Il sovraffollamento carcerario, scandalo dimenticato di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 dicembre 2018 Lo sbilancio tra detenuti e posti, che a inizio anno era di 7.160, a fine marzo é diventato 7.610, a settembre 8.653, adesso é 9.419 (cioè 2.341 in più in 11 mesi). Ora tutti a (giustamente) scandalizzarsi che nella discoteca di Ancona, per una notte, 680 biglietti fossero stati venduti ai ragazzini a fronte di soli 469 posti. Eppure nessuno si scandalizza per lo Stato che (solo grazie ai miracoli di agenti penitenziari, direttori e volontari) in 50.583 posti di 190 carceri stipa 60.002 detenuti, dei quali peraltro 1 su 6 in attesa della prima sentenza e dunque non necessariamente fuorilegge come lo Stato che lo rinchiude. Disattenzione pari alla progressione: scesi dal picco di 67.691 nel 2010 al minimo di 52.164 nel 2015 dopo le condanne europee dell’Italia per “trattamenti inumani e degradanti”, i detenuti sono ricominciati a risalire a dispetto della narrazione di alcuni magistrati da talk-show e dei loro house-organ sul fatto che in Italia nessuno finisca in carcere: a fine 2017 erano 57.608, ora sono già tornati al livello dei 60.197 di fine marzo 2014. Lo sbilancio tra detenuti e posti, che a inizio anno era di 7.160, a fine marzo é diventato 7.610, a settembre 8.653, adesso é 9.419 (cioè 2.341 in più in 11 mesi). E dalla capienza teorica di 50.583 si dovrebbero sottrarre i posti inagibili, il cui numero varia ma che ad esempio nella rilevazione del Garante dei detenuti del 23 febbraio ammontavano a ben 4.700, il che porterebbe il sovraffollamento reale quotidiano non a 9.419 detenuti, ma a 14.000 persone. Fra le quali, non a caso, si sta per raggiungere il record drammatico di 66 suicidi nel 2011, numero già oggi molto superiore (61) alla già alta media annuale (51) dei suicidi in cella tra il 1992 e il 2017. I detenuti che muoiono osservatoriorepressione.info, 10 dicembre 2018 Contributo dei membri dell’associazione Yairaiha della sezione As1 di Voghera. Quella che stiamo per raccontarvi è la storia di Peppe, detenuto ergastolano da circa trent’anni. La sua storia non è unica ma piuttosto rappresentativa di tanti come lui, sparsi per le molteplici sezioni di “Alta Sicurezza” nelle patrie galere della nostra bella Italia. Peppe è un sessantenne che ha trascorso metà della sua vita in carcere. Finito dentro per reati di criminalità organizzata per i quali i giudici, ritenutolo colpevole, lo hanno condannato al carcere a vita senza possibilità di benefici. L’ho incontrato per la prima volta circa 15 anni fa nel carcere di Voghera. Ero stato trasferito qui perché giorni prima avevo ottenuto la revoca del 41bis, il cosiddetto “carcere duro”. Peppe era giunto a Voghera circa un paio di anni prima di me e si era ambientato ed adattato discretamente, come ebbi a notare fin da subito. Cordialissimo, fu il primo detenuto ad accogliermi in sezione facendomi sentire a mio agio ed attenuando, non di poco, tutti i disagi dovuti al cambiamento sia del carcere che delle persone nuove che bisogna imparare a conoscere ma, soprattutto, rendendomi meno duro l’impatto drastico conseguente al passaggio da una situazione di totale isolamento ad una di maggiore apertura che, se non vissuta con moderata adesione si rischia il disorientamento. La prima impressione che ebbi di Peppe fu quella di un uomo energico, atletico e per nulla abbattuto dai circa 15 anni di carcere fino ad allora scontati. Notai successivamente che frequentava regolarmente la palestra e quasi tutti i giorni faceva la corsetta ai passeggi del carcere. Si manteneva in forma per intenderci. Ricordo il suo viso rubicondo, incorniciato da una barba nera spruzzata qua e la da qualche tonalità di grigio che cominciava ad incedere. Insomma, per farla breve, Peppe era allora un uomo che, come è solito dirsi, sprizzava salute da tutti i pori. Trascorso poco più di un anno dal mio arrivo a Voghera, fui trasferito in un altro carcere e questo determinò l’ovvia conseguenza di perdere di vista Giuseppe. Passarono molti anni da allora e, per una strana coincidenza del destino, mi ritrovai di nuovo qua, nella stessa sezione da cui ero partito anni prima. E chi ritrovo? Peppe! Molte cose erano cambiate da allora però. Per prima cosa stentai parecchio a riconoscere nella figura che ora avevo davanti quella di Peppe: non era possibile, dissi fra me e me, che quella era la stessa persona conosciuta anni prima. Innanzi a me avevo, ormai, l’immagine di Peppe sbiadita. È stato come ritornare su un luogo dopo tempo e rivedere un vecchio manifesto affisso alla parete di cui a mala a pena si riesce a distinguere i contorni dell’immagine ritratta. Il viso, ora pallido, portava i segni di un certo patimento che non sarebbero sfuggiti neanche ad un occhio poco esperto. La barba, ora bianchissima e non più curata come un tempo, conservava soltanto qualche residua ed impercettibile macchiolina di pepe. I pochi capelli rimasti, bianchi e radi, come radi erano ormai i denti, incorniciavano il corpo esile che un tempo fu energico e vitale. Ma ciò che mi scosse profondamente fu notare il leggero e continuo tremolio delle sue braccia e il balbettio che accompagnava i suoi discorsi. Dapprima non ebbi il coraggio di chiedergli il perché sia per pudore che per discrezione. Lascia che fosse lui a parlarmene quando ne avrebbe avuto voglia di farlo. Lo fece quasi subito: gli avevano diagnosticato il morbo di Parkinson. Era ancora nella fase iniziale (così gli avevano detto i medici) e la buona cura che gli avevano prescritto avrebbe rallentato la degenerazione della patologia che, come sappiamo, è questa una delle sue caratteristiche. Oggi lo stadio della sua malattia è molto degenerato tanto che ha serie difficoltà nella deambulazione, nell’uso della parola e delle mani. Ormai al limite dell’autosufficienza al punto che gli è stato assegnato un “piantone”, ovvero un altro detenuto che con regolare mansione lavorativa, lo affianca per le quotidiane esigenze inerenti l’igiene e l’alimentazione. Peppe, oltre alle cure mediche e del corpo, avrebbe bisogno di un’altra cura, altrettanto importante e fondamentale: la cura dell’anima e dello spirito che solo le persone a lui care sarebbero in grado di assicurargli. Ma, a causa delle disastrose condizioni economiche, non vede la moglie e i figli da diversi anni. L’unica fonte di reddito che fino a qualche anno fa assicurava una sopravvivenza accettabile alla sua famiglia era il lavoro della figlia, ora disoccupata. Riescono a malapena a vivere grazie alla pensione dell’anziana madre, provvidenziale ammortizzatore sociale, in questa società dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Peppe ha già scontato una congrua pena, non sarebbe il caso di valutare un graduale rilascio per consentirgli di curarsi meglio e circondato dall’affetto dei suoi familiari? Il diritto alla salute è garantito (dovrebbe) dalla nostra costituzione. Ma siamo certi che in questo caso, come in tanti altri, sia rispettato? O bisogna ancora perseverare nella cinica ed ipocrita linea, adottata da diverso tempo ormai, secondo la quale i detenuti malati, spesso terminali, vengono rilasciati pochi mesi, se non giorni, prima del decesso. L’amara riflessione che ci suscita questa dolente storia è che, purtroppo, Peppe non si chiama Dell’Utri e non ha al suo fianco uno stuolo di valenti e combattivi avvocati pronti a battersi, giustamente, per il proprio assistito. Speriamo solo che Peppe non vada ad allungare la lunga lista dei decessi in carcere o quelli che avvengono a pochi giorni dal rilascio, sarebbe una ulteriore sconfitta dello stato di diritto ma, ancor di più del senso di Humanitas che, purtroppo, pare passare sempre più in secondo piano rispetto al continuo sventolio della bandiera dell’esigenza della sicurezza. A chi potrebbe nuocere un uomo affetto da morbo di Parkinson in stato avanzato? Di seguito potrete leggere una lista parziale dei detenuti deceduti a poco tempo di distanza dalla scarcerazione o sospensione della pena: Giuseppe Caso, ergastolano, 24 anni di carcere. Ultimo carcere Catanzaro. Pena sospesa e morto in ospedale dopo pochi giorni; Franco Morabito, ergastolano, morto di tumore a 48 anni, con tutti gli organi in metastasi, nell’ospedale di Voghera a distanza di un mese dalla sospensione della pena. In carcere veniva curato per coliche renali; Luigi Venosa, ergastolano, morto per cancro dopo 27 anni di carcere. Pena sospesa il giorno prima del decesso; Giuseppe Vetro, ergastolano ricorrente, detenuto in regime di 41 bis. In carcere dal 2000, deceduto nel 2008 presso la sezione clinica/detentiva di Milano Opera a causa di un carcinoma in fase terminale (speranze di vita prossime all’1%). il tumore gli venne diagnosticato trenta giorni prima di morire, non gli venne concessa la sospensione della pena ne di essere assistito o nemmeno salutato dai propri familiari. Questi ultimi vennero informati dell’avvenuto decesso due giorni dopo; Antonio Verde, era detenuto nel carcere di Catanzaro, tumore al pancreas trascurato e diagnosticato tardivamente. Morì dopo quattro mesi dalla sospensione della pena. Giovanni Pollari, morte istantanea dopo circa 20 anni di carcere; Michele Rotella, detenuto nel carcere di Catanzaro e morto in ospedale, da detenuto, per Clostidrium difficilis. Aveva perso oltre 20 kg al momento del ricovero in ospedale. Morì dopo poche ore dal ricovero. I familiari seppero della morte recandosi a colloquio. Sebastiano Sciuto, ergastolano, morto per cancro dopo 27 anni di carcere. Pena sospesa 9 giorni prima del decesso; Sebastiano Rampulla, morto dopo pochi giorni dalla sospensione della pena; Gaspare Raia, ottantenne ergastolano, morto nel 2017 dopo più di 25 anni di carcere. Tumore in fase avanzata, arresti domiciliari concessi pochi giorni prima della morte; Cosimo Caglioti, di anni 30, un’incompatibilità carceraria diagnosticata e sottovalutata, le cure approssimative, i soccorsi che non arrivano, il defibrillatore chiuso a chiave. Muore a soli 30 anni nel carcere di Secondigliano. Salvatore Veneziano, arrestato nel 1993, morto nel novembre del 1997 per AIDS (contagiato in carcere). Ad agosto era uscito dal carcere di Spoleto dove era stato sottoposto al regime di 41 bis. Scontava una pena di 8 anni; Salvatore Bottaro, ergastolano detenuto dal 1990, affetto da cancro al pancreas, pena sospesa nel 2004. Apprese dai medici che gli rimanevano 6 mesi di vita, si suicidò; Salvatore Profeta, morto in ospedale ai primi di settembre dopo 10 giorni di ricovero. Detenuto ingiustamente per 18 anni in 41bis con l’accusa, da parte di un falso pentito, di essere tra gli esecutori della strage di via D’Amelio, venne scagionato, rilasciato nel 2015 e arrestato nuovamente nel 2016, sempre sulla base di dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia. Al momento della morte era detenuto presso il carcere di Tolmezzo con una condanna non definitiva ad 8 anni. Il questore di Palermo ha vietato il funerale pubblico. Un dispositivo questo di negare il funerale in chiesa ormai consolidato negli anni. L’elenco sarebbe ancora lunghissimo e, pertanto, ci siamo limitati a riportare solo alcuni fra i tanti di morte per pena in carcere. La maggior parte della popolazione condannata alla pena dell’ergastolo ostativo o ad una pena trentennale ha una età che supera i 70/80 anni, gran parte è sottoposta al regime di 41bis con tutte le restrizioni che vanno ad impedire una precoce diagnosi e, quando questa avviene, ormai le possibilità di intervento sono ridotte al minimo. Chiudiamo ribadendo quanto detto all’inizio: il diritto alla salute dovrebbe essere garantito a tutte le persone per Costituzione e le recenti sentenze della Corte europea sono state chiarissime anche per quanto riguarda i detenuti in 41 bis, ma in Italia si preferisce pagare le penali piuttosto che attuare lo stato di diritto. Il prossimo 10 dicembre, 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti Umani, digiuneremo per l’abolizione dell’ergastolo e per il rispetto di tutti i Diritti Umani violati. Partito radicale: “Rischiamo la chiusura tra venti giorni. Ancora in bilico la sorte della Radio” di Maria Berlinguer La Repubblica, 10 dicembre 2018 Mancano 400 adesioni per arrivare alla soglia dei tremila iscritti entro la fine dell’anno. Altrimenti i dirigenti decreteranno la fine delle attività. Ed è all’allarme anche per il futuro dell’emittente, per i tagli della manovra. Il partito radicale rischia di chiudere i battenti se non riuscirà a trovare da qui alla fine dell’anno 400 iscritti. È l’sos lanciato da Rita Bernardini, a pochi giorni dall’emendamento della manovra che ha dimezzato i fondi a Radio Radicale, garantendo la sua sopravvivenza, salvo correzioni al Senato, solo per sei mesi. Nel pomeriggio l’appello sarà ripetuto in una conferenza stampa a Roma, nella storica sede del partito, in via Torre Argentina, insieme ad Antonella Casu, Sergio D’Elia, Maurizio Turco. “Negli ultimi quindici anni il partito Radicale ha avuto sempre mille iscritti, abbiamo dovuto alzare l’asticella delle sopravvivenza a tremila dopo la morte di Marco Pannella, al congresso di Rebibbia, per avere maggiore forza per portare avanti le battaglie di Marco, prima fra tante portare all’Onu il diritto umano alla conoscenza. Nel 2017 siamo riusciti a raggiungere i tremila iscritti. Siamo all’ultimo miglio, se non raggiungeremo il traguardo saremo costretti a chiudere”, dice Bernardini, molto preoccupata anche per sorti di Radio Radicale, la radio delle dirette parlamentari che da decenni dà conto di congressi e manifestazioni di partiti, sindacati, magistrati. Per non citare le straordinarie rassegne stampa, a partire da quella dei quotidiani italiani curata da Massimo Bordin e nel weekend da Marco Taradash e Marco Cappato. Guarda caso due voci libere sono a rischio. “Per la Radio, l’unico vero servizio pubblico, speriamo di risolvere la questione della convenzione. Non mi è ancora chiaro cosa sia successo. Brunetta aveva presentato un emendamento per rinnovare la convenzione negli stessi termini di quella vigente, con un finanziamento di 10 milioni. Poi il governo ha voluto riformulare la proposta dimezzando la cifra a 5 milioni. Grazie a Giachetti che ha presentato un altro emendamento, è stato chiarito che copriranno solo sei mesi. Speriamo in un ravvedimento perché sarebbe grave spegnere l’unica emittente che dà voce a tutti”, spiega l’esponente radicale. Da sempre in prima linea per una “giustizia giusta” e in difesa del diritto anche nella carceri, Bernardini ha da poco incontrato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede per sensibilizzarlo sul tema del sovraffollamento negli istituti di pena. “Nella carceri c’è di nuovo una situazione esplosiva, i detenuti sono di nuovo sessantamila. E questo malgrado le condanne già avute dall’Italia in sede europea per la condizione disumana in cui sono costretti i detenuti italiani. “Solo nell’ultimo anno ci sono stati 61 suicidi. Il problema non è solo il sovraffollamento che pure è spaventoso. Con il ministro abbiamo visioni completamente diverse e anche questa idea di trasformare le caserme in carceri mi sembra una follia. Il problema non sono solo gli spazi ma il personale che manca. Oggi il 98% degli agenti penitenziari è addetto alla sicurezza, solo il 2,15% sono educatori, alla faccia dell’articolo 27 della Costituzione che chiarisce che la detenzione deve essere finalizzata alla rieducazione. Inoltre vengono usati trucchi e trucchetti per aggirare le sentenze di risarcimento che vengono vinte dai detenuti. È quasi impossibile per i detenuti ottenere il risarcimento di 8 euro per detenzione disumana: sto seguendo il caso di un signore di Reggio Calabria che deve avere 9mila euro. La sentenza è definitiva ma non ha avuto un euro dal ministero. Noi radicali ci battiamo da anni contro per l’irragionevole durata dei processi, quindi è chiaro che la riforma della prescrizione di Bonafade che può allungare la durata dei processi a trent’anni la consideriamo una follia”. Malgrado le distanze siderali, Bernardini è soddisfatta dalla promessa del ministro di fare con i radicali un aggiornamento ogni due mesi. “Ogni volta che visitiamo un carcere facciamo una relazione al Dap, ora la manderemo anche a Bonafede”. 400 iscritti permettendo. Abusi edilizi, truffe e alcol alla guida i reati più salvati dalla prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2018 Forse più che i corruttori a doversi preoccupare per la riforma della prescrizione dovrebbero essere gli autori di abusi edilizi. Naturalmente si può con buona ragione sostenere che ogni prescrizione rappresenta una sconfitta per lo Stato, che non è riuscito a trovare il colpevole di un reato. E tuttavia, ragionare un po’ sui numeri, serve anche a sfatare qualche luogo comune. Quello, per esempio, che individua nella criminalità dei “colletti bianchi” quella più abile nello sfruttare i tempi lunghi del processo penale ottenendo l’azzeramento del reato. La riforma in arrivo a partire dal 1° gennaio 2020, accompagnata forse anche da interventi mirati e acceleratori sul Codice di procedura, infatti, congela il decorso della prescrizione all’altezza della sentenza di primo grado. E allora, per sapere quali reati non si prescriverebbero più se la norma, fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, fosse in vigore, bisogna concentrarsi sulle prescrizioni che si verificano in appello. I più aggiornati dati disponibili, relativi al 2015, fotografano un impatto significativo soprattutto sulla criminalità comune: ai primi tre posti di questa non molto invidiabile classifica infatti si collocano le irregolarità sull’attività urbanistico edilizia (2.433), la ricettazione (2.177) e la guida sotto l’influenza di alcol (1.825). A seguire la truffa, le lesioni personali e i furti. Insomma un discreto campione di delitti “di strada”. Per trovare il primo reato che vede necessariamente come autore un imprenditore o comunque un datore di lavoro c’è il mancato versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, peraltro oggetto da poco tempo di un ampio intervento di depenalizzazione. Proviamo, invece, a concentrare l’attenzione su alcuni reati che più facilmente possono vedere tra i protagonisti imprenditori, manager o professionisti, con la sponda determinante dei dipendenti pubblici, quelli contro la pubblica amministrazione. Proprio quelli che sono oggetto del più ampio disegno di legge nel quale è stata collocata la riscrittura della disciplina della prescrizione e che in questi giorni verrà votato dal Senato nella sua versione definitiva (con la soppressione cioè del colpo di spugna sul peculato). I numeri assoluti, quanto a prescrizioni, oltretutto non più circoscritte al solo grado di appello, ma in tutte le fasi di giudizio, sono assai più bassi. In testa infatti c’è il “classico” reato del pubblico amministratore, l’abuso d’ufficio, con 555 prescrizioni nel 2017, a seguire una coppia di illeciti da white collar, l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato con 142, la corruzione nella fattispecie di contrarietà ai doveri di ufficio, con 97. Subito dopo, peculato, malversazione e concussione. In totale i reati contro la pubblica amministrazione che sono andati prescritti, nel corso del 2016, sono stati 1.037 che, confrontati con il totale delle prescrizioni di quell’anno (116.327) vanno a rappresentare neppure l’1 per cento. Insomma un impatto limitato, che, per una valutazione, deve tenere conto comunque di alcune considerazioni. La prima, naturalmente, è che i numeri assoluti sono importanti ma devono tenere conto del fatto che, come naturale, abusi edilizi, furti, guida dopo assunzione di alcol, sono assai più frequenti dei fenomeni di corruzione. La seconda è che per molti reati societari, con gli interventi degli ultimi anni, le sanzioni sono state via via elevate: uno per tutti, il falso in bilancio nelle società quotate che, dopo la riforma del 2015 è punito fino a 8 anni di carcere. E, se è vero che in carcere per questa tipologia di reati si va di rado, l’impatto sulla prescrizione è però immediato, visto che, tuttora, i termini sono tarati sul massimo di pena che può essere inflitta. Omicidio colposo: serve un’attenta valutazione su prevedibilità ed evitabilità dell’evento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 29 novembre 2018 n. 53455. In tema di reato colposo, il principio di colpevolezza va declinato tenendo conto del fatto che si verta in ipotesi di violazione di norme cautelari cosiddette “aperte” o di colpa generica (nella specie, trattavasi di addebito di negligenza), nel senso che, per configurare l’elemento soggettivo della colpa per violazione della regola precauzionale, s’impone, caso per caso, un’attenta valutazione della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da considerarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale. Il principio è stato enunciato dalla sezione IV della Cassazione penale con la sentenza 53455 del 2018. La vicenda riguardava tre Carabinieri a cui si addebitava il decesso di una persona arrestata, per evento patologico verificatosi durante le operazioni di immobilizzazione. La Corte ha escluso la responsabilità - ipotizzata a titolo di negligenza - a carico degli operanti, valorizzando il limitatissimo lasso temporale entro cui gli stessi avrebbero potuto accorgersi dell’insorgenza della patologia, l’assenza di una disciplina cautelare specifica - intervenuta solo successivamente con circolare del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri -, l’impraticabilità di sostenere che gli stessi di fossero discostati dal comportamento che - con valutazione ex ante - avrebbe dovuto tenere l’agente modello. La Corte, apprezzandolo alla luce dell’addebito di colpa generica per negligenza elevato a carico degli imputati, ha fatto applicazione del principio ormai consolidato in tema di reato colposo, secondo cui l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare (generica o specifica) e della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (la cosiddetta “concretizzazione” del rischio). Infatti, l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del “nesso causale”) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare, generica o specifica (ciò che si risolve nell’accertamento dell’elemento soggettivo della “colpa”), ma anche se l’autore della stessa (in ipotesi, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale che si ipotizzava produttiva di evento lesivo mortale) potesse “prevedere” ex ante quello “specifico” sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo. In quest’ottica ricostruttiva, occorre poi ancora chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto “comportamento alternativo lecito”) avrebbe o no “evitato” l’evento: ciò in quanto si può formalizzare l’addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno (tra le tante, sezione IV, 6 novembre 2009, Morelli). Atti persecutori: è legittima la custodia cautelare in carcere per l’indagato responsabilecivile.it, 10 dicembre 2018 Gli atti persecutori e gli episodi di vessazione e maltrattamenti nei confronti dell’ex partner giustificano la risposta cautelare massimamente restrittiva della libertà personale. In un Paese dove circa un quarto degli omicidi volontari riguarda casi di femminicidio - evento terminale spesso preceduto da atti persecutori posti in essere dall’agente violento- e dove il 77 % delle vittime del delitto di atti persecutori risultano essere di sesso femminile 1, non appare certamente irragionevole o irrazionale, su un piano di lettura costituzionale, l’avere introdotto da parte del legislatore un ulteriore strumento di tutela sociale per il contenimento di forme di pericolosità diffusa da accertare secondo i parametri probatori sopra indicati. Ad affermarlo è il Tribunale di Milano col decreto del 9 ottobre 2018. Il caso - L’indagato si era reso responsabile del delitto di atti persecutori (ai sensi dell’art. 612 bis c.p) perpetrati ai danni della sua ex compagna già durante la loro convivenza e proseguiti al termine del loro rapporto. L’uomo, in più occasioni, aveva mostrato nei confronti dell’ex partner un’indole violenta e prevaricatrice, rendendosi anche autore di gravi episodi di vessazione e maltrattamenti, per cui erano stati effettuati molteplici interventi da parte delle Forze di Polizia. Per gli stessi fatti, l’uomo era stato arrestato pur non essendo ancora giunta una condanna penale. I gravi indizi di colpevolezza che erano emersi a suo carico lasciavano inequivocabilmente trasparire i suoi intenti prevaricatori e la sua pericolosità sociale. L’episodio che scatenò il perpetrarsi delle molestie e dei soprusi nei confronti dell’ex compagna fu il momento in cui quest’ultima decise di porre fine alla loro tormentata relazione amorosa. Da quel giorno, l’uomo mise in atto tutta una serie di comportamenti finalizzati a punirla con atti di violenza sia fisica che psicologica, quest’ultimi con finalità manipolatorie, con l’intenzione di confinarla nella sua sfera di controllo. La donna aveva già denunciato questi fatti. Nell’ordinanza di convalida dell’arresto, in particolare, si raccontava di un episodio, a sua volta riportato dalla vittima, in sede di verbalizzazione della querela, in cui l’uomo, preso dall’ira aveva danneggiato la porta d’ingresso della sua abitazione prendendola a calci e così, riuscendo ad entrarvi; dopodiché percosse brutalmente la donna e le sottrasse le chiavi di casa. Nonostante le denunce e i continui interventi delle forze dell’ordine, gli episodi di molestia non cessarono, al contrario, nel corso del tempo, ebbero un crescendo di brutalità. Le percosse furono sostituite dalle minacce di morte rese ancor più oppressive dall’utilizzo di armi da punta e taglio; fino agli episodi di vera e propria violenza sessuale, perpetrati anche alla presenza del loro figlio minore (vittima a sua volta di “violenza assistita”). Ebbene, non vi erano dubbi: si trattava di un soggetto con indole manifestamente violenta, possessiva ed ossessiva, e sintomatica di una spiccata pericolosità, visto anche l’utilizzo di armi, idonee ad arrecare gravi pregiudizi per beni giuridici primari, come la vita e l’incolumità individuale. La tesi difensiva e la decisione del Tribunale - Il difensore dell’indagato, di fronte all’ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, emessa a seguito di convalida dell’arresto in flagranza a carico del suo assistito, ne aveva eccepito l’illegittimità. Com’è possibile arrivare ad una decisione così drasticamente limitativa della libertà di circolazione del sottoposto a procedimento penale, in presenza di una fattispecie procedibile a querela di parte? La domanda, così come formulata, non può certo trovare fondamento né sotto il profilo giuridico né, tanto meno sotto il profilo fattuale. Di fronte ad atti di violenza e di minaccia grave perché commessi con un coltello non si può parlare di fatti a querela di parte. E, in ogni caso, le azioni poste in essere dall’indagato erano indicative di una pericolosità tale da giustificare la misura della custodia cautelare in carcere (trattasi del “concreto pericolo che questi commetta altra delitti della stessa specie di quelli per cui si procede, o comunque gravi delitti con uso di violenza personale specie nei confronti della persona offesa”). Il Tribunale meneghino ricorda che i fini dell’applicazione della misura la pericolosità deve attualmente essere sussistente al momento della formulazione del relativo giudizio. E, il venir meno dell’attualità della pericolosità consegue non tanto al semplice decorso del tempo o allo stato di detenzione, quanto piuttosto al compimento di atti volontari positivi, indicativi in modo inequivoco ed incontrovertibile che il soggetto abbia mutato condotta di vita; atti di cui l’indagato, nel caso di specie, non si era mai reso esecutore. Per tali ragioni, deve ritenersi legittimamente applicata la misura custodiale disposta a suo carico. Abitualità nel reato: quando le condotte criminose possono considerarsi della “stessa indole” Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2018 Reato - Cause di esclusione della punibilità - Tenuità del fatto - Comportamento abituale - Reati della stessa indole - Inapplicabilità - Accertamento. In tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e di comportamento abituale quale causa ostativa all’applicazione di tale beneficio, deve riconoscersi al giudice un potere di valutazione caso per caso circa l’identità dei reati contestati, dovendo egli verificare in concreto se gli stessi presentino o meno quei caratteri fondamentali comuni che consentano di qualificarli come reati della stessa indole. Nel caso in esame la Corte ha ritenuto che, sebbene la giurisprudenza ammetta l’assimilazione per indole tra il furto (o la ricettazione) e la detenzione di stupefacenti, in virtù della omogeneità dello scopo di lucro, non si possono automaticamente qualificare della stessa indole tutti i delitti connotati dalla natura economica della motivazione a delinquere, posto che quest’ultima costituisce una delle principali motivazioni dei comportamenti criminali. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 28 novembre 2018 n. 53401. Cause di non punibilità -Articolo 131 bis c.p.- Applicabilità - Configurabilità del presupposto ostativo della non abitualità del comportamento criminoso - Reati della stessa indole - Integrazione - Condizioni. Ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis c.p. della “non abitualità del comportamento criminoso”, previsto dalla medesima disposizione, la nozione di “reati della stessa indole” va necessariamente desunta dall’articolo 101 c.p.: vanno considerati “della stessa indole”, ai sensi della citata disposizione, non soltanto i reati che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che presentano profili di omogeneità sul piano oggettivo, in relazione al bene tutelato e alle modalità esecutive, ovvero sul piano soggettivo, in relazione ai motivi a delinquere che hanno avuto efficacia causale nella decisione criminosa. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 16 luglio 2018 n. 32577. Recidiva - Reati della stessa indole - Falso nummario e reati contro il patrimonio - Esclusione - Analogo movente economico - Irrilevanza. Ai fini dell’applicazione della recidiva “specifica” ex art. 99, comma 2, n. 1, cod. pen., il falso nummario, che tutela il bene della pubblica fede, non costituisce “reato della stessa indole” rispetto a precedenti penali relativi esclusivamente a delitti contro il patrimonio. (In motivazione, la Corte di Cassazione ha chiarito che la specificità della recidiva non può desumersi dall’analogo movente economico alla base dei diversi reati). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 5 settembre 2017 n. 40281. Recidiva - Reati della stessa indole - Nozione. La definizione di reati “della stessa indole”, posta dall’articolo 101 cod. pen. e rilevante per l’applicazione della recidiva ex articolo 99 c.p., comma 2, n. 1, prescinde dalla identità della norma incriminatrice e fa riferimento ai criteri del bene giuridico violato o del movente delittuoso, che consentono di accertare, nei casi concreti, i caratteri fondamentali comuni fra i diversi reati. Lo stabilire se i reati siano della stessa indole è perciò rimesso al giudice che deve però giustificare il criterio di valutazione discrezionale adottato quando i reati abbiano una diversa oggettività giuridica. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 13 aprile 2016 n. 15439. Lazio: insediato l’Osservatorio permanente sulla Sanità Penitenziaria quotidianosanita.it, 10 dicembre 2018 Due gli obiettivi: carta dei servizi in Asl con carceri e cartella clinica informatizzata della popolazione carceraria. D’Amato: “L’Osservatorio esercita un’azione di monitoraggio molto importante e proporrà programmi di formazione dedicati al personale sanitario e sociosanitario che opera all’interno delle carceri. Si è insediato presso la Regione Lazio l’Osservatorio permanente sulla Sanità Penitenziaria una struttura molto attesa dagli operatori che ha il compito di monitorare la situazione della popolazione carceraria segnalando avvenimenti di interesse sanitario o eventuali problematiche e criticità negli Istituti penitenziari del territorio regionale. L’Assessore alla Sanità e l’Integrazione Sociosanitaria della Regione Lazio, Alessio D’Amato ha presieduto la prima riunione della struttura. “L’Osservatorio - ha commentato D’Amato - esercita un’azione di monitoraggio molto importante e proporrà programmi di formazione dedicati al personale sanitario e sociosanitario che opera all’interno delle carceri. Due sono gli obiettivi primari, istituire una carta dei servizi in ogni Asl che ospita un istituto penitenziario e la cartella clinica informatizzata della popolazione carceraria. Verrà inoltre elaborato un report annuale che fotograferà la situazione sanitaria della popolazione carceraria e saranno acquisite le conoscenze epidemiologiche sulle patologie prevalenti ed i fattori di rischio”. Alla prima riunione dell’Osservatorio hanno preso parte: il Direttore regionale Sanità e Integrazione socio-sanitaria, Renato Botti, un referente del Dipartimento di Epidemiologia, il vicepresidente della Commissione Sanità in Consiglio regionale, Paolo Ciani, il Garante dei Detenuti del Lazio, i referenti di ciascuna Azienda Sanitaria Locale, il Dirigente del Centro di giustizia minorile del Ministero di Giustizia, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria, il Referente regionale al Tavolo nazionale di consultazione permanente sulla Sanità penitenziaria e il rappresentante del Forum Terzo Settore. L’Osservatorio opererà in sinergia con il Referente medico regionale che si occupa dell’appropriatezza dei trasferimenti per il ricovero dei detenuti presso altri Istituti anche rispetto alle esigenze di sicurezza. Alessandria: nell’orto del carcere si raccoglie il riscatto sociale di Valentina Frezzato La Stampa, 10 dicembre 2018 Nell’appezzamento nato nel penitenziario di San Michele si insegna ai detenuti anche l’utilizzo dei fitofarmaci. L’inverno è la stagione dei cavoli, dei finocchi, dei broccoli. D’estate si raccolgono insalata, zucchine, melanzane, peperoni e addirittura angurie e meloni. Un orto rigoglioso che potrebbe arrivare a produrre ogni anno 130 quintali ortaggi da vendere anche “fuori”. Perché l’orto è nato fra le mura del carcere di San Michele di Alessandria, dove ora grazie alla Confederazione Italiana Agricoltori si tengono corsi per insegnare ai detenuti a utilizzare fitofarmaci e a essere indipendenti una volta tornati liberi. Un percorso, quello dell’agricoltura come via di riscatto sociale, cominciato nel 2017 che sta dando buoni frutti, letteralmente. La direttrice del penitenziario, Elena Lombardi Vallauri, ne è entusiasta: “Trasmettere strumenti spendibili durante e dopo la reclusione è un nostro obiettivo primario - spiega -. Farlo valorizzando e mettendo in rete i contributi di tutti coloro che a vario titolo agiscono all’interno delle nostre due strutture (il carcere di San Michele è stato unificato con l’altro penitenziario cittadino, il Don Soria, ndr) consente di costruire percorsi di reinserimento più efficaci”. Al termine dei corsi, i detenuti riceveranno il patentino per l’uso dei prodotti fitosanitari che, precisa Fabrizio Bullano, uno dei docenti, “sarà spendibile anche per il futuro”. “Questi corsi sono il coronamento di un percorso di formazione che portiamo avanti all’interno con le associazioni che ci affiancano” specifica Lombardi. Diecimila metri quadri - Sì perché nel frattempo, in carcere, si zappa e si raccoglie: “Lavoriamo su 9.500 metri quadrati di campi attorno al carcere, 8.000 all’interno delle mura. In più ci sono le serre e 150 piante da frutto - racconta Paolo Bianchi, imprenditore agricolo di Cascina Scotti, a Cascinagrossa, uno dei responsabili del progetto sull’agricoltura sociale. I detenuti si impegnano, imparano per 4 ore al giorno, venti alla settimana. Ora pensiamo a un punto vendita in città”, un po’ come avviene con il pane, venduto alla Coop. “I prodotti - continua Bianchi - ora saranno classificati come biologici, ancora più qualità”. La Cia è impegnata in questo senso: alla presentazione del progetto, c’erano sia il presidente che il direttore del sindacato agricolo di Alessandria, Gian Piero Ameglio e Carlo Ricagni. Ad Alessandria aprirà il primo negozio d’Italia in carcere con accesso libero anche dall’esterno. Una “bottega carceraria”, allestita negli ultimi mesi in locali inutilizzati all’interno delle mura della casa circondariale “Cantiello e Gaeta”, che darà lavoro a detenuti ed ex e permetterà il recupero e inclusione sociale ad adulti svantaggiati a causa di ragioni fisiche, psichiche, sensoriali o sociali. È l’obiettivo del progetto SocialWood, partito nel 2015 grazie ad un’idea dell’associazione Ises e pronto ora alla seconda fase. Lo slogan parla chiaro - “Mandateli a lavorare”, il progetto è ambizioso. Il presidente di Ises Andrea Ferrari: “Queste persone, quando escono dal carcere, difficilmente riescono a trovare occupazione, quindi aumentano le recidive e tutto diventa più complicato. Insegnare loro un mestiere e garantire loro un lavoro è importantissimo”. Alessandria: “Mandateli a lavorare”, la prima bottega carceraria aperta al pubblico alessandrianews.it, 10 dicembre 2018 Ospiterà detenuti ed ex detenuti e permetterà il recupero e inclusione sociale per adulti svantaggiati a causa di ragioni fisiche, psichiche, sensoriali o sociali. L’inaugurazione lunedì 10 dicembre. Il primo negozio solidale in un carcere italiano e aperto a tutti: è questo l’obiettivo del progetto SocialWood, partito nel 2015 grazie ad un’idea dell’Associazione Ises e pronto ora alla seconda fase. La bottega solidale presso la Casa Circondariale Cantiello e Gaeta in piazza Don Soria sarà inaugurata lunedì 10 dicembre alle 18. Dopo aver ottenuto importanti risultati nei primi mesi di attività, quali la possibilità di realizzare all’interno del carcere una vera e propria bottega dei prodotti artigianali realizzati dai detenuti oltre che di altri manufatti realizzati grazie alle sinergie attivate con altri progetti sociali del territorio, il progetto si prefigge ora anche l’obiettivo della costruzione di un vero e proprio Social Lab, un laboratorio sociale di artigianato all’esterno del carcere che permetterà di attivare percorsi formativi e occupazionali per persone che vivono in una condizione di disagio sociale (detenuti in art 21, ex detenuti, immigrati, persone con disabilità fisica o psichica). “Mandateli a lavorare” diventerà ora una realtà. “L’idea è quella di creare una vera e propria bottega in cui le persone possono acquistare i prodotti fatti a mano dai ragazzi - ha raccontato Andrea Ferrari, presidente di Ises - Queste persone, quando escono dal carcere, difficilmente riescono a trovare una nuova occupazione, quindi aumentano le percentuali di recidiva e tutto diventa più complicato. Insegnare loro un mestiere, dare veramente valore a ciò che creano e garantire loro un lavoro una volta usciti è davvero importantissimo”. La bottega presente e allestita negli ultimi mesi in locali inutilizzati all’interno delle mura della casa circondariale Cantiello e Gaeta rappresenterà il trait d’union tra l’interno e l’esterno del carcere in quanto sarà un locale sito nelle mura carcerarie, ma con accesso libero da chiunque (visitatori e clienti) senza richiedere alcuna autorizzazione, e permetterà ad alcuni detenuti in art. 21 di poter lavorare. La progettazione della bottega ha permesso di creare nuove importanti collaborazioni con altre realtà ed enti presenti sul territorio, quali la Cooperativa sociale Kepos, l’Associazione Centro Down di Alessandria, nonché l’Asl di Alessandria che hanno creduto fortemente nel progetto e hanno deciso di investire risorse umane, materiali e immateriali. Le nuove collaborazioni permetteranno di coinvolgere nelle attività anche altri soggetti che vivono in situazione di disagio di diversa natura: sociale, economico, fisico e/o psichico. La seconda parte del progetto, però, sposterà l’attenzione anche fuori dal carcere stesso: l’attività del Social Lab metterà in secondo piano le necessità produttive vincolando invece il percorso ad una funzione di recupero sociale per persone la cui partecipazione ad un’attività occupazionale rappresenta uno strumento socializzante con valenza pedagogica e terapeutica, atta ad integrare un programma riabilitativo e formativo più ampio e a verificare l’eventuale grado d’idoneità al lavoro con l’obiettivo finale di accompagnamento all’autonomia. “Il progetto permette di creare nel contempo un’attività lavorativa e un percorso di recupero sociale per persone la cui partecipazione ad un’attività occupazionale rappresenta uno strumento socializzante con valenza pedagogica e terapeutica, atta ad integrare un programma riabilitativo e formativo più ampio e a verificare l’eventuale grado d’idoneità al lavoro”, ha detto Mauro Pusterla, amministratore di Kepos. Attraverso il laboratorio le persone svantaggiate avranno la possibilità di essere inserite o reinserite nel mercato del lavoro, o anche di restare presso il servizio stesso, inseriti in un sistema che rispecchia, seppure in ambiente protetto, le caratteristiche, i tempi, i ritmi e le regole dell’ambiente lavoro. È provato da numerose ricerche socio-economiche, infatti, che la condizione lavorativa influenzi in maniera pregnante la vita di ognuno e questo avviene in maniera uguale anche per i soggetti con uno svantaggio fisico, psichico, sensoriale e/o sociale. Il lavoro è a tutti gli effetti una “misura preventiva” all’istituzionalizzazione della persona e costituisce un forte strumento di sostegno ai percorsi di inclusione sociale nella propria comunità di riferimento. Il laboratorio sarà suddiviso al suo interno per creare differenti aree di lavoro e nelle quali organizzare ciascuna attività indipendentemente dalle altre. Ogni area di lavoro sarà dotata di macchinari ed attrezzature necessarie per poter svolgere all’interno tutte le fasi di produzione necessarie alla creazione di un manufatto. La falegnameria permetterà di continuare l’attività iniziata con il progetto SocialWood all’interno della casa circondariale Don Soria. Nel laboratorio si potranno assemblare parti realizzate all’interno del carcere per produrre arredi voluminosi, oltre che produrre nuove commesse. La falegnameria sarà attrezzata con i macchinari donati dall’Asl di Alessandria, i quali necessitano solo di un piccolo intervento di recupero per adeguarli alle norme vigenti in materia di sicurezza. Per poter raggiugere il massimo dell’efficienza e permettere alle persone impiegate di essere molto motivate saranno svolte delle pre-selezione di verifica delle capacità individuali che permettano di indirizzare l’utente verso l’attività più consona alle sue attitudini ed ai suoi desideri. Le persone selezionate parteciperanno ad un corso di formazione specifico per l’attività che dovranno svolgere al fine di trasmettere tutte le informazioni pratiche circa il corretto svolgimento dell’attività. Sulla piattaforma Eppela è stata aperta una sezione di crowdfunding per il progetto: l’obiettivo di 10mila euro è stato già raggiunto e superato a due settimane dall’inizio dei lavori, confermando la grande partecipazione e l’appoggio ricevuto. Cosenza: Prc “insegnamento in carcere fondamentale per tutta la società” reportageonline.it, 10 dicembre 2018 Apprendiamo, grazie alla nota di giovedì scorso della Flc-Cgil ed alla successiva risposta della docente dell’Unical Franca Garreffa, che l’ufficio scolastico provinciale avrebbe deciso di accorpare le due secondi classi del carcere di Cosenza, di competenza dell’istituto Cosentino-Todaro di Rende. Oltre al danno la beffa: l’accorpamento, infatti, farebbe rima con soppressione, poiché una delle due sezioni è riservata ai detenuti in regime di alta sicurezza che non possono frequentare attività con altri detenuti. Lo apprendiamo con rammarico e ci opponiamo con tutte le forze. Il carcere dev’essere considerato luogo di riabilitazione sociale e di crescita umana, valori fondamentali non solo per i detenuti ma per tutta la società, e non trasformarsi in un luogo responsabile di maggiore marginalità. Riteniamo di sacrosanta importanza che le istituzione, anche di fronte alla numerosità delle classi non conformi al numero di studenti minimo prescritto, garantiscano, persino in deroga se necessario, la continuità delle attività scolastiche all’interno dell’Istituto penitenziario. A maggior ragione se, come in questo caso, ad anno scolastico in corso. Il diritto allo studio va garantito sempre, al di là dei dati numerici, lo dice la nostra Costituzione. La scuola in carcere è un bene prezioso per tutti, da tutelare e diffondere, visto che consente di non sprecare il tempo inutilmente e di aprire per i detenuti una possibilità di rivincita una volta fuori. Sottovalutare la funzione dello studio, soprattutto in chiave di opportunità di miglioramento per tutta la società, è un atto grave e rende più difficile la riabilitazione sociale dei detenuti. Per questo lanciamo un appello agli enti istituzionali interessati e garantiamo la massima attenzione sulla vicenda. Circolo Gullo-Mazzotta Prc Cosenza Brindisi: grande interesse per convegno Aiga sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario brundisium.net, 10 dicembre 2018 Si è tenuto venerdì 07 dicembre presso il Tribunale di Brindisi il convegno “Prospettive di riforma dell’Ordinamento Penitenziario” organizzato dall’Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati) sezione di Brindisi, unitamente al locale Ordine degli Avvocati ed alla Camera Penale. Dopo i saluti del vicepresidente dell’Ordine degli Avvocati avv. Claudio Consales e del presidente di Aiga Brindisi avv. Francesco Monopoli, i lavori sono stati introdotti dall’avv. Fabio Di Bello, presidente della Camera Penale di Brindisi, e sono stati moderati dall’avv. Carmelo Molfetta del foro di Brindisi. È intervenuto il dott. Antonio De Donno, Procuratore Capo della Repubblica del Tribunale di Brindisi, il quale minuziosamente ha illustrato le novità previste dalla riforma dell’Ordinamento Penitenziario, il prof. Rossano Adorno, ordinario di diritto processuale penale alla facoltà di giurisprudenza dell’Università del Salento che ha evidenziato con il suo intervento le criticità e le ombre della riforma, e l’avv. Filippo Castellaneta del foro di Bari, componente dell’osservatorio carceri dell’Unione Camere Penali Italiane il quale ha rappresentato i pregiudizi e le preclusioni che la riforma potrebbe arrecare ai diritti dei detenuti. In conclusione sono intervenuti l’avv. Marcello Falcone, già presidente della locale Camera Penale e l’avv. Domenico Attanasi, Coordinatore Nazionale Aiga Area Sud che ha sollecitato tutte le associazioni forensi ad unirsi nelle battaglie giuridiche più importanti da intraprendere per i diritti dei cittadini. Con la riforma entrata in vigore il 10 novembre scorso il Governo ha stralciato il decreto attuativo volto a facilitare l’accesso a misure alternative alla detenzione in carcere e stessa sorte è toccata alle disposizioni riguardanti l’eliminazione degli automatismi preclusivi alla concessione di forme attenuate di esecuzione della pena con affidamento, caso per caso, alla maggiore discrezionalità della magistratura di sorveglianza circa la decisione del percorso punitivo rieducativo di ciascun condannato. Nel nuovo testo, dopo la sforbiciata dell’esecutivo, restano comunque diverse disposizioni: una parte rilevante, ad esempio, rimane quella dedicata alle modifiche in tema di assistenza sanitaria dei detenuti con possibilità di ricoveri in strutture sanitarie esterne laddove siano necessarie cure o accertamenti sanitari che non possono essere apprestati negli istituti. Particolare attenzione viene posta anche alla necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena. Inoltre, si rammenta la necessità che detenuti e internati abbiano accesso a prestazioni sanitarie tempestive nonché a informazioni complete sul proprio stato di salute, sia all’atto di ingresso in istituto che durante e al termine del periodo di detenzione. Ancora, restano le disposizioni riguardanti la semplificazione delle procedure (prevedendo anche il contraddittorio differito ed eventuale), nonché la suddivisione delle competenze dal magistrato di sorveglianza e del Tribunale di sorveglianza da una parte (in caso di definitività della condanna) e dall’altra parte del giudice procedente in caso di procedimento pendente. Milano: il risotto dopo l’Attila è più buono a San Vittore di Paola Rizzi metronews.it, 10 dicembre 2018 All’inizio lo sbattere di porte e cancelli di ferro, il rumore di chiavi, il vociare in fondo ai corridoi, il passare furtivo di guardie e detenuti che transitano da un braccio all’altro crea un effetto straniante. Ma lo stesso, sotto il grande schermo nell’ottagono del carcere di San Vittore, si respira l’atmosfera da prima della Scala, e il lungo applauso al presidente Mattarella contagia anche il pubblico di detenuti, addetti ai lavori, magistrati, avvocati, giornalisti, deputati e semplici ospiti sotto la cupola del carcere. Ormai è un appuntamento fisso della prima diffusa, proiettata in una ventina di spazi, secondo il concetto di San Vittore inteso non come un buco nero nella città, ma come “uno dei quartieri di Milano”, come dice il direttore Giacinto Siciliano. Solo che qui, diversamente dall’altro Ottagono, quello della Galleria Vittorio Emanuele, il pubblico è più selezionato. Perché è più difficile andarci, essendo necessaria un’ovvia trafila di sicurezza. Poi il carcere esercita sempre un fascino misterioso, ed è un fatto che la prima a San Vittore è diventata una vera attrazione, con il risultato che mentre all’inizio era stata concepita per permettere ai detenuti di assistere all’opera assieme a qualche ospite, negli anni la quota di esterni e vip è aumentata esponenzialmente e alla fine alla prima dell’Attila i detenuti erano solo 40 su 120 posti. Una sproporzione su cui Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di sorveglianza non sorvola: “Sono pochi, ma abbiamo ricevuto tantissime richieste dall’esterno e abbiamo pensato che se la città vuole entrare noi dobbiamo aprire le porte, ricordando che qui si deve venire non per curiosità, ma per capire. Sapendo che il carcere è un luogo di dolore e va rispettato”. Il timore è che possa diventare “di moda”, dimenticando lo sforzo che sta dietro a quell’illusione di normalità e mondanità che il 7 dicembre regala anche dietro le sbarre. Compreso il momento attesissimo del buffet dopo spettacolo dove può succedere, come l’altra sera, di essere serviti, accanto al Ministro della Cultura Bonisoli, da Martina Levato, condannata con il fidanzato per le aggressioni con l’acido. Mentre i supervip vanno alla Società del giardino, in uno dei raggi del carcere i detenuti servono prodotti della pasticceria interna e il risotto. Ovviamente risotto giallo alla milanese, buonissimo, mantecato come si deve. E l’illusione di normalità è il sorriso di una delle cuoche, una ragazza cinese giovanissima, tutta rossa per i complimenti. Trento: “Storie dal carcere” in scena a Riva del Garda ladige.it, 10 dicembre 2018 Un recital di Amedeo Savoia dalla viva voce dei detenuti. Nell’ambito del progetto “Liberi da dentro”, va in scena lunedì 10 dicembre all’auditorium del Conservatorio il recital di Amedeo Savoia (che è anche voce recitante) “Dalla viva voce. Storie dal carcere”, con musiche a cura di Nicola Straffelini (che suona il pianoforte). Inizio alle ore 21, ingresso libero. Nel carcere di Trento alcune persone hanno trovato la voglia e il coraggio di raccontare e scrivere frammenti della loro vita. Il recital propone queste “voci da dentro” e le affianca a “voci da fuori”, del passato e del presente. Nel confronto qualcosa si accorda e molto stride. Grazie, a chi ha regalato queste storie molto personali. Merita almeno l’ascolto. E magari anche un’attenzione in più perché possa ricostruirsi una nuova vita fuori al carcere. Un pensiero alle vittime dei reati. Qualsiasi forma di violenza e ingiustizia lascia ferite profonde. “Liberi da dentro” è un progetto finalizzato a diffondere sul territorio una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone. Lo spettacolo “Dalla viva voce” è una produzione Quadrivium - Associazione musica contemporanea. Scenografia di Domenico Tavernini, grafica e multimedia di Mauro Savoia, riprese video di Luigi Sansoni e Francesco Rubini. Augusta (Sr): “Antigone. La Sfida”, incontro del progetto “Classici dentro” nel carcere webmarte.tv, 10 dicembre 2018 Si è tenuto nell’auditorium Enzo Maiorca della casa di reclusione di Augusta, il secondo incontro del progetto “Classici Dentro” a cura di Naxos Legge in collaborazione con il carcere. Secondo incontro nel carcere di contrada piano Ippolito del progetto “Classici Dentro” che Naxos Legge, Festival itinerante della narrazione, della cultura e del libro, già da qualche tempo sta portando avanti in collaborazione con il locale istituto penitenziario, con l’obiettivo di continuare ad affermare e confermare non solo l’importanza della lettura ma, in modo particolare, della lettura dei classici, intramontabili attraverso i secoli e il cui messaggio rimane valido in ogni epoca e a ogni età. Il Antonio Gelardi, direttore della casa di reclusione ha ribadito l’importanza di tali attività per i detenuti i quali, pur essendosi già cimentati in passato nella recitazione, hanno affrontato per la prima volta la messa in scena di un classico della portata dell’opera di Sofocle. L’evento ha rappresentato l’ennesima occasione di incontro con studenti di Augusta e viene incentrato sull’attualissima questione del possibile dissidio fra diritto scritto e diritto naturale. A introdurre l’incontro “Antigone. La Sfida” è stata Mariada Pansera, referente ad Augusta di Naxos Legge che, sottolinea il duplice risultato ottenuto con questo progetto; un laboratorio di lettura prima, il confronto circa il messaggio che l’opera sofoclea, già più di 2000 anni fa, ha inteso trasmettere ai posteri poi. Presente all’evento Fulvia Toscano, direttore artistico di Naxos Legge che, invitata a salire sul palco da un detenuto al termine della rappresentazione, ha voluto congratularsi con gli attori per l’ottima performance e, dopo avere brillantemente spiegato quante Antigoni e quanti Creonti ci siano ancora oggi rapportandosi a molte delle criticità presenti nella società contemporanea, ha dichiarato, a sorpresa, che del prestigioso premio letterario “Comunicare l’Antico 2019” sarà insignita proprio la casa di reclusione di Augusta durante la IX edizione di Naxos Legge che si terrà a settembre del prossimo anno. Ha dato dunque il via a un confronto tra i detenuti e il pubblico. Un pubblico speciale quello presente in sala formato dagli alunni del Liceo Mègara e dell’Istituto Marconi accompagnati da delegazioni di docenti, dal dirigente scolastico Renato Santoro e dalla vicepreside Gabriella Rista. Gli studenti delle due scuole, facendosi portavoce delle loro classi, hanno espresso le proprie considerazioni circa il messaggio che Sofocle volle lanciare attraverso la sua eroina Antigone la quale, nei secoli, è diventata l’emblema della ribellione verso un potere ingiusto, l’eroina della libertà di coscienza secondo cui nessuna legge di Stato può non tenere conto non solo della Pìetas degli Dei, delle leggi divine, ma soprattutto non può non tenere conto di principi espressi da leggi non scritte ma che esistono da sempre perché nate con l’uomo stesso. Al termine dell’incontro sofocleo, l’attenzione si è spostata su un altro progetto presentato qualche mese fa presso l’aula Vallet del locale Liceo e denominato “Un libro in Cella”; gli studenti del Liceo Mègara hanno infatti donato diverse decine di libri alla biblioteca penitenziaria La casa reclusione di Augusta dedica molto spazio alle attività artistiche ed espressive: teatro, musica, ceramica. Per quanto riguarda il teatro vi sono due laboratori, il primo firmato da detenuti del circuito alta sicurezza, denominato “Luci dal palcoscenico” porta avanti da nove anni un laboratorio congiunto con studenti del liceo delle scienze applicate dell’Arangio Ruiz, che si conclude nel mese di giugno con una rappresentazione aperta al pubblico esterno; il laboratorio riprende oggi con l’arrivo di un nuovo gruppo di studenti selezionato fra oltre ottanta studenti che ne hanno fatto richiesta; il secondo, composto da detenuti di media sicurezza, che si è impegnato nella lettura di brani dell’Antigone ha messo in scena in anni recenti lavori tratti da romanzi della scrittrice siracusana Simona Lo Iacono e successivamente una pieces ispirata a Socrate, sotto la regia di Giusi Norcia. Il laboratorio di ceramica condotto da Simona Farina produce manufatti che vengono offerti nel corso degli eventi che si tengono in carcere. Il laboratorio musicale tenuto da Maria Grazia Morello con la Brucoli Swing Brother’s si esibisce due volte l’anno, per diversi giorni; in estate all’Arena Gattabuia, in inverno presso lAuditorium Enzo Maiorca. Nei giorni 14 e 15 si esibirà per il pubblico esterno la Brucoli Band sempre giorno 15 vi sarà la conclusione del progetto I mercanti del tempo, realizzazione di piccoli manufatti raffiguranti icone greche, iniziativa a cura della cooperativa L’arcolaio e dei club Rotary della provincia. Diritti umani in Italia: la pagella dell’Università di Padova di Felicia Buonomo osservatoriodiritti.it, 10 dicembre 2018 Gestione dei flussi migratori, violenza sulle donne, sovraffollamento carcerario. Sono alcuni dei temi passati al setaccio dal Centro diritti umani dell’Università di Padova nell’Annuario diritti umani 2018, che individua carenze e violazioni su questo tema da parte dell’Italia. “Si assiste a politiche regressive sul fronte dei diritti umani”. “L’azione dell’Italia per l’attuazione dei diritti umani non brilla e anzi, in alcuni ambiti, come quello dell’immigrazione e della gestione dei flussi di profughi e potenziali richiedenti asilo, si assiste a politiche regressive sul fronte dei diritti umani”. È partendo da questa affermazione che il Centro di ateneo per i diritti umani Antonio Papisca dell’Università di Padova bacchetta l’Italia nel suo Annuario italiano dei diritti umani, giunto all’ottava edizione. Un’analisi che arriva proprio nel 2018, anno di ricorrenze importanti, come il 70esimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani e il 20esimo della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani. E proprio oggi, 10 dicembre, ricorre la Giornata mondiale dei diritti umani. “Abbiamo parlato di ripartenza, analizzando i diritti umani in Italia nel 2017 - afferma il professor Paolo De Stefani, dell’Università di Padova, che ha coordinato l’Annuario - ma la verità è che dovremmo parlare di scarsa dinamicità”. “La lettera di candidatura dell’Italia poteva essere scritta dieci anni fa”. L’affermazione del professor De Stefani è senza mezzi termini e si riferisce alla lettera di candidatura dell’Italia presentata a febbraio al presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite in vista dell’elezione a membro del Consiglio per i diritti umani dell’Onu per il periodo 2019-2021. Elezione che di fatto è poi avvenuta, con 180 voti a favore (il mandato diventerà operativo il 1° gennaio 2019). La lettera di candidatura dell’Italia cita, a sostegno della propria domanda, alcuni successi conseguiti sul fronte delle politiche nazionali, sottolinea l’Annuario. Si pensi ai piani nazionali d’azione su “Imprese e diritti umani” e “Donne, pace e sicurezza”, ma anche all’introduzione del reato di tortura nel codice penale, senza dimenticare l’adozione della legislazione sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. “Si tratta tuttavia - si legge nel report - di azioni che vedono la luce a rilevante distanza di tempo dalle relative raccomandazioni e assunzioni di impegno. Conseguenza di questa situazione è una sensazione di scollamento tra la realtà rappresentata dalle compressioni, riduzioni e vere e proprie violazioni dei diritti, e le risposte date dalle istituzioni”. Una delle problematiche emerse nell’Annuario sul fronte dei diritti umani per il 2017 è il tema che lega drammaticamente la condizione della donna al fenomeno della violenza, tanto che l’Annuario vi ha dedicato anche un focus iniziale. Analizzando anche la giurisprudenza, l’Università di Padova ha rilevato chiaramente che anche in Italia esiste una discriminazione sistematica verso le donne, che hanno difficile accesso alla protezione, così come capita in paesi come Turchia, Bulgaria e Moldavia. “Anche l’Italia - afferma il professor De Stefani - si presenta come un paese in cui la discriminazione e il tema della violenza verso le donne si affermano prepotentemente”. A sostegno di questa tesi, l’Annuario cita su tutte la sentenza Talpis del marzo del 2017, nella quale “la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che le autorità italiane hanno fallito nel proteggere la ricorrente e suo figlio dagli episodi di violenza perpetrati dal marito, culminati nella morte del figlio e nel tentato omicidio della stessa ricorrente, non essendo queste intervenute in maniera tempestiva in relazione alle richieste di aiuto della donna”. La Corte europea dei diritti umani ha quindi deliberato che c’è stata una violazione dell’articolo 2 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ovvero il diritto alla vita, per quanto riguarda la morte del figlio della signora Talpis e il tentato omicidio della stessa. E dell’articolo 3, ovvero il divieto di trattamenti inumani o degradanti, riguardo il fallimento delle autorità nel loro obbligo di proteggere la donna dagli atti di violenza domestica. Il tema dei profughi e richiedenti asilo è caldo e ostico per l’attuazione dei diritti umani in Italia. Tanto che nell’Annuario si riporta la lettera scritta nell’ottobre 2017 dal Commissario del Consiglio d’Europa indirizzata all’allora ministro dell’Interno Marco Minniti riguardo alle operazioni marittime dell’Italia nelle acque territoriali della Libia per la gestione dei flussi migratoria. “Una gestione - afferma il professor De Stefani - in qualche modo stigmatizzata dal Commissario perché rischiava di essere un’infrazione da parte dell’Italia”. Entrando nel dettaglio, il Commissario, dopo aver notato che consegnare i migranti alle autorità libiche potrebbe sottoporli a un rischio reale di tortura o trattamenti o pene inumane o degradanti, invita il Governo italiano a chiarire il tipo di aiuto che prevede di fornire alle autorità libiche nelle acque territoriali della Libia e le forme di tutela messe in atto per evitare rischi per le persone intercettate o soccorse da navi italiane in acque libiche. Il Commissario richiede anche informazioni relative alle misure tese a garantire che le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, incluse quelle condotte da attori non-governativi, continuino ad essere effettuate in modo efficace e sicuro. Ma non mancano - e l’Annuario lo evidenzia - anche esperienze-pilota di valore, come l’iniziativa dei corridoi umanitari, una sinergia tra organismi di società civile e realtà comunitarie e di volontariato, accompagnata dalle istituzioni dello Stato, per rendere possibile l’arrivo in Italia in condizioni di legalità e di sicurezza individui e famiglie provenienti da aree di conflitto che beneficeranno, una volta in Italia, della protezione internazionale. “Si tratta del secondo accordo - si legge nel report - siglato dopo quello del 2015, che ha consentito l’ingresso in Italia di oltre mille persone provenienti dal Libano, prevalentemente di nazionalità siriana. Il nuovo accordo consentirà l’ingresso di altre mille persone dal Libano e di 500 persone dall’Etiopia; in questo secondo caso, rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Eritrea, Somalia e Sudan”. Nel corso del 2017 l’Italia è stata esaminata dal Comitato dei diritti civili e politici. Gli argomenti trattati sono svariati, così come svariate si presentano le carenze del nostro Paese. “Manca ad esempio - rileva il professor De Stefani - una legislazione organica in materia di non discriminazione”. Tra queste - ha rilevato il Comitato - la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Tanto da invitare l’Italia a “riconsiderare la legislazione pertinente, per valutare la possibilità di consentire alle coppie dello stesso sesso di adottare bambini, compresi i figli biologici di uno dei partner della coppia, e per assicurare la stessa protezione legale ai bambini che vivono in famiglie dello stesso sesso rispetto a quelli che vivono in famiglie eterosessuali. Il Governo dovrebbe inoltre intensificare gli sforzi per combattere la discriminazione, l’incitamento all’odio e i crimini d’odio contro le persone Lgbt”. L’attenzione è rivolta anche ai discorsi d’odio e discriminazione razziale. Il Comitato chiede al nostro Paese di assicurare che tutti i casi di violenza a sfondo razziale siano sistematicamente sottoposti a indagini, che i perpetratori siano perseguiti e puniti e che venga fornito un adeguato risarcimento alle vittime. Più in particolare, per ciò che riguarda la comunità rom, sinti e camminanti, l’Italia è invitata a dare piena attuazione alla Strategia nazionale di inclusione e adottare tutte le misure possibili per evitare lo sgombero forzato dei membri di tali comunità e, in caso di sgomberi, assicurare che le comunità godano di protezione legale e siano dotate di alloggi alternativi adeguati. Altro tema evidenziato dall’Annuario è quello del sovraffollamento delle carceri. “Nonostante la promettente riduzione del fenomeno riscontrata nel biennio 2014-2015 - si legge nel rapporto - dovuta all’introduzione di una molteplicità di misure, tra cui alcune volte a limitare il ricorso alla detenzione penale tout-court, il rapporto tra persone detenute e capienza degli istituti penitenziari è ritornato a crescere, come puntualmente evidenziato, tra gli altri, dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa nel suo più recente rapporto sull’Italia”. In generale, si raccomanda all’Italia di affrontare il tema del sovraffollamento e quella viene espressamente definita sovra-rappresentazione degli stranieri nelle carceri, anche conducendo uno studio sulla discriminazione nei confronti degli stranieri nei procedimenti penali e sviluppando misure alternative alla detenzione. Su questo punto il Comitato per la prevenzione della tortura raccomanda alle autorità italiane di adoperarsi per garantire che gli standard minimi stabiliti dal Comitato stesso: 6 metri quadrati di spazio per celle singole, esclusi i servizi sanitari, e 4 metri quadrati per detenuto in celle multiple. Misure che dovrebbero essere applicate in modo sistematico in tutte le carceri italiane. Al capitolo maltrattamenti, infine, il Comitato raccomanda che sia trasmesso al personale di custodia il messaggio che i maltrattamenti fisici, l’uso eccessivo della forza e l’abuso verbale contro i detenuti non sono comportamenti accettabili e saranno sanzionati. “Inoltre, secondo il Comitato - si legge nel report - il personale delle carceri dovrebbe essere posto sotto una supervisione più attenta da parte dell’amministrazione penitenziaria e ricevere una formazione speciale sulle tecniche di controllo e di confinamento dei detenuti con tendenze suicide o autolesioniste”. Rafforzare i diritti della persona di Carlo Rimini* La Stampa, 10 dicembre 2018 Il 10 dicembre 1948 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Gli anniversari, come ha scritto ieri Maurizio Molinari, sono l’occasione per riflettere. La Dichiarazione Universale contiene anche un prezioso catalogo dei diritti fondamentali che ciascun uomo ha nei confronti degli altri. È una fonte del diritto privato contemporaneo. Afferma il diritto alla dignità, il diritto alla riservatezza, alla reputazione, il diritto a fondare una famiglia, al lavoro, al riposo e allo svago. Il nostro codice civile è del 1942. È stato promulgato solo sei anni prima della Dichiarazione Universale. In relazione ai diritti della persona è povero, quasi sciatto. Sembra scritto un secolo prima; invece è scritto solo prima della guerra. Sono menzionati espressamente solo il diritto al nome e il diritto all’immagine. È il figlio del codice napoleonico, promulgato in Francia nel 1804 (e ancora vigente). E il codice della società borghese, il cui impianto si è diffuso in Europa al seguito delle truppe napoleoniche. Al centro non c’è l’uomo ma la proprietà. La Dichiarazione Universale ha inaugurato quindi un’era nuova, elencando i diritti espressione della personalità, ritagliati sull’uomo e non sulle cose di cui è proprietario. Si tratta di diritti, ma anche di doveri di ciascuno “verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità” (art. 29). Eppure, in questo monumento della civiltà, vi è un aspetto in cui mostra i segni del tempo. È la descrizione degli strumenti di tutela dei nuovi diritti. Da questo punto di vista l’impostazione della Dichiarazione Universale è ancora ottocentesca. Si afferma solo che ciascuno può difendere in giudizio i propri diritti. La tutela è concepita secondo lo schema classico nel quale vi è una persona che subisce una lesione contrapposta all’autore della lesione. Lo Stato si limita a designare un giudice che, come un arbitro, comanda le punizioni dopo avere accertato il fallo. Oggi non è più sufficiente: bisogna fare di più. Basta pensare al diritto alla reputazione o all’immagine. Nel mondo contemporaneo, sanzionare le violazioni dopo che esse si sono verificate è inutile e spesso impossibile. La lesione si propaga velocissima su una rete di relazioni, spesso solo virtuali. L’aggressore non è più solo una persona, armata della sua tastiera: in un attimo diventano centomila e quindi nessuno. Il ruolo dello Stato deve quindi cambiare: non solo sanzionare, ma prevenire. Per questo occorre una grande conoscenza dei problemi tecnici; occorre fare squadra coni provider dei servizi offerti sulla rete. Occorre efficienza. Basta pensare alla dignità e all’uguaglianza nelle relazioni familiari. Dalla lesione dei diritti della persona entro le mura domestiche nascono mostri e tragedie. Anche in questo caso la sanzione successiva serve a poco. Lo Stato deve saper prevenire, per difendere le donne prima che la lesione della dignità diventi aggressione fisica. Anche per questo serve saper ascoltare, servono competenza ed efficienza diffusi sul territorio. Competenza e efficienza sono due requisiti fondamentali perché lo Stato riesca a tutelare i diritti della persona in un mondo complicato. *Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano Il naufragio dei diritti umani (anche) nelle democrazie liberali di Donatella di Cesare Corriere della Sera, 10 dicembre 2018 A 70 anni dalla dichiarazione universale Onu viene criminalizzato chi li difende. Sono trascorsi settant’anni da quando l’Assemblea generale della Nazioni Unite votò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Era il 10 dicembre 1948 e il mondo non voleva né poteva dimenticare quegli orrori della Seconda guerra mondiale, che non avrebbero più dovuto ripetersi. Da quel proposito nacque un testo costituito da trenta articoli in grado di garantire giustizia, dignità, opportunità, e impedire qualsiasi discriminazione. Libertà per la persona, rispetto per la vita di ciascuno. Nel celebrare oggi quella scelta, non si può fare a meno di constatare il naufragio dei diritti umani, soprattutto negli ultimi anni. Anziché essere protetti, rafforzati, estesi, quei diritti sono stati apertamente attaccati oppure nascostamente minati. Non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie liberali. I motivi del naufragio sono molteplici. Alcuni sono insiti già nel testo. Pur restando un documento fondamentale, il codice dei diritti umani è il prodotto dell’Occidente illuminato. Con il tempo ha finito per rivelarsi una sorta di lingua artificiale, priva di spessore storico. Non è un caso che i vari articoli siano stati intesi diversamente malgrado la loro pretesa universalità. Non pochi conflitti d’interpretazione sono poi degenerati in veri e propri scontri bellici. Ma c’è di più. Quel codice universale sembra scaturito da un’etica che promette solo legami astratti. D’altronde i diritti hanno un’impronta fortemente individualistica: è il singolo ad essere il protagonista. Il ruolo della comunità, che oggi appare sempre più decisivo, è invece trascurato. All’astrattezza filosofica e alla vaghezza giuridica si aggiunge un motivo più prettamente politico: quei diritti sono destinati a restare sulla carta, perché gli Stati, pur aderendo idealmente, non sono obbligati a rispettarli. Manca, dunque, l’obbligatorietà. Perciò gli esempi di diritti negati sarebbero innumerevoli. Che ne è ad esempio del diritto alla libertà, alla vita, al movimento? Nella nuova età dei muri e del filo spinato questi diritti sono sistematicamente violati. Anzi la violazione è eretta a sistema politico. La libertà di muoversi si arresta al confine. Sempre più acuto è il contrasto, lasciato in eredità dalla Rivoluzione francese, fra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. I diritti umani valgono solo se si possiedono i privilegi del cittadino. Chi non ha cittadinanza, un passaporto da esibire, lo scudo di uno Stato-nazione, non ha protezione giuridica. Di nuovo: è lo Stato sovrano che detta legge. Lo aveva denunciato Hannah Arendt reclamando, con una formula divenuta celebre, un “diritto ad avere diritti”. Perché si tratta del diritto all’appartenenza, la cui negazione costituisce la frontiera della democrazia. Infatti a proteggere è il diritto, non l’umanità. Così, chi non è coperto da bandiere e drappi, chi è più esposto nella propria nuda umanità, non può paradossalmente avere protezione. I diritti umani, inalienabili, irriducibili, non derivanti da alcuna autorità, sono allora condannati a naufragare. E con loro gli esseri umani respinti, banditi nell’inumano. Sappiamo bene che i diritti umani furono proclamati dopo la Shoah che aveva inferto una ferita profonda, per molti versi irreparabile, alla dignità umana. Ma che cosa vuol dire “dignità”? Non comportarsi come se si fosse nessuno, come se si fosse una cosa e non una persona. Compito, allora, affidato alla comunità, prima che al singolo. Ma soprattutto che cosa vuol dire “umanità”? Condivisa, ma sfuggente, la parola assume valore - ce lo insegna Primo Levi - nei casi di estrema umiliazione, di offesa, avvilimento, oltraggio. Il divario sempre più ampio è ormai quello tra la sfera politica, dominata dagli Stati, e l’azione umanitaria. Si spiega così la difficoltà in cui si dibattono gli enti sovranazionali e soprattutto le organizzazioni umanitarie. A cominciare da quelle che si occupano dei rifugiati. Proprio perché dovrebbero operare tra gli Stati, non solo sono costrette all’impotenza, ma vengono continuamente delegittimate e diffamate. È l’effetto di questi tempi in cui è diffuso un oscuro e inquietante sovranismo: non la tutela e l’applicazione dei diritti umani, bensì, al contrario, la criminalizzazione di chi li difende. Il Nobel per la pace a Nadia Murad ma i premi non bastano di Viviana Mazza Corriere della Sera, 10 dicembre 2018 Oggi la consegna del prestigioso riconoscimento all’attivista che ha denunciato gli stupri e le violenze dell’Isis. “Abbiamo bisogno di avere giustizia un giorno”. L’attivista yazida Nadia Murad riceverà oggi, insieme al medico congolese Denis Mukwege, il Nobel per la Pace, ma la sua comunità di 500 mila persone, vittima di un genocidio dell’Isis nel 2014 e ora divisa tra i campi profughi d’Iraq e la Germania, non può tornare a casa. Quattro anni dopo, i villaggi yazidi nel nord dell’Iraq restano in rovina. Cinquemila morti, tra cui sua madre e i suoi fratelli, giacciono nelle fosse comuni, mentre centinaia di donne e bambini rapiti sono ancora dispersi. Nessuna organizzazione internazionale ha provveduto a rimuovere le mine, né ad esumare e identificare i corpi. Nessuno è stato punito per gli stupri, ricorda Nadia. A che servono i premi quando manca la giustizia? L’abbiamo chiesto a Shirin Ebadi, avvocata costretta a lasciare il suo Iran dopo aver vinto il Nobel per la Pace: “I premi sono un segno di rispetto per le attività di una persona, per il punto al quale è arrivata. Dicono a chi combatte per i diritti che non è solo”. Quattro anni dopo un’infinita serie di discorsi, dall’Onu ai parlamenti di mezzo mondo, e di interviste in cui viene costretta a rivivere le violenze sessuali subite, Nadia continua la sua estenuante battaglia, come racconta il film “Sulle sue spalle” di Alexandria Bombach. I premi? Servono, ma non sono abbastanza. “Abbiamo bisogno di avere giustizia un giorno” dice la 25enne che voleva una vita semplice e un lavoro in un salone di bellezza, ma è stata catapultata nel mondo della difesa dei diritti. Le città, in prima linea sulle migrazioni di Georgios Kaminis e Giuseppe Sala* Corriere della Sera, 10 dicembre 2018 Nel 2018, la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città e nelle aree urbane. Questo numero continua a crescere perché sempre più persone si stabiliscono nelle città. Nel 2015, 22 città e aree metropolitane hanno accolto da sole 44 milioni di migranti a livello internazionale, quasi un quinto del totale globale. Oggi, il 19% della popolazione di Milano è di origine straniera. Più del doppio del 9% della media nazionale italiana. Questo è un segno dell’apertura e capacità di inclusione della città ed è anche uno dei suoi elementi di forza. Atene è stata l’epicentro della crisi umanitaria del 2015. Quasi un milione di persone in fuga da guerre e persecuzioni sono giunte in città alla ricerca di una vita migliore. Le nostre città offrono opportunità economiche, reti di servizi sociali e un’infrastruttura avanzata e ospitano già ampie comunità di immigrati. Ad ogni modo, contrariamente a quanto alcuni credono, le migrazioni non sono solo causa di problemi: hanno anche effetti positivi. Secondo la Banca Mondiale, gli immigrati hanno contribuito al 9,4% del Pil globale tra il 2000 e il 2014, 3 miliardi di dollari più di quanto avrebbero prodotto nei loro Paesi d’origine. Sviluppare politiche che permettano a tutti di contribuire e insieme di prendere parte alla prosperità delle nostre città è fondamentale. Anche se non è semplice, né immediato. Il nostro compito come sindaci è quello di rendere le città migliori e più vivibili. Oggi più di ieri e domani più di oggi. Per fare questo, dobbiamo creare opportunità e garantire sicurezza. Sebbene le città siano in prima linea sulla migrazione, come sindaci abbiamo spesso difficoltà a informare o influenzare il dibattito nazionale e internazionale su questo tema. Il Global Compact per una Migrazione Sicura, Ordinata e Regolare è un caso emblematico in questo senso. Anziché essere discusso in maniera appropriata e matura, questo accordo delle Nazioni Unite in diversi punti cruciali è stato utilizzato dai populisti come pretesto per assumere una posizione politica. La maggior parte dei governi non sono stati in grado di spiegare adeguatamente ai loro cittadini quale sia la posta in gioco. Alcuni hanno addirittura ritirato il loro sostegno a questo importante accordo di collaborazione. Dal nostro punto di vista, questo significa abdicare alle proprie responsabilità politiche. Il Global Compact elenca una serie di punti che tutti dovrebbero sottoscrivere. Gli obiettivi sono quelli di proteggere la sicurezza, la dignità e i diritti umani di tutte le persone, a prescindere dal loro status. Non possiamo e non dobbiamo tollerare alcun tipo di discriminazione basata sull’origine o lo status di una persona. È chiaro che la feroce opposizione al Global Compact che è esplosa in tutta Europa nelle ultime settimane non è legata al testo in sé per sé. In molti casi ha più a che fare con la politica che con la ragione. E benché possa far guadagnare voti, non risolve in nessun modo alcuno dei problemi legati alle migrazioni. Non è d’aiuto nemmeno per coloro che devono affrontare quotidianamente sfide concrete, come facciamo noi sindaci. Qualcuno crede veramente che lo Stato-nazione sia capace di affrontare queste sfide da solo, o che si possano fermare o ridurre i flussi migratori costruendo muri e rifiutando di collaborare con gli altri Paesi? Il Global Compact è il prodotto di mesi di discussioni tra governi e attori non governativi, tra i quali le città globali. Non è perfetto - un documento che deve essere approvato all’unanimità alle Nazioni Unite raramente lo è. E un compromesso. Ma è un passo avanti ricco di speranza. Se vogliamo fare meglio in futuro - e dobbiamo fare meglio - i livelli di governo internazionale e locale devono essere maggiormente coinvolti. Sindaci e altri rappresentanti di oltre 70 città di tutto il mondo si sono riuniti ieri a Marrakech per il V Forum dei Sindaci sulla Mobilità, le Migrazioni e lo Sviluppo Umano. In questo incontro è stato istituito il Consiglio dei Sindaci per le Migrazioni, del quale facciamo parte. Lo scopo è di condividere esperienze e di influenzare e migliorare la collaborazione internazionale sulle questioni migratorie. Le nostre città sono laboratori in cui le soluzioni a uno dei temi di politica più pressanti del nostro tempo vengono testate ogni giorno. A Milano si è sviluppato un meccanismo di accoglienza per proteggere, tutelare e integrare ogni anno i circa 80o minori stranieri non accompagnati, coordinando il ricco sistema del terzo settore e della società civile. Come sindaci, cerchiamo di trattare la questione con la sensibilità che questa merita. Ci concentriamo sul raggiungimento dei risultati per la nostra città e non sul guadagnare successi politici. Le città fanno da apripista e devono essere dotate degli opportuni poteri, conoscenze, connessioni e assistenza tecnica, affinché possano cooperare e scambiarsi le idee più efficaci per migliorare le vite dei propri cittadini. È ora di terminare questa politica di divisione e di iniziare una discussione costruttiva oltre i confini. Le città rimarranno aperte e inclusive, continueranno a combattere per essere un luogo sicuro per tutti i loro cittadini. *Georgios Kaminis è il sindaco di Atene. Giuseppe Sala è il sindaco di Milano. Entrambi sono membri del Comitato direttivo del Consiglio dei sindaci per le migrazioni, lanciato a Marrakech, Marocco l’8 dicembre 2018. Kenia. Si stringe il cerchio intorno ai rapitori di Silvia Romano di Lorenzo Simoncelli La Stampa, 10 dicembre 2018 Le autorità keniane sarebbero sempre più vicine al nascondiglio dove è tenuta prigioniera. Silvia Romano, la cooperante italiana rapita a Chakama, piccolo villaggio nel Sud-Est del Kenya lo scorso 20 novembre. Gli investigatori, sulla base di avvistamenti compiuti da alcuni pastori che vivono nella zona, sono certi che la giovane milanese sia ancora viva. La task force formata da unità della polizia e dell’esercito ha isolato la foresta di Boni, roccaforte del gruppo jihadista somalo Al-Shabaab e possibile mandante del sequestro, e le aree confinanti con le contee di Lamu, Garissa e Tana. È proprio in quest’ultimo distretto che, secondo gli inquirenti, Silvia potrebbe essere nascosti. Una regione immersa nella foresta abitata da piccole comunità di pastori che potrebbero spalleggiare i sequestratori offrendogli cibo e rifugio. “I rapitori sono nella contea del fiume Tana, hanno difficoltà a reperire mezzi di trasporto - afferma il quotidiano keniano The Nation - due loro motociclette, che sono state recuperate dalla polizia, si sono rotte nella foresta. Sospettiamo che siano nascosti da qualche parte nella foresta - prosegue il quotidiano keniano - aspettano che il caldo diminuisca per poter proseguire il loro viaggio”. Nessuna fuga in Somalia Difficile, invece, pensare che i sequestratori siano riusciti a raggiungere la Somalia grazie al tempestivo intervento delle autorità locali in grado di braccare i rapitori e circoscrivere il loro raggio d’azione. Un’ipotesi che, tuttavia, non esclude la possibilità che la cooperante si trovi nelle mani di miliziani prossimi o addirittura appartenenti della cellula fondamentalista di Al Shabaab in Kenya. Sul fronte degli arresti dopo la moglie di uno dei rapitori, la polizia ha fermato anche un alto ufficiale del Kenya Wildlife Service, l’organizzazione che tutela i parchi del Paese africano. La notizia è stata confermata dall’emittente televisiva di Nairobi Ntv. Questo arresto segue quello di un sergente, Abdullahi Bille, e di suo fratello, sospettati di legami con i rapitori. Pochi giorni fa, il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha incontrato alla Farnesina il vicepresidente del Kenya, William Ruto. Il titolare della Farnesina ha ribadito “la forte aspettativa italiana in una rapida liberazione” della volontaria Silvia Costanza Romano e ha sottolineato “quanto l’Italia tenga alla tutela dell’incolumità della giovane”. Anche il vice premier, Luigi Di Maio, nel suo incontro con il vice presidente keniota ha ricordato che “l’Italia è in apprensione per la sua connazionale” e ha espresso apprezzamento per “lo sforzo che stanno portando avanti le autorità. Abbiamo entrambi raccomandato la massima prudenza e discrezione affinché tutto vada a buon fine”. Tunisia. Il paradosso dei gay “Ora che siamo più liberi rischiamo più carcere” di Anna Zafesova La Stampa, 10 dicembre 2018 “In Tunisia un omosessuale non solo rischia la prigione, è una condanna a vita, il carcere non ci farà smettere di essere gay”. Il Paese dove è nata la primavera araba ha fama di essere all’avanguardia nel mondo islamico per rispetto dei diritti, ma l’avvocato Mounir Baatour, leader del Partito liberale e fondatore di Shams, la prima associazione Lgbt tunisina, denuncia l’aumento delle condanne per omosessualità, più di 70 nel 2017. Perché accade proprio in Tunisia? “Perché c’è maggiore libertà. È un paradosso. Abbiamo avuto la libertà di espressione e di associazione, ma l’hanno avuta anche coloro che odiano i gay. È il prezzo del progresso dei diritti Lgbt”. In cosa si manifesta questo progresso? “Prima della rivoluzione i media ci chiamavano “pervertiti”. Oggi ci chiamano “omosessuali”, non è più un insulto. Abbiamo potuto iniziare la campagna per l’abolizione dell’articolo 230 del codice penale che punisce i rapporti omosessuali con fino a tre anni di prigione”. È un obiettivo realistico? “Nel parlamento non c’è una maggioranza sufficiente, proponiamo di procedere a tappe. Innanzitutto, abolire i test anali cui la polizia sottopone chi è sospettato di omosessualità. Oltre a essere stati equiparati dall’Onu alla tortura fisica e mentale, non hanno nessun valore scientifico, ma chi li rifiuta ammette di essere “colpevole”. Chiediamo di vietare l’utilizzo di dati personali come foto sui telefonini come “prove”. Ci sono stati gay che avevano chiamato la polizia perché vittime di reati, ma invece di venire difesi sono stati incriminati”. Quando pesa l’islam? “In Tunisia è molto conformista: si fa il Ramadan, si fa il sacrificio dell’agnello, e poi lo si mangia con la birra. È la religiosità ipocrita e superficiale di una società retrograda, patriarcale, poco istruita. L’omosessualità è profondamente radicata nella cultura islamica. Ci sono stati califfi e poeti gay, poemi che cantavano l’amore omosessuale. Tra l’altro, il famigerato articolo 230 del codice penale tunisino è un retaggio coloniale francese”. La Tunisia è uno dei Paesi che fornisce più reclute ai movimenti jihadisti. Perché? “La sociologia risponde che è colpa della povertà, di una popolazione ignorante e quindi sensibile alla propaganda islamista. Non condivido questa ipotesi: quasi tutti i tunisini dell’Isis erano pluri-diplomati, venivano da famiglie benestanti. I seguaci dell’estremismo islamico in Tunisia restano una minoranza, ma è di nuovo il paradosso della libertà: da noi si può predicare tutto, anche l’islam più violento, che in Marocco, per esempio, è vietato”. Nei Paesi emergenti, non solo musulmani, spesso i diritti Lgbt sono visti come una questione che preoccupa solo una minoranza di intellettuali, mentre i veri problemi sono la povertà e il lavoro, ed è inutile predicare i diritti ai poveri. “La povertà e l’arretratezza non si possono sconfiggere in un giorno, ma è impossibile senza i diritti. Noi non rivendichiamo i diritti dei gay occidentali come i matrimoni o la procreazione assistita. Chiediamo soltanto di non finire in prigione, di avere la stessa giustizia di tutti i cittadini. Oggi non c’è gay tunisino che non voglia emigrare, lasciano anche lavori ben pagati e belle case, per chiedere asilo in Europa”. Lei crede che la battaglia per i diritti umani implichi uno scontro con le istituzioni e l’opinione pubblica, o preferisce un approccio più graduale, in attesa che la società maturi? “È un dilemma eterno. Lo aveva anche il primo presidente tunisino Habib Bourghiba, che abolì la poligamia e introdusse l’aborto e il divorzio invece del ripudio della donna. La società non è mai pronta, va spinta, soprattutto se è arcaica e arretrata come quella arabo-musulmana. Ci vuole la volontà politica, e coraggio. Quando abbiamo fondato Radio Shams, tuttora l’unica radio Lgbt nel mondo arabo, siamo stati inondati da insulti e minacce di morte. Dopo, l’opinione pubblica si è abituata, stiamo diventando qualcosa di normale”. Questo atteggiamento più pacato si manifesta anche verso Israele? “Il livello dell’antisemitismo e dell’antisionismo resta altissimo. La nomina, poche settimane fa, di un ebreo, Rene Trabelsi, a ministro del Turismo ha scatenato una campagna violenta contro di lui. La stessa che venne lanciata contro di me quando ho proposto di normalizzare le relazioni con Israele: sono stato accusato di “tradimento” per aver detto che l’ostilità verso lo Stato Ebraico non fa parte dei problemi della Tunisia”. Sicure, ordinate e regolate. Le migrazioni dei figli di sabbia del Sahel di Mauro Armanino contropiano.org, 10 dicembre 2018 Il patto globale pensato per le migrazioni le vuole proprio così. Sicure, ordinate e soprattutto regolate. La dottrina dell’OIM è stata dunque fatta propria dalle Nazioni Unite e da buona parte dei Paesi che l’hanno assunta. Si presenta così la migrazione che si vuole imporre per i figli di sabbia del Sahel come altrove nel sud del mondo. La sicurezza che a noi interessa è quella alimentare, quella di curarsi quando malati e quella di pagare l’affitto a fine mese. Ci preme la sicurezza che i figli possano terminare l’anno scolastico e che le piogge arrivino puntuali all’appuntamento desiderato. Ci affascina la sicurezza che dovrebbe accompagnare chi ha scelto di viaggiare. Per chi osa tradurre la mobilità in frontiere che si trasformano in passerelle strada facendo. La sicurezza che imponete è diventata appannaggio, qui come nel nord del mondo, dei militari e delle ditte che ne hanno fatto uno dei business tra i più lucrativi. Se migrazioni sicure significa per voi migrazioni scelte allora non è evitabile la domanda a chi appartenga il diritto di scegliere. Noi vorremmo essere sicuri di arrivare a destinazione e di essere trattati come soggetti di diritti umani. Vorremmo da voi la sicurezza di non essere detenuti e poi rispediti di forza alla sabbia da cui veniamo. Quanto poi ad essere ordinate, le migrazioni che esigete, ciò suona come un’illusione di cattivo gusto. Fate di tutto per sregolare l’economia, la politica, il commercio, la cultura, la democrazia, i nascituri e il clima. Avete colonizzato una parte del mondo e con la globalizzazione, da voi gestita e imposta, la perpetuate a piacimento. Avete fatto di tutto per ‘disordinarè il mondo e con le migrazioni, invece, vorreste ordinarlo. L’unico ordine che vi interessa è quello che mantiene le cose come stanno e che il mondo, così com’è, non si cambi affatto. Chiunque osi mettere in discussione il disordine che avete volutamente creato è tacciato di ribelle, sovversivo e terrorista. Siete riusciti a fare dei migranti dei criminali che infrangono, con vostro disappunto, il mondo che la disuguaglianza voluta rende funzionale ai vostri interessi di classe. Il vostro ordine non ci riguarda e le migrazioni non saranno mai assimilate ai vostri progetti. Ci arroghiamo il diritto di ‘disordinarè le vostre arroganti pretese di conservazione dei privilegi. L’ordine che proponete si trova coerentemente realizzato nei campi di detenzione dei sogni più belli che la nostra epoca abbia mai prodotto. Se intendete, infine, patteggiare la regolarità delle migrazioni con la nostra dignità allora vi sbagliate. Non riuscirete mai a modellarci secondo i vostri sistemi di omologazione economica. Ci avete definito dapprima clandestini e in seguito illegali, occultando che queste parole non sono che il frutto delle vostre scelte politiche e soprattutto etiche. La regolarità che preconizzate è quella dei cimiteri e dei supermercati che sono ormai le vostre cattedrali preferite. Preferiamo ancora la nostra vecchia e cara sabbia, così fedele a se stessa perché irregolare come le stagioni del Sahel La vostra regolarità invece non ci interessa. Ripetete la stessa storia da anni, fabbricate armi, guerre e paci senza pudore e poi arrivate come gli angeli custodi dell’armonia universale quando Natale si avvicina. Utilizzate i droni armati per regolare a modo vostro le contese e se questo non bastasse costruite muri che terranno lontano coloro che non si riconoscono nel vostro mondo. Perché mai dovremmo adeguarci alle vostre regole, dittature mascherate dell’unico pensiero che ancora vi interessi. Le merci da produrre, vendere e poi buttare dopo l’uso, esattamente come per i migranti. Non ci farete mai a vostra immagine e somiglianza, lo sapete bene. Siamo fedeli alla sabbia di cui siamo fieri di essere figli. Correre per la libertà, l’incredibile maratona nel carcere di San Quintino di Giulia Cannarella Corriere della Sera, 10 dicembre 2018 Il 14 dicembre al via 35 detenuti del penitenziario americano. La sfida della “Gazzella” Markelle Taylor per battere il suo personale e “uscire” per andare a correre a Boston. Una volta l’anno nella prigione di San Quentin, in California, si sente un rumore particolare. Quello di tanti passi, costanti e cadenzati. Quello più leggero di un respiro un po’ affannoso. E quello impalpabile di una momentanea libertà. In uno dei carceri più antichi degli Stati Uniti ogni novembre dal 2008 (ma quest’anno è stata posticipata) si corre la “26.2 to Life: The San Quentin Prison Marathon”. Una maratona unica dietro le mura di una prigione, che porta chi vi partecipa a sognare di essere libero almeno per qualche ora. Una corsa per la vita, per chi, quella stessa vita, è destinato a passarla dietro le sbarre. La maggior parte dei partecipanti sono in carcere per crimini violenti e stanno scontando l’ergastolo. A dare un motivo per cambiare ad alcuni di quei prigionieri e l’occasione per farlo ci ha pensato nel 2005 Laura Bowman-Salzsieder, fondatrice del 1000 Mile Club. Insieme a lei si sono dedicate al progetto di portare la corsa dentro un carcere altre 7 persone, tutti volontari, convinte che una seconda chance la meritino tutti. La corsa è quella seconda chance. Fondatore della maratona è un ex carcerato proprio di San Quentin, Ronnie Goodmann, che insieme al capo allenatore del club, Frank Ruona, ha deciso di tentare l’impresa di una 42km. Una volta avuta l’idea per realizzarla è servita un po’ di matematica. Lo spazio a disposizione è il solo perimetro della prigione, un percorso circolare di appena 0,4 miglia. Il traguardo è stato quindi posto a 105 giri. “Alla fatica fisica si unisce quella mentale, con un percorso ripetitivo che porta da un punto A allo stesso punto A più e più volte. Se una maratona è dura questa è anche peggio”, ha spiegato Ruona. Da quella prima volta, quando a superare la finish line è stato un solo corridore, il gruppo dei 1000 mile club si è allargato a 35 partecipanti che saranno al via della 42km di quest’anno. In origine in programma a metà novembre la gara è stata spostata al 14 dicembre per polveri tossiche nell’aria, conseguenza degli incendi che hanno devastato lo Stato. “Penso che in totale saranno in 18 a finire la gara - ha ipotizzato sempre il capo allenatore Ruona - molti prima del club non avevano mai fatto sport, non erano abituati a seguire regole o una tabella di allenamenti. Prepararsi per la maratona è un esempio di come affrontare ogni aspetto della propria vita”. Duro lavoro, impegno e regole sono le cose che spera di insegnare ai suoi runner. E uno in particolare ha preso molto seriamente i consigli del coach, anche perché ha più di un obiettivo da raggiungere. Si tratta di Markelle Taylor, the Gazelle, 46 anni. La Gazzella ha un personal best di 3:16 corso nel 2016 e spera di abbassare ancora il suo tempo quest’anno vincendo la sua terza maratona dietro le sbarre. Taylor ha anche un altro traguardo da raggiungere. Dopo aver visto sfumare per due volte la possibilità di uscire sulla parola, quest’anno la sua richiesta è stata accettata e a marzo 2019 tornerà ad essere un uomo libero. In tempo per correre quella che è la maratona sognata per tanto tempo dietro le sbarre: la Boston Marathon. Da capire se gli organizzatori potranno fare un’eccezione per lui. Il suo ultimo crono è di 3:20, ma per accedere a Boston, Markelle deve stare sotto i 3:15 e Frank Ruona sta cercando di spingerlo oltre quel limite. È partita inoltre una raccolta fondi per riuscire a portare “La Gazzella” fino a Boston, se dovesse ottenere il via libera alla gara, sul sito Fracture Atlas. Tutti quelli coinvolti nel progetto sperano che la storia di Markelle possa diventare una di quelle a lieto fine, che ispirano e magari diventano perfino un film. Intanto un film-documentario di un anno nella vita del 1000 miles club e della Maratona di San Quentin è in produzione e dovrebbe uscire nell’autunno 2019. La data di fine riprese è stata posticipata per inserire l’uscita di prigione di Markelle e forse le immagini di lui per le strade di Boston.