Come andare oltre i drammi delle “Case di lavoro” di Bruno Forte* Il Sole 24 Ore, 8 aprile 2018 Queste strutture andrebbero abolite indirizzando gli internati verso esperienze significative e dignitose, come lavori utili alla società, volontariato e corsi di formazione. Con questa riflessione vorrei rivolgere un appello concreto a quanti le recenti elezioni hanno portato a rappresentarci in Parlamento, nell’impegno auspicabilmente concorde a servire il bene comune. Si tratta di una questione circoscritta, causa di molto dolore, che dovrebbe far vergognare una democrazia fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana. Mi riferisco alla realtà carceraria, istituita in Italia negli anni del fascismo con l’intento di favorire il reinserimento sociale di persone che hanno commesso reati ed espiato una pena, ma sono ritenute ancora pericolose per la società in quanto delinquenti abituali, professionali o per tendenza: la “casa di lavoro”. L’assegnazione a questo tipo di struttura è decisa dal giudice o dal magistrato di sorveglianza, tenendo conto delle condizioni e delle attitudini della persona. La durata minima della permanenza è di un anno, di due per i delinquenti abituali e professionali, di quattro per quelli di tendenza. Tuttavia il periodo si può rinnovare nel caso di qualsiasi minima infrazione disciplinare. Di fatto a considerare la situazione nelle quattro Case Lavoro presenti in Italia (di cui una, la più grande per numero di internati, a Vasto, nell’arcidiocesi a me affidata) sembra che nel nostro Paese si possa finire di scontare una pena e diventare ergastolani. La pericolosità di chi viene internato in una Casa di lavoro si evince da quanto ha fatto nel passato e non da quello che ha ricominciato a vivere dopo il carcere. Vi si può arrivare direttamente dal carcere oppure quando si è già liberi in regime di libertà vigilata, senza tener conto se nel frattempo ci sono stati aiuti familiari o opportunità di lavoro. La Casa di lavoro dovrebbe offrire possibilità di rieducazione al contatto con la realtà esterna, ma di fatto diventa un ulteriore carcere per chi alle spalle ne ha già tanto. Ci sono persone che hanno giù scontato trenta e anche quarant’anni di detenzione. A popolare la casa di lavoro è una folla di disperati, in una situazione che non permette nemmeno a chi è sano di mente di rimanere tale molto a lungo. Ci sono persone provenienti da Ospedali Psichiatrici Giudiziari, malati di mente, tossicodipendenti, infermi con patologie praticamente incurabili in carcere, malati di AIDS, gente di strada, stranieri senza documenti, persone senza fissa dimora. Durante il tempo di permanenza nella Casa di lavoro gli internati vengono osservati e valutati dagli educatori e da altri preposti e al termine della pena di uno o due anni possono avere una proroga, la cui durata a discrezione del magistrato può essere di sei mesi - un anno. Durante questo tempo gli internati fruiscono di licenze orarie a partire da un minimo di quattro ore ad un massimo di più giorni, da vivere sul territorio accompagnati da un volontario o da un familiare. Chi esce da solo spesso vive il dramma di non avere un soldo in tasca per cui deve vagare nella umiliazione di non poter fare nulla. Il dramma si presenta anche al termine della misura cautelare, perché per uscire da una casa di lavoro bisogna avere una residenza, un domicilio, la disponibilità di un familiare o un contratto di lavoro, ma dopo che si è usciti - sempre in libertà vigilata - se si cade in una infrazione tra quelle prescritte (per esempio: dimenticare la firma in caserma, o parlare con un pregiudicato, o intrattenersi in un luogo pubblico troppo a lungo...) le forze dell’ordine possono fare segnalazione e il magistrato decretare il rientro presso la casa di lavoro (tanti rientrano e qualcuno da anni va avanti e indietro). Il dramma continua specialmente nella vita degli stranieri, che spesso non riescono nemmeno a farsi espellere per tornare al loro paese, e nella vita di chi non ha famiglia, non ha casa o è stato disconosciuto dai familiari. Per tutti costoro la sola speranza è l’accoglienza in qualche comunità che li accetti gratuitamente: tra queste le uniche sono quelle offerte dalla Chiesa cattolica. Altre strutture private o statali non accolgono se non dietro pagamento della retta che spesso non si riesce a reperire, anche perché si tratta di persone che mancano da tanto tempo dalle loro residenze e sono state depennate dall’elenco dei residenti del loro comune. La casa di lavoro crea così una condizione disumana, dove la speranza di riprendere una vita normale è quasi nulla. Essa andrebbe abolita indirizzando chi dovrebbe scontarla ad esperienze più significative e dignitose, come per esempio lavori utili alla società, corsi di formazione per imparare un lavoro, servizio di volontariato presso luoghi dove c’è la sofferenza o la disabilità, lavori utili a valorizzare l’ambiente e il rispetto del creato. C’è chi - fra persone che ben conoscono il mondo carcerario - ha parlato in proposito di “ergastolo bianco”, inflitto a persone le cui esistenze sono state logorate dalla droga, da malattie e dalla durezza della vita in carcere, che hanno commesso ripetutamente reati non necessariamente gravi: umanità derelitte e problematiche che sono considerate “scarto” anche dal sistema carcerario e che possono arrivare al reinserimento sociale solo attraverso il lavoro, in una realtà dove troppo spesso di lavoro non ce n’è. Così i periodi di internamento successivi al carcere diventano mesi e anni di parcheggio e di ozio, senza occupazione lavorativa e attività trattamentali, con una grande incertezza sul futuro. Eppure in tutta Italia gli internati presenti in queste strutture sono un numero abbastanza esiguo: con interventi di lieve entità, potrebbero essere avviati a percorsi di reinserimento facendo così cessare questa sorta di segregazione. Perché non approvare nel nuovo Parlamento una riforma di questo istituto del tutto inadeguato, per sostituirlo con altre forme di reinserimento, come comunità di accoglienza dedicate, misure di sicurezza applicate nella libertà vigilata, eseguite nei territori di residenza e non in Istituti di pena, tanto spesso lontani dal luogo dove queste persone hanno affetti o radici? Dai nuovi membri delle Camere mi sembra sia giusto attendersi una risposta sollecita ed efficace a questa sfida di civiltà: ci sarà o lo “scarto” umano non è ritenuto degno dell’attenzione di chi deve fare le leggi? *Arcivescovo di Chieti-Vasto Sovraffollamento delle carceri e suicidi, è emergenza di Dario Campagna* newsicilia.it, 8 aprile 2018 Il numero dei detenuti è aumentato di 2.967 unità rispetto a un anno fa. Con un simile tasso di crescita, di 3mila detenuti l’anno, si arriverà ad una situazione insostenibile. La capienza del nostro sistema carcerario è agli estremi. I carcerati italiani sono 33.247, mentre le donne carcerate italiane sono 2.285, di cui 49 sono quelle madri che vivono in carcere con 58 bimbi sotto i 3 anni di età. I figli dei detenuti che vivono fuori dal carcere sono invece 24.795, di cui 5.449 stranieri. I detenuti stranieri presenti nei penitenziari italiani rappresentano il 34,1% del totale della popolazione carceraria, una percentuale in lieve aumento rispetto allo scorso anno. Secondo le rilevazioni dell’Associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale di Roma, le persone detenute in carcere per reati contro il patrimonio sono 31.883, di cui 8.929 stranieri, per reati contro la persona sono 22.609, di cui 7.006 stranieri, per violazione della legge sulle droghe ci sono 19.752 detenuti di cui 7.386 stranieri, per violazione di quella sulle armi 10.072 persone, per reati contro la pubblica amministrazione 7.854 detenuti, per associazione a delinquere di stampo mafioso ci sono 7.048 detenuti, di cui 95 stranieri. Nelle carceri italiane nel 2011 si sono suicidati sessantatre detenuti, un numero che è inferiore soltanto a quello della Francia, dove si sono tolte la vita cento persone. L’Italia detiene un record negativo per quanto riguarda il sovraffollamento degli istituti penitenziari. Per ogni 100 posti disponibili, ci sono 145,4 detenuti. Dai sondaggi sulle condizioni di detenzione svolti dall’Osservatorio di Antigone emerge che in sette strutture le celle sono prive di riscaldamento, mentre in 36 istituti manca l’acqua calda; in quattro non è presente alcuna separazione tra il gabinetto e il resto della cella. Inoltre, in 37 istituti penitenziari non vengono offerti corsi di formazione professionale. La questione del sovraffollamento, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel gennaio scorso, non è però l’unico problema. I punti critici dei penitenziari sono vari, tra cui la mancanza di opportunità di lavoro e formazione che costituisce un elemento fondamentale per il reinserimento del detenuto nella società, affinché una volta riottenuta la libertà, il soggetto non commetta nuovamente reati. Un altro punto critico è rappresentato dall’elevata presenza in carcere di persone con problemi di consumo o abuso di sostanze stupefacenti o per violazione della normativa sulle droghe e la diffusione di problematiche sanitarie, dove circa un quarto delle persone detenute manifesta gravi forme di disturbo psichico. *Questo articolo fa parte del concorso “Diventa giornalista”, riservato agli studenti delle scuole superiori della provincia di Catania. Giorgia Decarli: “detenuti, valutare elementi sociali e giuridici” di Marika Damaggio Corriere del Trentino, 8 aprile 2018 L’antropologa del diritto: “L’approccio universalista manca di consapevolezza”. In Italia la disciplina è poco nota, ma nel resto del mondo l’antropologo del diritto è sia uno studioso ben riconosciuto sia un professionista che lavora nelle scuole, nelle istituzioni, nei tribunali, negli ospedali. “Rifiutando un approccio etnocentrico, non si occupa solo di conoscere una comunità umana, ne approfondisce anche i sistemi giuridici”, sintetizza Giorgia Decarli. Assegnista di ricerca al dipartimento di Giurisprudenza, esperta di diritto dei Paesi africani, laurea in legge e dottorato in antropologia, domani Decarli sarà ospite del primo seminario organizzato da Atas e Cinformi dedicato al multiculturalismo penitenziario (alle 17, Fondazione Caritro). “L’esperto culturale - precisa Decarli - può aiutare a comprendere problematiche quotidiane che hanno a che fare con l’universo culturale, sociale e giuridico di riferimento”. Favorendo, così, diritti differenziati ed efficacia della risocializzazione post detenzione. Decarli, partiamo dal principio: di cosa si occupa un antropologo del diritto? “Non si occupa solo di conoscere le culture di determinate comunità umane, ne approfondisce anche i sistemi giuridici, ovvero come il diritto si manifesta, cosa si ritiene reato e cosa no, come si risolve una disputa. Tutto ciò, rigettando un approccio etnocentrico e guardando la realtà con le stesse lenti dell’interlocutore. Nel mio caso, dopo la laurea in Giurisprudenza e un periodo di ricerca in Africa, mi sono accorta di avere una buona base giuridica ma avevo bisogno di altri strumenti, per questo ho scelto il dottorato in Antropologia”. Dove si rivela efficace l’apporto dell’antropologo giuridico? “I contesti sono i più disparati: nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche, nei centri di accoglienza, negli ospedali, nei tribunali, in carcere”. A proposito di carcere, in Italia il 34% dei detenuti sono stranieri e in Trentino arriviamo al 73%. Quale può essere il contributo dell’antropologo del diritto nella ridefinizione del trattamento penitenziario? “In carcere l’intervento dell’antropologo del diritto si può configurare in modi diversi e in diversi modi. Esistono già tante e utilissime iniziative di mediazione, ma l’antropologo e l’esperto culturale possono fare qualcosa di più. La familiarità con sistemi diversi aiuta a intravedere problematiche che hanno a che fare con l’universo sociale, culturale e giuridico dei detenuti. Faccio un esempio che può apparire complesso: esistono comunità che contemplano rischi di contaminazione e inquinamento, del corpo e dell’anima, qualora si entri in contatto fisico con altre comunità o per esempio mangiando alcune pietanze. L’esito è che la persona venga quindi allontanata successivamente dai suoi pari poiché considerata impura. Tutto ciò ha delle evidenti ricadute sulla possibilità di reinserimento. Ma se questo tema è molto dibattuto, ci sono altre problematiche. Penso alla salute, quando un detenuto straniero si trova a essere curato con modelli diffusi in Occidente. Ma penso anche alla relazione stessa con medico o con psicologi e psichiatri. Qui conoscere le modalità comunicative è determinante: se un detenuto non risponde a una domanda non significa per forza che non voglia dire nulla, tutto dipende dalle tradizioni nella conversazione”. Quindi l’esperto può dare chiavi di lettura? “L’antropologo può collaborare gomito a gomito con polizia penitenziaria, psicologi, medici curanti, avvocati e con chiunque entri in relazione con il detenuto straniero. L’esperto culturale può contestualizzare e descrivere fatti rilevanti alla luce del particolare background culturale di un ricorrente, contendente, accusato, vittima. Può sembrare una contraddizione, ma la prospettiva universalista per cui tutti devono essere trattati egualmente rivela mancanza di consapevolezza circa il dovere di prevedere diritti differenziati. Riflettere ed esplorare misure alternative e differenziate è un’occasione importante per l’ordinamento italiano e l’antropologia giuridica può offrire uno strumento prezioso”. Pistole elettriche “taser”: polizia e carabinieri come le guardie negli Stati Uniti di Cristiana Mangani Il Messaggero, 8 aprile 2018 Entra in azione il “taser”, la pistola che blocca i muscoli grazie alle scariche elettriche. Dopo un percorso più che travagliato, il ministero dell’Interno ha deciso di avviare la sperimentazione (da 1 a 3 mesi) a cominciare da alcune questure italiane: Brindisi, Caserta, Catania, Milano, Padova e Reggio Emilia. Il dispositivo, che è classificato tra le armi da difesa considerate meno letali, verrà usato a partire dai prossimi giorni, dagli uomini della Polizia di Stato ma anche dai Carabinieri. Si è svolta presso la Direzione Centrale per gli Affari Generali del Dipartimento PS una riunione con all’ordine del giorno la sperimentazione della pistola elettrica Taser. È stato comunicato che verranno testate 30 pistole Taser modello Px2 divise tra polizia, carabinieri e finanza. I corsi si faranno al cnspt di Nettuno prima per i formatori che a loro volta addestreranno gli operatori nelle varie città. La prova dell’arma dovrebbe durare tre mesi prorogabili. Le modalità di uso sono solo a lancio di dardo mentre è escluso l’utilizzo a contatto. Le città di sperimentazione sono divise tra polizia carabinieri e Gdf. Le città ove verranno sperimentate dalla Polizia di Stato sono: Brindisi, Caserta, Catania, Milano Padova e Reggio Emilia. La Consap ha accolto favorevolmente la notizia dell’avvio della sperimentazione anche per le forze di polizia italiane della pistola elettrica. Troppi erano i casi in cui i poliziotti rimanevano feriti a causa della mancanza di armi non letali in dotazione, infatti anche a causa di una restrittiva normativa giuridica sull’uso legittimo delle armi che come una spada di Damocle pone i poliziotti in potenziale rischio, erano in una condizione di svantaggio quando malintenzionati armati di coltello o altre armi come bastoni o solo con la forza fisica venivano aggrediti o aggredivano persone inermi. Per questo la Consap ha chiesto chiarezza sull’utilizzo della pistola Taser, sui protocolli operativi, sui rischi collaterali e garanzie normative a tutela dell’operatore che ne fa uso. Un’arma la Taser che anziché utilizzare i proiettili ricorre a una scossa elettrica per rendere innocuo un aggressore o un violento. Non lo uccide, non lo ferisce, ma lo immobilizza, lo stordisce. Gli impedisce di continuare a portare avanti qualsiasi azione (illegale o pericolosa, si presume) stia compiendo. Il recupero della mobilità è quasi immediato, il sistema è studiato per dare agli agenti il tempo necessario per bloccare il soggetto. Ben venga la pistola elettrica. L’unica nota dolente le modalità di informazione dei sindacati. La Consap rappresentata per l’occasione dal coordinatore nazionale Cesario Bortone, ha stigmatizzato la modalità con cui sono stati informati i sindacati, legittimi rappresentanti dei lavoratori. La riunione odierna infatti è stata convocata in fretta e furia nel giro di due ore, e con non poco imbarazzo il Prefetto Dispenza ha cercato di correggere la evidente anomalia dell’articolo di stampa molto dettagliato sulla vicenda Taser che era già comparso su un noto quotidiano nazionale ancor prima della informazione ai sindacati. Dopo le scuse dell’amministrazione La Consap ha chiesto che la sperimentazione venga estesa anche ad altre questure a prescindere della sede già opzionata da altre forze di polizia in modo da avere un quadro il più possibile corrispondente alla reale esigenza operativa in tutto il territorio nazionale. La Consap vigilerà affinché tutto il processo sperimentazione dalla scelta dell’arma, alla formazione del personale, alla modalità di assegnazione avvenga nella più totale trasparenza. Persone private della libertà, anche alla Liguria serve un Garante di Alessandra Ballerini La Repubblica, 8 aprile 2018 Ci siamo quasi, forse anche in Liguria ci sarà finalmente un garante per le persone private della libertà, un’autorità che potrà monitorare sulla salvaguardia delle persone che per qualsiasi ragione si trovino private, per qualsiasi ragione, anche momentaneamente, della libertà. La Commissione regionale ha infatti approvato, a maggioranza e con l’astensione della sola Lega, il Testo unificato delle proposte di legge firmate da Gianni Pastorino e Angelo Vaccarezza a cui successivamente avevano anche aderito il Movimento 5 Stelle e il Pd. E adesso bisogna solo aspettare che la Giunta regionale, anche in considerazione dell’ampio schieramento di forze politiche che ha dato il via libera al testo metta a disposizione risorse e personale per dotare anche Regione Liguria di questa essenziale figura. E quanto sia indispensabile lo dimostra la lettura del rapporto del Garante Nazionale delle persone ristrette, che dopo aver visitato le carceri liguri, alcuni commissariati e il campo profughi di Ventimiglia scrive, non senza una evidente preoccupazione, che occorre “Rammentare al personale sanitario il proprio obbligo fondamentale di riportare accuratamente ogni segno indicativo di possibili lesioni riscontrato all’atto della visita di ingresso e che qualora sia accertata la coerenza tra tali rilievi e quanto dichiarato come causa da parte del soggetto, l’episodio sia trasmesso alle Autorità dell’Istituto per i compiti di indagine amministrativa ed eventuale trasmissione alla Procura della Repubblica”. E a tale proposito viene citato il caso di un ristretto in carcere ligure di sessantadue anni che al momento del suo ingresso nella casa di reclusione ha riferito, così come debitamente riportato, di essere stato “pestato all’arresto”; tuttavia nel referto di prima visita si legge invece “Nega traumi recenti”. E, per dirla con le parole del Garante Nazionale: “indipendentemente dalla veridicità dell’affermazione del signor X che non compete a questo Ufficio accertare, colpisce l’inconsistenza logica delle due affermazioni. Tanto più che, a seguito di una RX Toracica, nel referto viene riportato che sono visibili esiti di fratture costali a destra”. Per evitare che nessuno più “si faccia male” o più banalmente, veda compromesso qualunque dei suoi diritti fondamentali mentre si trova privato della libertà, a breve si potrà contare sulla vigilanza costante di un Garante locale, senza più dover aspettare la visita preziosa del Garante Nazionale. Siamo abituati a dare tutto per scontato, anche la libertà. Ma può capitare a chiunque di noi o a qualunque dei nostri cari, anche al peggiore giustizialista, di essere fermato dalle forze dell’ordine, anche per poche ore, magari per un banale controllo o per un errore di persona e condotti in una cella. Ognuno di noi deve avere la certezza che da quella cella uscirà senza che la sua dignità sia stata calpesta. Perché come ricorda la commissione diritti umani nel rapporto del 2012 “nessuno dubita del valore della libertà. Essa è come l’aria che respiriamo, come il cibo di cui ci nutriamo. È un bene prezioso. Ma c’è qualcosa di più importante. Per preziosa che sia la libertà non esiste costituzione, in nessuna parte del mondo, che non preveda che della libertà si possa essere privati: per ragioni serie previste dalle leggi e con la garanzia che i propri diritti siano rispettati, tuttavia la libertà può essere tolta. Ma non può esistere nessuna Costituzione, nessuna legge, in nessun paese del mondo che possa prevedere che una donna o un uomo possano essere privati della propria dignità. E questo è il cuore della questione dei diritti umani da cui tutti i passi successivi dipendono: alzare una barriera a difesa della dignità della persona che non possa essere oltrepassata per nessuno, nemmeno per il peggiore degli assassini. A sentinella di quella barriera, a breve, anche in Liguria potrebbe esserci un Garante Regionale. Milano: dal carcere al quartiere, la via del riscatto modello Bollate di Alessia Gallione La Repubblica, 8 aprile 2018 L’accordo tra il Municipio 8 e la Casa circondariale per il reinserimento sociale e l’aggregazione coinvolgerà i detenuti nella vita del territorio. La prima volta di un Consiglio comunale in un carcere fu nel 2012, in era Pisapia, quando l’aula di Palazzo Marino traslocò per qualche ora a San Vittore, nel “cuore di Milano”, come lo definiva il cardinal Martini. Martedì, toccherà al parlamentino del Municipio 8 riunirsi in via straordinaria a Bollate. “Un altro pezzo del nostro quartiere”, lo chiama il presidente di zona, Simone Zambelli. Un’altra convocazione un po’ speciale. Che servirà a ufficializzare la firma di un accordo con la direzione della casa circondariale. Un “patto” che, da qui alla scadenza del mandato nel 2021, permetterà al Municipio di coinvolgere i detenuti “in progetti di reinserimento sociale e di aggregazione”. A cominciare dalla festa del Cam di via della Pecetta, in zona Mac Mahon, dove, magari, potranno aiutare i volontari a sistemare il giardino, dipingere murales, ma anche ascoltare musica dal vivo e mischiarsi a chi frequenta il centro. Partecipare, insomma, “a momenti di vita della città”. È un legame nato da un po’, quello tra il Municipio 8 e il carcere di Bollate, che fa parte a tutti gli effetti di questa fetta di Milano. Gli stessi detenuti, per dire, sono già stati coinvolti dal consigliere di zona Fabio Galesi e da Alessandro Giungi, che dovrebbe presto rientrare a far parte del Consiglio comunale tra i banchi del Pd, in varie attività di volontariato: insieme ai comitati delle case popolari hanno ripulito i cortili dei palazzoni di Quarto Oggiaro, hanno aiutato i genitori a dipingere i muri di diverse scuole. Un anticipo del “patto” è andato in scena anche ieri, quando altri “ragazzi di Bollate”, racconta Zambelli, “hanno partecipato alla festa della social street di Villapizzone, collaborando a preparare il pranzo condiviso e, anche qui, a facendo murales per colorare la massicciata della ferrovia”. Adesso, però, con la firma di martedì, il rapporto sarà strutturale. Un’altra prima volta, dicono. Perché, se altri Comuni dell’hinterland hanno siglato accordi simili, per un Municipio è un debutto. Ma che cosa faranno i detenuti? “Le iniziative le concorderemo di volta in volta con il direttore - continua Zambelli, ma non stiamo parlando di manodopera gratuita né di far lavorare queste persone senza pagarle. Certo, magari da questa esperienza potranno nascere occasioni che vadano oltre il volontariato, ma il nostro è un modo per coinvolgere chi fa parte a tutti gli effetti del Municipio in occasioni di socialità, attività culturali o sportive”. Un modo per far calare la normalità nelle loro vite. Il 9 maggio, poi, ci sarà un altro pezzo del percorso. E una seduta di una commissione congiunta sui generis. A “confrontarsi alla pari”, dice la presidente della sottocommissione Carceri di Palazzo Marino, Anita Pirovano, questa volta saranno i consiglieri comunali e i rappresentati dei detenuti che fanno parte di un organismo interno all’istituto chiamato “commissioni riunite”. Un’occasione “per rendere i detenuti sempre più parte integrante e attiva del ragionamento sul presente e sul futuro della città - spiega Pirovano - e per i consiglieri di essere sempre più consapevoli delle condizioni e dei bisogni di chi vive in carcere”. Nuoro: Coldiretti, il profumo delle campagne porta speranza ai detenuti labarbagia.net, 8 aprile 2018 I detenuti di Badu e Carros per una mattina hanno assaporato la libertà attraverso l’innocenza e la fantasia dei bambini dell’istituto Comprensivo “Brigata Sassari” di Sassari. Lo hanno fatto attraverso i loro pensieri concettualizzati in delle lettere che ieri mattina tre loro insegnanti hanno letto davanti a un centinaio dei circa 180 ospiti della Casa circondariale di Nuoro. Momenti che hanno consentito, grazie alla semplicità delle parole, di poter evadere con il pensiero e davvero annusare il profumo di libertà della terra. Immaginazione che si è mescolata alla spensieratezza portata dalle canzoni degli Istentales e di Maria Luisa Congiu e ai sapori dei salumi della cooperativa La Genuina di Ploaghe e dei formaggi della cooperativa dei pastori di Dorgali oltre al pane dell’impresa Arte Bianca di Orgosolo e la frutta di Campagna Amica. “Grazie per questo regalo - ha poi detto uno dei detenuti a nome dei compagni di carcere, grazie soprattutto ai bambini che ci hanno pensato e ci hanno voluto regalare un poco del loro tempo, ma anche alla Coldiretti, agli Istentales e a Maria Luisa Congiu”. Un ringraziamento sentito e condiviso visto il sostegno emotivo che hanno manifestato tutti gli altri detenuti. L’iniziativa di ieri mattina promossa da Coldiretti Sardegna in collaborazione con gli Istentales rientra all’interno del progetto “Quella terra che profuma di libertà” cominciato nel dicembre del 2016 nel carcere di Bancali. “Un progetto di speranza che abbiamo voluto che fosse declinato dai bambini - ha detto il direttore di Coldiretti Sardegna Luca Saba - gli unici in grado di farlo in modo autentico, sincero e scevro da qualsiasi pregiudizio che invece alberga negli adulti. Lo hanno fatto a modo loro con parole semplici ma dirette”. Le lettere sono state inserite in un libriccino dalle insegnanti e consegnate alla direttrice del carcere Patrizia Incollu. Parole di speranza sono arrivate anche da don Mario Tanca, il responsabile ecclesiastico di Coldiretti Sardegna. “Speriamo di avervi fatto arrivare il nostro messaggio di solidarietà e vicinanza - ha commentato il leader degli Istentales Gigi Sanna - anche con le nostre canzoni che oggi, a ragione, vogliamo definire di evasione”. La mattinata si è conclusa davanti al buffet offerto dalle aziende di Coldiretti tra sorrisi e curiosità di diversi detenuti soprattutto sulle vertenze agricole. Napoli: non si ferma all’alt, poliziotti insultano e picchiano un ragazzo Il Messaggero, 8 aprile 2018 Un video choc scuote Napoli: due poliziotti filmati mentre insultano e picchiano un ragazzo che non si era fermato all’alt in sella al suo motorino. I due agenti del “Nibbio” - una sezione specializzata dei motociclisti che fanno capo all’Ufficio prevenzione generale della Questura - si erano lanciati all’inseguimento di un ciclomotore sul quale viaggiava un giovane. I poliziotti avevano appena ricevuto una segnalazione che indicava uno scippatore in fuga. Intercettato lo scooter, che - stando ad una prima ricostruzione - si era imbucato ignorando l’alt lungo via Santa Brigida. In realtà alla guida del motorino c’era un ventenne che si guadagna la giornata trasportando merende e pasti caldi. I due agenti hanno raggiunto il ragazzo, che, bloccato, è caduto a terra procurandosi ferite al volto. Il capo-pattuglia del “Nibbio” lo ha spinto contro il muro di un palazzo, iniziando a insultarlo pesantemente. Frasi volgari e irripetibili. Poi, si vede l’agente mettergli le mani addosso colpendolo almeno due volte alla testa. Questo almeno documenta il video girato con gli smart-phone da due diverse persone che assistono al di là delle scale di un palazzo adiacente. “Pezzo di m... Uomo di sf.... Str...!”, urla l’uomo in divisa. E giù i cazzotti. Come se non bastasse, il poliziotto corona il suo “intervento” sputando sul volto della vittima. Quel video, ben presto, diventa virale. Si diffonde su alcune pagine Facebook, poi viene ripreso dai media. E, infine, dalle agenzie di stampa. Attenzione: perché, almeno fino a quel momento, in Questura nessuno è stato informato del gravissimo episodio. Il ragazzo fermato, immobilizzato e picchiato risulterà poi estraneo ad ogni accusa. E a quel punto interviene una dura nota della Questura. È direttamente il questore Antonio De Iesu a firmare il comunicato stampa. “In riferimento al video diventato virale in cui viene ripresa la scena di due agenti motociclisti della Questura di Napoli che, attuando comportamenti sicuramente censurabili dal punto di vista deontologico, appaiono percuotere un cittadino nel corso di un controllo di polizia - si legge - il questore di Napoli assicura che saranno operati rigorosi accertamenti ai fini della valutazione di pertinenti responsabilità disciplinari ed eventualmente anche di carattere penale”. Deontologia e codice penale, dunque. E accertamenti “rigorosi”. De Iesu tiene a sottolineare anche un punto importante: “Comportamenti deontologicamente non corretti non possono offuscare la costante ed impegnativa attività di polizia che la stragrande maggioranza delle donne e degli uomini di quest’ufficio svolgono quotidianamente al servizio delle comunità locali”. Nuoro: “Lumeras”, un canto libero per i detenuti di Stefania Vatieri La Nuova Sardegna, 8 aprile 2018 Nuova iniziativa della Coldiretti a Badu e Carros. Gli Istentales e Maria Luisa Congiu in concerto. È la terra, che come una grande madre accoglie tutti dando una seconda possibilità a chi ha sbagliato in un cammino verso la libertà. Da questo credo parte l’iniziativa di ieri mattina dentro il carcere di Badu e Carros firmata Coldiretti Campagna Amica. Un progetto che nasce appunto dal mondo delle campagne per trasmettere speranza a chi sconta la propria pena dentro le mura del carcere. L’iniziativa, battezzata “Quella terra profuma di libertà”, è partita due anni fa dal carcere di Bancali coinvolgendo centinaia di studenti della scuola media numero 12 di Sassari. Fino ad arrivare alla sua giornata conclusiva, quella di ieri appunto che ha visto la partecipazione di circa cinquanta detenuti in regime di massima sicurezza del carcere di Badu e Carros. “La libertà che concede la terra, accogliente, genuina e ricca. La campagna non giudica e dona sempre una seconda possibilità, a patto che ci si rimbocchi le maniche. È questo il messaggio che attraverso la nostra iniziativa volevamo trasmettere ai detenuti - commenta durante l’incontro nella casa circondariale nuorese Luca Saba, direttore di Coldiretti Sardegna. E grazie agli studenti, alla loro genuinità e purezza d’animo siamo riusciti a portare prima a Bancali e oggi a Badu e Carros un messaggio di speranza e di coraggio”. Un progetto di riscoperta e conoscenza dunque che porta alto il valore della dignità di un lavoro svolto all’aperto, che tocca con mano la terra, che, nello spazio infinito delle campagne, dona la libertà. “L’evento di oggi (ieri, ndc) è una delle tante iniziative rivolte al sociale messe in campo dalla Coldiretti Sardegna - spiega il direttore provinciale Coldiretti Alessandro Serra -. È la seconda volta che entriamo in una casa circondariale, con l’obiettivo di stare vicino a chi sta affrontando un momento di difficoltà e sofferenza - sottolinea. Crediamo fortemente in questa sinergia, che lega i valori del mondo agro pastorale con il mondo dei detenuti, in cammino verso l’espiazione delle proprie colpe. Ed è proprio alla luce di questa convinzione che vorremmo si puntasse di più sul tema dell’agricoltura sociale, in un territorio che vanta la presenza di numerose e consolidate aziende agricole”. L’iniziativa ha mosso i suoi primi passi nel dicembre del 2016 in occasione della visita alla struttura penitenziaria di Bancali, e ha come protagonisti, insieme alla Coldiretti e Campagna Amica, i componenti dell’associazione culturale Istentales e gli alunni della scuola media numero 12 dell’Istituto comprensivo Brigata Sassari di Sassari. La mattinata ha visto la partecipazione della cantante Maria Luisa Congiu e del gruppo Istentales che hanno presentato in anteprima la loro nuova canzone e il progetto “Lumeras”. “È stato un momento di riflessione per tutti - conclude il direttore regionale Coldiretti - fatto attraverso i valori della festa, come si faceva una volta, attraverso i canti degli Istentales, i soci di Coldiretti, e attraverso la degustazione dei prodotti delle nostre aziende agricole: cooperativa Genuina e Pastori di Dorgali”. Pavia: gli scrittori incontrano i detenuti pavesi La Provincia Pavese, 8 aprile 2018 L’amicizia è nata a dicembre, quando la libreria Feltrinelli di Pavia ha donato volumi e materiale di cancelleria alla casa circondariale di Torre del Gallo. Da cosa nasce cosa e in poche settimane è nato il progetto “Lettori dentro”: gli scrittori entrano in carcere per incontrare i detenuti, confrontarsi con loro, interagire con i due gruppi di lettura che sono nati con il coordinamento di Bruno Contigiani di “Vivere con lentezza”. “La direttrice Stefania D’Agostino e l’educatrice Daniela Bagarotti e gli agenti di sicurezza hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa - racconta Erika Cusinatti, che dirige la Feltrinelli di Pavia. Così abbiamo messo in cantiere una serie di incontri. Siamo partiti a marzo con Alessandro Reali. Il 14 aprile porteremo in carcere Romano De Marco (che nel pomeriggio, alle 17.30 incontrerà anche i lettori in Feltrinelli) e poi Giorgio Scianna. Il titolo del progetto, “Lettori dentro”, ha un duplice significato: non solo perché sono reclusi ma anche perché coltivano la passione per la lettura. Sono curiosi, appassionati, desiderosi di conoscere”. Venerdì 13 aprile, invece, nello store di via XX Settembre Marilù Oliva presenta il suo libro “Le spose sepolte” di HarperCollins. Intervengono Daniela Bagarotti, educatrice della casa circondariale di Torre del Gallo e Paola Tavazzi dellacooperativa LiberaMente (Centro antiviolenza Rieti: i rapper detenuti finiti in isolamento per il video in cella di Francesco Salvatore La Repubblica, 8 aprile 2018 Avevano la passione per il rap, si erano incontrati in carcere. E insieme avevano deciso di raccontare l’esperienza che stavano vivendo sulla loro pelle. Quella legata alla funzione rieducativa di un istituto di pena, dove tutti i giorni si deve occupare il tempo come meglio si può. Hanno scritto il testo, hanno raccolto le immagini usando una webcam e poi le hanno montate. Quindi, con la complicità di un loro ex compagno che stava per essere scarcerato, hanno fatto filtrare il video all’esterno. Quando dal penitenziario di Rieti si sono accorti che su Youtube girava il rap “Solo cemento”, cantato da due dei loro detenuti, nel dettaglio Alessandro Cesaretti, 29 anni, meglio noto nell’ambiente hip hop romano come Big Skizo, e interpretato da Sayeed Abu, un 24enne originario del Bangladesh, non ci hanno pensato due volte, infliggendo a entrambi 10 giorni di isolamento. “Considerata la gravità dei fatti e che questi potrebbero compromettere la sicurezza dell’istituto”, ha motivato il consiglio di disciplina del carcere. L’episodio risale al dicembre del 2016 ma solo tre settimane fa, per uno dei due rapper, Abu, il tribunale di sorveglianza ha annullato il provvedimento perché “non è certa la sua partecipazione al progetto di rendere pubblico il messaggio di dura critica dell’istituzione carceraria”. A ricorrere il suo difensore, l’avvocato Nicola Zanin: “La decisione dimostra che il carcere non è e non può essere solo cemento. Una canzone seppellirà le sanzioni ingiuste”, ora esulta. Sebbene adesso, infatti, quella macchia non comparirà più sul suo curriculum penale, e quindi non inciderà negativamente nel proseguo dell’esecuzione della pena, quello che rimane sono i dieci giorni rinchiuso da solo dentro quelle quattro mura. Quando la notizia del filmato on line è arrivata alla direzione dell’istituto, infatti, la decisione è stata immediata: vanno puniti. Perché “il video è stato realizzato in maniera fraudolenta”. A nulla è servito spiegare che avevano registrato le immagini con la webcam di un pc all’interno della sala di musica, e che lì le avevano montate, durante uno dei tanti corsi. Dando così sostanza allo stesso principio che istituiva le lezioni. “I cantanti sono coscienti dei pericoli della trasgressione ma sono fieri di far uscire le vere parole - hanno scritto nella didascalia alla fine del video - di raccontare fatti e verità celate dietro un posto che non serve a ciò che si pensa, ma che genera solo violenza. Che serve solo a vedere cemento”. Intanto andavano lasciati soli dentro di una stanza di pochi metri, con buona pace della funzione rieducativa. Belluno: venerdì prossimo concerto in carcere de “Lamusicanonhaconfini” Ristretti Orizzonti, 8 aprile 2018 Venerdì 13 aprile alle 18.30 nella Casa circondariale di Baldenich si esibisce in concerto il gruppo “Lamusicanonhaconfini”, conosciuta in tutta la provincia e non soltanto per i suoi ritmi e le sue danze africane, capaci di animare feste e sagre con la partecipazione di grandi e piccini. L’iniziativa è organizzata in collaborazione con l’associazione Jabar. “Lamusicanonhaconfini” è un’associazione sportiva dilettantistica (Asd) fondata 5 anni fa da Moustapha Fall, percussionista, ballerino e coreografo senegalese trapiantato a Belluno, con l’obiettivo di portare attraverso la musica e il ritmo la fratellanza tra i popoli e le diverse culture. Ogni anno propongono innumerevoli progetti per le scuole, per associazioni che offrono servizi alle persone con disabilità, per le case di riposo, facendo conoscere la cultura africana e portando pace e convivenza. Il gruppo conta una ventina di componenti tra italiani ed africani. “Più profondo del mare”, di Khaled Hosseini recensione di Luigi Ripamonti Corriere della Sera, 8 aprile 2018 “Dottore il prossimo sei tu”. Una scritta su un muro è la miccia che fa scattare una delle più grandi tragedie contemporanee. Il dottore è Bashar al-Assad, i “precedenti” sono i leader già deposti nel corso della cosiddetta “primavera araba” e il muro è quello di una città siriana. Il governo risponde arrestando e torturando alcuni ragazzi sospettati di esserne gli autori. Inizia una catena di proteste e repressioni, su cui si innesteranno anche attori e interessi internazionali, che sconvolgerà la situazione in Siria. Un cambio di assetto del quotidiano nel quale le routine famigliari e lavorative vengono parassitate da una brutalità sempre più pervasiva. Fino alla demolizione, fisica e psicologica, di ogni possibilità di sopravvivenza. Premessa all’ineluttabile diaspora degli affetti e all’esodo. In un Egitto dapprima accogliente e poi via via più estraneo e infine ostile, ponte verso la speranza più disperata della fuga in mare verso l’Europa. L’Odissea senza Itaca fotografata e narrata mille volte. Un bambino senza vita sulla spiaggia, uno trasportato in una valigia, centri profughi affollati, conferenze internazionali. Che cosa racconta di nuovo o di diverso Melissa Fleming in Più profondo del mare, per vedersi tradotta in dieci lingue, far dire a Khaled Hosseini che “Questo è il libro del nostro tempo” e indurre Steven Spielberg a trasformarlo un film? Narra, certo, una vicenda straordinaria, quella di Doaa, una ragazza che compie gesti eroici, riconosciuti da vari premi internazionali. Ma a essere fuori dall’ordinario nel racconto è la prospettiva. Quella di Doaa diventa quella di chi legge. E ciò che colpisce è la “normalità” della tragedia. La sensazione che avrebbe potuto capitare altrove e a chiunque altro. E capita ed è capitato. Anche in Europa e non da molti decenni. È la banalità del male ma anche la sua complessità, che si fa beffe dell’ignoranza. Della nostra, comune e crassa, che rimane “sorpresa” di quanto sia tragico il portato per i singoli di una situazione che per noi è quasi solo cronaca o disagio sociale. Ma anche dell’ignoranza di chi pensa che a problemi complessissimi si possa rispondere con ricette semplici. Un libro che fa aprire gli occhi e che fa riflettere, senza giocare troppo sulle corde dell’emozione facile. Più una cronaca che un racconto, certamente non un romanzo, ma con un passo narrativo che lo lascia credere. A riportare con i piedi per terra, casomai ce ne fosse bisogno, l’epilogo, in cui l’umanità fa da contrappunto a una crudeltà totalmente insensata e in cui rendono conto della stringente realtà le voci dirette della protagonista e dell’autrice, che, essendo capo delle Comunicazioni per l’Alto commissariato delle Nazioni Unite, ha contezza dei mille aspetti del problema, il che risparmia al lettore irritanti banalità. Banalità che, certo, non si trovano nemmeno nel Tempo della complessità di Mauro Ceruti. Un saggio che può essere utile prendere in mano dopo Più profondo del mare, perché non lesina ragioni a sostegno del fatto che leggere fenomeni epocali come le migrazioni di massa dal Nord Africa e dal vicino Oriente sia tutt’altro che semplice. Ceruti, sollecitato da Walter Mariotti, offre una panoramica non solo delle poste in gioco sul tavolo geopolitico di oggi, ma ne disvela le chiavi formative, che affondano nel secolo breve, nel secolo lungo (non ancora finito) che parte con la rivoluzione francese e più indietro ancora nel tempo. Sono pagine preziose per comprendere quello che è l’Europa e perché lo è, con le embricazioni culturali che ne sono all’origine e ne creano il tessuto di sostegno. Uno sguardo e un’analisi che si allargano alle prospettive planetarie, considerando anche il ruolo della scienza e della tecnologia, pervasive e decisive, e a quello, strettamente connesso, dell’educazione. Con un tono di fondo che fa da costante premessa a un paradosso solo apparente che si svela nella parte finale dell’opera, dove si denuncia l’inadeguatezza persino del socratico “so di non sapere”, in quanto affermazione che nasce comunque da una presunzione di sapere qualcosa, cioè di non sapere, mentre, in realtà sarebbe più sano ammettere di non sapere nemmeno di non sapere. Una lettura utile, per capire che il mondo è una faccenda complessa. Ignoranza e relative semplificazioni sono scorciatoie autolesioniste. La politica del cassonetto nelle trincee-periferie di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 8 aprile 2018 A Genova multa per chi fruga nella spazzatura: il decoro urbano base della convivenza democratica. A Roma la filiera commerciale dei rifiuti in mano ai rom. La gestione dei cassonetti e degli scarti nelle nostre città ci dice molto sull’idea della cosa pubblica di chi governa aree di crisi complesse: periferie, geografiche o sociali che siano, in un Paese come il nostro, che conta cinque milioni di poveri assoluti e 500 mila migranti “invisibili”, spariti dai radar dell’accoglienza. Ha fatto scalpore la decisione della giunta di Genova a trazione leghista di multare chi fruga nella spazzatura in centro storico, al Porto Antico e in piazza della Vittoria: la sinistra è insorta con proteste e petizioni. La giunta si avvarrà per la zona turistica anche del decreto Minniti contro il degrado urbano (pure gravato a suo tempo da polemiche). Diciamolo subito: finora l’alternativa era girarsi dall’altra parte, non per afflato umanitario ma per quel benaltrismo che tutto depreca e nulla mai risolve (il vero nodo? La povertà nel mondo...). Dal punto di vista di un cittadino medio chi fruga nella spazzatura segnalerà, certo, rilevanti iniquità planetarie ma va innanzitutto allontanato da quel cassonetto. Difficile non capire le ragioni di chi governa una città dove la Commissione parlamentare sulle periferie stimava nel 2017 dodicimila dei 500 mila invisibili di cui dicevamo. Semmai si può discutere l’efficacia di una multa comminata a chi mai la pagherà. Si coglie un che di declamatorio. Lo sosteneva, già a proposito del decreto Minniti, Flavio Tosi: proponendo però detenzioni amministrative (quattro ore di camera di sicurezza comminate dal questore), certo assai difficili da accettare per ragioni ordinamentali prima ancora che di principio (occorre un magistrato per privarci della libertà). In questa materia, tuttavia, una dose di pragmatismo serve, eccome. Non solo a Genova. Ma nelle tante città che vivono condizioni simili o peggiori e nelle quali il decoro va inteso come base della convivenza democratica e non certo come astratto orpello ottocentesco (democraticamente, il decoro di una piazza permette a una vecchietta sola e magari malferma sulle gambe di andare a fare la spesa senza paura). Distinguere, dunque. Lo promette l’assessore genovese Garassino: applicheremo la delibera con umanità, dice. E in effetti il provvedimento è stato emendato per non sanzionare chi fruga alla ricerca di cibo (non più di due casi su dieci). C’è chi va affidato all’assistenza pubblica, sfamato e curato. Ma chi fa dei rifiuti urbani una filiera commerciale va perseguito: basta risalire la filiera. Roma, primo laboratorio pentastellato, è un bell’esempio: qui la filiera è tutta in mano ai rom. Per ogni cassonetto romano c’è ormai un “addetto”: non un vecchietto emaciato in cerca di pane, ma un giovane rom che fruga professionale, sezionando indisturbato le nostre vite scartate dai sacchetti di plastica e abbandonando in strada ciò che non gli interessa. La filiera dove porta? Al recupero di metalli e oggetti poi venduti in nero ai demolitori e nei mercatini abusivi: famoso è stato a lungo il mercatino del venerdì di via della Moschea, chiusa al traffico per buche (a gennaio sono infine intervenuti i vigili). Un mezzo di sussistenza e riciclo? Forse, ma anche un circuito ramificato che fa dell’illegalità una pratica accettata: cui ci abituiamo pericolosamente, a volte contribuendovi. Perché poi questa filiera tollerata corre parallela a una seconda filiera molto meno folcloristica: quella dei rifiuti tossici bruciati nei campi rom di Roma, Torino, Napoli, Milano, quattro metropoli ad alto rischio d’avvelenamento. Seguendola, si troverebbero i bambini rom mandati dalle famiglie ad accendere i roghi (perché non perseguibili). E risalendo ancora ci si imbatterebbe in imprese italiane - spesso mafiose - che anziché pagare il dovuto per smaltire materiali tossici li affidano ai rom per pochi euro (i medesimi rom sono dunque nostri complici oltre che nostri carnefici). La Commissione antirazzista “Jo Cox” della passata legislatura si doleva a ragione che l’82 per cento degli italiani avesse un’opinione negativa dei rom. Ma ammetteva che si tratta di un classico processo di “avvitamento”: illecito e stigma si rafforzano a vicenda. Arrivando in fondo alla filiera, si potrebbero dunque liberare i bimbi da genitori che li sfruttano (l’abbandono scolastico tocca l’80 per cento), colpire imprese che praticano l’illegalità, spegnere i fuochi e bonificare le aree con beneficio per la salute dei cittadini che abitano nei paraggi (l’anno scorso a Torre Spaccata la diossina ha superato di 20 volte i limiti dell’Oms per effetto dei roghi tossici). Si può fare qualcosa? Certo. A Roma come a Genova o a Milano, con l’impiego massiccio della municipale e il ricorso a più giudici di pace contro i reati “bagatellari”. In generale con un approccio laico e attivo. Ancora una volta, distinguendo (non si può spazzare tutto con una botta di ruspa, occorre la pazienza del caso per caso) e dunque lavorando più seriamente. Ne sarà valsa la pena. La piccola storia dei cassonetti e degli umani che vi si affollano attorno è una bella cartina di tornasole per capire quanta fatica o quanta demagogia o quanta rimozione metterà domani chi governerà quelle trincee civili che già oggi sono diventate le nostre periferie. Riconoscimento facciale: tra Europa e Stati Uniti un nuovo caso Facebook di Martina Pennisi Corriere della Sera, 8 aprile 2018 Alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo Regolamento europeo per la privacy, l’azienda americana ci riprova proponendo il consenso esplicito preventivo. Se state seguendo l’Odissea di Facebook per l’utilizzo improprio dei dati da parte di Cambridge Analytica appuntatevi queste due parole: riconoscimento facciale. Potrebbero diventare determinanti sull’asse Europa-Stati Uniti. Circa un mese prima dell’esplosione dello scandalo, il social network ha annunciato l’introduzione del riconoscimento dei volti anche in Europa, per ora solo per un piccolo gruppo di utenti. Un nuovo tentativo di introduzione, in realtà: nel 2011 la tecnologia in grado di suggerire a chi carica una foto i nomi di chi la popola era stata bloccata perché in contrasto con le norme comunitarie. Alla vigilia dell’applicabilità del nuovo Regolamento europeo per la protezione dei dati personali, Facebook ci riprova proponendo il consenso esplicito preventivo, come richiesto dal Gdpr per il trattamento dei dati (anche) biometrici. Da dicembre, inoltre, la tecnologia è stata potenziata con la notifica della presenza del volto di un utente anche in foto in cui non è stato taggato. “Questa opzione potrebbe consentire l’esercizio del diritto alla privacy nel caso di comportamenti illeciti (prevenendo furti di identità o cyberbullismo, ndr)”, spiega l’avvocato Ernesto Belisario, sottolineando come si debbano però valutare molti altri aspetti delicati. Su tutti “la necessità di utilizzare le informazioni indispensabili per il riconoscimento e di conservarle per il periodo strettamente necessario, oltre al pericolo dei falsi positivi”. Su Politico, il direttore di Data Compliance Europe Simon McGarr è ancora più netto: “Facebook, per come è progettato, riconosce anche i volti di chi non ha dato il consenso”. Negli Usa - dove il sistema è attivo da otto anni e in dicembre ne è stata semplificata la disattivazione - tredici gruppi per la protezione della privacy hanno sostenuto la stessa tesi rivolgendosi alla Federal Trade Commission. Tentativi analoghi in passato non avevano avuto successo. Adesso, la pressione per il caso Cambridge Analytica, su cui la Ftc sta indagando, potrebbe influire. La pressione, e la reazione dell’Europa. Migranti. Taglio di fondi Ue ai Paesi che non accolgono di Cristiana Mangani Il Messaggero, 8 aprile 2018 Cambia il Trattato di Dublino. Diversa ripartizione per quote in base al Pil e alla popolazione. Sanzioni dissuasive o perdita di una parte dei fondi Ue, la possibilità per il migrante di scegliere tra quattro stati la sua destinazione finale, la ripartizione per quote in base al pil e alla popolazione: la riforma di Dublino IV continua ad agitare il dibattito politico tra i paesi della Ue. La sensazione è che la modifica del regolamento si scontrerà ancora una volta contro i muri sollevati dai paesi del patto di Visegrad. Negli ultimi mesi, l’Unione sembra aver preso coscienza degli sforzi compiuti da Italia e Grecia, sottoposti, per conformazione geografica, a ondate migratorie particolarmente difficili da gestire, anche se il negoziato continua a essere in salita. Nel frattempo sono due le posizioni intorno alle quali si sta svolgendo il confronto all’interno dell’Unione: quella proposta dalla Libe, la Commissione del Parlamento europeo competente su Libertà civili, giustizia e affari interni. E quella della Commissione Ue. Il testo, approvato dal Parlamento a novembre del 2017, è il più innovativo. Mira ad abbandonare il criterio dello stato di primo ingresso, suddividendo i richiedenti asilo tra tutti i paesi membri, in base a un sistema permanente di quote. Vale il “principio di solidarietà ed equa ripartizione della responsabilità” imposto dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento della Ue in materia di migrazione. Che non vuol dire solo un vantaggio finanziario per gli stati che accolgono, ma anche un vero e proprio sostegno, quello che l’Italia chiede da tempo. In termini pratici, il migrante che arriva in Europa viene registrato e, nel caso in cui presenti richiesta di protezione internazionale, avrà una prima sommaria valutazione sulla ammissibilità da parte dello stato ricevente. Qualora la risposta sia favorevole, se il richiedente asilo ha un legame rilevante altrove nella Ue, verrà trasferito lì. E sarà quello il paese che esaminerà la sua domanda di asilo. Per legame rilevante si intendono i rapporti parentali. Il Parlamento ha ampliato il concetto di famiglia, che comprenderà tutti i figli minori, anche se sposati, i fratelli e i figli maggiorenni ancora a carico. Inoltre varrà il principio culturale o di soggiorno precedente: se un migrante ha conseguito un diploma accademico o professionale, oppure se ha già soggiornato legalmente in uno stato membro, rientrerà nella categoria. Una facilitazione individuata proprio per agevolare l’integrazione e la conservazione di legami costruiti. È previsto anche che fino a 30 persone possano chiedere di spostarsi insieme. Sebbene il gruppo non potrà scegliere in quale stato stabilirsi. Qualora non ci fossero parentele o legami, il richiedente asilo potrà indicare la sua destinazione da una lista di quattro stati: paesi con il numero più basso di richiedenti rispetto alla propria quota, e che cambieranno di volta in volta, in base all’accoglienza attuata. I costi dei trasferimenti saranno a carico del bilancio Ue. C’è, però, un limite e si verificherà nel caso in cui la domanda di protezione abbia probabilità molto scarse di essere accolta. Nel caso in cui si verificasse questa ipotesi, il migrante rimarrà nello stato di primo ingresso, e sarà quello a decidere sull’asilo. Ben diversa la proposta della Commissione Ue, che prevede un aiuto degli altri stati solo nel caso in cui la pressione sul paese di primo ingresso raggiunga una soglia insostenibile (il 150 per cento di una quota stabilita in base a pil e popolazione). Solo in quel caso scatterà un meccanismo “di emergenza”. Su un punto le due linee di riforma sembrano trovare un accordo: sulla necessità di intervenire nei confronti degli stati che non rispettino le condizioni. L’obiettivo è quello della ripartizione tra tutti, anche perché, mettendo le spese per il trasferimento e l’accoglienza a carico del bilancio Ue, ciò eliminerà la possibilità per i più resistenti di trovare un appiglio di natura economica. La Commissione stabilisce allora che lo stato versi 250 mila euro per ogni richiedente non ricollocato sul territorio, mentre la Libe ritiene importante che chi disobbedisce perda una parte dei fondi Ue. Arrivare a Dublino IV con una posizione che riequilibri il principio di solidarietà tra stati non sembra un lavoro facile. I paesi come quelli del patto di Visegrad hanno sviluppato il loro consenso politico proprio sulla resistenza all’invasione migratoria. E in attesa che il Consiglio dell’Unione europea passi in esame le novità, Cecilia Wikstrom, relatrice della proposta del Parlamento, ricorda che “nulla nei trattati obbliga gli stati a decidere all’unanimità”, e che gli eventuali contrasti potranno essere superati da un voto a maggioranza qualificata. Siria. Salta la tregua a Ghouta, ritornano raid e missili di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 aprile 2018 Più di 50 morti in due giorni dopo il fallimento del negoziato tra il governo e i salafiti di Jaysh al-Islam, che si accusano a vicenda. A nord la Turchia allarga il suo raggio d’azione: nuovi sfollati dal cantone di Afrin. Cinquantamila civili sono rientrati nelle loro case a Ghouta est: lo annuncia l’agenzia di Stato siriana Sana, dopo l’evacuazione di massa delle ultime settimane. Secondo Damasco, il rientro è stato possibile nelle località di Haza, Saqba, Hamonia, Jisreen, Ein Tarma e Zamalka, quelle da cui i gruppi di opposizione islamisti hanno accettato di andarsene. Ovvero i salafiti di Ahrar al-Sham e Faylaq ar-Rahman, gli islamisti dell’Esercito libero siriano, un totale di 46mila persone, tra miliziani e loro familiari. È saltato invece l’accordo con la più potente e numerosa milizia presente nel sobborgo di Damasco, sotto assedio esterno e interno dal 2013: Jaysh al-Islam rimane a Douma, principale città di Ghouta est dopo il fallimento del negoziato con Mosca. Nei giorni scorsi l’uscita pareva certa, ma al momento solo 3mila dei 15mila uomini presenti sono stati evacuati, non verso Idlib come i gruppi precedenti, ma ad al-Bab e Jarabulus, nella curda Rojava, a sostegno dei piani militari turchi. I due fronti si scambiano accuse reciproche: per Damasco i salafiti non intendono consegnare i prigionieri; secondo Jaysh al-Islam - finanziato dall’Arabia saudita - la ragione sta nel disaccordo interno a Damasco e Mosca sulla richiesta islamista di restare come forza non armata di polizia. La conseguenza è immediata e devastante, a essere scambiate non sono solo parole: da due giorni Douma è tornata target di pesanti scontri, con rinnovati raid aerei governativi e lancio di missili da parte islamista verso le zone residenziali della capitale. Il bilancio è alto: sarebbero almeno 47 i morti per le bombe di Damasco, secondo le opposizioni; sei morti per i missili jihadisti piovuti sui quartieri damasceni vicini. In entrambi i casi, tra le vittime ci sono donne e bambini. Una rinnovata violenza che spezza la tregua degli ultimi 10 giorni e che blocca l’avanzata governativa, con Damasco che ha ripreso - dal 18 febbraio, inizio della nuova controffensiva su Ghouta - il 95% del sobborgo. Pagano i civili, con decine di migliaia di persone impossibilitate a fuggire e a ricevere aiuti, in un’area da anni affamata dal doppio assedio. Assediato è anche il nord della Siria con le truppe turche che dal 18 marzo (l’occupazione del cantone curdo di Afrin) ampliano il loro raggio di azione giustificandolo con la “pulizia” della zona da ordigni e “terroristi”. Ovvero i combattenti delle unità di difesa curde Ypg/Ypj, impegnate in atti di guerriglia contro l’esercito di Ankara e i miliziani delle opposizioni siriane a questo fedeli. Secondo fonti locali, i raid aerei nella zona occidentale di Rojava proseguono, come prosegue lo sfollamento della popolazione civile: solo negli ultimi giorni, riporta il funzionario Ihsan Celebi, 120 famiglie sono state costrette a lasciare dieci villaggi. E in pericolo, denuncia l’Amministrazione autonoma di Afrin in esilio, c’è l’agricoltura, prima fonte di sostentamento del cantone: 14 milioni di alberi di ulivo presenti nell’intero distretto sono a rischio a causa delle violenze e dell’assenza dei contadini. Ieri il capo di stato maggiore turco ha annunciato l’apertura della nona base nella provincia nord-ovest di Idlib, a pochissima distanza da Afrin, e l’intenzione di procedere con l’installazione di altri tre punti di osservazione. Nella pratica aree militari controllate dalla Turchia e che servono allo scopo dichiarato di avanzare verso oriente per creare un corridoio kurd-free alla frontiera settentrionale siriana (nell’idea, espressa ieri dal ministro degli Esteri Cavusoglu, di “correggere gli errori degli Usa”, ovvero il sostegno alle forze curde). Azioni che si sposano con quanto avviene al di là del confine est, nel nord dell’Iraq, sulle montagne di Qandil: di nuovo ieri - come negli ultimi anni avvenuto con costanza - l’aviazione di Ankara ha bombardato postazioni del Pkk. Brasile. Lula accetta il carcere ma la lotta continua: “I criminali sono loro” di Claudia Fanti Il Manifesto, 8 aprile 2018 L’ex miglior presidente che il Paese abbia mai avuto annuncia che si consegnerà alla polizia e saluta la sua gente con un discorso di resistenza e di speranza: “La morte di un combattente non ferma la rivoluzione”. È stato un discorso di resistenza, di lotta, di speranza e di denuncia quello rivolto da Lula alla moltitudine riunita a São Bernardo do Campo, prima di consegnarsi, “a testa alta”, alla polizia federale di Curitiba. “Se dipendesse dalla mia volontà - ha spiegato ai sostenitori - io non andrei, ma lo farò. O a partire da domani diranno che sono latitante”. Impensabile chiedere asilo politico: “Alla mia età”, ha detto, “meglio affrontarli a viso aperto”, nella certezza che “la storia dimostrerà” che “sono loro ad aver commesso un crimine”. “Loro” sono il giudice Sérgio Moro, l’esponente più brillante della nuova Repubblica giudiziaria, i responsabili dell’inchiesta Lava Jato, i magistrati del Tribunale regionale federale di Porto Alegre, la rivista Veja, la Rede Globo (“Ho detto a Moro che non poteva assolvermi, dal momento che la Globo mi stava condannando”). “Non li perdonerò - ha detto Lula - per aver fatto passare il messaggio che sono un ladro” senza aver fornito una sola prova: “Sono l’unica persona al mondo processata per un appartamento che non è neppure suo”. Eppure, ha sottolineato, “nessun giudice dorme tranquillo come me”. “Loro” sono i responsabili del golpe “che non è finito con la destituzione di Dilma, ma andrà avanti finché non mi escluderanno dalle elezioni”. Perché quello che vogliono è impedire che il povero possa avere diritti, mangiare in maniera sana, andare all’università. Ma si illudono, perché “la morte di un combattente non ferma la rivoluzione”. A nulla serve, ha insistito Lula, “impedirmi di girare per il Paese. Vi sono milioni di Lula che lo faranno”, “più intelligenti di me”, che faranno manifestazioni e occupazioni nei campi e nelle città. “Loro non sanno che il problema non si chiama Lula, ma si chiama coscienza popolare”. E, prima di offrirsi all’abbraccio finale del suo popolo, ha concluso: “Il mio cuore batterà nel vostro cuore e nei milioni di cuori dei brasiliani”. Il suo ultimo discorso pubblico - ricco di riconoscimenti e parole di gratitudine (per Dilma soprattutto), Lula lo ha pronunciato dopo la cerimonia religiosa in ricordo della moglie Marisa Letícia, che ieri avrebbe compiuto 68 anni, morta prima del tempo (nel febbraio dell’anno scorso) “per tutti gli attacchi ricevuti dalla stampa”. Una cerimonia piena di emozione, presieduta da uno dei grandi vescovi progressisti del Paese ancora in vita, dom Angélico Sândalo Bernardino, già ausiliare del cardinale Paulo Evaristo Arns e ora vescovo emerito di Blumenau. “Molta gente che è qui - ha detto - si ricorda quando, ai tempi della dittatura, scendevamo in strada lottando per le nostre cause, le cause del popolo. E che ci dicevamo: ‘O povo unido jamais será vencido’”. E, attaccando la grande stampa e sposando pienamente la tesi della sinistra brasiliana relativamente al processo golpista parlamentare-giudiziario-mediatico in corso, ha aggiunto: “Tutti qui siamo convinti che il Brasile abbia sofferto un golpe. Solo che la prima metà è avvenuta quando Dilma è stata destituita. E la seconda metà quando impediranno a Lula di candidarsi, calpestando la Costituzione del Paese”. Non resta allora che il popolo si unisca, di nuovo. Che riprenda a occupare le piazze lasciate finora troppe vuote. Che si unisca alle forze che non hanno mai smesso in questi mesi di mobilitarsi, come i Senza Terra che venerdì hanno bloccato in 20mila più di 50 strade di 18 Stati del Paese. “Stiamo invitando tutti a promuovere un accampamento a Curitiba”, ha dichiarato il leader del Mst João Pedro Stédile, “per una veglia permanente finché Lula non recuperi la libertà”. Per diventare “il cuore di Lula e resistere”. “Lula ha spiegato che questa non è una dimostrazione di debolezza. Al contrario, è una strategia per far ricadere la responsabilità sull’altro lato”, ha sottolineato Stédile, uno dei leader a cui Lula ha voluto rivolgere un ringraziamento speciale, insieme, tra gli altri, ai pre-candidati alla presidenza Guilherme Boulos (per il Psol) e Manuela d’Ávila (Partito comunista del Brasile), definiti come “la speranza del Paese”. “Non è il momento di piangere - ha esortato Stédile - ma di resistere e lottare”. Lo ha ribadito anche la presidente del Pt Gleisi Hoffman: “Occuperemo Curitiba. Finché non libereranno Lula, dovranno convivere con la nostra resistenza”. E la parola resistenza è stata di sicuro la più utilizzata tra la moltitudine riunita a São Bernardo do Campo, pronta a proteggere il suo presidente per impedire l’arresto. “Da parte nostra - ha assicurato per esempio un altro noto leader dei Senza Terra, Gilmar Mauro - siamo disposti a resistere fino alla fine, ma esistono questioni giuridiche che possono aggravare la situazione di Lula”. Scarcerato blogger del Ciad. Rischiava l’ergastolo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 aprile 2018 Tadjadine Mahamat Babouri, un blogger del Ciad conosciuto da tutti come Mahadine, è stato rilasciato il 5 aprile su decisione dell’Alta corte in quanto la sua detenzione preventiva aveva ecceduto i limiti previsti dalla legge. Mahadine era in carcere dal 30 settembre 2016 con le accuse di aver minacciato l’ordine costituzionale, l’integrità territoriale e la sicurezza nazionale nonché di aver collaborato con un movimento insurrezionalista. Pena prevista: ergastolo. In realtà, Mahadine aveva solo avuto il coraggio di pubblicare sul suo profilo Facebook alcuni video che criticavano la mancanza di trasparenza del governo nella gestione dei fondi pubblici. Il 19 marzo, la svolta: le accuse sono state ritirate e sostituite con quella, ingiustificata ma meno rilevante dal punto di vista penale, di diffamazione. Mahadine è stato al centro di un’enorme mobilitazione di Amnesty International, che nel 2017 ha fatto pervenire alle autorità ciadiane 690.000 appelli. La campagna continua: ammesso che Mahadine abbia diffamato qualche rappresentante del governo, non dovrebbe essere condannato al carcere. L’udienza è prevista il 19 aprile.