Il problema delle carceri italiane? Quella telefonata in più a settimana che si faceva a Padova di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 9 aprile 2018 Se qualcuno mi spiega che nelle carceri italiane si fa prevenzione dei suicidi, dico che ci credo poco. Valga come esempio la situazione della Casa di reclusione di Padova. A Padova, grazie alla battaglia civile condotta da Ristretti Orizzonti per l’umanizzazione delle carceri, e alla sensibilità di Direttori, che la loro autorevolezza l’hanno esercitata per rendere più dignitosa la vita detentiva, erano stati presi i provvedimenti più utili davvero per prevenire i suicidi: una telefonata in più a settimana per ogni persona detenuta, l’uso di Skype per chi ha la famiglia lontana, l’autorizzazione per i colloqui con “terze persone” resa più semplice, perché tutti capivano una cosa elementare: che mantenere delle relazioni costruttive con il “mondo libero” è fondamentale per la vita delle persone detenute. Ma negli ultimi mesi pare che la più grande preoccupazione di parte dell’Amministrazione penitenziaria sia diventata quella di cancellare il “cattivo esempio” di Padova. E ci sono riusciti. Scriveva la scorsa estate in una circolare Roberto Piscitello, Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dap: “Nell’ottica di migliorare il rapporto affettivo con le famiglie sarà cura dei Direttori (…) porre in essere ogni sforzo necessario a garantire a ciascun detenuto un contatto effettivo con i familiari. In questo senso, sono sicuro che non saranno mai strumentalizzate a pretesi fini disciplinari le conquiste in materia di collegamento a distanza, di uso della tecnologia e di ogni forma di esaltazione dell’affettività che incide fortemente sul benessere dei detenuti”. Sembrava un messaggio chiaro, anzi di incoraggiamento a quei direttori, che avevano avuto la forza di allargare il più possibile le opportunità per le persone detenute di rafforzare i loro legami affettivi. E ci abbiamo davvero sperato, che quel messaggio servisse a “salvare” le quattro telefonate in più di Padova, e anzi a promuoverle in altre carceri, ma Provveditore e nuovo Direttore hanno ritenuto opportuno, alla vigilia di Pasqua, di togliere quella cosa straordinaria che era la telefonata in più a settimana “sicura”, non affidata al buon cuore del Direttore e alla motivazione da trovare ogni volta per sperare che ti sia concessa una telefonata aggiuntiva per motivi di “particolare rilevanza”. Ma perché, ci chiediamo noi? Non è abbastanza “rilevante” dire che un figlio, una moglie, una madre a casa hanno tutti bisogno di qualcosa in più di quei miserabili dieci minuti a settimana consentiti? Nell’articolo 15 dell’Ordinamento Penitenziario, a proposito degli elementi del trattamento rieducativo, è scritto: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”. Penso a quelle famiglie delle persone detenute a Padova, a cui hanno tagliato quella boccata di ossigeno della telefonata in più, tra l’altro a costo zero per l’Amministrazione: penso alla bambina di Roverto, che già gli aveva gridato “Papà ti odio” quando lui dopo tre minuti le aveva chiesto di passargli la sorella, per dividere equamente quei brevissimi dieci minuti; penso a Francesca, la figlia di Tommaso, che sta a Reggio Calabria e da venticinque anni (lei ne ha ventisei) si deve accontentare di quelle poche telefonate, ma almeno da quando suo padre è a Padova poteva sentirlo un po’ di più; penso a quelle madri che dovranno tornare alla tristezza di quegli unici dieci minuti settimanali, magari da dividere con altri famigliari. So già che mi diranno che a Padova avevano osato troppo, “forzando” il Regolamento penitenziario: in realtà, credo che dovrebbero in tutte le carceri avere il coraggio di concedere almeno una telefonata in più, sulla base della semplice considerazione che OGNI DETENUTO ha motivi di sicura “rilevanza” per salvare i legami famigliari con quella telefonata settimanale aggiuntiva. Soprattutto in carceri, come quelle italiane, dove ci sono tanti diritti compressi, primo fra tutti quello di avere a disposizione uno spazio decente, ma anche di essere impegnati in un serio percorso di reinserimento. E dove, come a Padova, quella telefonata già c’era, possibile che si sia scelto di toglierla come se quello fosse il “cattivo esempio” per le carceri italiane? E non mi si dica che ogni settimana il detenuto può avanzare la richiesta di una telefonata in più, non mi si dica che di settimana in settimana si acconsentirà a centinaia di richieste. Sarà di nuovo il triste gioco della domandina, l’attesa, la “concessione” una volta sì e dieci no, la mancanza di qualsiasi certezza. A scuola di libertà. Testimonianze tra vittime e autori di reato Il Mattino di Padova, 9 aprile 2018 “Responsabilizzare chi ha commesso reati”. È stato un incontro davvero particolare, quello che si è svolto venerdì 6 aprile, presso l’aula magna dell’istituto superiore Alessandro Volta di Lodi, con il titolo “A scuola di libertà. Testimonianze tra vittime e autori di reato”. A intervenire sono state due persone con vissuti molto differenti tra loro, due persone che difficilmente si sarebbero potute incontrare se entrambe non avessero fatto un percorso di cambiamento. Cambiamenti sicuramente molto differenti tra loro, ma a unirli comunque è stata la voglia di comprendere l’altro e conoscere meglio se stessi. Giorgio Bazzega, figlio del maresciallo di pubblica sicurezza Sergio Bazzega, ucciso a Milano da un giovanissimo esponente delle Brigate Rosse, e Lorenzo Sciacca, redattore di Ristretti Orizzonti con una lunga esperienza di carcere, si sono ritrovati di fronte a 250 studenti per portare le loro testimonianze e per parlare della Giustizia riparativa, una giustizia che va oltre a una condanna quantificata in anni di detenzione, una giustizia che non ha lo scopo di punire, ma che tende a considerare il reato principalmente non come un’offesa contro lo Stato, ma come un danno alle persone e alle relazioni e, invece di punire gli autori del reato esclusivamente con il carcere, si preoccupa di riparare il dolore inflitto e cerca di ridare un significato, laddove possibile, ai legami di fiducia fra le persone coinvolte. Una giustizia che entra in punta di piedi nel disordine creato da un conflitto o da un reato. Giorgio Bazzega ha raccontato agli studenti degli istituti superiori Volta, Vegio, Villa Igea e Ambrosoli, di essere finito nel mondo della droga, di aver passato l’adolescenza a trovare nella droga una forma di anestesia, e di aver cominciato ad odiare lo Stato da quando vide per la prima volta Renato Curcio (ex brigatista) uscire dal carcere: “Sono riuscito a stare meglio solo quando ho incontrato gli esperti della giustizia riparativa che hanno dato gli strumenti, a vittime ed ex terroristi, di parlarsi e capirsi: se loro, gli esponenti della lotta armata, disumanizzavano le vittime identificandole con i ruoli di “poliziotto” o “giudice”, noi facciamo altrettanto parlando di “mostri”. (…) Oggi, io e Lorenzo stiamo frequentando lo stesso corso di mediazione penale. E non si tratta certo di buonismo: responsabilizzare chi ha commesso un reato serve alla vittima, che così ritrova un ruolo centrale anziché marginale della propria vicenda; al colpevole, che può capire il dolore che ha provocato; alla società, perché in questo modo si limitano le recidive”. Giorgio ha poi spiegato: “Ho avuto l’opportunità di incontrare tanti altri ex terroristi, quello che mi ha aiutato tantissimo nel superare il mio rancore, la mia rabbia, la mia voglia di vendetta è stato sostituire dei mostri che avevo nella testa con delle persone. Di fronte a queste persone mi sono reso conto quanto spesso anch’io mi sono trovato a un passo, forse a meno di un passo dal provare una esperienza simile a quella delle persone che sono finite come Lorenzo in carcere, e sono stato fortunato, sono stato fortunato per l’educazione ricevuta, sono stato fortunato perché nei momenti in cui ero in pericolo ho sempre avuto qualcuno che mi ha tirato fuori e me li ha evitati, quei pericoli. (…) Di fronte a questa consapevolezza non potevo non guardare con occhi diversi anche queste altre persone, i terroristi. Io faccio una distinzione tra queste persone, l’assassino di mio padre aveva 20 anni, la maggior parte di coloro che hanno sparato, che hanno ammazzato in quegli anni erano più o meno in quella fascia di età lì. Un lavoro che ho fatto è cercare di capire come un ragazzo, preso magari in situazioni disperate, e comunque indottrinato con grande capacità da parte di qualcuno, possa essere finito a fare quella scelta. La cosa più importante di tutta la mia esperienza è, a livello egoistico, lo smettere di odiare, di provare rancore, e sforzarsi di confrontarsi e di capire. Quello che però considero la cosa ancora più importante è che questa voglia di capire, questo cambiamento mi hanno permesso di vivere un po’ meglio. Non mi sveglio più con il mal di stomaco tutti i giorni, non ho più problemi di questo tipo e anzi, grazie a Dio, adesso mi impegno proprio per cercare di capire e la mia vita è veramente cambiata”. Lorenzo ha raccontato invece di quanto è stata distruttiva una carcerazione fatta in maniera irresponsabile: “Poi con la giustizia riparativa è nato un altro Lorenzo. Per me è stato significativo incontrare una donna che, sebbene fossero trascorsi oltre dieci anni da una rapina in cui era stata coinvolta, viveva ancora nella paura: non era una mia vittima diretta, ma ho capito che anch’io avevo segnato la vita di tante persone”. Dall’esperienza carcere alla giustizia riparativa, di Lorenzo Sciacca È stato un grande onore e una grande responsabilità ritrovarmi al fianco di Giorgio a narrarmi cercando di far comprendere ai giovani studenti che una pena vendicativa non può che portare altro male nella società. Invece una pena riflessiva, una pena fatta in maniera responsabile sia da parte del reo, ma anche da parte delle istituzioni, porterà al reinserimento nella società una persona migliore, una persona con il desiderio di riscatto e con la consapevolezza del male causato. Io oggi sono un uomo libero e non solo fisicamente, sono libero mentalmente, sono libero da quella ottusità ed egoismo che mi hanno caratterizzato per decenni. Ho ritrovato passioni che avevo represso per inseguire l’idea della “bella vita” e ne ho scoperte di nuove e questo grazie a un percorso intrapreso negli ultimi cinque anni di detenzione, un percorso dove ho potuto incontrare migliaia di studenti con il progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, ideato e portato avanti da anni dalla redazione di Ristretti Orizzonti. Sono stati gli studenti che con molta onestà e a volte crudezza mi hanno permesso di mettermi in discussione e mi hanno dato continui spunti di riflessione, giovani studenti che sono riusciti là dove la giustizia penale non era arrivata, cioè a mettere in crisi le mie certezze e spingermi ad assumermi le mie responsabilità. Il mio reinserimento come persona migliore nella società è avvenuto grazie a loro e a un sistema penitenziario, quello del carcere Due Palazzi di Padova, che ha permesso alla società di entrare all’interno dell’istituto. Tra gli studenti ho conosciuto vittime di reato, studentesse che dopo aver subito un furto in casa raccontavano le loro paure, oppure la professoressa sequestrata nel corso di una rapina in banca. Ma il mio percorso è stato anche caratterizzato da un cammino che mi ha avvicinato allo strumento della mediazione penale, uno strumento che mi ha aiutato ad ascoltare e a comprendere l’Altro. Oggi, con Giorgio, siamo iscritti alla stessa facoltà universitaria, sociologia, partecipiamo a iniziative di confronto tra i giovani, usciamo alla sera assieme, ci confrontiamo su quello che ci è accaduto nel passato e parliamo per progettare un futuro, eppure siamo persone diverse tra loro, siamo persone che tutti pensano debbano stare lontane, lui la vittima, io “il carnefice”, ma l’amicizia che stiamo costruendo è molto forte e va oltre tutti i luoghi comuni. Il codice penale recupera sistematicità e centralità del ruolo di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2018 Decreto legislativo 1 marzo 2018 n. 21. Un grande merito va riconosciuto al Dlgs 21/2018 (Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103 ) quello di aver posto sul tavolo con chiarezza la correlazione tra conoscibilità delle norme penali, rieducazione e concentrazione del perimetro sanzionatorio. Le materie e gli ambiti toccati dal provvedimento sono vari e strategici, si va dalla tutela della persona ai gravi reati legati alla criminalità organizzata, dall’ambiente al sistema finanziario e per finire ai casi particolari di confisca. Ma andiamo con ordine. Il principio della riserva di codice - Il caposaldo di questa opzione nomografica del 2017 è dato dall’articolo 1 del Dlgs 21/2018 che interpola, dopo l’articolo 3 del codice penale, un articolo 3-bis(“Principio della riserva di codice”) secondo cui “Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia”. La norma ha portata generale e ambisce a ripartire la nuova normazione penale tra il codice e un’inedita categoria di fonti primarie costituita dalle “leggi che disciplinano in modo organico la materia”. Se non proprio un testo unico, quanto meno delle disposizioni sistematiche e non isolate e frammentarie. Le modifiche in materia di tutela della persona - Un posto primario riveste la riallocazione nel Codice delle norme “in materia di tutela della persona”. Tra queste l’articolo 289-ter(“sequestro di persona a scopo di coazione”) che porta nel codice l’articolo 3 della legge 26 novembre 1985 n. 718 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979”) secondo cui “chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 289-bise 630, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica o una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni”. Di rilievo l’aver annoverato tra i precetti in materia di “tutela della persona” la modifica dell’articolo 388, comma 2, del Cp (inserito, invero, sotto il Capo dei delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie e senza alcuna attinenza diretta alla persona) secondo cui è punito anche colui il quale elude “l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio”, spostando nella cornice codicistica l’articolo 6 della legge 4 aprile 2001 n.154. Modifiche in materia di tutela dell’ambiente e del sistema finanziario - Il nuovo articolo 452-quaterdeciesè dedicato ora all’importante delitto di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” spostato da una sede ormai angusta, ossia quella del vecchio articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152. Meno persuasivo, è l’inserimento sotto il capo III del titolo VII, dedicato alla falsità in atti, del nuovo articolo 493-ter del Cp titolato all’indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento. La mancata collocazione della disposizione nella parte relativa ai reati contro il patrimonio compromette definitivamente la possibilità di fare applicazione - ai casi di indebito utilizzo dei mezzi di pagamento in questione in ambito infra-familiare - della scriminante di cui all’articolo 649 del Cp. Sicuramente meritevole è la traslazione nel codice dell’articolo 12-quinquies del Dl 306/1992 che costituisce, senza meno, il più importante strumento penale per la tutela dell’economia legale dai fenomeni di dissimulazione e infiltrazione dei patrimoni di provenienza illecita. Il nuovo articolo 512-bis del Cp punisce ora il trasferimento fraudolento di valori tutte le volte in chiunque si assista all’attribuzione fittizia ad altri della titolarità o della disponibilità di denaro, beni o altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter” con la conseguente modifica del richiamo anche all’interno dell’articolo 240-bis del Cp di nuovo conio. Modifiche su associazioni mafiose, con finalità di terrorismo e altri gravi reati - È stato inserito l’articolo 61-bis del Cp che sposta dall’articolo 4 della legge 16 marzo 2006 n. 146 di ratifica della Convenzione di Palermo sul crimine transnazionale la relativa circostanza aggravante. L’articolo articolo 69-bis del Cp ripropone i casi di esclusione del giudizio di comparazione tra circostanze per una serie di gravi reati, prima regolati in varie leggi speciali. Medesima operazione è stata compiuta con l’articolo 270-bis.1, dedicato alle circostanze aggravanti e attenuanti per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Inoltre è stata collocata ora sotto il nuovo articolo 416-bis.1 del Cp la disciplina della circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose ossia di quelle circostanze che aumentano la pena per i delitti punibili commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bisovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose e di quelle che agevolano la collaborazione e dissociazione dai sodalizi malavitosi con riduzioni della sanzione. Modifiche in materia di confisca in casi particolari - Il nuovo articolo 240-bis(“confisca in casi particolari”) recepisce le indicazioni e le prescrizioni provenienti dall’articolo 12-sexies, commi 1 e 2-ter, del Dl 306/1992 curandone - tuttavia - un’abrogazione “selettiva”: ai sensi, infatti, dell’articolo 7, lettera l), del Dlgs 21/2018 sono stati abrogati solo i commi 1, 2-ter, 4-bis, 4-quinquies, 4-sexies, 4-septies, 4-octies e 4-novies, mentre restano in vigore le ulteriori disposizioni. Così restano nella loro originaria sede i commi 4-ter e 4-quater dell’articolo 12-sexies, dedicati alla destinazione dei beni confiscati. Ne è derivata anche la modifica dell’articolo 104-bis disposizioni attuazione del Cpp la cui rubrica è ora dedicata alla “amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo e a sequestro e confisca in casi particolari. Tutela dei terzi nel giudizio”, mentre il nuovo comma 1-quater e 1-quinquies armonizzano le disposizioni in materia di amministrazione dei beni e di tutela dei terzi. Parimenti nell’alveo delle disposizioni di attuazione è confluito il nuovo articolo 183-quater(“esecuzione della confisca in casi particolari”) per l’individuazione del giudice competente a emettere i provvedimenti di confisca in casi particolari nella fase dell’esecuzione. Anche il nuovo articolo 578-bis del Cpp ha portato nell’alveo del codice di rito il caso in cui sia stata ordinata la confisca nei casi particolari, stabilendo che il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato. La protezione del malato di mente di Gemma Brandi* Quotidiano Sanità, 9 aprile 2018 Una Rete tra giustizia e servizi sul delicato confine tra protezione e contenzione. Sento di dovere prendere la parola sulla Salute Mentale italiana che tra poco celebrerà il quarantennale della sua fondazione, prima che si imponga il punto di vista che considera l’abbandono più rispettoso della protezione, quando questa non fosse desiderata dalla persona sofferente. Ho dedicato gran parte della mia vita professionale alla costruzione di pratiche interdisciplinari e interprofessionali tra Giustizia e Salute Mentale, pratiche da cui nascesse una teoria, che per la Magistratura è fortunatamente rappresentata anche dalle sentenze e dalla possibilità di argomentare, confrontare, commentare questi prodotti del lavoro quotidiano. La giurisprudenza rende il Diritto una materia viva. E il Diritto ha la possibilità ravvicinata di tradurre quella teoria in norme che ricadranno utilmente sulle pratiche. Si tratta potenzialmente del più virtuoso dei circuiti tra pratica e teoria. La Legge 180 operò una mossa strategica nel sottrarre alla Pubblica Sicurezza il ricovero coatto per coinvolgere Sanità Pubblica, Autorità Sindacale e il Giudice Tutelare, che ritengo rappresenti, nel Diritto Civile, il fronte avanzato della modernità, intesa come misto di interdisciplinarità, flessibilità, contaminazione vantaggiosa. Lo dicono le caratteristiche dei grandi studi professionali del mondo western, ma anche le crescenti esperienze di co-working nel settore giovanile. Proviamo a manomettere le parole, ciò che feci fin dalla scelta del nome da dare alla rivista che ho fondato e diretto per oltre un decennio, il quadrimestrale interdisciplinare Il reo e il folle. I termini protezione e contenzione del titolo potrebbero dare luogo ad una endiadi per niente ossimorica: contenzione protettiva. Proteggere, dal latino protegere, vale a dire pro, davanti, tegere, coprire, rinvia al gesto protettivo che il forte compie, quando si frappone tra un debole minacciato e la minaccia che lo sovrasta. È un gesto spontaneo e nobile, rintracciabile nella etologia. La parola è rassicurante proprio perché legata a questo moto generoso e vitale, sebbene “protettore” rimandi a una relazione umana tutt’altro che amichevole, una relazione dominante e invasiva, schiacciante ed esiziale. Contenere, dai latini cum e tenere, significa tenere insieme, dare continuità. Un termine altrettanto rassicurante quindi, trasformato, da un uso maligno che della contenzione è stato fatto, in una minaccia. Eppure, uno dei significati figurati della parola è proprio proteggere, difendere. Il senso che normalmente viene assegnato al significante è però un altro: reprimere, impedire, trattenere e infine moderare. Un crescendo che di nuovo allontana il senso negativo del termine. Comunque li si riguardi, proteggere e contenere non sono poi così distanti. Pensare alle parole orienta le nostre valutazioni e il nostro agire, visto che le parole fanno diventare vero quello che affermiamo e quindi è bene capire cosa affermiamo, non parlare a vanvera o superficialmente, dato che la superficialità è il vizio supremo (Oscar Wilde docet). Proviamo ora a riabilitare la contenzione e a mostrare come possa andare di pari passo con la protezione. Al termine contenzione ho personalmente preferito quello di coazione, che ricomprende la stessa contenzione rimandando ai significati di coercizione, obbligo e, in un contrappasso per niente peregrino, alla coazione di stampo psicopatologico. Se è vero che il trauma può essere curato con il contro-trauma, la coazione che è alla base dei sintomi psicopatologici non è strano che trovi la sua cura nel limite che dall’esterno viene costruito al dilagare della sofferenza: la luminosa virtù del limite. Antitetico all’uso benigno della coazione è l’abbandono -pigro o fondato su ideologie di maniera- del soggetto non compliant al suo destino di uomo libero, in realtà schiavo della sua coazione a ripetere e della sofferenza sperimentata e/o procurata. La delicatissima alternativa è tra l’uso benigno o maligno della coazione. Occorre affilare gli strumenti della coazione benigna per tenere in ordine la cassetta degli attrezzi della Giustizia e della Salute Mentale: penso a un uso appropriato e consapevole dell’Accertamento e del Trattamento Sanitario Obbligatori, oggi declinati in maniera non sempre corrispondente al mandato della Legge 180; al buon utilizzo della Legge sulla Amministrazione di sostegno, con la relativa formazione e la messa a punto di elenchi intelligenti degli amministratori; alla realizzazione di filiere alternative a carcere e Rems per i malati di mente autori di reato; a una disamina onesta della posizione di garanzia dello psichiatra, oggi tergiversata o interpretata in maniera assai superficiale (sempre Wilde). Il problema odierno, di cui non si parla, è quello di una psichiatria che rifugge dalle sue origini -che videro un medico decidere di concerto con un giudice il passaggio dell’uomo sofferente dal carcere all’asilo- nel momento in cui si muove al grido “no alle mie mani addosso, sì alle manette”, una psichiatria che restituisce alla zitta il folle alle mura del carcere, alla coazione troppo spesso maligna di un luogo che necessiterebbe di un arduo rivolgimento prima di potere funzionare da occasione per il malato psichico. Ma è anche il problema di una Magistratura poco disposta a scendere dallo scranno solitario in cui siede per confrontarsi con le grane delle persone e con coloro che di queste grane si occupano istituzionalmente. Senza uno sforzo per lavorare insieme, senza rinunciare al timore di mescolarsi, la Salute Mentale finirà male e l’idea di una Giustizia conveniente si dileguerà. Quel medico e quel giudice che con il cappellano decisero di aprire le porte dell’Isola delle Stinche, l’antico carcere fiorentino del 600, per dare asilo ai prodighi torturati, operarono la rivoluzione che ogni interdisciplinarità convinta è in grado di partorire. Quel Presidente della Sezione Famiglia del Tribunale di Firenze che intuì i rischi che il povero rampollo difficile correva e mise in moto la locomotiva del sollievo, dovrebbe passare alla storia per la semplicità con cui interpretò il suo ruolo e la gentilezza con cui seppe aiutare quell’uomo. Occorrerebbe sapere se e come la Salute Mentale abbia dato seguito all’introduzione di un fattore terapeutico per via giudiziaria, se si vuole davvero comprendere lo stato dell’arte di una norma rivoluzionaria e innovativa come la Legge 180, fuori da proclami che non servono al cittadino sofferente e ai suoi cari. * Psichiatra psicoanalista, Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto Da oggi lo sciopero dei giudici di pace: a rischio 500mila processi di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2018 Parte oggi, lunedì 9 aprile, il nuovo sciopero dei giudici di pace per contestare la riforma della magistratura onoraria voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. L’astensione dalle udienze andrà avanti per quattro settimane consecutive, fino al prossimo 6 maggio. A rischio - secondo l’Unione nazionale giudici di pace (Unagipa) e l’Associazione nazionale giudici di pace (Angdp), i sindacati promotori della mobilitazione - lo svolgimento di circa mezzo milione di procedimenti. Tra le richieste della categoria al futuro Governo e al prossimo Guardasigilli, lo stop all’attuazione della riforma Orlando (legge n. 57/2016: prevede l’introduzione compenso a forfait, l’estensione delle competenze anche nel penale e impegno lavorativo max due giorni a settimana) e la stabilizzazione dei giudici di pace e magistrati onorari in servizio, con l’applicazione del trattamento economico e previdenziale dei magistrati di tribunale. Verso l’impugnazione del nuovo concorso Gdp - Oltre a incrociare le braccia, i giudici di pace si preparano a impugnare i bandi di concorso per le nomine di nuovi magistrati di pace ed onorari, che “non riconoscono i titoli pregressi di esercizio di funzioni giudiziarie onorarie in violazione della legge delega” e il decreto ministeriale sulle dotazioni organiche, “che raddoppia il numero dei giudici di pace per destinare il 40% di loro nell’ufficio del processo in Tribunale ove i magistrati sono degradati a meri stagisti”. Per il concorso per titoli relativo a 400 posti complessivi nella magistratura onoraria (300 posti di giudici di pace e 100 per vice procuratori onorari) scaduto lo scorso 29 marzo il Consiglio superiore della magistratura è stato sommerso da quasi 60mila domande. Con riforma Orlando “crollo della produttività ed efficienza” - Il Ministro Orlando, malgrado la batosta elettorale delle forze politiche che sostenevano il Governo ancora in carica, sta portando avanti una riforma che segnerà il tracollo definitivo della giustizia in Italia” accusa l’Unione nazionale dei giudici di pace in una nota. Secondo l’Unagipa, giudici di pace e magistrati onorari “già oggi trattano il 60% dei processi civili e penali di primo grado; a fronte di un aumento futuro dei carichi di lavoro sino all’80% del contenzioso, l’attuale rapporto di lavoro a tempo pieno dei giudici di pace e dei magistrati onorari di tribunali e procure viene trasformato in un dopo lavoro con un impegno di non più di due giorni a settimana; ciò determinerà un crollo della produttività ed efficienza di tutti gli uffici giudiziari, i cui disservizi già oggi costano al Paese una perdita annua di circa il 2% del Pil, oltre ai risarcimenti per la legge Pinto”. “Braccialetto elettronico e processi veloci così possiamo fermare le aggressioni” di Maria Pirro Il Mattino, 9 aprile 2018 Il braccialetto elettronico per evitare che lo stalker torni sotto casa della vittima? “Può essere utile, assieme ad altre misure”, dice Lucia Annibali, l’avvocatessa sfregiata con l’acido dal suo ex, diventata simbolo dell’impegno contro le violenze sulle donne. Eletta deputato del Pd, da dove riparte la sua battaglia? “Dal lavoro serio portato avanti nell’ultimo anno e mezzo con il Dipartimento per le pari opportunità e la sottosegretaria Maria Elena Boschi. Va detto che la normativa oggi è abbastanza completa e aggiornata anche grazie agli interventi inseriti nel codice antimafia: non so, per questo, quanto siano necessarie ulteriori misure e precisazioni. Può essere importante, invece, garantire una risposta più rapida alle richieste di aiuto e continuare a sostenere un lavoro di rete”. In concreto, a quali azioni si riferisce? “Il Dipartimento per le pari opportunità si è occupato di scrivere una strategia nazionale: occorre perseguire la strada tracciata e, in particolare, insistere sulla formazione degli operatori, tra cui le forze dell’ordine, il ruolo dei centri anti-violenza pubblici e privati e la necessità di individuare strumenti efficaci contro il rischio di recidiva e nuove tragedie. Inoltre, è fondamentale velocizzare i processi”. In questo schema si inserisce il braccialetto elettronico, con l’obiettivo di evitare che le aggressioni si ripetano. “Per gli stalker, come in altri paesi, potrebbe funzionare: è una delle questioni sollevate con la sottosegretaria Boschi. Degli aspetti normativi si è infatti interessato il dipartimento per le pari opportunità, con la cabina di regia sul fenomeno e in sinergia con il ministero dell’Interno. Quanto ai problemi tecnici, mi risulta sia stata predisposta una gara per affidare la realizzazione dei dispositivi”. Quando e come usarli? “Dipende. Credo serva comunque il consenso di entrambe le parti, vittima e aggressore, per utilizzare questo strumento e, chiaramente, l’ultima parola spetta al giudice”. Quali questioni restano invece aperte e sono decisive, nella diciottesima legislatura, per le donne? “Vediamo innanzitutto cosa verrà fuori con il nuovo governo. Di certo, è importante non sprecare il lavoro svolto, che ha anche consentito di pubblicare le linee nazionali per l’assistenza ospedaliera: si tratta di strumenti che oggi valgono per tutti ed è bene non perderli”. Anche su questi temi può essere sottoscritto un contratto di governo sul modello tedesco? “Queste formule le lascio ad altri, che hanno posizioni politiche diverse”. Lei è oggi un riferimento per le vittime delle violenze, oltre gli schieramenti. La contattano in tante? “Sì, anche per ragioni professionali, e con alcuni rappresentanti dei centri anti-violenza si sono instaurati rapporti personali: lo scambio di idee ed esperienze su cosa e come migliorare interventi e tutele, è reciproco”. Cosa le chiedono di caldeggiare? “Qualcosa si potrebbe chiarire ulteriormente, non tanto sul piano penale, soprattutto sul piano civile. Nei procedimenti di separazione, ci sono ancora difficoltà nel cogliere la potenziale pericolosità di un genitore nei confronti dei figli”. Cosa vuol dire? “Che non si tratta, a volte, di semplici conflitti di coppia ma di storie di violenza da valutare in quanto tali, senza favorire una ricomposizione della lite. Bisogna sostenere una lettura e un’analisi delle situazioni più attenta, dando ascolto alle istanze sollevate dagli avvocati”. A proposito di denunce. A distanza di mesi, come valuta la mobilitazione #MeeToo? Rappresenta una rivoluzione culturale? “Forse, il movimento in Italia non ha ancora la natura assunta oltreoceano e non viene compreso allo stesso modo. Il nostro paese è indietro, resistono pregiudizi e stereotipi, tant’è che sul tema esprime giudizi diversi e la vittima viene caricata di responsabilità non sue. È importante, comunque, che si ponga l’accento su qualunque forma di disuguaglianza, ma senza contrapposizioni tra uomini e donne”. Sospensione pena, misure cautelari ancora disallineate di Alessandro Diddi Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2018 La sentenza 41/2018 - con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 656, comma 5, del Codice di procedura penale, nella parte in cui prevedeva, allo scopo di chiedere l’affidamento ai servizi sociali, la sospensione da parte del Pm dell’esecuzione della pena, anche residua, solo se non superiore a tre anni e non a quattro - ha riparato a una vistosa incoerenza, ma ha anche creato una smagliatura nel sistema delle misure cautelari. La decisione della Consulta è stata motivata dall’esigenza di emendare la situazione sorta dopo che il decreto legge 146/2013 ha elevato da tre a quattro anni il limite di pena detentiva che consente al condannato l’ammissione al beneficio dell’affidamento ai servizi sociali previsto dall’articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. Il legislatore, infatti, non ha elevato in modo corrispondente il termine previsto dall’articolo 656 del Codice di procedura penale che, nei casi in cui per la pena da eseguire sia possibile il ricorso alle misure alternative alla detenzione, prescrive che il Pm sospenda l’ordine di esecuzione della detenzione. Il mancato raccordo dei due termini, secondo la Consulta, viola l’articolo 3 della Costituzione. Le misure cautelari - Il ragionamento dei giudici può essere trasferito anche al regime di applicazione delle misure cautelari. Infatti, in base all’articolo 275, comma 2-bis, secondo periodo, del Codice di procedura penale, non si può applicare la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Questa previsione è stata introdotta dal decreto legge 92/2014 per raccordare il sistema delle misure cautelari con quello dell’esecuzione e per rafforzare il criterio, introdotto con il Codice del 1988, in forza del quale ogni misura deve essere proporzionata, oltre che all’entità del fatto, anche alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata. Non si ammette, quindi, che il bene primario di una persona possa essere intaccato dall’applicazione di misure intramurarie nel corso del processo per soddisfare esigenze cautelari funzionali all’accertamento di reati per i quali potrebbe non essere eseguita una pena detentiva. Il Codice di procedura penale segue con rigore tale criterio. Lo stesso articolo 275, comma 2-bis, prevede che non si possano applicare la custodia cautelare in carcere o l’arresto domiciliare, se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. E l’articolo 300 stabilisce che la custodia in carcere perda efficacia quando è pronunciata sentenza di condanna, anche se sottoposta a impugnazione, se la durata della custodia già subita non è inferiore all’entità della pena irrogata. Ma oggi un indagato, che potrebbe essere condannato a una pena inferiore a quattro anni, ma superiore a tre, potrebbe dover subire una custodia in carcere, nonostante la prevedibile ineseguibilità della condanna. Il fronte delle misure cautelari resta quindi aperto. Ed è verosimile che la Consulta possa essere chiamata a tornare sulla questione, intervenendo su una norma che si pone in contrasto non solo con il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ma anche con l’inviolabilità della libertà personale. Atti sessuali con minore, istanza di revoca o sostituzione misura cautelare va comunicata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 febbraio 2018 n. 5832. Il reato di atti sessuali con minorenne di cui all’articolo 609-quater del Cp rientra tra quelli commessi “con violenza alla persona”, per i quali, ai sensi del combinato disposto dei commi 2 bis e 3 dell’articolo 299 del Cpp, è posto, a pena di inammissibilità della richiesta, l’onere di colui che richieda la revoca o la sostituzione delle misure cautelari coercitive o interdittive di notificare la richiesta al difensore della persona offesa, o a quest’ultima direttamente se sprovvista di difensore. Lo ricorda la Cassazione con la sentenza n. 5832 dell’8 febbraio 2018. Infatti, la nozione di “violenza” in ambito comunitario e internazionale (cfr. in particolare direttiva 2012/29/Ue, recante norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato) è più ampia di quella positivamente disciplinata nel nostro codice penale ed è sicuramente comprensiva di ogni forma di violenza di genere, contro le donne e nell’ambito delle relazioni affettive, sia o meno attuata con violenza fisica o anche solo morale, tale cioè da cagionare una sofferenza anche solo psicologica alla vittima del reato. In tale nozione, quindi, rientrano anche le condotte contemplate dall’articolo 609-quater del Cp, che, sul presupposto dell’irrilevanza del consenso eventuale della vittima, comportano comunque una compromissione dell’integrità psicofisica riguardo alla sfera sessuale del minore che ne sia vittima. In ordine all’obbligo di comunicazione dell’istanza di revoca o di sostituzione delle misure cautelari coercitive applicate nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, si è recentemente puntualizzato che esso non è da intendere esteso onnicomprensivamente a tutti i delitti commessi con violenza alla persona, ma, onde contemperare razionalmente le esigenze di tutela della persona offesa con quelle dell’imputato a non vedere ingiustificatamente negato o sospeso l’esame della propria istanza de libertate, riguarda solo a quelli rispetto ai quali sia apprezzabile una tutela qualificata della persona offesa. Al riguardo, dovendosi tenere conto che la disciplina di garanzia si pone nell’alveo dei principi e delle scelte di politica legislativa espresse dalla direttiva del Parlamento e del Consiglio 2012/29/Ue del 25 ottobre 2012 (“norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”) e dalla Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (ratificata dall’Italia con legge n. 77 del 2013), per determinare i casi cui è applicabile la disciplina dell’obbligo di comunicazione il giudice dovrà tenere conto della “tipologia di parte offesa” (potendosi considerare il fatto che si tratti di parte offesa di delitti connessi alla tratta di esseri umani, al terrorismo, alla criminalità organizzata, alla violenza o sfruttamento sessuale, o di delitti basati sull’odio, ovvero il fatto che si tratti di parte offesa minorenne) o del “movente del reato” (potendosi considerare che si sia trattato di c.d. violenza di genere) ovvero del “contesto” in cui il reato è stato commesso (potendosi considerare rilevante il fatto che si sia trattato di vittima di violenza in “relazioni strette”, come dettagliato nel par. 18 delle premesse della direttiva 2012/29/Ue, ossia avendo riguardo al fatto che la violenza sia stata commessa dall’attuale o precedente coniuge o partner della vittima o da un altro membro della sua famiglia, a prescindere dalla circostanza che l’autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima, anche in relazione alla sfera economica della vittima medesima) (sezione II, 8 giugno 2017, Bruno, che, da queste premesse, in una fattispecie de libertate in cui la contestazione riguardava il reato di rapina, ha annullato con rinvio l’ordinanza che, invece, aveva ritenuto necessaria la previa comunicazione dell’istanza di revoca della misura cautelare). In tema, con riferimenti sempre alla nozione di delitto commesso con “violenza alla persona”, cfr. anche sezioni Unite, 29 gennaio 2016, persona offesa F. in procedimento C., laddove si è affermato che la disposizione dell’articolo 408, comma 3 bis, del Cpp, che stabilisce l’obbligo di dare avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione con riferimento ai delitti commessi con “violenza alla persona”, è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti, previsti rispettivamente dagli articoli 612-bise 572 del Cp, perché l’espressione “violenza alla persona” deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario. Il reato di esportazione illecita di beni culturali. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2018 Reati - Beni di interesse artistico - Opere d’arte - Art. 174, D.Lgs 42 del 2004 - Uscita o esportazioni illecite. Il trasferimento all’estero di cose di interesse culturale di non eccezionale rilevanza di cui all’art. 65, comma 3, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, diverse da quelle di cui all’allegato A, lettera B n. 1, e di valore pari o inferiore a euro 13.500,00, non integra il reato di esportazione illecita di beni culturali di cui all’art. 174, comma 1, del medesimo decreto legislativo. Le modifiche introdotte dall’art. 175, comma 1, lett. g), nn. 1 e 2, l. 4 agosto 2017, n. 124, in quanto incidono sulla struttura del reato di cui all’art. 174, restringendone l’ambito applicativo, si applicano anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 8 marzo 2018 n. 10468. Reato ex art. 174, dlgs 42/2004 - Beni culturali o di interesse culturale - Trasferimento all’estero senza attestato di libera circolazione (Paesi comunitari) o licenza di esportazione (Paesi extracomunitari) - Sequestro probatorio - Fumus del reato - Sussiste. È legittimo il “sequestro probatorio” alla dogana di “beni culturali” qualora chi li esporta non sia in grado di dimostrare che sono opera di autore vivente o che la loro esecuzione non risalga a oltre 50 anni. Soltanto in questi due casi, infatti, l’esportazione non necessita di alcuna autorizzazione. (La Corte ha confermato il provvedimento cautelare emesso dal Tribunale, dichiarando inammissibile il ricorso del proprietario che invece lamentava l’assenza del fumus commissi delicti, ricordando che è il diretto interessato che ha l’onere di provare che il bene che sta esportando non rientra in tali due categorie). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 29 agosto 2017 n. 39517. Beni culturali - Illecita esportazione - Disciplina ex art. 174, d.lgs. 42/2004 - Ratio - Configurabilità del reato - Danno al patrimonio artistico nazionale - Irrilevanza. La norma incriminatrice di cui all’art. 174 del Codice dei beni culturali punisce non la violazione del divieto di esportazione ma - a monte - il trasferimento all’estero di cose per le quali non sia stato ottenuto l’attestato di libera circolazione (per il trasferimento verso paesi comunitari) o la licenza di esportazione (per il trasferimento verso paesi extracomunitari) e, dunque, punisce l’esportazione non accompagnata dal provvedimento autorizzatorio di uno dei beni indicati dalla norma, a prescindere dal fatto che “l’autorizzazione” possa essere in concreto rilasciata. Ne consegue che, sussistendo la qualità di bene culturale e mancando l’attestato richiesto o la necessaria licenza, è di tutta evidenza la configurabilità del reato indipendentemente dalla produzione di un danno al patrimonio artistico nazionale. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 29 agosto 2017 n. 39517. Patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale (cose d’antichità e d’arte) - In genere - Illecito trasferimento all’estero di cose di interesse artistico - Confisca obbligatoria - Natura sanzionatoria - Esclusione - Conseguenze. Quando è configurabile il reato di illecito trasferimento all’estero di cose di interesse storico o artistico, la confisca prevista dall’art. 174, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, deve essere obbligatoriamente disposta anche se il privato non è responsabile dell’illecito o comunque non ha riportato condanna, fatta salva la sola eccezione che la cosa appartenga a persona estranea al reato, poiché trattasi di misura recuperatoria di carattere amministrativo la cui applicazione è rimessa al giudice penale a prescindere dall’accertamento di una responsabilità penale. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 ottobre 2015 n. 42458. Firenze: suicida in carcere un marocchino con problemi psichici Askanews, 9 aprile 2018 Nuovo suicidio di un detenuto in un carcere italiano, ieri a Sollicciano (Firenze): “nel primo pomeriggio - riferisce Pasquale Salemme, segretario nazionale per la Toscana del sindacato Sappe - un detenuto di origine marocchina ubicato al Reparto assistiti si è impiccato alla finestra del bagno della cella dove era allocato. L’intervento del personale di Polizia penitenziaria, che si è prodigato anche per i primi soccorsi, è stato immediato ed ha consentito l’invio del detenuto al pronto soccorso dell’ospedale cittadino. Purtroppo, tale tempestività non ha permesso di salvare la vita al detenuto che è deceduto in ospedale. Il detenuto era in attesa di giudizio ed era stato ubicato al reparto degenza per problemi psichici. È deceduto in ospedale alle 17.45”. Per il segretario generale del Sappe, Donato Capece, “questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. Milano: con la visita al carcere di Bollate parte il #PannellaMay mi-lorenteggio.com, 9 aprile 2018 Due mesi e oltre di iniziative per ricordare Marco Pannella a 2 anni dalla scomparsa (19 maggio 2016): visite alle carceri con molti amministratori locali di vari partiti, richieste di intitolazione al leader radicale di vie, giardini e parchi in varie città lombarde che culmineranno il 20 maggio con la intitolazione dei Giardini Pannella a Milano fatta da militanti radicali. Il tutto anticipato da un aperitivo giovedì sera e inserito nella campagna per i 3000 iscritti al Partito che ne consentirebbero la esistenza e un nuovo congresso. Sabato 14 aprile alle 10 al carcere di Bollate verrà svolta una visita da una delegazione del Partito Radicale composta dagli iscritti Gianni Rubagotti, Diego Mazzola, Massimo Mancarella. Con loro il Sindaco di Baranzate Luca Elia (Pd) e i consiglieri comunali Luca Caracappa (Baranzate, 5 Stelle), Mirko Venchiarutti (Rho, 5 Stelle), Barbara Sordini (Novate Milanese, 5 Stelle), Sergio Valsecchi (Sesto San Giovanni, Sesto nel Cuore). Sabato 28 verrà visitata la casa di reclusione di Opera ed è in programmazione anche una visita a San Vittore per terminare con le carceri milanesi. A Radio Radicale Francesco Monelli ha già annunciato il 27 marzo scorso che a Mantova è iniziata la mobilitazione per chiedere la intitolazione al leader radicale dei giardini che verranno realizzati accanto all’antico cimitero ebraico della città. A Paderno Dugnano (provincia di Milano) dopo una lettera aperta ai consiglieri comunali è in corso una raccolta firme per chiedere che il Parco Spinelli venga intitolato anche a Pannella e agli Stati Uniti d’Europa. A Como è già stata inviata al Presidente del Consiglio Comunale una lettera per dedicargli la via che porta al carcere cittadino e altre iniziative di questo tipo sono in via di presentazione. In particolare domenica 20 maggio ai giardini di Piazza Aquileia ci sarà la intitolazione del luogo a Marco Pannella, eseguendo il volere del Consiglio Comunale che la ha chiesta il 28 settembre 2016. I militanti presenti opereranno in sostituzione della Giunta di Milano che preferisce aspettare 10 anni per quel luogo ma in tempi molto più brevi ha intitolato una palazzina a Dario Fo e una scuola a Umberto Eco. Ha annunciato la sua presenza Raffaele Sollecito che sarà presente anche alla visita al carcere di Opera. Inoltre a fine mese partirà la raccolta firme su 8 proposte di legge di iniziativa popolare del Partito Radicale. Il tutto verrà anticipato giovedì da un aperitivo aperto a tutti al pub alle 1930 La Ringhiera in via ripa di porta ticinese 5 nella della movida milanese. Perugia: il volume “Norme e normalità” presentato all’Università garantenazionaleprivatiliberta.it, 9 aprile 2018 Doppio appuntamento del Garante nazionale al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia: la presentazione di “Nome e normalità” e una lezione nell’ambito del laboratorio di scrittura giuridica sullo stile delle Raccomandazioni. La mattina su iniziativa delle cattedre di Sociologia del diritto e Diritto processuale penale, si è svolta una presentazione di “Norme e normalità”, la raccolta delle Raccomandazioni formulate dal Garante nazionale nell’ambito dell’esecuzione penale per adulti. Oltre a Stefano Anastasia e Rossella Fonti, che hanno promosso l’evento, sono intervenuti Daniela de Robert, Claudia Sisti e Giovanni Suriano del Garante nazionale e la direttrice della Casa circondariale di Perugia Bernardina Di Mario. Inoltre, hanno preso parte alla presentazione gli studenti della Clinica legale penitenziaria-Sportello per i diritti in carcere della Facoltà di Sociologia del diritto. Nel pomeriggio il Garante nazionale è intervenuto al Laboratorio di scrittura giuridica, illustrando il proprio lavoro con particolare riferimento alla metodologia della scrittura dei Rapporti e delle Raccomandazioni, nella prospettiva della definizione di standard nazionali. Salerno: l’impegno della Fidu “vicini ai figli delle donne detenute” La Città, 9 aprile 2018 I diritti dei bimbi sono violati in tante parti del mondo. E, anche in Paesi ad alto livello di sviluppo come l’Italia, esistono ancora fasce di povertà, sfruttamento e sottocultura. Ed è per denunciare e riflettere su queste tematiche che la Fidu (Federazione italiana diritti umani) ha promosso un incontro al Comune dal titolo “L’infanzia svantaggiata”. Al dibattito hanno partecipato, tra gli altri, l’assessore alle Politiche Giovanili e all’Innovazione, Mariarita Giordano; il consigliere comunale Antonio Carbonaro, il presidente nazionale Fidu, Antonio Stango, la coordinatrice nazionale comitati locali Fidu, Fiorinda Mirabile. La Federazione, attiva dai primi anni Ottanta e formalmente dal 6 ottobre 1987 con la costituzione del Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani, si propone di promuovere la tutela dei diritti umani come sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, dal Patto internazionale sui diritti civili e politici e dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, dall’Atto finale di Helsinki della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa del 1975, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2007. La Fidu opera per diffondere la conoscenza dei diritti umani, monitorarne e denunciarne le violazioni, creare una maggiore sensibilità nell’opinione pubblica, esercitare influenza sugli Stati affinché essi si attengano agli impegni sottoscritti in materia di diritti umani. Rispetto alle problematiche locali, la Federazione ha acceso i riflettori soprattutto sulle condizioni di difficoltà d’inserimento dei figli dei detenuti. Altra questione particolarmente delicata quella dei bambini, figli di donne che sono in stato di detenzione. E poi, ancora, grande attenzione ai temi dell’accoglienza e ai diritti dei giovani migranti. Genova: i detenuti della Casa Circondariale di nuovo sul palco della Corte artslife.com, 9 aprile 2018 Il teatro in carcere si è mostrato un viatico consolidato per aprire le porte degli istituti di pena italiani, ed indubbiamente, tra mille difficoltà, traversie, successi e insuccessi, la pratica del teatro in carcere ad oggi è assurta a un livello strutturale e creativo altissimo. Dimostrazione lampante ed oramai consolidata quella dell’Associazione Culturale Teatro Necessario Onlus e la Compagnia Scatenati che comprende gli attori detenuti della Casa Circondariale di Genova Marassi che da anni fanno un lavoro egregio che fa bene in primis a loro stessi, ma anche a chi li va a vedere. Quest’anno, dal 10 fino al 15 aprile, Fabrizio Gambineri e Sandro Baldacci portano sul palcoscenico del Teatro alla Corte di Genova (fuori abbonamento) lo spettacolo “Desdemona non deve morire”, liberamente tratto dall’Otello di William Shakespeare. Grande entusiasmo come sempre da parte del Direttore del Teatro Stabile di Genova che accoglie questa produzione: “Siamo contenti di questa collaborazione con Teatro Necessario che è nata tre anni fa e che finché sarò io alla direzione resterà un punto fermo nel nostro programma stagionale - ha detto Angelo Pastore - mi sarebbe piaciuto seguire anche le prove, ma ahimè la burocrazia mi uccide e da tempo non riesco più a seguire neppure quelle che riguardano le nostre produzioni interne. Un vero peccato”. Dello stesso parere la Direttrice della Casa Circondariale di Genova, Dott.ssa Milano: “Sono sempre emozionata quando si fa teatro in carcere, perché è una cosa che a noi dà la forza di andare avanti anche quando tante altre cose non vanno come dovrebbero. Noi vorremmo che le camere detentive fossero tutte belle ed accoglienti come il teatro e che l’occasione di fare teatro non fosse concessa solo a 50 detenuti ma a tutti i più di 700 che sono rinchiusi nel nostro complesso. Certo, mi rendo conto che non tutti sarebbero n grado di applicarsi con l’impegno che comporta, ma certo il teatro è un’opportunità che fa bene, togliendo i reclusi dallo stare 24 ore a letto o davanti alla tv”. La sfida di fondo, infatti, quando si parla di teatro e carcere, è fare di un luogo di detenzione uno spazio aperto alla cultura, di ripensare il concetto di riabilitazione oltre quello della punizione. Sandro Baldacci, regista di “Desdemona non deve morire”, spiega così il suo nuovo lavoro: “Questa volta abbiamo scelto di affrontare il tema della violenza di genere. In un contesto sociale in cui la violenza sulle donne occupa quotidianamente un posto di primo piano nella cronaca nera, questa rivisitazione visionaria di Otello, l’archetipo shakespeariano di tutte le gelosie, si prefigge lo scopo di scandagliare le deviazioni psicologiche che possono spingere un uomo a trasformare “il più bel sentimento del mondo” in un incubo atroce. Il tema è stato trasposto in ambiente militaresco, adattandolo in un presidio mediorientale attuale. Otello arriva in questa zona militare dove si svolgerà tutta la vicenda, saltando il primo atto della tragedia Shakespeariana. Abbiamo voluto dare molto spessore alla figura di Emilia, la moglie di Jago - continua il regista - che abbiamo deciso di fare sopravvivere. Sarà lei infatti nel monologo finale a palesare i crimini dei vari personaggi non salvandone nessuno”. Otello che avrebbe dovuto essere uno dei detenuti, a causa di un infortunio (avuto giocando a pallone), sarà sostituito dall’attore Antonio Carli, che in una sola settimana ha dovuto prendere in mano la situazione imparando velocemente a memorizzare la parte che ancora sta provando assieme a tutta la compagnia. Gli altri attori professionisti impegnati nello spettacolo sono: Igor Chierici nel ruolo di Iago, Martina Limonta in quello di Desdemona e Cristina Pasino in quello di Emilia. La produzione ha visti impegnati anche gli studenti Dell’istituto Vittorio Emanuele di Genova che hanno contribuito alla parte grafica del manifesto. Orario spettacoli: ore 20.30 martedì, mercoledì, venerdì, sabato - ore 19.30 giovedì - ore 16 domenica. Autore: Francesca Camponero - Nata a Genova, assieme agli studi classici intraprende quelli della danza. Dopo la Laurea in Giurisprudenza, nel 2001 consegue il diploma in” Regia teatrale” presso l’Accademia Naz. Di Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma. É stata assistente alla regia di importanti registi teatrali tra cui Gabriele Lavia e Mario Missiroli. Iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti, dal 2005 al 2013 ha lavorato per Il Giornale (critico di teatro e danza) e collaborato con le riviste Sipario, Tutto Danza. Dal 2014 al 2017 è stata redattore cultura/spettacolo Liguria Notizie. Ha insegnato all’Università degli Studi di Genova - Dams - Polo Imperia. Ha pubblicato due libri, Incontri davanti e dietro la quinte (Premio letterario “La mia storia 2014”) e “Stelle della danza sotto il cielo di Nervi” ed. Cordero, 2017. LA sua commedia “Un tavolo per quattro” ha vinto il 2° Premio Efesto Città di Catania Edizione 2016 - Sezione Teatro. Pescara: il 16 aprile spettacolo teatrale con volontari e detenuti abruzzonews.eu, 9 aprile 2018 Il prossimo 16 aprile arriva a Pescara al Circus, alle ore 10.30 e alle 17.00, “Quando si spengono le luci, storie del Terzo Reich”, rappresentazione teatrale tratta da un libro di racconti di Erika Mann, edito da il Saggiatore, liberamente adattato da Carla Viola e con la regia di Alberto Anello. Patrocinata dal Comune di Pescara, dalla Fondazione PescarAbruzzo e dall’Anpi, è organizzata dalla Casa Circondariale di Pescara e dall’Associazione Voci di dentro, Onlus che da anni opera all’interno delle carceri. Sul palcoscenico, in un atto unico di circa un’ora e quindici minuti, un cast d’eccezione composto da undici detenuti della Casa circondariale di Pescara e sette volontari, l’ingresso è gratuito, per prenotazioni scrivere all’Associazione Voci di dentro al seguente indirizzo: teatro@vocididentro.it. “Siamo sempre lieti di ospitare e sostenere iniziative che hanno come tema la rieducazione, l’inclusione, una realtà vera per la casa circondariale di Pescara che eccelle per iniziative in tal senso - così il sindaco Marco Alessandrini - Più volte ho assistito a spettacoli davvero straordinari, segno che la musica, il teatro, la poesia, sono mezzi speciali per rieducare alla vita e al rispetto delle regole, oltre che a umanizzare luoghi in cui storie e realtà da affrontare sono dure”. “Lo spettacolo è già andata in scena con gran successo nel carcere di Pescara il 24 febbraio - illustra il presidente dell’Associazione Voci di Dentro Francesco Lo Piccolo - e torna in città dopo la data in programma all’Università D’Annunzio a Chieti dove si svolgerà la mattina dell’11 aprile (saranno presenti tra gli altri l’Ambasciatore di Israele Ofer Sachs, i rettori delle Università di Chieti e di Teramo), è frutto di un anno di lavoro dell’Associazione Voci di dentro. Al centro di questa nuova iniziativa della Onlus c’è il tema della violenza e della soppressione della libertà ad opera del regime nazista. Ma soprattutto è un momento di studio e di riflessione, di incontro tra persone, di dialogo e di confronto alla scoperta dell’altro, del rispetto, della fiducia e della collaborazione, contro resistenze, pregiudizi e insicurezze che possono creare fratture e muri. Dunque teatro per conoscere, perché il passato sia davvero di insegnamento per il nostro presente perché non accada più che l’altro sia considerato il nemico da uccidere. Perché l’altro è parte di noi, e la vita degli altri è la nostra stessa vita. Emozione, tensione, paura, magia, illusioni: c’è questo e tanto altro in questo atto unico. Un lavoro non facile: molti degli interpreti sono stranieri con qualche difficoltà con la lingua italiana e tanti sono dovuti essere sostituiti in più occasioni per via di trasferimenti e uscite dall’Istituto per fine pena. Un lavoro non facile anche perché realizzato dentro un carcere, luogo dove regole e tempi non sono certo uguali a quelli che ci sono nella società esterna. Ma alla fine il risultato c’è stato. Ed è un successo. Un grande successo: per il tema affrontato, per le riflessioni che suscita, per l’emozione delle parole del testo e della musica, tra corse e danze, e improvvisi rallentamenti. Dove il fantastico è unito e confuso alla realtà dando luogo alla follia collettiva che investe uomini e donne sotto il regime. Sotto qualunque regime”. La storia - Tutto si svolge in una stazione di un piccolo paese della Baviera poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale: un uomo con una valigia scende dal treno e inizia a camminare nella confusione, in un via vai di gente che si muove come se fosse in cerca di un riparo o in fuga da quella città dove nessuno riesce a capire che cosa sta succedendo, che cosa è già successo e soprattutto quello che da lì a poco succederà. Sulle note di alcuni passi di J’y suis jamais allé di Yann Tiersen, sul palcoscenico si alternano un forestiero, un commerciante, la moglie militante nel partito, una coppia di fidanzati, un industriale, un giornalista, una cantante. I personaggi sono vittime, ma non mettono mai in discussione il regime direttamente, per manifesta incapacità di tener testa al delirio collettivo. Vittime che scopriamo di scena in scena, come scene sono anche i racconti di Erika Mann, racconti che sono quasi una cronaca giornalistica, storie vere che svelano la menzogna propagandistica, generalizzata e martellante del regime. Storie sul baratro di quella follia che riecheggia in tutti i momenti dello spettacolo e che si concludono in una immane tragedia. Tragedia che forse si sarebbe potuto evitare. Tragedia che oggi viene lasciata alle spalle come cosa passata ma nello stesso tempo, al contrario dei tanti buoni propositi, riproposta da movimenti che agitano svastiche, che si dichiarano razzisti e xenofobi, che rifiutano ed escludono sempre più apertamente opinioni e culture diverse. In una continua escalation all’interno di un ciclo cominciato da tempo dove l’esclusione di chi è povero, di chi viene dal sud del mondo è ormai norma. Norma “perché siamo a rischio invasione” e che ora viene disciplinata, organizzata e regolata secondo criteri che ci portano al passato: i diritti da universali e indipendenti, astratti, tornano ad essere delle regalie feudali, delle concessioni che chi ha concede a chi non ha. E soltanto se è “utile”, come una cosa, come mezzo. Rieti: rapper puniti per una canzone-denuncia dal carcere pubblicata su Youtube iene.mediaset.it, 9 aprile 2018 I detenuti Big Skizo e Sayeed Abu sono stati messi in isolamento per aver pubblicato una canzone su Youtube. Sono strofe di denuncia sociale, vogliono portare l’attenzione su un posto che per loro genera solo violenza. Può sembrare una canzone rap come tante altre, ma la particolarità di “Solo cemento” sta proprio nel luogo dove è stata prodotta e incisa. Alessandro Cesaretti, meglio conosciuto come Big Skizo, e Sayeed Abu l’hanno fatto da dietro le sbarre del penitenziario di Rieti. E per questo i due rapper hanno dovuto scontare una pena nella pena. A loro sono stati inflitti dieci giorni di isolamento per “la gravità dei fatti” poiché avrebbero potuto compromettere “la sicurezza dell’istituto” come hanno spiegato dalla struttura carceraria. Dopo aver scritto il brano, hanno composto il disco coi pochi mezzi a disposizione direttamente nella sala di musica del carcere girando al suo interno le immagini del video. Poi è stato pubblicato su Youtube con la complicità di un loro compagno in uscita fino al provvedimento che li ha messi in isolamento per dieci giorni. Noi de Le Iene vogliamo esprimere la nostra vicinanza e solidarietà ai due rapper detenuti, che attraverso la musica hanno denunciato lo stato in cui migliaia di detenuti sono costretti a vivere, e per questo abbiamo deciso di pubblicare il video. In segno di protesta, contro la misura presa dal carcere di Rieti, che anziché ascoltarli ha deciso invece di punirli. “Senza stelle perdi la direzione, fai attenzione a come ti muovi guarda dove ti trovi per le mura siamo prede” cantano i due rapper finiti dietro le sbarre per tentato omicidio e rapine nella periferia romana. Un lungo curriculum soprattutto per Big Skizo raccontato nel suo album “628”, lo stesso numero dell’articolo del codice penale per cui è finito dentro. Quella pena che lui ha voluto trasformare in speranza non solo per sé, ma anche per tanti altri detenuti attraverso la sua passione per la musica. “È contro l’inutilità delle strutture carcerarie dove la rieducazione non esiste o meglio esiste solo sulla carta” denuncia con fierezza il duo rap. La canzone è stata dedicata a Marco Pannella e Stefano Cucchi e ai tantissimi detenuti affinché possano smettere di dire “guardo fuori vedo solo il cemento, esco fuori vedo solo il cemento”. La protezione dei diritti umani e le fragoline sulla torta di Agnese Moro La Stampa, 9 aprile 2018 Non sono pochi coloro che, in questi ultimi anni, ritengono che i diritti umani e la loro protezione siano un po’ un lusso, un ornamento; come delle fragoline o una glassa sulla torta. Come sa chiunque abbia sperimentato anche solo una volta il disconoscimento dei propri diritti fondamentali, in realtà questi sono la torta e non un suo qualche ornamento. Questo è vero in tutto il mondo, ma per il Vecchio Continente è una questione che riguarda la sua stessa identità e le fondamenta su cui l’Europa e ogni suo singolo Paese si sono costituiti o ricostruiti dopo le tragiche vicende del 900. Questo non significa che le cose da noi funzionino e ha fatto bene a sottolinearlo nei giorni scorsi la Commissione Straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato, presieduta da Luigi Manconi, nel suo Rapporto (vedi sito del Senato) sul lavoro svolto nella legislatura appena conclusa. Scrive la Commissione: “La tutela e l’effettività dei diritti umani non si riferiscono solo a terre lontane, società poco sviluppate, regimi totalitari, ma al contrario ci riguardano direttamente e vanno costantemente verificate e monitorate. Ed è questione che interpella prepotentemente i sistemi democratici e gli stati di diritto: in essi tendono irresistibilmente a sopravvivere aree dove i diritti umani vengono violati, talvolta sistematicamente, e le garanzie fondamentali della persona, a partire dalla libertà personale e dalla dignità individuale, non vengono adeguatamente tutelate”. Alcune di queste aree: asilo e immigrazione; rom, sinti e caminanti; istituti penitenziari; contenzione meccanica; omofobia; cyberbullismo. Guardando al futuro c’è bisogno che anche nella nuova legislatura ci sia una specifica Commissione che seguiti ad occuparsi di monitorare la situazione dei diritti umani nel nostro Paese. Come scrive la Commissione: “Questo rendiconto testimonia quanto la lotta per i diritti sia per sempre: giorno dopo giorno, storia dopo storia, sofferenza dopo sofferenza, chi crede che i diritti della persona siano ragione e misura dell’impegno personale e di quello delle istituzioni pubbliche non può che rendersi disponibile a tornare sui propri passi e, quando necessario, a ricominciare daccapo. Consapevole che, seppure quel che è stato fatto era ben fatto, ogni nuovo giorno esige altro da fare”. Lo Stato è invadente... altro che i social di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 9 aprile 2018 Nessuno che si preoccupa per uno Stato onnipotente, onnisciente, onnivedente che sa tutto di noi. Ma noi ce la prendiamo con i social impiccioni. Tutta questa apprensione per le intrusioni di Facebook nella nostra vita, sulle industrie malvagie che ci rubano subdolamente i post con i gattini per venderci cibi per animali, e i partiti cattivi che fanno propaganda occulta. Ma nessuno che si preoccupa per uno Stato onnipotente, onnisciente, onnivedente che sa tutto di noi, controlla ogni atomo della nostra vita: la vita privata, corollario indispensabile di una civiltà liberale, è già stata fagocitata dal “mostro freddo” dello Stato, e invece noi siamo qui a prendercela con i social impiccioni. Un mio amico un giorno è stato convocato dalla polizia giudiziaria che indagava su un traffico di carte di credito clonate. Lo avevano chiamato per verificare che anche la sua carta non fosse stata violata, ma il mio amico ha capito in poco tempo che la polizia, attraverso l’esame della sua carta di credito, sapeva tutto dei suoi acquisti, degli alberghi in cui era stato, del vestito che si era comprato, del mazzo di fiori che aveva regalato alla moglie: e noi temiamo Facebook. L’Agenzia delle entrate può entrare nei nostri conti correnti, vedere ciò che abbiamo speso, dove, quando, con chi, perché: e noi temiamo Facebook. Il Telepass lascia tracce indelebili dei nostri movimenti, dice dove siamo stati, a che velocità siamo andati, quale località abbiamo visitato. Le indagini giudiziarie oramai fanno uso massiccio delle conversazioni Whatsapp, anche quelle che non hanno alcuna rilevanza penale. Le carte di credito e le carte Bancomat raccontano ogni cosa di noi e i loro dati sono immagazzinati dagli organi di sicurezza: che libri hai comprato, quale parrucchiere frequenti, se sei un turista, quale sport preferisci seguire. Con la geolocalizzazione ogni spostamento è registrato e archiviato. Attraverso la tessera del supermercato sanno quello che mangi, che tipo di regime alimentare segui, se compri molte bottiglie di vino e di alcolici. I tuoi dati sanitari sono a disposizione di chi con pochi clic può sapere tutto del tuo stato di salute, delle malattie che hai contratto, del livello di colesterolo nel tuo sangue. A differenza delle industrie malvagie che suscitano la nostra indignazione, lo Stato ha il monopolio della forza, della coercizione legale, dell’uso degli strumenti di indagine, delle leve del potere politico. Ogni dimensione privata è devastata. Ma noi ci preoccupiamo di Facebook. Migranti. Il Sahel è l’ultimo cimitero dei sogni di Mauro Armanino Il Fatto Quotidiano, 9 aprile 2018 Quello di Lamine per esempio. Passato dall’Accademia di calcio in Costa d’Avorio e poi in quella del Ghana si è poi scoperto a giocare a guardia e ladri coi gendarmi algerini. Lui, da centrocampista, si è trasformato in manovale nei cantieri della capitale. Lamine si nasconde alle forze dell’ordine che fanno collezione di migranti da deportare spostandosi al piano superiore del palazzo. Sarebbe in fuori gioco ma né l’arbitro né la moviola funzionano. Stanco di scappare e di vivere di paura come un topo torna nella sua natale Guinea. Si smarca dopo un paio d’anni di controlli biometrici nella difesa delle biopolitiche dell’occidente. Lamine porta la maglietta numero 8 da quando era bambino. Il sogno si trova tutto nella borsa che porta con sé da Algeri. Si trova in mezzo ad abiti smessi da altri migranti partiti in Marocco, in Tunisia o Libia. A ognuno il suo sogno numerato. Quello di Lamine porta fortuna e alla domanda di cosa farà da grande risponde che farà il calciatore. Ha un buon destro e a diciannove anni spera di giocare in Europa, un giorno. Chi detiene il potere lo sa. Non c’è nulla di più pericoloso dei sogni inesplosi. Da quello di M.L. King, tradito fino a oggi nella sua patria, a quello dei palestinesi a cui si spara, senza nessuna indignazione, con pallottole reali per morti reali. Nulla di peggio che un sogno vagante, come una mina, un ordigno confezionato con anni di tentativi messi a tacere dalla sabbia o imbavagliati da reticolati elettronici. Il 1968 aveva solo quello da offrire e cinquant’anni dopo ha fallito in tutto meno che nel ritorno della primavera. Il potere non arriva alle radici perché è superficiale e solo può controllare le apparenze della storia. Si tratta del crimine più grande per il quale non c’è amnistia possibile. L’uccisione deliberata di un sogno grida vendetta al cospetto di ogni migrante. Lui che per esportarlo rischia l’unica vita che sua madre gli ha regalato in una notte di stelle. Neppure le carceri nigerine riusciranno a detenere i sogni degli attivisti arrestati a domicilio come misura preventiva. Inutile delocalizzare i sogni e isolarli in prigioni lontane dalla capitale. Sono dei sovversivi senza dimora. Li mettono nei centri di raccolta e poi li spediscono a casa per sbarazzarsi di loro. Torneranno tutti, non temete. Non riuscirete a fermarli, immobilizzarli, comprarli o metterli al macero. Risorgono dopo due o tre giorni non appena, per distrazione o per scelta, abbandonerete le vostre fortezze impastate di paura. I sogni inventano nuovi cammini e sentieri per ingannare il mondo che credete di governare come un impero di pezza. I sogni d’indipendenza e di liberazione hanno fatto un lungo viaggio nel deserto e, dopo una quarantina d’anni, ancora raccontano quello che accadrà presto. Non ci siete riusciti né con le cannoniere né coi mercati unici. Financo i missionari agivano a loro insaputa per il sistema. Con ritardo hanno scoperto che per vocazione altro non erano che dei fiancheggiatori di sogni. I sogni sono miracoli che accadono nel Sahel e non Organismi Geneticamente Modificabili da mettere nei supermercati o nelle farmacie che ‘fidelizzano’ i clienti. Il cimitero di cui non si parla organizza i sogni dispersi e abbandonati nella sabbia. Lamine è centrocampista e persegue un sogno che non l’abbandona. A quattordici anni passa un paio d’anni ospite di un’Accademia per giovani talenti in Costa d’Avorio. Si sposta nel Ghana per perfezionarsi con un’altra Accademia sportiva. Un amico calciatore, poi andato nel Marocco, l’invita a tentare la sorte in Algeria. È convocato al centro della panchina di una squadra di quarta divisione. Mette il sogno tra i vestiti della borsa e torna al paese per giocare con la mezz’ala rimasta di riserva. Lamine ha incontrato tanti becchini di sogni e li ha puntualmente dribblati in velocità. Ha un buona visione di gioco e diciannove anni. Lamine è certo di giocare, un giorno, in Europa. Chi sono i “Prigionieri del silenzio”, i detenuti italiani nelle carceri straniere di Stefano Barricelli Agi, 9 aprile 2018 Tre su 4 sono in attesa di giudizio, solo uno su 5 è stato condannato. Anedda: “La gente parte dal presupposto che chi sta dentro deve per forza aver commesso qualcosa, ma non è sempre vero”. I casi più emblematici. Lontani da casa e dai familiari. Rinchiusi in carceri a volte disumane. Privati del diritto alla salute e a un equo processo. È la condizione che accomuna molti dei 3.278 italiani detenuti all’estero. Uno su 5 ha riportato una condanna, tre su 4 sono ancora in attesa di giudizio: l’80% in Europa, il 14% nelle Americhe, il resto sparsi negli altri continenti. “Di loro si parla poco - denuncia all’Agi Katia Anedda, presidente della Onlus “Prigionieri del silenzio”, nata nel febbraio di dieci anni fa per dare una voce a chi non l’aveva - ma soprattutto per loro si fa pochissimo. E attenti a parlare di cifre esigue: se a ogni detenuto si rapporta una media di almeno 10 tra parenti e amici il numero di persone coinvolte sale a 30 mila. Senza contare i 5 milioni di italiani iscritti all’Aire e i 10 milioni che viaggiano per il mondo ogni anno: il rischio di finire in un incubo del genere vale potenzialmente anche per loro”. Dal 2008 “Prigionieri del silenzio” di strada ne ha fatta, dal primo caso seguito - quello di Carlo Parlanti, manager informatico toscano che ha scontato una pena di 9 anni dopo un processo di primo grado senza alcuna prova della sua presunta colpevolezza - all’ultimo, quello di Denis Cavatassi, l’imprenditore di Tortoreto condannato in primo e secondo grado alla pena capitale in Tailandia perché ritenuto il mandante dell’omicidio del suo socio d’affari. Ma in questo arco di tempo molti dei problemi sono rimasti immutati, in qualche caso si sono addirittura complicati. A partire dalla dimensione sociale del fenomeno: non è raro che i nostri connazionali detenuti vengano sottoposti a umiliazioni e a condizioni di vita del tutto incompatibili con un percorso di riabilitazione. Ed è praticamente la regola, soprattutto in certe realtà, che si ritrovino a vivere in strutture lontanissime dai grandi centri, senza cure adeguate (c’è chi aspetta anni per una Tac e chi si ammala di epatite, scabbia e altre infezioni), soprattutto senza un’assistenza legale degna di questo nome. Capita addirittura che le carte riguardanti arresto e reati contestati siano redatte solo nella lingua locale: “Prigionieri del silenzio” cita come esemplare il caso di Angelo Falcone e Simone Nobili, costretti in India nel 2007 a firmare un documento in hindi che di fatto era una confessione. “Altro, importante nodo - spiega Anedda - è quello economico, che riguarda essenzialmente le famiglie: ai problemi di comunicazione e alla scarsa conoscenza delle normative del posto, spesso si somma l’impossibilità di far fronte a spese legali nell’ordine di decine di migliaia di euro”. La nostra Costituzione, all’articolo 24, prevede la possibilità, per qualsiasi cittadino, italiano o straniero arrestato in Italia, di usufruire del gratuito patrocinio, “ma lo stesso non accade per gli italiani all’estero: i consolati hanno un generico budget annuale per aiutare i connazionali in difficoltà ma sono fondi insufficienti, falcidiati dai tagli degli ultimi anni. Anche a livello di personale”. Non è facile uscire dall’impasse, riconosce chi - proprio come i volontari dell’associazione - vive sul campo certe situazioni, aggravate a volte dalla consapevolezza di condanne arrivate dopo processi indiziari: “La gente - ammette Anedda - parte dal presupposto che chi sta dentro deve per forza aver commesso qualcosa, ma non è sempre vero. In ogni caso, è giusto che chi sbaglia paghi ma la dignità delle persone va comunque rispettata. Sempre”. “Prigionieri del silenzio” chiede da tempo l’istituzione di una “figura statale” che si occupi dei nostri connazionali detenuti in altri Paesi, o almeno l’estensione del “magistrato di collegamento”, previsto negli Stati in cui l’Italia è presente con un’autorità consolare ma, nei fatti, con poteri limitati. E la Convenzione di Strasburgo, quella che prevede che una persona condannata possa scontare la pena residua nel Paese di origine? “Andrebbe riscritta - risponde Katia Anedda - non è riconosciuta da tutti i Paesi e la lunghezza dei tempi di applicazione produce a volte effetti paradossali, con il sì alla richiesta di trasferimento che magari arriva a condanna finita”. La presidente di “Prigionieri del silenzio” parla di questo e di molto altro nel suo libro (“Prigionieri dimenticati, italiani detenuti all’estero tra anomalie e diritti negati”), una raccolta amara di casi dolorosi e, ciascuno a suo modo, emblematici. Ma non è facile forare la cortina di silenzio che spesso - magari per vergogna - i congiunti dei detenuti alzano a protezione dei loro cari laddove invece l’attenzione dei media potrebbe essere di aiuto. Filippo e Fabio Galassi, ad esempio, sono tornati a casa ai primi di aprile dopo tre anni passati in una prigione di Bata, in Guinea equatoriale, per reati finanziari di cui si sono sempre proclamati innocenti e dopo che del loro caso si erano occupate “Le Iene”. La sorella di Cavatassi spera che l’interessamento di Luigi Manconi e un’affollatissima conferenza stampa in Senato possano aver contribuito a smuovere le acque sebbene le notizie delle ultime ore non siano delle più incoraggianti: resta difficile, se non impossibile, fargli arrivare lettere, e non può nemmeno ricevere libri. E un caso a sé resta quello di Marcello Doria, che giovedì compirà 42 anni nella prigione di Paso de Dos Libres: accusato di complicità in un omicidio sulla base di una testimonianza poi ritrattata, vive sin da ragazzino in Argentina ma non ha la cittadinanza locale e dal 2013 non è più nemmeno nell’anagrafe degli italiani all’estero. Cancellato per “irreperibilità”. Passaporti in vendita: un varco nella sicurezza europea di Milena Gabanelli e Massimo Gaggi Corriere della Sera, 9 aprile 2018 C’è chi chiude le frontiere per respingere i diseredati del mondo in cerca di lavoro e migliori condizioni di vita. E c’è chi, invece, le frontiere le apre in modo selettivo per lucrare sui permessi d’ingresso concessi a chi fa un investimento immobiliare, o finanzia un governo in difficoltà: è il mondo della cittadinanza in “svendita”. A volte qualche Paese fa tutte e due le cose insieme: è il caso degli Stati Uniti dove Trump costruisce muri alle frontiere, manda la Guardia Nazionale e ha imposto una stretta sui permessi di lavoro della categoria H-1B, ma non tocca il programma EB-5 che consente ogni anni a 10 mila ricchi stranieri letteralmente di comprarsi il diritto di diventare cittadini Usa. Usa: ok a oligarchi russi e ricchi cinesi - Istituito dall’Immigration Act del 1990, questo programma è riservato a chi investe almeno 500.000 dollari negli Usa e crea 10 posti di lavoro. In cambio, investitore, moglie e figli ricevono una green card che consente loro di risiedere negli Stati Uniti per due anni. Se gli obiettivi vengono raggiunti, dopo dieci anni puoi ottenere il passaporto americano. Sfruttato soprattutto da ricchi cinesi e oligarchi russi, questo programma è considerato pericoloso da alcuni senatori repubblicani che ne hanno chiesto la revisione o l’abolizione, sostenendo che è stato veicolo di gravi abusi. Donald Trump, che pure guarda in cagnesco i cinesi, fin qui ha rinnovato l’EB-5. La cittadinanza è un valore fondamentale, che si acquisisce dopo anni che vivi, lavori e paghi le tasse in un Paese. Ma al dunque ci sono Paesi pronti a svendere i loro principi, interessati ai soldi dei nuovi arrivati più che al loro effettivo attaccamento al Paese che li ospita. Il mercato dei condomini di lusso e delle penthouse da decine di milioni di dollari a New York, Miami e Los Angeles è alimentato anche da questi canali dorati d’accesso al Paese, gestiti da società che procurano immobili e permessi di soggiorno, come La Vida o Henley & Partners. Quanto costa il passaporto dei caraibi - Decisamente più facile ed economico è diventare cittadini di alcune repubbliche caraibiche come Dominica, Antigua e Barbuda, o St. Kitts and Nevis. Qui il commercio della cittadinanza viene giustificato con la necessità di riparare i danni degli uragani. Potrebbero applicare una piccola tassa una tantum sui depositi degli evasori che hanno messo i loro conti in questi paradisi, ma hanno trovato più conveniente vendere passaporti. La tariffa di St. Lucia e Antigua and Barbuda è di 100.000 dollari, da versare in un fondo governativo. Per Grenada sono 200.000, mentre St. Kitts and Nevis 150 mila, e il loro passaporto è accettato anche dalla Ue senza visti. Chi sono i cacciatori di passaporti - L’Europa (insieme agli Stati Uniti) rimane la destinazione più ambita. Ma chi sono i cacciatori di passaporti e rifugi sicuri? Gente che vive in Paesi che pongono limiti ai viaggi dei cittadini, come Cina, Russia e alcuni Stati mediorientali. Poi c’è il variopinto mondo dell’illegalità: narcotrafficanti, evasori fiscali, riciclatori, e rivoluzionari. Un mercato ormai mondiale nel quale la Henley ha stilato una classifica dei passaporti più desiderabili: in testa quello della Germania, che consente di entrare senza visto in 176 Paesi. Berlino, però, non li vende. Tra quelli dei Paesi più ambiti, quasi tutti europei, solo il passaporto dell’Austria può essere acquistato. Ma è una concessione che può essere fatta (a sua discrezione) dal governo a vantaggio di chi ha investito grosse cifre o realizzato cose di grande importanza per il Paese. Insomma, un privilegio riservato a pochissimi. Molto gettonato il Portogallo (attivo anche nel concedere facilitazioni ai pensionati che vanno a vivere sulle rive dell’Atlantico): con l’acquisto di una casa da 500.000 euro ottieni subito la residenza, per mantenerla è sufficiente abitarci 7 giorni all’anno, e dopo 6 anni ti danno anche la cittadinanza. In Grecia ne bastano 250.000, per il passaporto però bisogna attendere 10 anni. Cipro e Malta, il buco nero d’Europa - Per chi vuole procurarsi un passaporto europeo, con tutte le sue facilitazioni, le opportunità migliori sono offerte da Cipro, che ha creato una “corsia preferenziale” a pagamento nel 2012, quando il Paese era sull’orlo della bancarotta. Per salvare le sue finanze, Cipro decise di aprire le frontiere fissando un prezzo d’accesso molto alto: 10 milioni di euro. Nemmeno gli oligarchi russi accettarono di sborsarli. Così è scesa a 2 milioni, sotto forma di investimento immobiliare. Sono sempre molti soldi, ma in cambio ottieni residenza e passaporto Ue per tutta la famiglia in appena 3 mesi. E dopo 3 anni è possibile recuperare (o “pulire”) buona parte dei soldi, perché l’investimento può scendere a 500.000 euro. Simile la storia di Malta. Finanze in crisi e, per risanarle, nel 2013 il Parlamento ha deciso di mettere in vendita la cittadinanza: 650 mila euro per l’immigrato investitore più 25 mila per la moglie e 50 mila per ogni figlio a carico. Tempo di attesa: 1 anno. Le intenzioni dichiarate sono quelle di attrarre ricchi russi, azeri, cinesi, mediorientali, però il numero dei passaporti venduti è un segreto governativo. Sappiamo che oggi Malta è uno dei paesi più ricchi d’Europa e che non accoglie un solo migrante in arrivo col barcone. Cipro nel 2016 ha incassato 4 miliardi di euro dalla vendita di 2.000 passaporti: la metà sono stati acquistati da russi, il resto da cinesi e mediorientali. Si apre un varco nella sicurezza europea - Entrambi i Paesi sono a fiscalità agevolata e nebbiosa (non risulta che dalle loro banche sia mai partita una segnalazione di operazione sospetta). Chi acquista il “golden visa” non ha l’obbligo di chiarire da dove provengono i suoi soldi, di creare posti di lavoro, né tantomeno quello di abitare a Malta o Cipro, perché diventando cittadino europeo ha il diritto di muoversi liberamente in Italia, Francia, Germania. Turchia. Il presidente di Amnesty in carcere da 300 giorni di Monica Ricci Sargentini Il Sole 24 Ore, 9 aprile 2018 È in carcere da 300 giorni il presidente onorario di Amnesty International Turchia, Taner Kiliç, e dalla sua cella nella prigione di Sakran a Smirne dove è detenuto dal 9 giugno 2017, ha inviato un messaggio a tutte le persone che hanno espresso solidarietà nei suoi confronti. “Le fotografie delle iniziative organizzate sotto un sole cocente, sotto la pioggia o al gelo hanno risollevato il mio morale e mi hanno ricordato l’importanza della solidarietà internazionale nella lotta per i diritti umani. In prigione è facile provare la sensazione che verrai dimenticato, anche dalle persone a te più vicine e care. Ma nel mio caso, anziché essere dimenticato, il mio caso è diventato noto sia in Turchia che all’estero. Voglio ringraziare ogni persona che ha espresso solidarietà nei miei confronti. Sarete sempre nei miei pensieri e nelle mie preghiere”. Taner Kiliç, nominato presidente onorario di Amnesty International Turchia un mese fa alla scadenza del suo mandato di presidente dell’associazione, è accusato di “appartenenza a un’organizzazione terrorista”. Il fulcro dell’accusa nei suoi confronti è di aver scaricato e installato ByLock, l’applicazione di messaggistica che secondo le autorità turche era usata dal movimento Gülen, ritenuto responsabile del tentato colpo di stato del luglio 2016. Amnesty accusa lo Stato turco di non aver prodotto alcuna prova credibile a sostegno dell’accusa. Al contrario, quattro analisi indipendenti sono giunte alla conclusione che sul telefono di Kiliç non c’è traccia di ByLock. La prossima udienza è fissata al 21 giugno. Se giudicato colpevole, l’attivista rischia fino a 15 anni di carcere. “Trecento giorni dopo il suo arresto sulla base di accuse false, persone di ogni parte del mondo chiederanno insieme la fine di questo errore giudiziario e l’immediata scarcerazione di Taner Kiliç -ha dichiarato Gauri van Gulik, direttrice di Amnesty International per l’Europa -. La pubblica accusa non ha presentato alcuna prova a sostegno delle assurde accuse mosse contro Taner. Per quanto possa sembrare incredibile, Taner è solo una delle tante persone che si trovano in una situazione analoga ed è un potente esempio del deliberato smantellamento della società civile durante l’attuale repressione”. Siria. Strage di civili nella Ghouta: “il regime ha usato bombe chimiche” di giordano stabile La Stampa, 9 aprile 2018 La denuncia dei ribelli: “A Douma oltre cento morti”. Cade l’ultimo bastione dei miliziani L’Occidente reagisce: vergogna. Ma Damasco nega e Teheran accusa: “Un complotto”. A un anno dal raid americano che ha punito il regime siriano per l’attacco chimico a Khan Sheikhoun, Bashar al-Assad lancia l’assalto all’ultima città ribelle sotto assedio nella Ghouta orientale e ordigni con sostanze proibite fanno strage di civili. A Douma, lungo la linea di difesa dei ribelli, gli edifici e i bunker sono stati martellati per 24 ore dai jet e dagli elicotteri, finché alcuni barili bomba, forse riempiti di cloro, hanno devastato due palazzi pieni di sfollati alla ricerca disperata di un riparo nelle cantine. Il cloro è più pesante dell’aria e satura gli ambienti sotto il livello del suolo: in una stanza sovraffollata e senza finestre può fare strage. Ed è stato così nella notte fra sabato e domenica, quando almeno 100 persone sono rimaste uccise. I tentativi di soccorrerle sono stati inutili. I Caschi bianchi, volontari vicini ai ribelli, si sono trovati di fronte a “scene strazianti” e hanno diffuso fotografie di bambini con gli occhi sbarrati e la bava alla bocca, immagini che hanno suscitato un’ondata di indignazione in tutto l’Occidente. Trump ha definito Assad “un animale” e lasciato intendere che un altro raid contro il regime è nell’aria. Trump, che pretende la riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha anche chiesto che Douma venga aperta agli ispettori, ma la zona è in fiamme. Jaysh al-Islam, gruppo ribelle appoggiato dai sauditi che controlla Douma dal 2012, ha chiesto all’Occidente di intervenire. I ribelli chiedono anche aiuti umanitari: gli ospedali sono sopraffatti dall’emergenza, in grado di curare i soffocati “soltanto con farmaci anti-asma”. Uno dei pochi medici sul posto, Tawfiq Dumani, denuncia l’uso “di cloro in un primo attacco, miscele di gas nervino e sarin in un altro”. Anche Basel Termanini, vicepresidente un’altra ong, la Syrian american medical society, parla di “agenti misti”. Non è un dettaglio da poco, perché se fosse accertato l’uso di sostanze nervine la rappresaglia scatterebbe di sicuro, come hanno detto Usa e Francia. L’Osservatorio siriano per diritti umani, con base a Londra e vicino all’opposizione filo-turca, è più prudente, propende per il cloro o “fumo causato da ordigni convenzionali”. Il regime siriano nega. Per l’agenzia Sana i ribelli “sono al collasso e i loro organi di propaganda hanno organizzato un finto attacco per dare la responsabilità al governo”, mentre l’Iran parla di un “complotto” architettato per innescare l’intervento occidentale. Ma per il ministro israeliano Gilad Erdan la strage “mostra l’ipocrisia della comunità internazionale che si concentra su Israele alle prese con Hamas mentre a dozzine di civili innocenti sono uccisi in Siria”. I palestinesi hanno una visione opposta. Fonti vicine alla leadership dell’Anp sottolineano che “questo attacco è una benedizione per Israele”, in quanto distrae il mondo “dai massacri a Gaza”. Gli insorti filo-sauditi avevano concordato la resa dieci giorni fa. L’evacuazione era cominciata, ma venerdì tutto si è bloccato. Assad ha posto come condizione il rilascio di centinaia di civili sciiti, sequestrati nel dicembre del 2013 ad Adra, e da allora tenuti prigionieri a Douma. Jasyh al-Islam vuole invece consegnarli soltanto dopo che i suoi combattenti saranno al sicuro. A quel punto l’aviazione ha scatenato una serie di raid terrificanti, con almeno 160 vittime in totale. L’esercito ha sfondato l’ultima linea di difesa a Est, fra Al-Riyhan e le cosiddette “fattorie di Douma”, i ribelli hanno perso mezza città si sono asserragliati nei quartieri più popolati. Senza l’intervento americano sono destinati a soccombere. Ieri sera hanno chiesto di nuovo la mediazione russa. Damasco sostiene di aver raggiunto un accordo per il loro trasferimento verso il confine con la Turchia, a Jabal al-Zawiya, “entro 48 ore”. Potrebbe essere la fine della Ghouta orientale, a meno che Trump non scateni l’inferno dal cielo. Siria. Trump prepara i raid: “Assad è un animale, protetto da Iran e Russia” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 9 aprile 2018 La Casa Bianca vuole essere dura per non dare spazio a Mosca L’ipotesi di un attacco con i francesi. Dubbi sul ritiro dei soldati. “Ci sarà un grosso prezzo da pagare”. Commentando così l’attacco a Douma via Twitter, il presidente Trump ha lasciato intendere di essere pronto a ripetere il raid con cui proprio un anno fa aveva punito Assad, per l’aggressione lanciata a Khan Sheikhoun. Il consigliere per la homeland security Bossert, ha detto che “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Trump ha criticato la nuova strage di prima mattina: “Molti morti, incluse donne e bambini, nello scriteriato attacco chimico in Siria. L’area dell’atrocità è sotto assedio e completamente circondata dall’esercito siriano, rendendola totalmente inaccessibile al mondo esterno”. Subito dopo ha fatto un atto di accusa, puntando per la prima volta il dito direttamente contro il Cremlino: “Il presidente Putin, la Russia e l’Iran sono responsabili per il sostegno all’animale Assad”. Quindi ha lanciato il suo avvertimento, e le sue richieste operative: “Grande prezzo da pagare. Aprire immediatamente l’area per aiuti medici e verifica. Un altro disastro umanitario per nessuna ragione. Roba da malati!”. Con un secondo tweet, il capo della Casa Bianca ha criticato il predecessore Obama, accusandolo di non aver agito quando Assad aveva usato per la prima volta le armi chimiche nell’agosto del 2013, aprendo così la porta alle stragi successive, l’Isis, l’intervento russo, l’emergenza rifugiati. Lo sfogo di Trump è importante per almeno due motivi. Primo, in occasione del precedente attacco chimico aveva risposto bombardando la Siria, e questa azione si potrebbe ripetere ora, appena l’intelligence gli darà la conferma della responsabilità di Assad. Secondo, la settimana scorsa il presidente aveva detto di volersi ritirare dal paese, forse anche per proteggere i circa 2.000 soldati americani schierati sul terreno da eventuali rappresaglie, in caso di altre missioni punitive. Quindi aveva dato al Pentagono sei mesi di tempo per completare la distruzione dell’Isis, e poi prepararsi a chiudere l’intervento. Ora questo nuovo attacco chimico potrebbe costringerlo a cambiare i piani. Fra le opzioni sul tavolo e di cui potrebbe discutere già oggi con i suoi consiglieri, c’è anche l’ipotesi di un attacco congiunto con i francesi. Macron è stato fra i leader occidentali il più determinato nel porre Assad dinanzi all’eventualità di azioni militari in caso di ricorso ad armi chimiche. Le ragioni che spingono Trump ad agire sono chiare. Dopo il raid dell’anno scorso, le dichiarazioni di ieri via Twitter, il rimprovero ad Obama di non aver fatto rispettare la linea rossa proclamata nel 2013, non agire stavolta darebbe un segnale di debolezza alla Russia, all’Iran, e anche alla Corea del Nord, con cui sta cercando di negoziare la fine del programma nucleare da una posizione di forza. I rischi invece stanno nella reazione di Mosca, che aveva definito inaccettabile il bombardamento punitivo del 7 aprile 2017; nella possibilità che i soldati americani diventino oggetto di rappresaglie; e nella prospettiva di essere poi trascinato verso un coinvolgimento più massiccio in Siria, proprio mentre si stava preparando a riportare le truppe a casa, come vorrebbero i suoi elettori. Da questo punto di vista sarà decisivo il responso dell’intelligence Usa, perché sul fronte favorevole a Damasco c’è anche chi accusa gli stessi ribelli di aver colpito Douma, proprio per spingere Trump a cambiare idea sul ritiro. Se i servizi segreti forniranno conferme indiscutibili, per il presidente diventerà difficile non agire. Oggi fra l’altro John Bolton prenderà servizio come consigliere per la Sicurezza nazionale. Una delle ragioni per cui il Pentagono non era favorevole al ritiro immediato dalla Siria stava non solo nella necessità di completare la missione contro l’Isis, ma anche di non lasciare il paese alla Russia e all’Iran. Bolton è noto per aver sostenuto la necessità di favorire un cambio di regime a Teheran, e quindi potrebbe usare l’attacco di Douma per convincere il presidente a restare in Siria per contrastare i piani egemonici iraniani.