il contributo di tutti, e oggi come non mai dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che se i diritti sono così fragili è anche perché non li abbiamo difesi con adeguata forza e continuità, svolgendo sino in fondo il nostro ruolo di cittadini. Giusto allora denunciare lo scandaloso abisso tra il contenuto di quegli articoli e il mondo come si presenta oggi ai nostri occhi: povertà, disoccupazione, guerre, disastri ambientali, migrazioni o, per meglio dire, deportazioni indotte. Un mondo dove il sogno di una società inclusiva, democratica, è stato abbandonato in nome di una logica economica selettiva, “algoritmi” del profitto non di rado coincidenti con dinamiche mafiose e criminali. Giusto denunciarlo così come denunciare una politica in gran parte impotente, inadeguata o spregiudicata fino al cinismo - vedi i negoziati con dittature e Paesi in mano a bande criminali per arrestare i flussi migratori, vedi la propaganda del sovranismo, dove l’odio e l’oblio - odio dello straniero, oblio della propria storia - diventano leve di consenso e di potere. Giusto e necessario. Ma ancora più importante è impegnarsi perché l’anniversario di ieri diventi un nuovo inizio, una storia dei diritti tradotti davvero in linguaggio universale, in grammatica dei rapporti non solo fra Paesi e popoli, ma fra persone e ambiente, perché è tempo ormai - come ci ricorda la “Laudato sì” di Papa Francesco - di riconoscere alla Terra la sua inviolabile dignità e di elevarla a soggetto giuridico, soggetto di diritti. Solo così i diritti umani possono riacquistare l’universalità che li definisce come tali e diventare nel concreto bene comune, base di una società dove ogni persona sia riconosciuta nel suo essere sempre fine e mai mezzo, artefice della propria e della altrui liberazione. *Gruppo Abele Libera Carta Onu sui migranti, sì da 164 Paesi su 193. E Roma rinvia la conta Il Messaggero, 11 dicembre 2018 “Una soluzione globale a una sfida globale”. Così il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha salutato l’adozione del Global Compact sulle migrazioni ieri a Marrakesh. Nel giorno del 70/o anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, 164 Paesi hanno firmato il Patto Onu, sui 193 che lo scorso luglio a New York avevano dato un loro primo sostegno all’iniziativa, non vincolante, per regolare i flussi migratori. Assente l’Italia che, con il governo giallo-verde spaccato sul tema, ha rinviato tutto al voto del Parlamento. Dal primo sì nel 2017, un po’ alla volta avevano cominciato a sfilarsi diversi Paesi, in primis gli Stati Uniti di Donald Trump, poi Israele, l’Australia, mentre l’Unione europea si è spaccata ancora una volta: contrari i Paesi di Visegrad, insieme ad Austria, Bulgaria, Croazia. Presente invece a Marrakesh la cancelliera tedesca Angela Merkel: “È un grande giorno”, ha commentato. Il premier belga Charles Michel - il cui governo sul Patto Onu ha perso pezzi della coalizione con il ritiro dei ministri dell’Alleanza fiamminga di destra (N-Va) - ha invece deplorato che il Patto Onu sia stato usato da “alcune parti politiche per diffondere disinformazione”. Il Global Compact è stato osteggiato da tutta la destra europea, da Marine Le Pen a Giorgia Meloni, che parla di “invasione” e lancia una petizione per “dire no a un’immigrazione senza limiti”. Mentre in Italia l’opposizione deplora l’assenza a Marrakesh: “L’assenza di Conte indica che la politica del governo è dettata da valori e azioni tipiche delle destre nazionalistiche”. Il voto della Camera sull’adesione, chiesto dalla Lega, è stato calendarizzato per il 22-23 dicembre (dipende da quando finità il voto sulla manovra). In realtà nella maggioranza prevale la volontà di evitare una conta, dal momento che M5S è a favore della carta Onu, e insieme al Pd i sì sarebbero più numerosi, immettendo un nuovo elemento di fibrillazione nella coalizione di governo. Conflitti dimenticati, nel mondo 20 guerre e 186 crisi violente di Luca Liverani Avvenire, 11 dicembre 2018 Sono 378 in tutto i focolai censiti dal rapporto di Caritas italiana su “Il peso delle armi”. In aumento produzione e vendita di armamenti. Il silenzio dei mass media. L’ignoranza degli italiani. Cinque dei sei Paesi massimi esportatori di armi sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu. Ovvero di quell’organismo che fu concepito proprio per prevenire le crisi e tutelare i diritti umani fondamentali nel mondo. Se è questa l’architettura della governance globale, non può stupire il dato che nel 2017 fossero ben 378 i conflitti, tra cui 186 crisi violente e 20 guerre ad alta intensità. Sono diminuiti i conflitti non violenti, di tipo politico-territoriale, mentre sono aumentate le crisi violente: dalle 148 del 2011 si è passati appunto alle 186 del 2017 (più 25,7%). La disponibilità di strumenti bellici è una delle cause della profonda instabilità politica che colpisce grandi regioni in Africa, Asia, Medioriente. E senza contare i danni umani incalcolabili di una guerra, sapere che una mina anti-persona costa 3 dollari ma ce ne vogliono 1.000 per neutralizzarla dà la dimensione della cecità della politica mondiale, che l’anno scorso ha permesso il record di spesa per gli armamenti dai tempi della Seconda guerra mondiale. Sono dati allarmanti quelli contenuti nel Rapporto di ricerca sui conflitti dimenticati “Il peso delle armi”, preparato da Caritas italiana e pubblicato dal Mulino, in collaborazione con Avvenire, Famiglia Cristiana e il ministero dell’Istruzione, università e ricerca. Alla presentazione sono intervenuti tra gli altri i direttori di Avvenire Marco Tarquinio, di Famiglia Cristiana don Antonio Rizzolo, il direttore di Caritas italiana don Francesco Soddu e il vice Paolo Beccegato, e per il Miur Maria Pia Basilicata e Maria Costanza Cipullo. Ventisette gli autori coinvolti, assieme a sette enti di ricerca e organizzazioni, arricchito da indagini di opinione tra gli studenti di 45 scuole medie inferiori, e 25 gruppi scout Agesci. La presentazione coincide con il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo “il cui rispetto è la premessa fondamentale per lo sviluppo e la pace”, come ha sottolineato il direttore Caritas don Soddu. Lo studio di Caritas italiana conferma dunque che sono in aumento produzione e vendita di tutti i tipi di arma, dalle leggere all’atomica. Un fenomeno che, secondo gli esperti, dipende dal fatto che gli Stati sono ormai convinti che, per vincere le guerre, servano arsenali sempre più ricchi e potenti. Nella classifica dei paesi esportatori di armi ci sono in testa gli Stati Uniti col 34,0%, seguiti da Russia (22%), Francia (6,7%), Germania (5,8%), Cina (5,7%) e Regno Unito (4,8%). Poi Israele e Spagna con entrambi il 2,9%, quindi l’Italia col 2,5%. Tra i principali importatori invece Arabia Saudita, Emirati Arabi, Australia, Iraq e Pakistan. Paesi che contribuiscono ad alimentare i conflitti in Yemen, Nord Africa e Medio Oriente. Il report conferma poi con forza un binomio già noto agli studiosi: la povertà è più diffusa nei Paesi in cui si combatte, così come viceversa, laddove sono più drammatici recessione, diseguaglianze e scarso accesso a fonti di reddito risulta altamente più probabile scivolare nei conflitti. Per contrastare la povertà, osserva ancora Beccegato, diventa allora “fondamentale ragionare sulle dinamiche alla base della guerra e incoraggiare buone politiche, oltre che fornire aiuti”. Infine, il report si concentra sull’impatto dei cambiamenti climatici su guerre e migrazioni - l’Onu stima in 250 milioni i migranti e in oltre 70 milioni i rifugiati e gli sfollati. Tutti gli indicatori del rapporto Caritas su scala globale legati al degrado ambientale, ai disastri e alla scarsità di accesso alle fonti naturali contribuiscono a spiegare altre dinamiche di guerra, e in particolare in aree come il Sahel, il Golfo del Bengala e parte dell’America Latina. Infine, lo studio si conclude con delle proposte che di fatto rilanciano l’applicazione dell’Agenda di sviluppo Onu 2015-2030, che, conclude Beccegato, “oggi più che mai servirebbe per creare un mondo diverso”. Guerre dimenticate, dunque, perché (quasi) nessun giornale ne parla. Il rapporto sui conflitti dimenticati ha anche preso in esame anche la copertura delle guerre da parte dei quotidiani più noti. Lo studio ha rivelato questa tendenza: se il conflitto supera la fase acuta e non coinvolge direttamente il nostro Paese scompare dai media. L’analisi ha preso in considerazione quattro delle principali crisi in corso: Yemen, Venezuela, Somalia e Ucraina. Altrettante le testate osservate: Corriere della Sera, Repubblica, Avvenire, La Stampa. Nel periodo di tempo esaminato - dal 1° novembre al 31 dicembre 2017 e dal 15 maggio al 15 giugno 2018 - risulta che tutti - pur con spazi diversi - hanno scritto di Yemen e Ucraina, solo in tre hanno raccontato del Venezuela (non Repubblica), e solo Avvenire ha trattato anche di Somalia. “Le guerre iniziano a finire - commenta in proposito il direttore di Avvenire Marco tarquinio - solo quando iniziamo a vederle. Solo se lo facciamo, esse possono finire”. E sottolinea come comunque il dato del 64% italiani favorevole alla riduzione della vendita armi “non è un dato scontato, perché oggi si sta tornando a dire che un loro aumento corrisponda ad un aumento della sicurezza. Quanto è povera una politica che non sa cosa fa e che asseconda invece queste tendenze”. Un’informazione, dunque, non di rado provinciale e ripiegata su questioni nazionali. Che - secondo i curatori del rapporto - provoca un altro grave conseguenza: una diffusa ignoranza sul tema tra la popolazione italiana. Ad esempio, il 14% degli intervistati non è stato in grado di citare neanche un attentato terroristico negli ultimi anni. Il 10% del campione è costituito da giovani. Il 24%, di cui il 29% ragazzi, non ha saputo indicare una guerra in corso. Quasi nulla la conoscenza dei conflitti mondiali: solo il 3% ha saputo indicare una guerra in Africa. Fa eccezione la guerra in Siria, ricordata dal 52% del campione. Se infine sul tema “guerra e conflitti” la televisione resta il principale mezzo di informazione tra gli adulti - il 47% ha confermato tale tendenza - ben il 49% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha detto di fare ricorso ad internet. Gran Bretagna. Bloccarono volo per rimpatrio migranti: in undici rischiano l’ergastolo di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 11 dicembre 2018 Al via il processo contro il “Gruppo di Stansted”. Regno Unito, aeroporto di Stansted, 28 marzo del 2017: 15 attivisti di alcune associazioni (End Deportations, Plane Stupid e Lesbian and Gays Support the Migrants) fermano la deportazione di decine di migranti che stavano per essere messi su un aereo diretto in Nigeria, invadendo la pista e impedendone il decollo. L’azione fu un successo: 11 migranti riuscirono a rimanere in terra inglese per poter aspettare che la loro domanda di asilo venisse riesaminata, due hanno visto accolta la richiesta. Sebbene sia stato un atto non violento, in quanto l’azione non ha intralciato gli aerei commerciali, né creato pericolo alcuno per le operazioni di atterraggio e volo di altri aerei, gli attivisti ora rischiano una pesantissima condanna. In virtù della legislazione antiterrorismo potrebbero vedersi comminata la pena dell’ergastolo. Lo scorso marzo è iniziato il processo presso il tribunale di Clemsford Crown. Oltre 50 personalità, tra cui la leader dei Verdi Caroline Lucas, la scrittrice e giornalista Naomi Klein, il regista Ken Loach e l’attrice Emma Thompson hanno firmato un appello nel quale si chiede il ritiro delle accuse e la fine dei voli segreti di deportazione. Peraltro violenze e abusi da parte di contractors della sicurezza sono stati documentati su questi voli. La maggior parte delle persone sarebbero inorridite se fossero a conoscenza della natura di questo processo”. Voli segreti e deportazioni illegali Al di là della vicenda che riguarda quelli che ormai sono conosciuti come “i quindici di Stansted”, sta emergendo il vero volto della politica del governo britannico in tema di immigrazione. Dapprima in maniera nascosta e ora alla luce del sole, le testimonianze che riguardano vere e proprie deportazioni (rendition) illegali si stanno moltiplicando. Quest’anno, grazie ad un’inchiesta giornalistica, è scoppiato il caso della cosiddetta Windrush Generation, immigrati caraibici giunti in Inghilterra nell’ immediato dopoguerra. L’ambiente ostile voluto da Theresa May Ma a quanto sembra questa pratica non è stata abbandonata, addirittura c’è il sospetto che il ministro abbia distrutto, in alcuni casi, i documenti che provavano date di arrivo, residenza, diritti. Non è ancora chiaro quante persone siano state detenute o deportate, ma quello che emerge con evidenza è un deteriorarsi della situazione a partire dal 2010, quando il ministero degli Interni, guidato all’epoca da Theresa May ha implementato esplicitamente pratiche e procedure tali da creare un “hostile environment” (ambiente ostile) per gli immigrati. Il business delle deportazioni Per questo gli attivisti di End Deportations denunciano da anni le misure violente e brutali messe in piedi dal governo inglese ben prima della Brexit. Violenze che le persone subirebbero anche sugli stessi voli. In passato, quando le deportazioni avvenivano usando aerei di linea, si sono registrate proteste e denunce degli altri passeggeri. Le rendition quindi sono state passate a privati che garantiscono la sicurezza a bordo e sul cui comportamento non è facile indagare. Secondo un’inchiesta dell’agenzia Corporate Watch, i migranti vengono imbarcati su voli commerciali, così come su voli charter dedicati, ogni due mesi. In questa maniera possono essere espulse più persone possibile I profitti di questo “lavoro” vanno alla Titan Airways, una compagnia che fa base proprio all’aereoporto di Stansted. Un affare lucroso Le deportazioni sono così divenute un vero e proprio business e l’interesse a non terminare questa pratica è alto. Come nel caso della società di outsourcing Mitie che dal maggio di quest’anno ha stipulato un contratto con il governo per gestire i migranti espulsi. Mitie va a sostituire un’altra società, la Tascor. Il contratto - sempre secondo Corporate Watch - non riguarda solo la scorta a bordo degli aerei ma anche i centri di detenzione (Mitie attualmente gestisce Heathrow, Harmondsworth e Colnbrook, più il centro di detenzione Campsfield vicino a Oxford) e la sicurezza durante gli spostamenti. Un appalto lucroso della durata di 10 anni che ammonta a circa 525 milioni di sterline Tutte le società impiegate in questo campo utilizzano lo stesso modello di business che comporta la riduzione dei costi con salari bassi e salvaguardie minime. Gli scandali quindi si susseguono ad intervalli regolari. La società coinvolta può essere rimpiazzata da una delle altre ma può ancora essere utilizzata per vincere altri appalti governativi. Oppure può fare un’offerta per lo stesso contratto pochi anni dopo, una volta calmatesi le acque. Il personale semplicemente si trasferisce sotto un nuovo padrone quando gli appalti cambiano di mano, ma rimangono intatte le stesse condizioni e la stessa cultura. Turchia. 6mila a processo per ingiurie a Erdogan di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 11 dicembre 2018 Cresce in Turchia il numero di procedimenti e processi per “ingiuria e diffamazione nei confronti del presidente della Repubblica”, Recep Tayyip Erdogan. Dei 20.539 procedimenti aperti nel 2017, 6.033 si sono trasformati in processi in seguito a rinvii a giudizio nel 2018. Dal 2014, anno dell’elezione a presidente della Repubblica di Erdogan, sono cresciute le denunce che hanno poi subito una ulteriore impennata in seguito al golpe fallito il 15 luglio 2016. Numeri messi in risalto dalla giornalista della edizione turca della Deutsche Welle, Burcu Karakas, che fa notare che il reato è entrato nel codice penale nel 1993, ma prima di Erdogan non si sono praticamente registrati rinvii a giudizio. Secondo Reporter senza Frontiere invece sono 53 i giornalisti condannati fino ad oggi per il reato di ingiuria o diffamazione nei confronti di Erdogan. “Si tratta di un reato da eliminare dal codice penale, anche perché, al di là delle condanne effettive contribuisce a creare un clima di paura nel Paese e non giova alla libertà di espressione, considerando che molte querele sono scaturite da status condivisi sui profili social”, ha dichiarato al telefono con l’Agi Andrew Gardner, segretario di Amnesty international in Turchia. È un reato esistente in Europa, “ma nessun Paese vi ricorre come in Turchia”. Australia. Il 60% dei detenuti nel lager di Nauru pensa a come togliersi la vita di Medici Senza Frontiere raiawadunia.com, 11 dicembre 2018 Diffondiamo i primi dati medici indipendenti che mostrano l’impatto sulla salute mentale di rifugiati e richiedenti asilo a Nauru, a causa delle politiche migratorie australiane di confinamento indefinito sull’isola. Ribadiamo con forza la nostra richiesta al governo australiano di porre fine a queste politiche e di evacuare immediatamente da Nauru tutti i rifugiati e richiedenti asilo - uomini, donne e bambini - per evitare un ulteriore peggioramento della loro salute. Il rapporto medico “Disperazione senza fine” mostra come la sofferenza psicologica a Nauru sia tra le più gravi che MSF abbia mai osservato in tutto il mondo, anche considerando i progetti di assistenza per sopravvissuti alla tortura. “I dati medici che diffondiamo oggi confermano la realtà straziante di cui sono stata testimone a Nauru. Ogni giorno la preoccupazione del nostro team era capire quali dei nostri pazienti avrebbero potuto tentare di togliersi la vita. Dopo cinque anni di attesa senza alcuna prospettiva, le persone hanno perso ogni speranza, racconta” Sara Giorgi, Psicologa MSF Tra i 208 richiedenti asilo e rifugiati che abbiamo assistito a Nauru, 124 (il 60%) hanno pensato di togliersi la vita e 63 (il 30%) hanno tentato il suicidio. A dodici pazienti, adulti e bambini, è stata diagnosticata la “sindrome da rassegnazione”, una rara condizione psichiatrica in cui le persone arrivano a uno stato semicomatoso, incapaci anche di mangiare o bere, e hanno bisogno di cure mediche per restare in vita. L’impatto delle condizioni di vita sulla salute mentale - Sebbene tre quarti dei nostri pazienti rifugiati e richiedenti asilo abbiano raccontato di aver vissuto eventi traumatici come guerre o detenzione prima di raggiungere Nauru, il nostro rapporto mostra come siano le condizioni di vita sull’isola ad avere maggiormente danneggiato la loro salute mentale. Il 65% dei nostri pazienti tra richiedenti asilo e rifugiati sente di non avere più controllo sulla propria vita, e proprio questi pazienti sono risultati i più inclini a tentare il suicidio o a sviluppare condizioni psichiatriche gravi. Più di un terzo dei nostri pazienti richiedenti asilo e rifugiati è stato separato dai loro familiari stretti. Le persone separate dalla famiglia dopo che un parente era stato evacuato per ragioni mediche - tattica usata dal governo australiano per forzare la persona evacuata a tornare sull’isola - sono risultate per il 40% più inclini al suicidio. “Molti dei nostri pazienti hanno subito gravi traumi, ma sono le politiche australiane di confinamento indefinito sull’isola ad aver distrutto tutte le loro speranze per il futuro e devastato la loro salute mentale. È disumano bloccare delle persone su un’isola, senza diritti, senza opportunità, senza poter ricevere cure per malattie gravi. È disumano essere costretti a pensare che l’unico modo per riavere la propria libertà sia morire”, denuncia Anna Morandi Coordinatrice MSF delle attività di promozione della salute Le nostre attività a Nauru - In 11 mesi di attività a Nauru, abbiamo fornito servizi di salute mentale a 285 pazienti (157 donne e 128 uomini), tra cui il 73% erano rifugiati o richiedenti asilo bloccati sull’isola (rispettivamente 193 e 15), mentre il 22% erano originari di Nauru (63). In totale sono state fornite 1.526 consultazioni a rifugiati e richiedenti asilo e 591 a persone originarie di Nauru. I rifugiati e richiedenti asilo erano in gran parte iraniani (76%), seguiti da somali (5%) e Rohingya (3%). L’età media era di 32 anni, il 19% aveva meno di 18 anni, ma le nostre équipe hanno assistito anche bambini di 9 anni con episodi di autolesionismo, pensieri suicidi o con già alle spalle tentativi di togliersi la vita. Anche le condizioni di salute mentale dei pazienti originari di Nauru erano gravi: quasi la metà di loro presentava sintomi di psicosi, molti necessitavano di un ricovero psichiatrico che non era disponibile sul posto. Sorprendentemente, più della metà dei pazienti originari di Nauru ha mostrato miglioramenti dopo le cure di MSF, mentre solo l’11% dei rifugiati e richiedenti asilo ha registrato dei progressi. Il governo di Nauru ci ha costretto a lasciare l’isola a inizio ottobre, quando più di 200 pazienti erano ancora in cura. Siamo profondamente preoccupati per la loro salute. “Nonostante abbiano ricevuto la stessa qualità di cure, i pazienti originari di Nauru hanno risposto molto meglio rispetto ai pazienti rifugiati e richiedenti asilo. Questo dimostra che vivere bloccati da politiche di detenzione indefinita crea una disperazione costante che impedisce alle persone di migliorare. L’attuale emergenza a Nauru era tragicamente prevedibile. Dopo cinque anni di privazione arbitraria della libertà, la situazione è disperata. Il governo australiano deve porre fine a queste politiche brutali ed evacuare immediatamente tutti i rifugiati e richiedenti asilo da Nauru, così come dall’isola di Manus. Non c’è tempo da perdere. “, invita ad agire Stewart Condon Presidente MSF Australia. Chiediamo all’Australia di porre immediatamente fine al confinamento indefinito di richiedenti asilo e rifugiati sulle isole. Consideriamo positivamente qualunque alternativa di reinsediamento, compresa la Nuova Zelanda, purché sia rapida, volontaria, rispetti i legami familiari e consenta alle persone di ricostruire le proprie vite e la propria salute mentale. La sindaca di Città del Messico sfida machismo e narcotraffico di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 11 dicembre 2018 Claudia Sheinbaum è diventata prima cittadina difendendo i diritti civili delle minoranze indios e degli omosessuali. Laureata in Fisica ha preso un dottorato in Ingegneria energetica specializzandosi in cambiamenti climatici. Un evento straordinario è avvenuto a Città del Messico: si è insediata, dopo aver vinto a luglio, la prima sindaca donna nella più grande città del Sud America, Claudia Sheinbaum. Segno che la rivoluzione per i diritti delle donne dagli Stati Uniti passa il Rio Grande e contagia il Sud. Dopo il metoo, dopo l’onda rosa multietnica delle elezioni americane, le donne del Sud America avanzano e potranno mostrare concretamente nell’azione e nella pratica la loro forza. Il valore di questo evento è grande perché ciò avviene nel Paese dei narcos, in un Paese tradizionalmente “machista”, con alti livelli di criminalità e di violenza contro le donne, caratterizzato da “una mentalità patriarcale e misogina” come afferma un rapporto di “Un women”. “La violenza è perpetrata per conservare e riprodurre la sottomissione e subordinazione delle donne basata sui rapporti di potere” continua il rapporto. Di violenza ce n’è e tanta. 4,6 femminicidi ogni 100 mila donne, 2570 nel 2017 per di più raddoppiati in 4 anni, più di 52 mila dal 1985 come denuncia l’Onu. Una vera e propria strage impunita di donne che erode la fiducia tra i cittadini e le istituzioni e mina profondamente la resilienza, la possibilità di reagire e rigenerarsi. Città del Messico è considerata da una indagine Reuters come la quarta città del mondo come livello di insicurezza delle donne. Ma c’è un altro elemento che va sottolineato. Claudia Sheinbaum, è una donna di eccezione. È una scienziata, laureata in Fisica nell’Università di Città del Messico, dove ha preso il dottorato in Ingegneria Energetica, è membro dell’Accademia delle Scienze messicana. Ambientalista, si è specializzata in cambiamenti climatici, ha collaborato con l’Onu su questo, e ha fatto parte del Panel Intergovernativo sul cambiamento climatico che nel 2007 ottenne il Premio Nobel della Pace. Suo nonno paterno era originario della Lituania, scappato da lì per le persecuzioni contro gli ebrei negli Anni 20. Sua mamma, anche lei ebrea, era originaria della Bulgaria e scappò in Messico durante la Seconda guerra mondiale. Ambedue i genitori lavoravano in campo scientifico e parteciparono ai movimenti del ‘68 in Messico. Fin da giovane è sempre stata sensibile alle istanze femminili, e ai diritti delle minoranze, e si è impegnata in prima persona nei movimenti studenteschi. È una esponente importante della sinistra messicana fin da giovane. Il segreto della sua vittoria risiede proprio qui: sintetizza altissima competenza con forte legame con la società civile. E questa sintesi potrà aiutarla molto nella realizzazione del suo programma. Basta vedere i componenti della sua squadra per la campagna elettorale per capirlo: rappresentanti della società civile e dei movimenti delle donne, delle persone Lgbt, degli indios, degli ambientalisti, dei lavoratori, delle imprese, insieme ad accademici ed esperti di altissimo livello delle diverse materie. Il tentativo è quello di praticare la “buona politica”, come lei la chiama. E la battaglia contro la criminalità e per la sicurezza è stata centrale e sarà centrale nella sua azione, ma sempre insieme ad un approccio di estensione, e non limitazione dei diritti. “Anche se vedete una scienziata magra non pensiate che non sarò forte nella lotta al crimine” ripeteva durante la campagna elettorale. I messicani le hanno dato fiducia e dato credito al suo messaggio, “verso una città innovativa, sicura, dei diritti e della prosperità condivisa”. Ma la Sheinbaum inspira fiducia perché riesce a coniugare gli obiettivi dettati dalla sua passione civile con la competenza, l’efficienza manageriale e la concertazione con i migliori esperti dei diversi settori, da lei coordinati con una forte spinta motivazionale. Una dote questa spiccatamente femminile, che si è fatta tratto distintivo del Dna delle donne, e che dovrebbe essere valorizzata e promossa dappertutto, soprattutto nella gestione del governo e della cosa pubblica.