Ambiente e verde pubblico per il lavoro fuori dal carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2018 Firmato un protocollo d’intesa tra Anci e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un programma sperimentale per coinvolgere i detenuti in attività lavorative extra-murarie rivolte alla protezione ambientale e al recupero del decoro degli spazi e delle aree di verde pubblico. Inoltre, le comunità penitenziarie saranno sensibilizzate a incrementare i livelli di raccolta differenziata e coinvolte nella promozione di modelli di gestione del ciclo dei rifiuti. Si tratta del protocollo d’intesa sottoscritto a Roma dal presidente dell’associazione nazionale Comuni d’Italia (Anci) e sindaco di Bari, Antonio Decaro, e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. In virtù del protocollo, l’Anci si impegna promuovere i contatti nei Comuni sedi di istituti penitenziari per il raggiungimento degli obiettivi condivisi; e di favorire insieme con il Dap sia la partecipazione a bandi europei che la promozione di progetti da finanziare anche attraverso la cassa delle ammende. Il Protocollo ha durata triennale, è rinnovabile e partirà in via sperimentale dai Comuni capoluogo delle città metropolitane. Il programma delle attività, da aggiornarsi annualmente, sarà demandato ad una apposita Unità paritetica di gestione, composta da due componenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Anci: questa struttura si occuperà di fornire indirizzi, supporto e linee guida per l’attuazione delle attività previste dall’intesa, nonché di monitorare l’andamento della sua operatività e le Convenzioni che saranno stipulate su tutto il territorio nazionale. “Con questo accordo - ha dichiarato il ministro Orlando - vogliamo sottolineare una volta di più l’importanza del lavoro come leva fondamentale del trattamento penitenziario. Governo e Parlamento hanno scelto di andare verso un nuovo modello penitenziario, finalmente e realmente aderente al dettato della nostra Costituzione: un modello finalizzato non soltanto al reinserimento sociale dei detenuti e al conseguente abbattimento del rischio di recidiva, ma anche allo svolgimento di attività gratuite in favore della collettività come finalità riparativa della pena. Ha valore particolarmente significativo che le attività in cui saranno impegnati i detenuti siano mirate alla protezione dell’ambiente, tema fondamentale per il nostro Paese”. Per il presidente dell’Anci Antonio Decaro: “Questa intesa, che rinsalda e attualizza una collaborazione avviata nel 2012 sui lavori di pubblica utilità mette alla prova la capacità di tutti noi di saper offrire un’opportunità a chi ha deviato dalla legge. I sindaci sanno bene che spesso i detenuti non sono feroci criminali, ma persone che hanno sbagliato, per svariati motivi. Per queste, soprattutto per i più giovani, il carcere dev’essere un luogo dove scontare la pena, ma anche una occasione di recupero e reinserimento nella società. In particolare al Sud, gli amministratori delle città conoscono le lacerazioni delle famiglie che vivono l’esperienza del carcere. Per questo abbiamo sposato con convinzione l’idea di un protocollo con il Ministero della Giustizia - conclude Decaro - che non obbliga al lavoro forzato, ma dà ai detenuti la possibilità di imparare un mestiere, contribuire alla cura del bene pubblico e riabilitarsi socialmente, agli occhi delle loro famiglie e delle comunità”. Il capo del Dap Santi Consolo ha spiegato: “Il protocollo presta particolare attenzione all’ambiente e valorizza al contempo la formazione e l’impiego lavorativo delle persone detenute. Da oltre 18 mesi l’amministrazione penitenziaria ha intrapreso un percorso virtuoso per incrementare la raccolta differenziata negli istituti che è passata dal 59% del luglio 2016 al 95% del marzo 2018. I detenuti impiegati, ad oggi, sono circa 570 e 973 sono le sezioni detentive in cui operano. Grazie all’accordo siglato oggi con l’Anci puntiamo a raggiungere il 100% della copertura a livello nazionale coinvolgendo anche quei comuni che ancora non hanno attivato il servizio. Il protocollo Anci/Dap può essere considerato un esempio di buona prassi strutturata tra pubbliche amministrazioni, utile all’intera collettività. Puntiamo sul lavoro dei detenuti nel trattamento dei rifiuti che da “rifiuti” si trasformano in risorse e beni per la collettività e l’ambiente”. Diversi protocolli d’intesa con l’Anci (e non solo), nel passato, sono serviti per promuovere delle iniziative favorevoli al percorso riabilitativo dei detenuti. A gennaio è stata rinnovata fino al 2020 l’accordo per la promozione e la gestione dei servizi di biblioteca negli istituti penitenziari italiani, nato nel 2013, tra ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione penitenziaria, Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Associazione nazionale Comuni d’Italia e Associazione italiana biblioteche (Aib). Il protocollo ha fornito un quadro normativo unico a quanti si occupano a vario titolo di biblioteche penitenziarie, così da avere un modello di riferimento applicabile alle diverse realtà territoriali e parte dalle linee guida redatte dall’Ifla (International Federation of Libraries Associations and Istitutions), secondo cui le biblioteche carcerarie “devono emulare il modello della biblioteca pubblica fornendo, in aggiunta, risorse per i programmi educativi e riabilitativi del carcere”. La presenza di una biblioteca in ogni istituto penitenziario italiano è prevista dall’ordinamento carcerario, i libri e i periodici a disposizione della biblioteca devono garantire “una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale, assicurando ai soggetti in esecuzione di pena un agevole accesso alle pubblicazioni presenti in biblioteca”. Nel protocollo è stato definito il ruolo della biblioteca come “centro informativo e di supporto all’apprendimento della comunità penitenziaria e, compatibilmente con il regime detentivo cui sono individualmente sottoposti i soggetti reclusi, garantisce ai propri utenti un accesso ampio e qualificato alla conoscenza, all’informazione e alla cultura, senza distinzione di età, razza, sesso, religione, nazionalità, lingua o condizione sociale”. In particolare, mediante accordi di collaborazione tra le Amministrazioni locali e le Direzioni degli istituti penitenziari, si cercherà di favorire “l’accesso al patrimonio librario e multimediale da parte dei detenuti anche attraverso appositi sistemi di consultazione informatizzata del catalogo”, formare professionalmente i detenuti incaricati del servizio; realizzare iniziative culturali quali incontri con l’autore, seminari e dibattiti su specifiche tematiche. Per i detenuti ammessi ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario è prevista anche la possibilità di svolgere tirocini finalizzati all’inserimento occupazionale. Il Garante nazionale dei detenuti aderisce al progetto pilota “DeMon Base” Ristretti Orizzonti, 7 aprile 2018 Si tratta di un progetto sugli standard applicati e le prassi osservate negli istituti penitenziari europei. Il Garante nazionale ha partecipato al primo incontro dei Meccanismi Nazionali di Prevenzione (NPM) europei che hanno aderito al progetto pilota “DeMon Base” (European Detention Monitoring Knowledge Base). A Vienna, dal 27 al 28 marzo 2018, si è tenuto il primo incontro del progetto pilota “DeMon Base” sulla cooperazione fra i meccanismi nazionali di prevenzione della tortura e di pene o trattamenti, crudeli inumani o degradanti (NPM) per lo scambio di informazioni riguardanti gli standard applicati e le prassi osservate nell’esecuzione penale nei paesi aderenti al progetto. Hanno partecipato all’evento gli NPM di Albania, Austria, Francia, Grecia, Italia (una delegazione composta da Claudia Sisti, responsabile dell’Unità che si occupa di detenzione penale e privazione della libertà, e da Giovanni Suriano, della medesima Unità, accompagnati da Antonella Dionisi delle relazioni internazionali del Garante), Lituania e Slovenia, meccanismi che, all’indomani del lancio del progetto il 3 ottobre 2017 in una conferenza organizzata dal Consiglio d'Europa, l'Agenzia per i Diritti Fondamentali (FRA) e l'Ufficio per le Istituzioni democratiche e i diritti umani dell'OSCE, avevano comunicato la loro adesione al progetto pilota “DeMon Base”. Erano presenti all’incontro anche il Comitato di Prevenzione della Tortura (CPT) e il Sottocomitato sulla Prevenzione della Tortura (SPT), costituito in seno al Comitato contro la Tortura (CAT) delle Nazioni Unite. Due sono gli aspetti considerati dal progetto: uno riguarda gli standard applicati dalle amministrazioni interessate nell’esecuzione delle condanne a pene detentive, dei quali l’NPM deve avere conoscenza, sia a livello globale (Nazioni Unite), sia ai livelli regionale (Consiglio d’Europa, cioè in particolare gli standard della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e del CPT) e nazionale (leggi, regolamenti, atti amministrativi e giurisprudenza); l’altro attiene alle prassi applicate nell’esecuzione penale e osservate dagli NPM durante le visite alle strutture penitenziarie, nell’ottica di rilevare quelle situazioni e condizioni di detenzione che rappresentano un potenziale rischio di violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Durante le due giornate dell’incontro, la discussione ha messo a fuoco gli obiettivi e l’impianto dello strumento di rilevazione degli standard applicati e delle prassi osservate, precedentemente inviato ai partecipanti. Tale interlocuzione si è rivelata essenziale per l’avvio del progetto. L'Agenzia per i Diritti Fondamentali (FRA) ha offerto chiarimenti sull’intento primario dello strumento proposto, ovvero quello di supportare il lavoro dei giudici nazionali dei paesi dell’Unione Europea nella valutazione dei casi di trasferimento fra gli Stati Membri delle persone detenute e di quelle sottoposte al Mandato di Arresto Europeo (EAW - European Arrest Warrant). Di fatto, il dispositivo ha lo scopo principale di semplificare la complessità del mandato dei giudici, attraverso la restituzione di informazioni che riguardano, per l’appunto, alcuni aspetti delle condizioni materiali della vita detentiva all’interno degli istituti penitenziari, sì da ottenere un quadro generale iniziale che faciliti la loro analisi dei casi da trattare. Al termine dell’incontro, il Consiglio d’Europa, nella persona di Markus Jaeger, capo della divisione Independent Human Rights Bodies della DGI - Human Rights Policy and Co-operation Department, ha chiesto ai partecipanti di confermare l’adesione al progetto pilota, cui il Garante Nazionale ha risposto positivamente. Carceri, cresce il rischio “suicidio” tra gli agenti di Nadia Francalacci Panorama, 7 aprile 2018 Un terzo degli uomini della Penitenziaria soffre di depressione e stati d’ansia gravi. In tre anni si sono tolti la vita 17 agenti. Il 35,45% degli agenti della Polizia penitenziaria si troverebbe in una condizione di elevato rischio “suicidio” per la presenza di un forte stato depressivo, ansia, alterazione della capacità sociale e forti sintomi somatici. Il dato che emerge da un questionario sullo stress correlato al lavoro, compilato nelle scorse settimane da 600 agenti che prestano servizio all’interno delle carceri italiane, è davvero sconvolgente. Solo nel 2017, gli uomini della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita in servizio, prima di recarsi sul luogo di lavoro o appena terminato il turno, sono stati sei. Altrettanti hanno compiuto lo stesso drammatico ed estremo gesto l’anno precedente e 5 nel 2015. In tre anni, diciassette uomini, si sono uccisi perché si sono sentiti abbandonati e sopraffatti dal disagio lavorativo. Il problema dei detenuti psichiatrici - Molto dello stress lamentato dagli agenti, nel questionario, dipenderebbe dalla chiusura degli ospedali psichiatrici. Con la chiusura degli Opg, infatti, è aumentata la presenza di questi detenuti negli istituti penitenziari causando nuove criticità e problematiche di gestione sia del detenuto con problemi psichici che del ristretto esasperato dalla coesistenza con il soggetto malato. Tra le cause anche, carenza di personale, formazione scadente e dirigenti poco attenti e preparati. Ma, se quasi un terzo degli agenti della penitenziaria dichiara un disagio al limite della sopportazione, il 65% lamenta una situazione di forte malessere. Pochi agenti, troppi detenuti - Un primo aspetto, all’origine dei disagi, dell’esasperazione e del malessere degli agenti, risulta essere il carico di lavoro da tutti percepito come eccessivo, difficile da sostenere. Un punto sicuramente di facile comprensione, considerando il sovraffollamento carcerario e l’organico degli operatori di polizia, inadeguato sia sotto il profilo numerico che di età: agenti sempre più anziani a dover contrastare un numero sempre crescente di detenuti. Dall’indagine è emerso che a creare stress e ansia anche le pause dell’orario di lavoro che risultano non sono sufficienti e gli straordinari che, negli ultimi anni, hanno la tendenza a diventare ordinari. “In generale i lavoratori hanno un controllo molto scarso sulla gestione del proprio lavoro- spiega a Panorama.it, Angelo Urso, Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari - questa scarsa autonomia non riguarda solo le modalità operative, ma anche tempi e ritmi che delineano un contesto rigido e privo di margini di flessibilità”. Altrettanto critica sarebbe la mancanza di chiarezza del ruolo che l’agente è chiamato a svolgere. Gli incarichi “abusivi” degli agenti - “Una percentuale piuttosto importante degli agenti ha dichiarato di non sapere come svolgere il proprio lavoro, di non avere chiari compiti e responsabilità - prosegue Urso - un problema che è consequenziale alla carenza di personale e che li costringe, ogni giorno, a dover ricoprire più ruoli ed incarichi in più settori, talvolta anche di responsabilità maggiori rispetto al grado di servizio dell’agente”. Infatti, sarebbero 9 lavoratori su 10 a lamentarsi di una condizione di scarsità di personale. Questo genererebbe stanchezza che porterebbe, la maggior parte degli agenti, al timore di sbagliare, con possibili conseguenze sia per la sicurezza del carcere, sia per gli operatori che hanno rilevanti responsabilità anche di carattere penale. Ansia e forti stati depressivi sarebbero generati anche dalla gestione dei detenuti stranieri oltre che dai soggetti con problemi di carattere psicologico. Una formazione inadeguata - “Con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari è aumentata la presenza dei detenuti con problemi psichiatrici nei normali istituti penitenziari - puntualizza Angelo Urso - anche in questo caso la formazione ricevuta dagli agenti per fronteggiare queste situazioni, è ritenuta dagli stessi insufficiente”. Il 94,5% degli intervistati considera questo uno dei fattori più critici, per la difficoltà di far fronte alle crisi anche violente che hanno frequentemente questi detenuti. “La durata della vita lavorativa si allunga. Si va in pensione più tardi e sono pochi i giovani che subentrano - prosegue il segretario generale Uil-Pa - uno degli aspetti più delicati è, infatti, il turno di notte. Circa l’85% degli agenti dichiarano una maggiore e sempre crescente difficoltà di adattamento ai turni avvicendati, comprensivi di quello notturno, soprattutto per gli operatori più anziani”. A generare il malessere che nel 35% dei casi, ha portato ad un disagio pesante e dai risvolti allarmanti tra gli agenti, c’è anche la poca esperienza e capacità di gestione degli eventi critici da parte dei dirigenti e commissari. I dirigenti sono “distratti” e poco preparati - Gli agenti dichiarano che di fronte alle difficoltà che si trovano ad affrontare quotidianamente nei settori carcerari, il supporto di dirigenti e, talvolta, dei colleghi è scarso. In effetti, i dati, fanno emergere rapporti critici con addirittura segnalazioni di molestie, prepotenze e vessazioni. “In generale viene lamentato un approccio distante e poco comprensivo delle problematiche di chi lavora in prima linea - continua Urso- e i momenti di comunicazione sono scarsi o del tutto assenti. Sono carenti anche le risposte della direzione alle problematiche dei detenuti. Non a caso quasi la metà degli agenti afferma che “le richieste vengono regolarmente ignorate”, mettendo così il personale nella stressante condizione di non avere delle risposte da dare”. Ma dall’indagine effettuata tra gli agenti, c’è un aspetto inquietante: il 73% del personale di polizia penitenziaria denuncia di non sentirsi tutelato dalla direzione e teme che “le responsabilità non sarebbero adeguatamente identificate se qualcosa dovesse andare male”. In sostanza, temono atteggiamenti “pilateschi” da parte dei vertici del carcere. Strutture fatiscenti e divise poco dignitose - Non poteva non emergere dal sondaggio anche le condizioni fatiscenti nelle quali gli uomini e le donne della Penitenziaria, sono costretti a lavorare. Quindi, carceri prive dei requisiti igienico-sanitari minimi e strutture non sicure sotto il profilo costruttivo. Persino le divise, secondo il 72% dei lavoratori, non permetterebbero di presentarsi in maniera dignitosa ed autorevole. “È necessario un potenziamento del personale e l’ottimizzazione delle procedure operative per ridurre i carichi di lavoro e quindi stati di stress critici tra gli agenti - conclude Angelo Urso - occorre porre attenzione alla formazione in quanto è uno strumento indispensabile per mettere gli operatori in grado di affrontare le situazioni critiche che sono inevitabili nel lavoro carcerario. Analogamente, però, è indispensabile anche quella per i commissari finalizzata a superare le gravi e fondamentali carenze del management che gli agenti hanno denunciato nel sondaggio”. Il Consiglio d’Europa adotta le linee guida per tutelare i figli minorenni dei detenuti marinacastellaneta.it, 7 aprile 2018 Preservare i diritti e il benessere dei figli minorenni dei detenuti, nel segno dell’interesse superiore del minore. Per garantire la realizzazione di quest’obiettivo, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, il 4 aprile, ha adottato le linee guida relative ai bambini con genitori detenuti, indirizzate ai 47 Stati membri (CM/Rec(2018)5, carceri). Dalle statistiche risulta che in Europa sono 2,1 milioni i bambini con un genitore in carcere, con inevitabili conseguenze negative sul minore e sul suo benessere. Nella raccomandazione, il Comitato dei Ministri, tenendo conto di tutti gli atti internazionali adottati a tutela dei diritti del fanciullo, nonché delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha chiesto agli Stati di prevedere misure al fine di evitare l’arresto dei genitori dinanzi ai figli o, in ogni caso, di eseguirlo, se non è possibile diversamente, con grande attenzione nei confronti dei minori. Durante la detenzione, salvo che non sia contrario all’interesse del minore, dovrebbero essere assicurati contatti regolari e concessi permessi anche attraverso il controllo elettronico. Inoltre, i detenuti dovrebbero essere collocati in carceri quanto più possibile vicine all’abitazione dei figli, con la possibilità di contatti anche via webcam. Il Comitato ha chiesto, altresì, l’individuazione di una figura ad hoc che si preoccupi di garantire la piena attuazione dei diritti dei minori. Nella raccomandazione, inoltre, si prevede una tutela speciale per le donne che hanno diritto di partorire fuori dal carcere, nel rispetto della diversità culturale. La rappresaglia contro i bambini dei camorristi: questa è giustizia? di Nicola Quatrano* Il Dubbio, 7 aprile 2018 Non crediate sia facile fare il consigliere del Csm. Pensate solo alle defatiganti trattative per la copertura di posti direttivi e semi-direttivi della Magistratura, un’impresa che implica complicate alchimie. I maligni parlano di “spartizione”, i suoi membri preferiscono l’espressione “pacchetto”. Il pacchetto è una specie di accordo win win su di un gruppo di nomine accorpate, capace di dare soddisfazione a tutte le componenti (e sotto-componenti). I pensosi inquilini di Palazzo dei Marescialli hanno poi molte altre incombenze, c’è perfino una commissione apposita, la sesta, che si occupa del “contrasto alle organizzazioni mafiose”. E questa commissione fa anche trasferte in tutta Italia (ha in programma addirittura un tour). Una delle ultime ha avuto come location il carcere minorile di Nisida, dove si è discusso di baby gang e sottrazione dei bambini alle famiglie mafiose, giudicate recentemente dallo stesso Csm, con la sicurezza di chi si crede nel giusto, “di per sé maltrattanti”. Il vicepresidente Giovanni Legnini ha nell’occasione espresso apprezzamento per le esperienze di questo tipo prodotte dai Tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Napoli, definendole un “orientamento giurisprudenziale innovativo”. Potenza delle parole sganciate da ogni riferimento alla realtà! Un savoir faire acquisito - credo - redigendo le motivazioni dei provvedimenti di promozione dei magistrati. Perché pare niente parla- re di “orientamento giurisprudenziale innovativo”, sembra evocare solo fumose discussioni e barbosi convegni giuridici. Ma per chi lo subisce, questo “orientamento” ha una tragica concretezza: un blitz alle 6 di mattina, i piccoli svegliati bruscamente dagli uomini in divisa, vestiti in fretta e portati via in lacrime… le grida dei parenti, la confusione, il terrore. Non pare davvero un intervento fatto a favore dei minori. Sembra più il tributo ad un’idea astratta e terribile della Giustizia, una Giustizia che assomiglia alla dea bendata con gli occhi marci e verminosi della nota poesia di Edgard Lee Masters. Chiamiamolo dunque “orientamento”, ma ha tutta l’aria di una sanzione. E nemmeno verso il reato, piuttosto verso il contesto, verso la famiglia in cui si è nati, perché a nessuno è mai venuto in mente di togliere i bambini ai genitori di altre classi sociali che, per esempio, evadono il fisco e magari se ne vantano in famiglia, o di rapire all’alba il figlio che il furbetto del cartellino aveva portato a spasso durante le ore di ufficio. Nel mirino di questi “orientamenti giurisprudenziali innovativi” non c’è il reato in sé, piuttosto la criminalità della plebe (che certamente si accompagna ad ulteriori manifestazioni di degrado sociale e familiare) e l’iniziativa dei Tribunali per i minorenni costituisce, io credo, un’ulteriore drammatica escalation di quella “guerra” alla criminalità che già infiniti addusse lutti agli Achei. Un’ulteriore manifestazione di quella logica militare che considera chi delinque (qualcuno, non tutti) un “nemico” da annientare, piuttosto che un problema sociale da risolvere. Sottrarre i minori a chi delinque è una punizione collettiva. Come la demolizione delle case, cui l’autorità di occupazione israeliana fa ampio ricorso nei confronti dei Palestinesi sospettati di atti sanguinari. Una punizione barbara (e illegale) che colpisce anche familiari e vicini innocenti e che persegue evidenti scopi dissuasivi. È una rappresaglia, un atto di guerra. Di una “guerra” alla criminalità che si è già dimostrata ampiamente fallimentare, quanto meno perché gli arresti di massa non sono riusciti a chiudere una sola piazza di spaccio, e hanno invece allargato a dismisura l’area della illegalità, favorendo il reclutamento di tanti giovanissimi nei posti lasciati vuoti dagli arrestati. Una “guerra” alla criminalità che non ha ridotto gli atti criminali, ma è solo riuscita a selezionare un nuovo tipo di “delinquente”, non solo più violento ma anche rabbioso, “antagonista” (una novità, almeno a Napoli, dove la camorra è stata sempre uno strumento di “governo”). I giovani, respinti e stigmatizzati, hanno trovato una identità alternativa nei modelli resi virali dai media sociali, quelli delle gang sudamericane della droga, delle banlieue parigine, e perfino dei fanatici del jihad. Comune punto denominatore: l’avversione verso la società che li respinge, e la violenza naturalmente, l’unico strumento a loro disposizione per contare ed emergere nel gioco della visibilità mediatica. I consiglieri del Csm farebbero meglio dunque a interrogarsi su quanto l’allontanamento dei bambini, una misura vissuta come odiosa e discriminatoria da chi la subisce, possa accrescere questa rabbia e questo “antagonismo”, fino a conseguenze imprevedibili, ma potenzialmente terrificanti. Oppure continuino ad occuparsi solo dei loro “pacchetti” da prima repubblica… tutto sommato è il minore dei mali. *ex magistrato Le emergenze immaginarie sono sorelle delle fake news di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 aprile 2018 L’Eurispes certifica un dato del quale questo giornale ha parlato già in altre occasioni: non è vero che l’Italia è il paese più corrotto d’Europa. Del resto esistono varie ricerche le quali dimostrano che il coefficiente della corruzione, in Italia, è perfettamente in media con il coefficiente europeo, anzi è lievemente inferiore. L’Eurispes ci racconta come esista un baratro che divide la corruzione reale dalla corruzione percepita. L’Italia è il paese dell’Occidente dove la percezione della corruzione è la più alta. Non è però un paese particolarmente corrotto. Qual è il motivo di questo gap tra realtà e percezione? Ci sono due motivi. Il primo è la particolare attenzione messa dalla magistratura italiana nel ricercare e colpire la corruzione. Specialmente - o quasi esclusivamente la corruzione politica. Finché questa particolare attenzione si esercita nel rispetto dello Stato di diritto e senza sfumature persecutorie, francamente, non c’è niente di male. Anzi, è un orgoglio poter dire: l’Italia è il paese che più di tutti gli altri paesi occidentali combatte la corruzione. Quando Invece questa attenzione supera i confini della legalità, dando il rango di “certezza” al sospetto, allora le cose si complicano. Ma ora non è di questo che vogliamo parlare. Restiamo al problema della divaricazione tra realtà e sensazione. La seconda ragione di questa divaricazione riguarda non più chi indaga ma chi racconta. Cioè l’informazione. E qui non c’è più niente di cui andare orgogliosi. La stampa e la Tv italiane (e con effetto domino i social e i vari strumenti della rete) offrono una informazione gonfiata, falsata, unilaterale e scandalistica della corruzione e della lotta alla corruzione. Prima di tutto ignorando sempre gli argomenti della difesa, che in genere vengono nascosti, oppure sbeffeggiati, indicando i difensori come complici, e stendendo un velo di silenzio su tutte le assoluzioni, le archiviazioni, gli errori giudiziari. Spesso gli organi di informazione vanno anche oltre, considerando colpevoli persone che non sono state nemmeno “indiziate”, lasciando dubbi sull’onorabilità delle persone assolte, quasi sempre violando il “segreto d’ufficio”, che non è una formalità ma è la garanzia, per la magistratura, di poter indagare liberamente senza compromettere il proprio lavoro e senza compromettere la dignità di un possibile (o probabile) innocente. Torniamo al punto di partenza. Eurispes ci ha detto che la corruzione in Italia è un problema come in molti altri paesi sviluppati. Ma non è un’emergenza. Vogliamo discutere invece della sicurezza? Ve ne abbiamo parlato tante volte e abbiamo snocciolato i dati. La criminalità in Italia esiste, ma non è superiore a quella degli altri paesi europei. Proprio come la corruzione. La criminalità violenta è decisamente la più bassa d’Europa e dunque del mondo. Il tasso di criminalità è in continua discesa da vent’anni. Mentre è in aumento il numero delle condanne e in fortissimo aumento (raddoppio) il numero dei detenuti. Questo non vuol dire che non si deve difendere la società dai fenomeni criminali, però è chiaro che non esiste un’emergenza sicurezza. Eppure… Eppure l’ultima campagna elettorale è stata giocata quasi tutta su queste due emergenze. Emergenza corruzione ed emergenza sicurezza. Ed hanno funzionato benissimo. Perché in campagna elettorale la “percezione” conta mille volte più della realtà. È inevitabile. E se il sistema dell’informazione ha creato la percezione delle due emergenze, è chiaro che sono le due emergenze a dominare in campagna elettorale e a determinare il risultato. Ora però la campagna elettorale è finita. Bisogna governare. E l’Italia è un paese che nel 2018 non si trova di fronte a nessuna emergenza. Si trova invece di fronte ad alcuni seri problemi strutturali, che vanno trattati per quello che sono: problemi strutturali. Ne cito tre: la necessità di ridare slancio alla sua macchina produttiva; la necessità di dare maggior protezione al lavoro, cioè ai lavoratori (che da 25 anni hanno perduto moltissime protezioni); la necessità di ridare forza e inviolabilità allo stato di diritto. Naturalmente non è facile affrontare insieme questi tre problemi. Perché la scelta a favore di uno o dell’altro non è indifferente. Per capirci: ridurre il costo del lavoro aiuta il rilancio produttivo. Ma ridimensiona ulteriormente i diritti dei lavoratori. Così come aumentare la forza dello Stato di diritto, e della sua prevalenza sul mercato, aiuta la modernità, ma non aiuta certamente l’aumento dei profitti e, dunque, della produttività. È qui che dovrebbe entrare in gioco la politica. Perché è alla politica che spetta la mediazione e il disegno di assieme. La politica - dico - non la politichetta. La politica degli statisti, non dei propagandisti. Ecco, noi siamo a questo punto. Ci sono molte forze politiche in campo. Ciascuna con alle spalle una certa quantità di consenso. Benissimo: il consenso non basta più, occorre il programma, la visione del futuro, il progetto, il pensiero. Un’idea di società e un’idea di riforma. È inutile rifugiarsi dietro il vecchio slogan: affrontiamo le emergenze. Non ci sono emergenze, c’è un paese da ristrutturare. Toghe e politica: la legge è pronta ma nessuno la vuole di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 aprile 2018 Sinceramente sono molto contento che anche il Corriere della Sera abbia scoperto il tema dei magistrati in politica”, dichiara al Dubbio l’on. Pierantonio Zanettin (Fi), fino al mese scorso consigliere laico del Consiglio superiore della magistratura. Il quotidiano milanese ha pubblicato ieri un’ampia inchiesta, firmata da Milena Gabanelli, sui magistrati “prestati” alla politica, evidenziando come non esista una legge che regolamenti il loro rientro in ruolo. La normativa vigente, infatti, consente ai magistrati ex parlamentari la possibilità di tornare a svolgere, senza alcuna limitazione, le funzioni giudiziarie. Nulla è previsto, poi, per i magistrati eletti al Parlamento europeo o quelli che hanno ricoperto la carica di sindaco, consigliere comunale, circoscrizionale, oppure di assessore. “Come sapete bene voi del Dubbio - prosegue Zanettin - nella scorsa legislatura fui relatore al Senato, unitamente a Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd, di un disegno di legge in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche ed amministrative, approvato all’unanimità dall’aula di Palazzo Madama nel marzo del 2014”. “Trasmesso alla Camera - continua l’ex consigliere del Csm, era rimasto fermo in Commissione giustizia (all’epoca presieduta da Donatella Ferranti, magistrato eletto nelle liste del Pd e non ricandidata alle ultime elezioni da Matteo Renzi, ndr) per tre anni. Soltanto la scorsa primavera l’aula di Montecitorio aveva proceduto alla sua discussione, apportandovi delle modifiche sostanziali che ne avevano determinato il ritorno in Senato per l’approvazione definitiva: ma la fine della legislatura è arrivata prima”. Questo disegno di legge ha un lunghissima storia alle spalle. Presentato la prima volta nel 2001, fu approvato alla Camera per poi arenarsi in Senato. Venne poi ripresentato, senza successo, nel 2005 e nel 2011. Dopo tre legislature, quella appena passata sembrava fosse decisiva per sciogliere finalmente il nodo politica- magistratura. Ed invece dopo oltre 16 anni di discussioni, ancora una fumata nera. Eppure in questi ultimi anni si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia. Il Csm aveva votato all’unanimità, nell’ottobre del 2015, una risoluzione che evidenziava “l’assenza di un completo e razionale quadro normativo di riferimento e la necessità di rafforzare i princìpi di imparzialità e di indipendenza della magistratura, laddove essi possono essere compromessi sia nella sostanza sia nella valutazione della collettività”. La stessa Associazione nazionale magistrati aveva più volte, anche in una recentissima nota del 24 marzo 2018, ribadito l’auspicio di un intervento del legislatore in materia. Senza contare che il Greco, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato” l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, mettendo fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali. Ed anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva invitato il Parlamento ad intervenire al riguardo. “Ho ripresentato ieri, per la quarta volta, questo disegno di legge”, annuncia al Dubbio Zanettin. Questi i punti salienti del testo. A termine del mandato elettorale i magistrati potranno scegliere diverse opzioni: essere ricollocati in ruolo in un distretto di Corte di appello diverso da quello in cui è compresa la circoscrizione elettorale nella quale sono stati eletti e diverso da quello in cui prestavano servizio, con il vincolo dell’esercizio delle funzioni collegiali per un periodo di cinque anni e con il divieto di ricoprire, in tale periodo, incarichi direttivi o semi-direttivi; essere inquadrati in un ruolo autonomo dell’Avvocatura dello Stato o del Ministero della giustizia; essere collocati in pensione, con contribuzione volontaria e senza oneri per il bilancio dello Stato, fino ad un massimo di cinque anni di servizio. I magistrati eletti alla carica di sindaco, una volta cessati dal mandato, non potranno invece per i successivi cinque anni prestare servizio nella Regione nella quale ricade il comune nel cui ambito hanno espletato il mandato. Una volta ricollocati in ruolo non potranno ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi per un periodo di cinque anni ma solo funzioni giudicanti collegiali per un periodo di cinque anni. Sarà la volta buona? Bolzaneto, poliziotti e medici dovranno risarcire lo Stato di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 aprile 2018 La Corte dei conti di Genova condanna 28 persone a risarcire l’Italia per le violenze del 2001. Che fu “tortura”, perpetrata su donne e uomini inermi e spesso feriti, lo ha definitivamente stabilito, poco più di cinque mesi fa, la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha riconosciuto a 61 persone recluse nella caserma di Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova, il diritto ad essere indennizzate dallo Stato italiano. Ora la Corte dei conti del capoluogo ligure a sua volta ha condannato 28 esponenti delle forze dell’ordine e personale medico sanitario a risarcire lo Stato per i danni materiali (ma non quelli d’immagine davanti al mondo) causati all’Italia da quella barbarie. Tra i poliziotti, i carabinieri, gli agenti e i dirigenti della polizia penitenziaria, i medici e i sanitari che dovranno restituire ai cittadini italiani 6 milioni di euro in totale, ci sono anche personaggi come il dottor Giacomo Toccafondi, coordinatore delle attività sanitarie del sito penitenziario di Bolzaneto, il generale Oronzo Doria, ex capo area della Liguria dei poliziotti penitenziari chiamato al pagamento - in via sussidiaria - di 800 mila euro, e l’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma, Alfonso Sabella, all’epoca dei fatti capo dell’Ispettorato del Dap, che, sempre in via sussidiaria, dovrà pagare un conto di circa un milione di euro. Sabella, raggiunto dal manifesto, non ha voluto commentare la sentenza. Una condanna che segue di poco quella inflitta a fine gennaio, dagli stessi giudici contabili della Liguria, all’ex comandante del VII Reparto Mobile di Bologna, Luca Cinti: 50 mila euro per i danni di immagine causati alla Polizia per alcuni arresti eseguiti in Piazza Manin, sempre durante le giornate del G8 di Genova. Nella sentenza di ieri la Corte ha accolto solo in parte la richiesta della procura, formulata durante l’udienza di un anno fa, che chiedeva un risarcimento di 7 milioni di euro per i danni patrimoniali recati alle 252 persone che transitarono in quei giorni nelle celle di Bolzaneto, e altri 5 milioni per il danno di immagine all’Italia. A conti fatti, il danno reale è stato poi quantificato in “soli” 6 milioni, che graveranno soprattutto sui vertici delle istituzioni coinvolte. Coloro che, secondo i giudici, “erano necessariamente consapevoli delle violenze commesse”, quelle fisiche e quelle psichiche commesse su persone inermi, minacciate di morte e di stupro. Dal punto di vista penale il processo per le violenze di Bolzaneto si era concluso con 33 prescrizioni, 8 condanne e 4 assoluzioni, ma le amministrazioni di appartenenza degli imputati avevano dovuto ugualmente risarcire le parti civili. Ma da un altro punto di vista, come aveva sottolineato in udienza la procura contabile, quei giorni di Genova “hanno determinato un danno d’immagine che forse non ha pari nella storia della Repubblica”. Ecco perché a pagare è stato condannato anche Alfonso Sabella, malgrado la sua posizione giudiziaria fosse stata archiviata. L’ex dirigente Dap infatti avrebbe dovuto controllare e vigilare per evitare abusi. Tanto più in una situazione così inusuale, con una caserma trasformata di fatto in carcere. Durante l’udienza di un anno fa, il procuratore contabile Claudio Mori aveva però spiegato come fosse più facile punire per danno d’immagine il dipendente pubblico che lascia il posto di lavoro per recarsi al bar di fronte l’ufficio piuttosto che gli agenti e i militari protagonisti delle violenze di Genova. “Con l’entrata in vigore del Codice della giustizia contabile - aveva spiegato Mori - forse si andrà oltre”. E invece nel conteggiare il risarcimento dovuto allo Stato la Corte dei Conti non ha inserito il danno d’immagine. Quello, continueremo a pagarlo tutti, cittadini e istituzioni italiane. Torture e polizia, la credibilità è tutta da ricostruire di Lorenzo Guadagnucci* Il Manifesto, 7 aprile 2018 G8 Genova 2001. Ai vari piani del Palazzo farebbero bene a rileggersi le sentenze e a prendere sul serio le ragionevoli considerazioni del pm Enrico Zucca, uno dei pochi funzionari dello Stato usciti a testa alta da queste penose vicende. Pochi giorni fa il pm Enrico Zucca è stato sottoposto a un durissimo attacco mediatico e istituzionale per avere ricordato alcune antipatiche verità riguardanti il G8 di Genova del 2001. Nel Palazzo non piace che si ricordino le vicende di quel tragico luglio e soprattutto i processi che ne sono seguiti. Ma non esiste al momento un silenziatore abbastanza efficace da cancellare i fatti e ora tocca alla Corte dei Conti ricordarci la disfatta morale, politica e anche economica causata dai responsabili istituzionali con la loro scellerata gestione del dopo G8. La magistratura contabile ha condannato 28 persone - fra personale medico-sanitario e appartenenti a polizia, carabinieri e polizia penitenziaria - a risarcire i circa sei milioni di euro pagati alle parti civili nel processo per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto e solo un malizioso cavillo normativo - definito a suo tempo “irragionevole” dal procuratore ligure Ermete Bogetti - ha impedito di contestarne altri 5 per il danno alla reputazione dello Stato. Il pm, nel chiedere la doppia condanna, aveva specificato che le violenze sui detenuti a Bolzaneto “hanno determinato un danno d’immagine che non ha pari nella storia della Repubblica”. Sono parole molto dure ma anche molto simili a quelle scritte dai giudici di Cassazione il 5 luglio 2012 nella sentenza che ha condannato in via definitiva 25 funzionari e dirigenti di polizia nel processo Diaz: “una volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, invece di isolare ed emarginare i violenti denunciandoli, dissociandosi così da una condotta che aveva gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero e di rimettere in libertà gli arrestati, avevano scelto di persistere negli arresti creando una serie di false circostanze”. Non vanno poi dimenticate le parole spese dalla Cassazione nel motivare il no alla richiesta di affidamento ai servizi sociali presentata da Gilberto Caldarozzi, condannato nel processo Diaz e oggi vice direttore della Direzione investigativa antimafia; la Cassazione in quel documento biasima il “dirigente di polizia, tutore della legge e della legalità che si presta a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici” e ricorda, con riferimento alla Diaz, “il clamore provocato dalla vicenda e il conseguente discredito internazionale caduto sul nostro paese”. Dovremmo tenere a mente tutti questi passaggi ogni volta che si parla di dignità e credibilità delle nostre forze di polizia, l’una e l’altra gravemente danneggiate dalle scelte compiute dai vertici istituzionali non solo durante ma anche dopo il G8 del 2001. La Corte europea per i diritti umani ha rimarcato come nel processo Diaz “la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria”. Che c’è di peggio, per un apparato dello Stato, di un giudizio del genere? Il capo della polizia Franco Gabrielli l’altro giorno ha definito “oltraggiose” le affermazioni di Enrico Zucca, tutte riprese da sentenze passate, sulla debole “statura morale” della nostra polizia, dimostrando di non aver compreso, o di non voler accettare, la dura verità che scaturisce dal G8 di Genova. In quei giorni e negli anni successivi fino a oggi, con l’inopinato reintegro dei condannati nel processo Diaz, abbiamo assistito a un pervicace rifiuto di tutelare l’onorabilità dei corpi di polizia nell’unico modo possibile: ammettendo le proprie colpe, allontanando i responsabili degli abusi, facendo opera di prevenzione (do you remember i codici sulle divise?), chiedendo scusa - ma davvero, non con la mezza e tardiva frase di Antonio Manganelli - a tutti, proprio a tutti: le vittime dirette delle violenze, i cittadini italiani, i lavoratori onesti dei corpi di polizia. Oggi è troppo tardi e la credibilità perduta è tutta da ricostruire: perciò ai vari piani del Palazzo farebbero bene a rileggersi le sentenze e a prendere sul serio le ragionevoli considerazioni di Enrico Zucca, uno dei pochi funzionari dello Stato usciti a testa alta da queste penose vicende. *Comitato Verità e Giustizia per Genova La patente di guida equivale alla carta d’identità di Silvana Mossano La Stampa, 7 aprile 2018 Assolto il camionista fermato dalla Polstrada. L’episodio nell’Alessandrino nel 2015: il giudice ha dato ragione a un tunisino citando la Cassazione. La patente di guida vale è “documento equipollente” della carta d’identità. Lo dice la legge (Dpr 445 del 200) e lo ha già confermato la Cassazione in più sentenze. Ciò nonostante, il camionista tunisino Mongi Daly, 44 anni, residente in Veneto, era stato denunciato dalla Polstrada che lo aveva fermato per un normale controllo nel territorio di Ovada. Patente e libretto: ok. Ma, quando gli agenti hanno chiesto la carta d’identità e il certificato di soggiorno, il camionista ha ammesso di non averli con sé. Tuttavia, ne ha mostrato copia fotografata sul telefono cellulare. Non basta. Ha dunque telefonato a un parente perché li spedisse con urgenza via fax negli uffici della questura, operazione che fu tentata ripetutamente e arrivata a buon fine qualche ora dopo. Mongi Daly fu ugualmente denunciato e il pm lo mandò a processo. L’episodio, avvenuto a ottobre 2015, ora è arrivato all’epilogo giudiziario: i difensori del tunisino - Vittorio Spallasso e Laura Pianezza - hanno ribadito quanto già la Cassazione ha sottolineato: non c’è reato se, anziché la carta d’identità, viene esibita la patente (ovviamente valida) perché equivalente. Questo era il caso di Mongi Daly che il giudice Claudia Seddaiu ha assolto “perché il fatto non sussiste”. Salerno: “il diritto alla salute è unico per i soggetti liberi o detenuti” di Tommaso D’Angelo Cronache dal Salernitano, 7 aprile 2018 La parte dell’intestino interessato dalla perforazione era in necrosi. È quanto emerso dall’autopsia effettuata sulla salma di Aniello Bruno, il 50enne di Angri deceduto sabato sera dopo un disperato intervento chirurgico effettuato nell’ospedale “San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona” di Salerno. Per il decesso dell’uomo, detenuto nel carcere di Fuorni è stato iscritto nel registro degli indagati il medico che ha visitato il detenuto sette giorni prima dell’intervento chirurgico e che ha associato i lancinanti dolori all’addome ad una colica. Dolori che sono proseguiti e peggiorati per i successivi sette giorni. Sul decesso di Aniello Bruno la direzione dell’ospedale di via San Leonardo ha istituito una commissione interna, di cui fa parte anche il dottor Antonello Crisci, con il compito di verificare eventuali responsabilità nel decesso dell’uomo. Sulla morte di Aniello Bruno, ristretto presso l’istituto penitenziario di Salerno dal 19 ottobre 2017, è intervento il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello il quale ha richiesto, ad Antonio Maria Pagano, Responsabile dell’unità operativa Tutela Salute Adulti e Minori Area Penale - Asl Salerno, una relazione che riguardasse il detenuto per comprendere i passaggi precedenti al decesso. “Dopo aver letto la relazione, sinteticamente, è possibile affermare che il detenuto Aniello Bruno nella permanenza nella casa circondariale di Salerno, - ha sottolineato Ciambriello - ha effettuato diverse visite cliniche e di laboratorio, sia di routine che specialistiche oculistica, cardiologica, dermatologica, infettivologica perché affetto da Hcv (epatite), come da lui riferito. Effettuati, successivamente gli esami di conferma, lo stesso in data 20/02/2018 rifiutava di continuare l’iter per praticare terapia con Dda (antivirali diretti nella terapia dell’epatite C cronica). Salerno: detenuto morto in corsia, inviato dossier al Garante La Città, 7 aprile 2018 Accertamenti per ricostruire quanto accaduto nei 20 giorni prima del decesso di Aniello Bruno. Ricostruire quanto accaduto nei 20 giorni prima della morte di Aniello Bruno. Il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha chiesto all’Unità operativa per la salute degli adulti e dei minori in area penale dell’Asl Salerno di ricostruire la cronistoria sanitaria del 50enne detenuto angrese morto il giorno di Pasqua e per il quale è indagato il medico del pronto soccorso del “Ruggi” che, venerdì 30 marzo, aveva diagnosticato a Bruno una colica renale e lo aveva dimesso. “Dopo aver letto la relazione - dice Ciambriello - è possibile affermare che il detenuto nella permanenza alla Casa circondariale di Salerno ha effettuato diverse visite cliniche e di laboratorio, di routine e specialistiche oculistica, cardiologica, dermatologica, infettivologica perché affetto da Hcv (epatite C, ndr), come da lui riferito. Effettuati, successivamente gli esami di conferma, lo stesso il 20 febbraio ha rifiutato di continuare l’iter per praticare terapia con Dda (antivirali diretti nella terapia dell’epatite C cronica). Il 27 febbraio ha rifiutato di sottoporsi a radiografia del torace richiesta il 20 febbraio precedente in seguito a visita di routine”. La Spezia: “Liberart”, un progetto di apprendimento rivolto ai detenuti cittadellaspezia.com, 7 aprile 2018 Martedì 10 aprile alle ore 18 il Lions Club La Spezia Host presenterà presso il Salone della Provincia in via Vittorio Veneto l’iniziativa a favore della Associazione Liberart che provvede a fornire un servizio di assistenza ai detenuti della casa Circondariale di Villa Andreino che mira all’apprendimento di attività lavorative nella trattamento del cuoio, della carta, della rilegatura e del Pvc. Tale progetto nasce dalla presenza della chiesa Metodista nel Gruppo non violento della Spezia ed ha in Ennio Tonelli il Presidente del Consiglio della Chiesa Metodista della Spezia ed in Giancarlo Saccani il responsabile e coordinatore del progetto stesso. Il Lions Club La Spezia Host provvederà al fine di perfezionare e di permettere un incremento sia qualitativo che quantitativo della produzione a fornire macchine per cucire la pelle, un torchietto per il montaggio degli accessori di pelletteria ed altre attrezzature utili alla legatoria. Questa saggia iniziativa attiva già da 5 anni consente agli ospiti di Villa Andreino di sperimentare dinamiche comunicative non violente e di poter intraprendere, alla fine del periodo detentivo, una attività lavorativa avendo già appreso le nozioni tecniche indispensabili allo svolgimento del lavoro. Interverranno la dott.ssa Maria Cristina Bigi, direttrice di villa Andreino, la dott.ssa Licia Vanni responsabile dell’Area Trattamentale, Ennio Tonelli e Giancarlo Saccani. Volterra (Pi): un progetto sperimentale sul teatro in carcere con Acri e Fondazione Crv gonews.it, 7 aprile 2018 Un altro riconoscimento alla trentennale esperienza della Compagnia della Fortezza grazie al forte impegno della Fondazione Crv, la quale ha portato l’Acri, ovvero l’Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio spa, ad affidare a Carte Blanche il ruolo di capofila di un progetto sperimentale sul teatro in carcere. Un’ottima notizia per il territorio, il quale vede riconosciuta a livello nazionale la lungimiranza di politiche di sostegno e investimento pluriennale sull’attività teatrale condotta all’interno della Casa di Reclusione di Volterra da Armando Punzo e Carte Blanche. Anche in questo caso, come per il progetto “Sogni e bisogni”, gran parte del merito va al Presidente della Fondazione Crv Ing. Augusto Mugellini e al Segretario Generale Dott. Roberto Sclavi, i quali hanno cucito una serie di rapporti e incontri istituzionali atti a promuovere la realtà dell’istituto penitenziario di Volterra con gli associati di Acri. L’occasione principale è stata la due giorni dedicata alle tematiche del carcere e allo strumento della cultura come misura di rieducazione e reinserimento dei detenuti organizzata dalla Commissione per le Attività e i Beni Culturali di Acri, in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, gli scorsi 8 e 9 giugno 2017 presso la Casa di Reclusione e il Centro Studi Santa Maria Maddalena. Obiettivo primario, visto il sempre crescente investimento da parte di Fondazioni bancarie nel settore e l’interesse di altre a ricalcare le stesse orme, era la condivisione di esperienze e “buone pratiche” coinvolgendo responsabili delle strutture detentive, operatori e associazioni operanti nello stesso ambito così da consentire ai presenti di analizzare “lo stato dell’arte” e cogliere eventuali opportunità di ulteriore sviluppo. La due giorni ha avuto come momento culminante un seminario orientato al mettere a sistema le principali esperienze maturate in questa specifica attività di recupero e, all’aprire una riflessione sull’importanza dei percorsi di riabilitazione all’interno delle strutture penitenziarie, ma si era aperta con la possibilità offerta a tutti i partecipanti di prender parte ad un’intensissima visita al carcere culminata con una cena galeotta negli spazi del Maschio (di recente ristrutturato e riaperto grazie al contributo di Fondazione Crv) e con gli attori della Compagnia della Fortezza che hanno recitato alcuni tra i pezzi più coinvolgenti degli spettacoli teatrali in repertorio. L’evento si presentava già eccezionale rispetto al modus operandi di Acri poiché, caso più unico che raro, è stato organizzato lontano dalla sede centrale di Roma, preferendo Volterra poiché già riconosciuta, proprio per via dell’esperienza della Compagnia della Fortezza, come il luogo in cui in maniera più naturale e logica un tale evento potesse caricarsi di senso. Vi è stato così un vero e proprio esodo verso Volterra di numerosi rappresentanti di Fondazioni bancarie provenienti da tutta Italia, col fine di confrontarsi sul particolare filone di interventi a favore dei detenuti basato su attività culturali e laboratori artistici, in particolare il teatro in quanto dimostratosi particolarmente efficace e apprezzato dai destinatari degli interventi. Come si accennava, la scelta del luogo non è stata casuale poiché la Compagnia della Fortezza rappresenta un caso di assoluta eccellenza sul piano della qualità e del valore artistico dell’attività da essa svolta all’interno dell’istituto di pena. L’aspetto che più ha entusiasmato i rappresentanti delle Fondazioni è stata la filosofia alla base dell’approccio metodologico della Compagnia della Fortezza: concentrandosi esclusivamente sul contenuto artistico dell’attività svolta, liberandola da condizionamenti finalistici di tipo sociale, si riescono a raggiungere risultati, sul piano artistico, equiparabili, e forse anche superiori, a quelli ottenibili in contesti “ordinari”. E la qualità di tali risultati, indirettamente, produce risultati straordinari sul piano sociale. Questo modo di intendere l’attività all’interno del carcere ha consentito alla Compagnia della Fortezza di raggiungere risultati di straordinario valore artistico e sociale, testimoniati dai numerosissimi attestati ricevuti, dal coinvolgimento di numerosi detenuti, dalla notorietà conseguita da alcuni di essi, dalla partecipazione a tournée su tutto il territorio nazionale. Proprio partendo da questa sollecitazione, a seguito del seminario, la Commissione Beni e Attività Culturali di Acri ha deciso di approfondire l’opportunità di dare vita a un percorso che consentisse di mettere assieme le migliori esperienze e prassi presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio a beneficio di altri contesti e operatori. Ne è nato il progetto sperimentale “Per aspera ad astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, cui hanno dato la propria adesione le seguenti sei Fondazioni associate ad Acri: Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione con il Sud, Fondazione Cr Modena, Fondazione Cr La Spezia e, ovviamente, la Fondazione Cr Volterra quale promotore principale dell’iniziativa progettuale. Acri ha individuato Carte Blanche come soggetto responsabile, incaricandola di ideare e dare forma ad un progetto orientato a sperimentare la messa in rete di alcune delle migliori esperienze di teatro in carcere con l’obiettivo di un reciproco arricchimento e di diffusione di buone prassi anche in altri contesti. Il progetto così redatto è stato approvato unanimemente dagli organi di Acri e diventerà esecutivo nelle prossime settimane. Esso si articola in una serie di eventi formativi (corsi di formazione professionale) e di workshop, alcuni realizzati a Volterra altri all’interno degli istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali, partecipanti alla Scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di polizia e del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria, detenuti. Milano: Salvatore Striano “io, fuori dalla tempesta grazie a Shakespeare” di Antonio Bozzo Il Giornale, 7 aprile 2018 Striano al Parenti con la sua storia: “In scena il carcere, ma con un messaggio di speranza”. “Shakespeare è il mio santo, e io sono un miracolato. Mi diceva: ti vuoi salvare? Leggimi e esci dalle tragedie. Così ho fatto”. Un approccio di questo tipo alle opere del Bardo è unico. Salvatore Striano lo sa. Ragazzo della malavita, diventato violento per difendersi dalla camorra, Striano ha trovato in carcere il filo che lo ha salvato. Oggi è un attore apprezzato (anche al cinema, ha fatto “Gomorra”, dal romanzo di Saviano), un completo uomo di teatro, uno scrittore. Al Franco Parenti, dove è in scena con “Dentro la tempesta” (fino al 15 aprile), la sala viene giù dagli applausi ogni sera: uno degli spettacoli più veri e toccanti della stagione. Striano lo interpreta - con Carmine Paternoster e Beatrice Fazi - e lo dirige, con l’aiuto di Marta Paci. Non solo: il lavoro è tratto da “La tempesta di Sasà”, un suo libro. “Lo spettacolo è stato creato come un fatto di speranza, riscatto, rinascita. Lo spettatore se ne torna a casa con la sensazione di riconquistare una forza perduta”, dice Striano. “Il carcere può stare dentro ognuno di noi: un matrimonio sbagliato, le costrizioni della vita. In scena due carcerati si parlano dalle celle, simili a scatole beckettiane. Non si vedono mai. Vanno a finire in fondo al pozzo, lo raschiano, in preda all’alcol e agli psicofarmaci. Finché gli mettono in mano un copione e allestiscono La tempesta, di Shakespeare, grazie a un’operatrice che li appoggia. Di solito si porta il teatro in carcere, noi portiamo il carcere a teatro”. La storia è ispirata alla vita di Striano. “Ma il primo copione che ho letto era Napoli milionaria, di Eduardo De Filippo. Volevano farmi fare, in un carcere maschile, il ruolo di Donna Amalia. Mi rifiutai per non diventare lo zimbello dei detenuti. Ma una notte lessi il copione - ricorda l’attore - Restai colpito dalla scena in cui Eduardo, tornato dalla guerra, chiede alla moglie, diventata prostituta, che cosa avesse fatto. Lei risponde: mi sono difesa. Mi attaccai alle sbarre della cella e pieno di dolore urlai verso mia madre, come se fosse lì, anch’io, mamma, mi sono difeso. Capii l’enorme potere di rivelazione del teatro. Poi lessi Shakespeare e siamo qui”. Lo spettacolo diventerà un film. “Abbiamo venduto i diritti a Minerva. Al cinema raggiungeremo moltissimi spettatori, ma il teatro è speciale, dobbiamo frequentarlo sempre di più. Io mi considero un artista socialmente utile, non voglio fare il buffone, ho già dato, pagandone le conseguenze. Faccio matinée per le scuole. I ragazzi devono capire che la scuola più fatiscente è meglio della strada. E che servono scuole meno simili a carceri, e carceri più simili a scuole”. Il santo Shakespeare è la lanterna per illuminare le oscurità umane, sostiene Striano. “Quanti Amleto ho visto nella camorra. Quanti Macbeth, pronti a tutto per il potere. Quanti Giulietta e Romeo, impediti nell’amore per le famiglie in guerra. I personaggi di Shakespeare nella malavita sono la norma. Li conosco bene. Immaginate come mi sento oggi che mi pagano per portarli in teatro. In scena faccio quel che ho sempre fatto, ma adesso senza far male a nessuno”. Bologna: la musica che salva di Susanna Ricci riforma.it, 7 aprile 2018 Una serie di iniziative portano la musica a chi ne ha bisogno, secondo la vocazione e l’esempio di Claudio Abbado. Mozart 14 è una Onlus specializzata in Musicoterapia nelle carceri e negli ospedali fondata da Claudio Abbado. Oggi la sua opera è portata avanti da Alessandra Abbado che è l’attuale presidente. Mozart riporta alla musica classica per eccellenza, ma l’approccio è onnicomprensivo, con l’unico scopo di arrivare nei luoghi dove la musica può salvare, entrando nella vita dei degenti dei reparti pediatrici, di bambini e adolescenti con disabilità fisiche e cognitive, dei detenuti e detenute e dei ragazzi reclusi nel carcere minorile. Ce ne parla Francesca Casadei, responsabile della comunicazione per l’associazione Mozart14. Com’è nata l’associazione? “L’associazione è nata nel 2014 per proseguire le attività nel sociale volute da Claudio Abbado, che negli ultimi anni di vita aveva dato il via a due progetti: da un lato Tamino, laboratori di musicoterapia nei reparti pediatrici del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, e dall’altro il primo germe del coro Papageno che è il primo coro in Italia ad unire sia detenuti che detenute della casa circondariale Dozza di Bologna. Abbado, in una prima fase, aveva fatto in modo di portare i detenuti che potevano uscite dal carcere alle prove generale dei suoi concerti, poi era entrato lui stesso all’interno del carcere, nella convinzione che fare musica insieme, ascoltare e poterne usufruire, potesse essere un primo passo verso un percorso di rieducazione, di assunzione di responsabilità verso il vivere civile. Da qui partono le nostre attività”. Come descrivere l’importanza che Carlo Abbado dava alla musica? “Come dice lo slogan dell’associazione: “La musica cambia la vita”, e la cambia in maniera molto pragmatica. Abbiamo testimonianze sia da parte delle istituzioni a cui ci rivolgiamo, sia da chi usufruisce delle nostre attività, che quel momento di musica fatto insieme è veramente un germe da cui poi nasce un nuovo approccio all’altro, alla convivenza e al modo in cui si vive nella società. La direttrice del carcere di Bologna ci ha sempre detto che i coristi hanno incominciato a curarsi di più, a presentarsi meglio, a tenerci di più; si tratta di un passo importante perché attraverso il cantare insieme c’è anche un desiderio di mostrarsi in maniera più positiva agli altri. Da qui nasce poi l’ascolto, la collaborazione, la convivenza, che sono tutti elementi fondamentali per un buon vivere civile”. Quali sono i luoghi che, nell’intento dell’associazione, si vuole raggiungere? “Noi siamo partiti dalle due esperienze di Abbado, quindi continuiamo a fare laboratori di musicoterapia nei reparti pediatrici del policlinico Sant’ Orsola, abbiamo il coro Papageno che continua a cantare all’interno del carcere della Dozza; da queste due ramificazioni principali sono nati poi il coro e il progetto Cherubino che riunisce sia attività ed esperienze corali per bambini, ragazzi con disabilità e per bambini sordi, e Leporello, cioè attività di song-writing svolte all’interno dell’istituto penale minorile di Bologna con i ragazzi detenuti”. Nella vostra esperienza, come viene accolta questo tipo di esperienza di avvicinamento alla musica? Sono diverse: noi lavoriamo anche con i bambini veramente piccoli, perché facciamo attività anche in terapia intensiva neonatale e neonatologia, dove abbiamo più a che fare con i genitori che con i bambini, agli adulti che sono alla Dozza. Diciamo che l’approccio dei bambini e più giocoso, anche se l’attività che svolgono passa attraverso la musica con una finalità terapeutica, perché in quel momento la paura del bambino rispetto alle cure che sta facendo viene alleviata attraverso il poter suonare degli strumenti, poter cantare, poter avere a che fare con delle persone, i musico-terapeuti, che sono professionisti e sanno come veicolare le attività. Da un punto di vista carcerario, sia penale minorile che il carcere dei maggiorenni, l’approccio è più consapevole. I ragazzi hanno sempre una prima fase, durante le attività, in cui dare sfogo ed espressione a tutte a tutte le emozioni che all’interno di un carcere vengono racchiuse e compresse, per poi canalizzarle attraverso la scrittura di canzoni. Nel coro Papageno c’è il desiderio di cantare insieme, di riscattarsi anche attraverso la musica, di dimostrare che attraverso l’impegno, lo studio, le attività di alfabetizzazione musicale, le attività di canto corale che sono svolte, si raggiungono importanti obiettivi. Il coro ha cantato nel 2016 sia in senato che in Vaticano, quindi diciamo che di risultati importanti ne ha ottenuti”. Per conoscere le attività dell’associazione c’è il sito la pagina Facebook e il canale Youtube dal quale si possono ascoltare le canzoni scritte dai ragazzi dell’istituto penale minorile di Bologna. Verona: yoga in carcere, aiuto per il ritorno in società di Chiara Bazzanella L’Arena, 7 aprile 2018 Respiro corto, difficoltà nel gestire la rabbia e muscolatura contratta. Condizioni fisiche e mentali comuni a molte persone che vivono in una condizione di reclusione, compresse in spazi limitati e con traumi di cui spesso la detenzione non rappresenta che l’ultimo risvolto. Da un anno e mezzo Roberto Cagliero, insegnante di meditazione dal 2003, pratica yoga nel carcere di Montorio con una decina di detenuti alla volta. Ha affinato una particolare pratica con un corso a Londra promosso dall’associazione “Prison yoga project” che indica gli esercizi più adatti e come relazionarsi a persone che vivono la condizione della reclusione. La prima porta di accesso alla casa circondariale scaligera è arrivata tramite l’associazione Horse Valley di Corte Molon, che propone in carcere un corso per tecnici di scuderia. “Lavorando sulla respirazione e tramite la meditazione e particolari posizioni yoga si favorisce un approccio rilassato ai cavalli, che consente di entrare in empatia con gli animali”, spiega l’insegnante. “Si tratta di un percorso che aiuta anche nelle relazioni tra persone, consentendo di raggiungere uno stato di calma per capire con chi ci si relaziona e come l’altro agisca sullo stato nervoso di ciascuno”. Esaminare emozioni come la rabbia e la reattività porta a una graduale presa di responsabilità, favorendo una trasformazione che prende il via dal recupero del rapporto con il proprio corpo. “Acquisire consapevolezza abbassa la tensione muscolare, senza andare a discapito della lucidità che anzi spesso migliora, e garantisce una maggiore concentrazione ai molti reclusi che studiano”, spiega l’insegnante di meditazione. “Finora ho incontrato una cinquantina di detenuti. Il lavoro non è facile perché bisogna fare i conti con colloqui, trasferimenti o malesseri, ma i risultati arrivano”. Ogni settimana Cagliero propone le tecniche di rilassamento vicino ai box per cavalli, in una combinazione al momento unica in Italia. “Il presupposto non è eliminare lo stress ma imparare a contenerlo”, spiega l’esperto che, fuori dalle sbarre, fa parte del Centro Yoga Benessere specializzato in Kundalini Yoga. “L’accento è sul recupero delle persone e in questo senso il carcere di Verona fa un buon lavoro, preparando all’uscita e supportando chi ha detenzioni lunghe”. Da qualche mese ha preso il via un ulteriore corso di yoga nella sezione femminile del carcere, indipendente dal corso per tecnici di scuderia. Conclude il maestro: “Il presupposto dello yoga è che il respiro sia fortemente collegato al cervello. Insegnare a persone in difficoltà a osservarsi in caso di attacchi di rabbia o di panico può aiutare a garantire serenità mentale indispensabile anche per il futuro ritorno in società”. In Italia troppi diritti sono calpestati. occorre una cultura nuova di Giorgio Marota retisolidali.it, 7 aprile 2018 Presentata la relazione conclusiva sull’attività della Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani. In Italia ci sono, ancora oggi, tante violazioni dei diritti inalienabili della persona. Lo dimostra la relazione conclusiva sull’attività della Commissione straordinaria del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, presentata in una conferenza stampa dal Presidente Luigi Manconi, dal giudice della Corte Costituzionale ed ex premier Giuliano Amato, da Giovanni Maria Flick (che ha presieduto la Corte) e dal giurista Luigi Ferrajoli. A 5 anni dall’inizio di questo percorso è evidente che “le violazioni dei diritti umani non riguardano solo Paesi considerati arretrati o in via di sviluppo, regimi totalitari e terre lontane, ma sono qui ed ora”, come ha spiegato Manconi. Sono diversi i fenomeni analizzati e studiati grazie al dialogo costante dei 26 membri della Commissione con associazioni, esperti e vittime: l’immigrazione su tutti, ma anche la questione di Rom, Sinti e Caminanti, le carceri e il 41 bis, la legge sulla tortura, la contenzione meccanica, il cyberbullismo, il diritto alla conoscenza, i senza fissa dimora, l’omofobia e i diritti delle persone Lgbti. I cittadini stranieri. Gran parte del fascicolo si concentra sulla tutela e promozione dei diritti dei cittadini stranieri presenti in Italia. Su questo tema è emersa la necessità di rinunciare a grandi centri (che sopravvivono numerosi) le cui dimensioni portano inevitabilmente a una preoccupante riduzione negli standard d’accoglienza e, di conseguenza, a un peggioramento delle condizioni di vita delle persone. Manconi ha portato alla luce storie difficili come quella di C.S., algerino che vive da più di 30 anni in Italia e risiede ad Aprila (in provincia di Latina) con la sua famiglia, rinchiuso nel Centro di identificazione ed espulsione di Bari, perché sorpreso senza documenti dopo un controllo dei vigili. Simile è la vicenda di B.A., marocchino, nel nostro Paese da molti anni e con problemi di salute certificati da un ospedale, incompatibili con il trattenimento nella stessa struttura. Due sposi tunisini, fuggiti dal loro Paese a seguito delle violenze subite dalla giovane donna da parte dei familiari (ostili al suo matrimonio), si sono ritrovati nel Cie di Ponte Galeria (alle porte di Roma) divisi in due reparti diversi, con la possibilità di vedersi solamente per un’ora al giorno. Tra i tanti esempi di violazioni dei diritti umani citati nel rapporto c’è anche Lampedusa, visitata dai membri della Commissione nel gennaio 2016: “L’approccio hotspot è deficitario”, si legge nel rapporto, “e fallimentare nel programma di ricollocamento e attuazione dei rimpatri, le due direttrici principali su cui era stato articolato il piano europeo”. La Commissione ha fatto proposte concrete al governo, come ad esempio quelle di eliminare gli ostacoli che favoriscono l’accesso alle strutture assistenziali, di impegnarsi nel favorire l’alloggio e il lavoro per le persone, di snellire le procedure di identificazione. La necessità più grande, probabilmente, è quella di affidare a un ente gestore unico su scala nazionale di tutti i centri, attraverso un’unica procedura e un unico regolamento a evidenza pubblica. Rom, sinti e caminanti. Sul tema della promozione dei diritti di Rom, Sinti e Caminanti, la Commissione, che ha visitato diversi campi in tutta Italia, propone un’integrazione basata sul superamento di questi luoghi per varie cause, tra cui le condizioni di povertà e le preoccupanti condizioni igienico-sanitarie. il carcere. Nel corso della Legislatura la Commissione ha messo al centro il tema delle persone private della libertà, con due approfondimenti: uno sul regime speciale del 41-bis e l’altro sulla condizione delle donne detenute con figli più piccoli. Se nel primo caso non viene messa in discussione la legge, ma bensì le condizioni delle carceri e il loro sovraffollamento cronico, nel secondo è stata notata una mancata attuazione della legge n.62 del 21 aprile 2011, secondo la quale “se la persona da sottoporre a custodia cautelare sia donna incinta o madre di prole di età non superiore a 6 anni, il giudice può disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri”. Le disuguaglianze. “Questa commissione ha prodotto un documento che ha posto le basi per interventi futuri nell’ottica di eliminare le disuguaglianze”, ha dichiarato Luigi Ferrajoli nel suo intervento. “Queste stanno esplodendo in maniera vergognosa. La Repubblica le sta promuovendo, anziché rimuoverle, come stabilisce l’articolo 3 della Costituzione. Negli ultimi anni sono raddoppiati i poveri assoluti e sta tornando in auge il concetto della persona illegale, come ai tempi delle persecuzioni degli ebrei. A tutto questo dobbiamo resistere promuovendo una cultura della tutela dei diritti”. Per una cultura dei diritti. “Questa commissione è definita straordinaria ed è già un primo errore”, ha aggiunto Flick, “Perché parlare di promozione dei diritti umani dovrebbe essere un’attività quotidiana per un Parlamento di un Paese democratico. In questa campagna elettorale hanno messo i diritti sotto al tappeto e nessuno ha parlato di Ius soli, di eutanasia, di condizioni delle carceri e dei centri di accoglienza. Abbiamo il dovere di farlo, ce lo impone la Costituzione”. L’ex presidente Amato ha sottolineato come ci troviamo davanti a un nodo decisivo per il futuro della democrazia, in un’epoca in cui la convivenza tra le persone sembra sempre più difficile a causa di tante discriminazioni. Il tema è importante e - come ha annunciato l’onorevole Emma Bonino - i nuovi gruppi parlamentari del Senato hanno già deciso di dare continuità al lavoro della Commissione, approvando una mozione che la renderà operativa anche in questa legislatura. Dalla fase di osservazione e proposte si deve necessariamente passare a quella degli interventi concreti e mirati, per rimettere la promozione dei diritti umani nuovamente al centro dell’agenda politica. Nomadi. In Italia sono 180 mila, emergenza abitativa per 26 mila di Corrado Zunino La Repubblica, 7 aprile 2018 Dossier dell’Associazione 21 Luglio. Le situazioni più difficili a Roma (300 campi abusivi) e Napoli, Foggia e Gioia Tauro. “L’Europa ci chiede integrazione e di smantellare le baraccopoli”. In aumento le forme di intolleranza e discriminazione. L’Europa stima, con immaginabile approssimazione in questo campo, una presenza di nomadi sul territorio italiano tra 120 mila e 180 mila persone. “Una delle percentuali più basse registrate nel continente europeo”, si legge nel Rapporto annuale dell’Associazione 21 luglio, presentato oggi in Senato. Di queste, ventiseimila Sinti, Rom e Camminanti sono in emergenza abitativa. Duemila in meno dell’anno scorso. “Molti sono tornati a casa, spesso in Romania, viste le condizioni dei campi di accoglienza in Italia”. I ventiseimila nomadi alloggiati in baracche rappresentano lo 0,04 per cento della popolazione del nostro Paese, evidenza statistica che la rumorosa “questione zingari” ha, in realtà, dimensioni contenute. Il 43 per cento dei nomadi negli insediamenti riconosciuti è di nazionalità italiana, il 55 per cento è minorenne. Oltre un terzo del totale proviene dalla ex Jugoslavia e tremila persone sono apolidi, senza cittadinanza. Negli assembramenti abusivi, invece, l’86 per cento degli abitanti è rumeno. Il 9 per cento di origine bulgara. Nel Paese esistono 148 baraccopoli formali e sono presenti in 87 comuni di 16 regioni. Ospitano 16.400 nomadi in maniera stanziale. Altri 9.600 sono stimati all’interno di insediamenti cosiddetti informali. Un quarto delle baracche destinate a Rom e Sinti sono concentrate a Roma. Nella capitale, oltre alle 17 aree gestite dal Comune (sei “formali” e undici “tollerate”), ci sono trecento campi abusivi. Si intende: roulotte, tende, baracche auto-costruite con materiale di risulta, lamiere o legno: “All’interno è spesso assente l’acqua corrente, il riscaldamento, una rete idrica, fognaria e di illuminazione”. Roma rappresenta sul tema e per le condizioni di vita un’emergenza segnalata dall’Unione europea. Per la città con il primato dei campi una memoria della Giunta Raggi, fine 2016, aveva progettato il superamento delle strutture d’emergenza e l’inclusione graduale dei nomadi. “Nel 2017 non è stato di fatto avviato alcun processo di inclusione”, dice il rapporto. “Caso esemplare è quello dell’insediamento di Camping River per il cui superamento la Giunta ha promosso una serie di azioni che si sono dimostrate fallimentari e hanno soltanto declassato l’insediamento da formale a informale”, scrive l’Associazione 21 Luglio. Le più grandi baraccopoli informali sono concentrate in Campania. A Napoli nel quartiere di Scampia, quindi a Giugliano, dove la comunità rom da anni viene spostata continuamente sul territorio. A Foggia, Borgo Mezzanone, ottocento rom bulgari “hanno vissuto nel 2017 in condizioni di drammatica precarietà abitativa e sfruttamento lavorativo”. Ancora, viene citato un altro insediamento critico: Germagnano esterno a Torino. L’anno scorso, a fronte di strategie intraprese localmente, i grandi assembramenti informali sono aumentati - Scampia e Giugliano tra questi, ma anche il Camping River di Roma - come risultato di un declassamento di insediamenti riconosciuti in passato come formali. Nel quartiere Ciambra di Gioia Tauro da alcuni decenni vive una comunità rom italiana “nella quasi totale assenza di servizi primari”. L’Italia, si sottolinea, è denominata in Europa “il Paese dei campi” perché “è la nazione maggiormente impegnata da venti anni nella progettazione, costruzione e gestione di aree all’aperto” dove alloggiare le comunità rom. Dal 2012, anno della presentazione di una “Strategia nazionale”, sulla politica dei campi sono stati spesi 82 milioni di euro. In assenza di strategie attive sul tema, e in presenza di un sentimento fortemente negativo nel Paese, si utilizza sistematicamente lo strumento dello sgombero. L’Associazione 21 Luglio, nel 2017, ha registrato 230 operazioni di polizia: 96 nel Nord Italia, 91 al Centro (di cui 33 a Roma) e 43 nel Sud. “L’antigitanismo rimane uno degli elementi che caratterizza la nostra società”, sostiene il Rapporto. L’Osservatorio 21 Luglio ha registrato, sempre nel 2017, 182 discorsi d’odio nei confronti di Rom e Sinti, di cui 51 “di una certa gravità”. Il 26 maggio Ivan Boccali, consigliere comunale del Comune di Ciampino per il Movimento civico “Gente Libera”, dopo un rogo sviluppato nell’insediamento formale di La Barbuta, a Roma, sul proprio profilo pubblico Facebook ha scritto: “Roma Sud e Castelli Romani ostaggi di questi selvaggi, primitivi, balordi. La politica buonista dell’integrazione ha fallito. Per quel campo nomadi l’unica soluzione è il Napalm”. Massimo Gnagnarini, assessore al Bilancio del Comune di Orvieto per la Lista civica “Per andare avanti”, rispondendo sui social a un cittadino che segnalava donne zingare provenienti da un campo nella zona della stazione, scriveva: “C’aveva provato anche zio Adolf a prendere qualche rimedio, politicamente scorrettissimo, ma non gli è riuscito neanche a lui”. Intervenuto alla presentazione del Rapporto, in Senato, Tommaso Vitale dell’Università Sciences Po ha dichiarato: “In Europa le città stanno procedendo verso politiche di opportunità e integrazione, il tempo delle misure speciali, segreganti e discriminanti è definitivamente scaduto”. Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 Luglio: “Sono diventati necessari un chiaro orientamento strategico e un coordinamento a livello nazionale rispetto alle politiche di desegregazione abitativa”. L’aspettativa di vita dei Rom presenti negli insediamenti formali e informali è di dieci anni inferiore a quella della popolazione italiana. Il quotidiano nei campi nomadi, e i continui sgomberi, hanno “gravi ripercussioni sulla salute psico-fisica dei minori e sul loro percorso educativo e scolastico”. Migranti. Finiscono al tribunale dell’Aia le accuse Onu contro la Guardia costiera libica Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2018 La procura della Corte penale internazionale ha acquisito il rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite Guterres. La procuratrice Bensouda: “I crimini contro i migranti detenuti potrebbero ricadere nella nostra giurisdizione. Se i crimini continuano ad essere commessi, non esiteremo ad applicare nuovi mandati d’arresto” L’ufficio della procuratrice della Corte penale internazionale ha acquisito nei giorni scorsi il rapporto del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres sulla situazione in Libia. L’attenzione del Tribunale penale dell’Aia si è concentrata sulle accuse - dure e circostanziate - di violazione dei diritti dei migranti presenti nel territorio libico, che citano espressamente il Dipartimento per la lotta all’immigrazione clandestina e la Guardia costiera di Tripoli. La conferma dell’interesse della Corte penale internazionale è arrivata ieri direttamente dall’Aia. Già lo scorso novembre la procuratrice Fatou Bensouda aveva dichiarato che i crimini contro i migranti detenuti o gestiti da trafficanti in Libia “potrebbero ricadere nella nostra giurisdizione”. Il Tribunale dell’Aia ha poteri d’intervento per i genocidi, i crimini di guerra o contro l’umanità. Bensouda, nel corso di una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, aveva dichiarato: “Se i seri crimini citati dallo statuto di Roma continuano ad essere commessi in Libia, non esiteremo ad applicare nuovi mandati di arresto”. L’acquisizione del rapporto Onu del 12 febbraio, oltre a confermare l’esistenza di un fascicolo aperto sulla questione migranti in Libia, è un campanello di allarme che potrebbe suonare anche a Roma. Nel documento acquisito dall’Aia è riportata una dura accusa alla Guardia costiera di Tripoli: “La missione Onu Unsmil ha continuato a documentare una condotta spericolata e violenta da parte della Guardia costiera libica - scrive il segretario generale António Guterres - nel corso dei salvataggi e/o delle intercettazione in mare”. Il gip di Catania, nel provvedimento di convalida del sequestro della nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms, ha affermato che per quanto riguarda le operazioni di recupero dei migranti da parte della Guardia costiera di Tripoli “il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina Militare Italiana”. L’Italia da diversi mesi fornisce un diretto e ampio supporto alle motovedette libiche, con corsi di formazione, attività operative sul posto, anche attraverso la presenza di una unità navale militare nel porto di Tripoli, che funge da centro di comando congiunto per le azioni in mare. Martedì 3 aprile l’ambasciatore italiano a Tripoli Giuseppe Perrone aveva difeso l’operato della Guardia costiera libica: “Bisogna avere rispetto per gli uomini della Marina libica - sono le parole riportate dal Mattino - che lottano ogni giorno rischiando la vita contro i trafficanti”. La recente strategia italiana sembra puntare ad un maggiore coinvolgimento dei libici nelle operazioni di soccorso, con una differenza sostanziale rispetto alle azioni della nostra marina e delle Ong: tutti i migranti recuperati dalle motovedette di Tripoli vengono riportati nei centri di detenzione, quegli stessi lager duramente accusati dall’Onu. Di fatto un respingimento, che l’Italia non può fare direttamente, pena una condanna davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, come già avvenuto nel 2011. L’aumento degli interventi della Guardia costiera libica, appoggiata dalla Marina italiana, sta poi creando una situazione di forte tensione con le Organizzazioni non governative, come accaduto diverse volte con la Open arms, la Sea Watch (il 6 novembre del 2017) e la Sos Méditerranée. Il rapporto dell’Onu finito sul tavolo della Corte penale internazionale denuncia, infine, con durezza anche i centri di detenzione per migranti che operano in Libia, dove vengono portati i naufraghi recuperati in mare dalla Guardia costiera di Tripoli. Scrive il segretario generale dell’Onu: “I migranti sono sottoposti ad arresti arbitrari e torture (…). Gli autori sono ufficiali dello Stato, gruppi armati, trafficanti di uomini e gang criminali”. Israele. L’industria bellica ha prodotto migliaia di profughi di Vijay Prashad* Internazionale, 7 aprile 2018 Il 2 aprile il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è tirato indietro da un accordo con l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr). L’intesa avrebbe determinato il destino di 42mila africani - in gran parte provenienti da Eritrea e Sud Sudan - che vivono in Israele. L’Unhcr avrebbe trasferito 16.250 rifugiati africani in paesi occidentali come Canada, Germania e Italia. In cambio, Israele avrebbe concesso uno status legale temporaneo a un numero equivalente di profughi. Il 2 aprile, però, Netanyahu ha dichiarato che l’accordo era ormai morto. Negli ultimi anni il governo israeliano ha inviato numerose notifiche di respingimento agli africani, che sono stati messi davanti a una scelta difficile: accettare una modesta cifra e trasferirsi in Ruanda o Uganda, oppure essere incarcerati in Israele per il resto della vita. Tra dicembre 2013 e giugno 2017 quattromila eritrei e sud-sudanesi residenti in Israele sono stati trasferiti in Ruanda e Uganda in base a questo “programma di rimpatrio volontario”. Nel 2009 Israele si è arrogato il diritto di scegliere chi dev’essere considerato un rifugiato - Quando sono arrivati in Ruanda e Uganda, però, hanno scoperto che non esisteva alcun accordo. Non hanno ricevuto documenti di soggiorno né alcuno strumento per adattarsi alla loro nuova vita. La promessa era un imbroglio. Anziché tornare in Eritrea e Sud Sudan, i migranti hanno cominciato a spostarsi verso la Libia, a nord, per poi tentare la pericolosa traversata del Mediterraneo. Israele fa parte dei firmatari della Convenzione sui rifugiati dell’Onu del 1951, di conseguenza deve rispettare le regole della Convenzione e fornire un rifugio sicuro ai profughi. Ma non è stato così. Nel 2009 Israele si è arrogato il diritto di scegliere chi dev’essere considerato un rifugiato. Da allora, il governo israeliano ha riconosciuto come rifugiati soltanto otto eritrei e due sud-sudanesi. Tutti gli altri, secondo Netanyahu, sono “infiltrati”. Nel frattempo il governo non ha nemmeno preso in considerazione le dodicimila richieste d’asilo presentate dagli eritrei e dai sud-sudanesi. C’è un motivo per cui Israele ha ignorato le richieste: i richiedenti asilo provenienti da Eritrea e Sud Sudan presentano un alto tasso di accettazione della domanda in base ai numeri degli altri paesi (84 per cento per gli eritrei e 60 per cento per i sud-sudanesi). Il carcere per gli africani è considerato il più grande centro di detenzione di migranti al mondo - Gli africani sono stati chiusi nel carcere di Saharonim, nel deserto del Negev, o sono stati ospitati nelle aree più povere a sud di Tel Aviv. Il carcere è stato costruito nel 2012 per accogliere gli africani ed è considerato il più grande centro di detenzione di migranti al mondo. I detenuti hanno protestato spesso contro la loro incarcerazione e le condizioni di vita all’interno del carcere. Gli scioperi della fame sono molto comuni. Eppure in nessun momento ai detenuti africani è stato concesso d’incontrare un funzionario del governo. Le istituzioni carcerarie israeliane hanno utilizzato gli scioperi come pretesto per negare ai detenuti qualsiasi concessione, come per esempio la possibilità di consumare il cibo in cella. Razzismo - Israele ha un problema serio. I nuovi dati demografici mostrano che la popolazione dei territori che vanno dal fiume Giordano al mare è divisa quasi in parti uguali tra israeliani e palestinesi. Il parlamento ha analizzato questi dati lunedì scorso. Cosa significano per lo stato ebraico? La soluzione dei due stati è stata compromessa dall’aggressiva politica degli insediamenti di Israele in Cisgiordania e dall’annessione di ampie aree di Gerusalemme Est, e all’atto pratico Israele/Palestina è un unico stato con una popolazione equamente divisa tra palestinesi e israeliani. Le leggi, però, trattano i palestinesi e gli israeliani in modo molto diverso. Non c’è da stupirsi se Israele è considerato quasi universalmente come uno stato di apartheid. La segregazione come condizione sociale evidenzia il comportamento delle persone nei confronti di quelli che vengono percepiti come “stranieri”. Gli africani non devono essere integrati nello stato di Israele, anche se molti parlano fluentemente ebraico, perché non sono bianchi e non sono ebrei. È l’essere neri e non-ebrei che li distingue. Uno stato di apartheid è uno stato in cui vengono costruite barriere sociali per negare ad alcune persone l’esercizio dei propri diritti. Le politiche di apartheid di Israele nei confronti dei palestinesi plasmano inevitabilmente l’atteggiamento del governo verso i profughi africani: sono accettabili se si fermano per brevi periodi e fanno lavori sottopagati, ma sono assolutamente inaccettabili se cercano di ottenere i documenti necessari per restare nel paese. Israele in Africa - A metà marzo il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha visitato il Ruanda. In vista del suo viaggio, i funzionari della difesa israeliani si sono recati nel paese per vendere armi e tecnologia militare. In Ruanda sono arrivati il Direttorato per la cooperazione per la difesa internazionale di Israele e i funzionari dell’industria degli armamenti (Elbit Systems, Israel Aerospace Industries, IMI Systems, Soltam Systems), per firmare accordi per la vendita di armi dal valore complessivo sconosciuto. Secondo l’Istituto internazionale di ricerca per la pace di Stoccolma (Sipri), le vendite di armi da parte di Israele nel continente africano sono aumentate esponenzialmente, con una crescita del 70 per cento tra il 2015 e il 2016 (ultimi dati disponibili). Tra le apparecchiature vendute ci sono droni, sistemi di comunicazione, fucili d’assalto, cannoni e veicoli corazzati. Tra i paesi che hanno comprato da Israele figurano Angola, Camerun, Etiopia, Nigeria, Ruanda e Senegal. In ogni caso si tratta soltanto della punta dell’iceberg. Esiste un altro aspetto relativo alla vendita di armi da parte di Israele sul continente africano. Lo stato ebraico vende armi in Sud Sudan, sia ai ribelli sia al governo. L’arma più diffusa in Sud Sudan è il fucile Micro Galil Ace di fabbricazione israeliana (conosciuto nello stato dell’Alto Nilo come Galaxies), venduto da Israele prima e durante il terribile conflitto che ha stravolto il paese. Nel 2016 un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha presentato un rapporto molto critico rispetto al ruolo dei commercianti d’armi israeliani ed europei nel conflitto. Il rapporto ha evidenziato che i fucili israeliani ACE sono stati consegnati alla milizia Mathiang Anyoor, responsabile per lo scoppio della guerra nel dicembre del 2013. Israele non ha collaborato con l’Onu per rintracciare i fornitori di armi. In sostanza Israele contribuisce ad alimentare la devastazione in Sud Sudan. Questo caos ha prodotto una delle più ampie migrazioni del mondo, con 2 milioni di profughi. Una piccola parte di queste persone ha affrontato con coraggio il viaggio attraverso il Sudan e l’Egitto, fino a Israele. L’industria israeliana delle armi ha guadagnato sul loro dramma. Ora i profughi sono rinchiusi in prigione o minacciati di deportazione. La causa produce l’effetto, che nega la causa. *Traduzione di Andrea Sparacino Medio Oriente. Gaza, ancora sangue sulla marcia al confine di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 7 aprile 2018 Sette palestinesi uccisi dai colpi israeliani. L’esercito ebraico: colpa di Hamas. Onu e Ue: uso improprio di armi. Per il secondo venerdì consecutivo i confini della Striscia di Gaza sono tornati a vivere ore di scontri violenti tra i manifestanti palestinesi e l’esercito israeliano. Oltre 20.000 giovani si sono mobilitati nelle cosiddette “marce del ritorno” in cinque località sparse da nord a sud lungo i 64 chilometri di frontiera con il territorio israeliano. Sono zone di campi aperti, dove i cecchini israeliani, coadiuvati da sofisticati sensori elettronici e droni di ultima generazione, hanno gioco facile nel controllare i movimenti al di là della rete metallica e i fili spinati. Proprio per diminuire il rischio di essere colpiti, i manifestanti adesso danno fuoco ai copertoni nella speranza che il fumo li nasconda almeno un poco. Ma con scarsi risultati. Ieri sera i palestinesi segnalavano almeno sette morti. Settimana scorsa tra i 15 e 20 palestinesi avevano perso la vita oltre a centinaia di feriti (sino a 750 secondo le fonti locali). I numeri però in questi casi vanno presi con le dovute precauzioni, anche se vengono da fonti mediche a Gaza e talvolta sono confermati dagli osservatori locali dell’Onu: fanno parte di una guerra antica, che gioca anche a gonfiare o diminuire i bilanci delle vittime a seconda delle circostanze. Ieri sera il ministero della Sanità di Hamas segnalava così sette nuovi morti e più di mille feriti. Sempre secondo la stessa fonte, i morti palestinesi nell’ultima settimana sarebbero una trentina. Per il momento la popolazione israeliana appare comunque distratta, come se le nuove violenze fossero un fatto lontano, episodico, circoscritto. Il Paese è piuttosto assorbito dalle vacanze pasquali, con i religiosi che celebrano le feste in famiglia e il pubblico laico preso dalle passeggiate in Galilea e dai primi bagni sulle spiagge già affollate. Per i dirigenti del gruppo islamico Hamas, che dal 2007 governa su due milioni di palestinesi intrappolati nella “striscia della disperazione”, le manifestazioni sono per contro un tentativo fondamentale per rilanciarsi ad ogni prezzo sia tra il loro pubblico che sullo scenario internazionale. Il momento è propizio. Le crisi in Siria e Iraq paiono sopirsi, Isis per ora appare battuto. Così la questione palestinese può tornare a dominare sulle notizie dal Medio Oriente. E a Gaza la situazione per la popolazione non fa che deteriorare. Il blocco israeliano, assieme a quello imposto col pugno di ferro dall’Egitto contro Hamas alleata dei Fratelli Musulmani, rende l’esistenza dei civili sempre più difficile. I tagli all’elettricità sono endemici, manca acqua potabile, gli ospedali denunciano la mancanza di farmaci fondamentali, la disoccupazione e l’impossibilità di movimento aggravano la frustrazione. I risultati per Hamas del resto non mancano. Già sia l’Unione Europea che le Nazioni Unite chiedono un’inchiesta sull’eventuale “uso improprio” delle armi da fuoco da parte dell’esercito israeliano. L’inviato americano, Jason Greenblatt, invece chiede ai palestinesi di marciare “in modo pacifico” e soprattutto restare lontani dalle reti di confine. I palestinesi danno fuoco ai copertoni, lanciano bottiglie molotov e per lo più tirano sassi con le fionde. Il presidente Abu Mazen condanna le uccisioni mentre gli israeliani rispondono duri. “Hamas vuole approfittare delle marce per inviare terroristi nel nostro territorio. Non lo permetteremo. I nostri soldati mantengono le stesse regole d’ingaggio, sparano contro chi cerca di passare. Ma prima di tutto i soldati utilizzano lacrimogeni e proiettili di gomma”, dichiarano i portavoce dell’esercito. Tunisia. Almeno cinque detenuti morti per tortura africarivista.it, 7 aprile 2018 Le autorità di polizia tunisine avrebbero ucciso almeno cinque persone per tortura nei centri di detenzione e nelle prigioni. La dura accusa arriva dal presidente dell’Associazione di lotta contro la tortura in Tunisia (Altt), Radhia Nasraoui, in occasione della presentazione nella capitale nordafricana del rapporto dell’Altt per il 2017. Le morti sarebbero accompagnate, secondo l’avvocato e attivista dei diritti umani, da una completa impunità degli agenti, nonostante i casi di tortura siano avvenuti nei centri di detenzione. Sotto il profilo dei diritti umani, Altt denuncia anche le 77 condanne a morte comminate dai magistrati nel 2017. I condannati sarebbero sottoposti a isolamento, pressioni psicologiche, maltrattamenti e torture. L’Altt da anni chiede di abolire in Tunisia la pena di morte, definendola una violazione del diritto alla vita. Nell’ordinamento tunisino esiste ancora la previsione della pena capitale anche se dal 1991 non vengono più eseguite condanne a morte e si applica una sorta di “moratoria di fatto”. Secondo il rapporto 2017 dell’Altt, le stazioni di polizia sono in cima alla lista dei luoghi in cui vengono commesse le violazioni (35%), seguite da carceri (32%) e luoghi pubblici (24%). La polizia è al primo posto tra le autorità responsabili delle violazioni (61%), seguita dalla polizia penitenziaria (33%) e dalla Guardia nazionale (6%). Stati Uniti. Trump ordina lo stop al rilascio dei clandestini in attesa del processo Corriere della Sera, 7 aprile 2018 Il presidente degli Stati Uniti ha firmato un memorandum finalizzato a mettere al bando la prassi del “catch and release”, cattura e rilascia. Donald Trump ha firmato un memorandum per mettere fine alla prassi del “catch and release” (cattura e rilascia), in base alla quale gli immigranti illegali sono liberati dopo l’arresto in attesa dell’udienza sul loro status. Lo rende noto la Casa Bianca. Nel memo, il presidente ha chiesto una lista dettagliata di tutte le strutture, comprese quelle militari, che potrebbero essere usate per detenere i clandestini. Intanto Arizona e il Texas hanno resto noto di essere sono pronti a inviare la Guardia Nazionale al confine con il Messico già dalla prossima settimana in linea con quanto richiesto dal presidente Donald Trump per contrastare l’immigrazione clandestina. Il governatore dell’Arizona, Doug Ducey, ha annunciato, via Twitter che invierà 150 uomini mentre il Texas Military Department, dal quale dipendono le guardie nazionali dello Stato, ha annunciato una conferenza stampa sull’invio di truppe al confine. Trump ha firmato mercoledì scorso un memorandum ordinando al capo del Pentagono, James Mattis, di sostenere con le sue truppe il dipartimento per la Sicurezza Nazionale per “l’impennata di attività illegale” e ha dichiarato di voler dispiegare al confine tra 2.000 e 4.000 uomini. Anche gli ex presidenti George Bush nel 2006 e Barack Obama bel 2010 avevano inviato la Guardia Nazionale al confine con il Messico. Brasile. “Lula non si consegnerà alla polizia”, la mobilitazione dei suoi di Francesco Giambertone Corriere della Sera, 7 aprile 2018 Il leader del Partito dei lavoratori, condannato a 12 anni di carcere, avrebbe dovuto presentarsi per l’arresto entro le 22 italiane. Ma ha deciso di fare “resistenza pacifica”. Il suo avvocato: “Lula non andrà al macello a testa bassa”. Luiz Lula da Silva non si consegnerà alla polizia federale di Curitiba. L’ex presidente del Brasile, che avrebbe dovuto costituirsi entro le 17 di venerdì (le 22 in Italia), ha deciso di non presentarsi, e di portare avanti una “resistenza pacifica” contro il mandato d’arresto. È rimasto nella sede del sindacato dei lavoratori del metallo nella sua città natale, Sao Bernardo do Campo, circondato dai sostenitori. “Non intende andare al macello a testa bassa, per sua libera e spontanea volontà”, ha detto oggi uno degli avvocati dell’ex presidente brasiliano, José Roberto Batochio, in dichiarazioni al quotidiano Folha de Sao Paulo. La difesa - Secondo il legale, il fatto che Lula non si sia consegnato alla polizia di Curitiba al termine della scadenza fissata ieri dal giudice Sergio Moro “non è un atto di ribellione”, bensì l’esercizio “di un diritto fondamentale di ogni persona, che è quello di preservare la sua libertà e di non partecipare in nessuna aziona che possa sopprimerla”. La tesi della difesa di Lula, dunque, sembra essere che l’ex presidente è formalmente alla disposizione della polizia federale se i suoi agenti vengono ad arrestarlo - “non si sarà resistenza, né ci sarà violenza”, ha precisato Batochio - ma non intende consegnarsi spontaneamente. Fonti della polizia di San Paolo hanno però indicato ai media locali che non intendono procedere ad un’operazione per arrestare l’ex presidente nella sede del sindacato metallurgico Abc di Sao Bernardo dos Campos, almeno finché questa sarà circondata da migliaia di manifestanti pro Lula, giacché un’azione di questo tipo comporterebbe un “rischio di sicurezza troppo grande, tanto per il detenuto come per i poliziotti”. La scelta e il piano - Lula ha passato la notte nella sede del sindacato, “protetto” da dirigenti e militanti del Partito dei lavoratori, da parlamentari e membri dei sindacati; dalla base del suo elettorato che non l’ha abbandonato. Maduro e Morales: “Persecuzione delle destre” - Mentre i brasiliani aspettano di sapere cosa ne sarà del candidato presidente, tre leader di altrettanti Paesi dell’America latina si sono schierati con il leader del partito dei lavoratori brasiliano: Nicolas Maduro dal Venezuela, Evo Morales dalla Bolivia e Raul Castro da Cuba hanno inviato messaggi di solidarietà a da Silva, “vittima - a loro dire - di persecuzioni politiche”. “Non solo il Brasile, è il mondo intero che ti abbraccia”, ha scritto Maduro su Twitter, sottolineando che “la destra, incapace di vincere democraticamente, ha scelto la via giudiziaria per disciplinare le forze popolari”. Gli fa eco Morales: “La vera ragione per cui si condanna il fratello Lula è per impedire che torni ad essere il presidente del Brasile. La destra non gli perdonerà mai di aver tolto dalla miseria a 30 milioni di poveri”. Anche Castro, nell’assicurare a Lula e a Dilma il sostegno di Cuba, ha giudicato la sentenza su Lula “gravissima”. Brasile. Un’aggressione giudiziaria alla democrazia di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 7 aprile 2018 Lula. Siamo di fronte a quello che Cesare Beccaria, in “Dei delitti e delle pene”, chiamò “processo offensivo” dove “il giudice”, anziché “indifferente ricercatore del vero”, “diviene nemico del reo”. Il 4 aprile è stata una giornata nera per la democrazia brasiliana. Con un solo voto di maggioranza, il Supremo Tribunal Federal ha deciso l’arresto di Inacio Lula nel corso di un processo disseminato di violazioni delle garanzie processali. Ma non sono solo i diritti del cittadino Lula che sono state violati. L’intera vicenda giudiziaria e le innumerevoli lesioni dei principi del corretto processo di cui Lula è stato vittima, unitamente all’impeachment assolutamente infondato sul piano costituzionale che ha destituito la presidente Dilma Rousseff, non sono spiegabili se non con la finalità politica di porre fine al processo riformatore che è stato realizzato in Brasile negli anni delle loro presidenze. E che ha portato fuori della miseria 50 milioni di brasiliani. L’intero assetto costituzionale è stato così aggredito dalla suprema giurisdizione brasiliana, che quell’assetto aveva invece il compito di difendere. Il senso non giudiziario ma politico di tutta questa vicenda è rivelato dalla totale mancanza di imparzialità dei magistrati che hanno promosso e celebrato il processo contro Lula. Certamente questa partigianeria è stata favorita da un singolare e incredibile tratto inquisitorio del processo penale brasiliano: la mancata distinzione e separazione tra giudice e accusa, e perciò la figura del giudice inquisitore, che istruisce il processo, emette mandati e poi pronuncia la condanna di primo grado: nel caso Lula la condanna pronunciata il 12 luglio 2017 dal giudice Sergio Moro a 9 anni e 6 mesi di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici per 19 anni, aggravata in appello con la condanna a 12 anni e un mese. Ma questo assurdo impianto, istituzionalmente inquisitorio, non è bastato a contenere lo zelo e l’arbitrio dei giudici. Segnalerò tre aspetti di questo arbitrio partigiano. Il primo aspetto è la campagna di stampa orchestrata fin dall’inizio del processo contro Lula e alimentata dal protagonismo del giudice di primo grado, il quale ha diffuso atti coperti dal segreto istruttorio e ha rilasciato interviste nelle quali si è pronunciato, prima del giudizio, contro il suo imputato, alla ricerca di un’impropria legittimazione: non la soggezione alla legge, ma il consenso popolare. L’anticipazione del giudizio ha inquinato anche l’appello. Il 6 agosto dell’anno scorso, in un’intervista al giornale Estado de Sao Paulo, il Presidente del Tribunale Regionale Superiore della IV regione (Trf-4) di fronte al quale la sentenza di primo grado era stata impugnata ha dichiarato, prima del giudizio, che tale sentenza era “tecnicamente irreprensibile”. Simili anticipazioni di giudizio, secondo i codici di procedura di tutti i paesi civili, sono motivi ovvi e indiscutibili di astensione o di ricusazione, dato che segnalano un’ostilità e un pregiudizio incompatibili con la giurisdizione. Siamo qui di fronte a quello che Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, chiamò “processo offensivo”, dove “il giudice”, anziché “indifferente ricercatore del vero”, “diviene nemico del reo”, e “non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia e crede di perdere se non vi riesce”. Il secondo aspetto della parzialità dei giudici e, insieme, il tratto tipicamente inquisitorio di questo processo consistono nella petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria da provare, che dovrebbe essere la conclusione di un’argomentazione induttiva suffragata da prove e non smentita da controprove, forma invece la premessa di un procedimento deduttivo che assume come vere solo le prove che la confermano e come false quelle che la contraddicono. Di qui l’andamento tautologico del ragionamento probatorio, nel quale la tesi accusatoria funziona da criterio di orientamento delle indagini, da filtro selettivo della credibilità delle prove e da chiave interpretati va dell’intero materia le processuale. I giornali brasiliano hanno riferito, per esempio, che l’ex ministro Antonio Pallocci, in stato di custodia preventiva, aveva tentato nel maggio scorso una “confessione premiata” per ottenere la liberazione, ma la sua richiesta era stata respinta perché egli non aveva formulato nessuna accusa contro Lula e la Rousseff ma solo contro il sistema bancario. Ebbene, questo stesso imputato, il 6 settembre, di fronte ai procuratori, ha fornito la versione gradita dall’accusa per ottenere la libertà. Totalmente ignorata è stata al contrario la deposizione di Emilio Olbrecht, che il 12 giugno aveva dichiarato al giudice Moro di non aver mai donato alcun immobile all’Istituto Lula, secondo quanto invece ipotizzato nell’accusa di corruzione. Il terzo aspetto della mancanza di imparzialità è costituito dal fatto che i giudici hanno affrettato i tempi del processo per giungere quanto prima alla condanna definitiva e così, in base alla legge “Ficha limpia”, impedire a Lula, che è ancora la figura più popolare del Brasile, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre. Anche questa è una pesante interferenza della giurisdizione nella sfera della politica, che mina alla radice la credibilità della giurisdizione. È infine innegabile il nesso che lega gli attacchi ai due presidenti artefici dello straordinario progresso sociale ed economico del Brasile - l’infondatezza giuridica della destituzione di Dilma Rousseff e la campagna giudiziaria contro Lula - e che fa della loro convergenza un’unica operazione di restaurazione antidemocratica. È un’operazione alla quale i militari hanno dato in questi giorni un minaccioso appoggio e che sta spaccando il paese, come una ferita difficilmente rimarginabile. L’indignazione popolare si è espressa e continuerà ad esprimersi in manifestazioni di massa. Ci sarà ancora un ultimo passaggio giudiziario, davanti al Superior Tribunal de Justicia, prima dell’esecuzione dell’incarcerazione. Ma è difficile, a questo punto, essere ottimisti. Vietnam. Fino a 20 anni di carcere per sei attivisti per la democrazia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 7 aprile 2018 Sei attivisti per la democrazia sono stati condannati oggi ad Hanoi con pene che vanno da sette a 20 anni di reclusione con l’accusa di voler rovesciare il governo vietnamita. Lo ha annunciato l’agenzia di stampa statale del Paese comunista, al termine di un processo durato solo due giorni. L’esponente più noto del gruppo, l’avvocato per i diritti umani Nguyen Van Dai, ha ricevuto la pena più severa, di 15 anni in prigione e cinque agli arresti domiciliari. Gli altri imputati, secondo i giudici tutti collegati a un movimento chiamato “Fratellanza per la democrazia”, dovranno scontare tra i sette e i 12 anni di carcere. Solo uno dei condannati ha riconosciuto la sua colpevolezza, e per questo è stato premiato con la condanna più mite. Negli ultimi due anni, le autorità comuniste hanno lanciato un giro di vite contro il dissenso, che ha portato dietro le sbarre oltre una ventina di attivisti. Secondo Human Rights Law, 119 persone in tutto sono in prigione con l’accusa di aver attentato alla sicurezza dello stato con le loro attività per la democrazia.