Dalla riforma carceri al salvataggio banche, i 27 decreti in bilico di Francesco Lo Dico Il Mattino, 6 aprile 2018 Sono ventisette i decreti governativi rimasti in bilico dopo il voto di marzo. Nei tempi probabilmente lunghi che ci separano ancora da un’intesa di governo, spetterà alle due Commissioni speciali di Camera e Senato occuparsi concretamente di politica. In agenda non c’è solo il Def (atteso al massimo per fine aprile), ma anche i sedici decreti governativi rimasti in sospeso nel passaggio tra vecchia e nuova legislatura. Al conto vanno aggiunti anche i nuovi provvedimenti varati dal consiglio dei ministri dopo le elezioni. In tutto sono 27 i decreti m bilico, dalla riforma delle carceri al salvataggio delle banche. Chiuso in un nulla di fatto il primo giro di consultazioni, le forze politiche continueranno ancora a spintonarsi sul pianerottolo del Quirinale. Ma nei tempi probabilmente lunghi che ci separano ancora da un’intesa di governo, spetterà alle due commissioni speciali di Camera e Senato occuparsi concretamente di politica. È proprio nelle due ridotte di Palazzo Madama (ieri l’insediamento dei 27 membri guidati dal grillino Vito Crimi), e di Montecitorio (40 membri, via libera la prossima settimana, in pole il dem Francesco Boccia ma la Lega proverà a piazzare l’economista Borghi) che saranno saggiati i nuovi equilibri del nascituro governo: in agenda non c’è solo il Def (atteso al massimo per fine aprile), ma anche i sedici decreti governativi rimasti in sospeso nel passaggio tra vecchia e nuova legislatura. Ma al conto vanno aggiunti anche i nuovi provvedimenti varati dal Consiglio dei ministri dopo le elezioni. Il precedente del 2013 è del resto abbastanza eloquente: le due analoghe Commissioni restarono allora in carica dal 24 febbraio ai primi di maggio. E anche allora, dovettero occuparsi di un dossier fondamentale: quell’esame del Documento di economia e finanza che alla luce del surplus di 5 miliardi richiesto dall’Europa per saldare il salvataggio delle banche venete, è pratica da riscrivere. Un’operazione non priva di incognite e tensioni: l’ira con la quale il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, ha accolto l’elezione a capo della Commissione speciale del senatore pentastellato Vito Crimi, la dice lunga sulla delicatezza della partita. Ma dal tavolo delle commissioni speciali non passano soltanto le sorti del Def. Tra i temi caldi c’è il decreto legislativo varato dal governo Gentiloni con la riforma delle carceri, sulla quale spira da tempo aria di tempesta. Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno definito il decreto che appronta pene alternative e riduce il sovraffollamento delle patrie galere “una follia”, e hanno promesso perciò di cancellarlo. Idem il Movimento 5 Stelle, che sul tema avrà certo molto da discutere con Forza Italia, che già nel parere alla bozza della riforma aveva votato invece a favore in commissione Giustizia. Tra i 27 provvedimenti dispersi, o comunque a rischio spiaggiamento, c’è un pezzo non indifferente della riforma del codice antimafia; il decreto legislativo sull’incompatibilità dei curatori fallimentari e quello della tutela del lavoro nelle imprese sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata. Ma nel calderone delle incompiute figura anche un provvedimento di strettissima attualità, dopo il caso di Cambridge Analytica: il nuovo regolamento nazionale che conforma le leggi italiane a quelle europee previste per la privacy dei dati personali. I tempi sono strettì anche in questo caso: il decreto entrerà in vigore il 25 maggio. All’attenzione delle commissioni speciali ci sono inoltre due misure molto delicate in materia di frontiere e sicurezza: l’uso dei codici di prenotazione (Pnr) per contrastare il terrorismo, e la sicurezza delle reti e dei sistemi informativi nell’Unione europea (Dlgs Cybersecurity). In attesa del placet anche i decreti che trattano la riorganizzazione degli uffici dirigenziali del Viminale, il decreto legislativo sui pacchetti turistici e quello della mobilità del lavoro nell’Ue. Sul piatto ci sono il servizio civile universale, le norme in materia di riduzione delle emissioni inquinanti e quelle che regolano i segreti commerciali. In ultimo sono ancora in stand by le norme che regolano l’acquisizione di droni e quelle, apparentemente singolari, che definiscono le tecniche di riproduzione tra animali La speranza è che di fronte a tanta carne sul fuoco, non finisca in pollaio. L’ergastolo ostativo arriva alla Corte europea dei diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2018 I giudici di Strasburgo hanno ritenuto ricevibile il ricorso di un detenuto al 41bis. Si apre uno spiraglio sulla questione dei benefici negati per chi è un ergastolano ostativo. Ad aprirlo non sono i giudici nostrani, ma quelli della Corte europea di Strasburgo accogliendo il ricorso di Filadelfo Ruggeri, detenuto ergastolano al 41bis. Quest’ultimo è stato condannato per omicidi con le aggravanti legate alle attività di Cosa nostra e per questo si trova al regime di carcere duro. Ciò nonostante, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto ricevibile il suo ricorso e adesso vaglieranno se sia conforme alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo l’esclusione dalla concessione di permessi premio, semilibertà, libertà condizionale e degli altri benefici carcerari nei confronti dei condannati alla massima pena che non collaborano con la giustizia. Difeso dall’avvocato Valerio Vianello, Ruggeri, che ha già scontato 9750 giorni di carcere, pari a 27 anni, fa parte della schiera dei cosiddetti irriducibili e ha rivendicato il proprio diritto di ottenere un permesso premio, anche se non ha mai collaborato né intende farlo. Le tesi difensive riprendono una serie di altre pronunce di livello europeo della Cedu e soprattutto la vicenda già dichiarata ricevibile, quella di Marcello Viola (pure lui in cella, come il detenuto siciliano, da 27 anni), riconosciuto colpevole di fatti non di mafia. La pronuncia sarà importante perché può incidere direttamente sul diritto nazionale e sulle pronunce dei giudici dei Paesi che aderiscono alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo. I rilievi mossi al sistema penitenziario italiano riguardano la creazione del cosiddetto “doppio regime penitenziario’, che mette da una parte coloro che hanno commesso determinati reati ritenuti più pericolosi, dall’altra gli autori di tutti gli altri reati. “Solo per questi ultimi - scrive nel ricorso Ruggeri, attraverso l’avvocato Valerio Vianello - sussiste ancor oggi la caratterizzazione spiccatamente risocializzante del trattamento penitenziario”. Per mafiosi e non collaboranti non esiste alternativa: si dovranno accontentare della riduzione di pena per buona condotta, 90 giorni all’anno che per i “fine pena mai” sono puramente teorici. Nessuna speranza, quindi, indipendentemente dalla possibile sussistenza di ogni altra condizione speciale di ammissibilità e meritevolezza, vincolando tutto alla sola collaborazione con la giustizia, senza tenere conto dell’effettivo percorso rieducativo svolto. Il governo italiano dovrà rispondere a una serie di domande poste dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La prima: “L’ergastolo ostativo può essere considerato una pena comprimibile de jure e de facto, dunque compatibile con la Convenzione dei diritti dell’uomo?”. Secondo quesito: “La legislazione italiana offre al ricorrente ‘ una prospettiva di rilascio e una possibilità di riesame della sua pena ed è possibile tenere conto dei progressi dell’ergastolano nel percorso riabilitativo e determinare se abbia fatto progressi a prescindere dal dato della collaborazione?” Terza domanda: “Il limite della collaborazione con la giustizia soddisfa i criteri stabiliti dalla Corte per valutare la comprimibilità dell’ergastolo e la sua conformità alla Convenzione?”. Infine, quarto quesito: “C’è una prospettiva di rilascio per motivi legittimi collegati alla pena? E un regime penitenziario così può essere ritenuto compatibile con l’obiettivo di riabilitazione e di reinserimento dei detenuti? Lo Stato ha rispettato i suoi obblighi positivi di garantire ai detenuti a vita la possibilità di lavorare al loro reinserimento in attuazione della Convenzione?”. La riforma dell’ordinamento penitenziario, se verrà approvata definitivamente, non prevede il superamento dell’ergastolo ostativo né ha modificato le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, accesso ancora subordinato al requisito della collaborazione. La sentenza della Corte europea, se darà ragione al ricorso di Ruggeri, potrebbe costringere il governo a metterci mano. Un indizio quale potrebbe essere la decisione ce lo dà la stessa Corte europea che, nel passato, ha già emesso una condanna - in questo caso nei confronti dell’Inghilterra - proprio per quanto riguarda l’ergastolo. Con un’importante sentenza depositata il 9 luglio del 2013 (caso Vinter e altri c. Regno Unito) e resa nell’ambito di un ricorso presentato da parte di tre britannici in carcere per omicidio, ha affermato il principio per cui l’ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata o di revisione della pena è una violazione dei diritti umani, poiché l’impossibilità della scarcerazione è considerata un trattamento degradante e inumano contro il prigioniero, con conseguente violazione dell’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani. L’articolo suddetto specifica infatti che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. In Italia, è bene ricordarlo, esistono due tipi di ergastoli: quello normale e quello ostativo. Il primo consiste nel riconoscere al condannato benefici, quali permessi premio, semilibertà ovvero liberazione condizionale; per il secondo, invece non viene concessa la possibilità di alcun beneficio e rimane una pena perpetua. La Corte europea potrebbe costringere il nostro Paese a mettere in discussione quest’ultimo punto. “Edilizia penitenziaria? Al massimo si dà una ritinteggiata” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 aprile 2018 L’architetto Domenico Alessandro De Rossi, già consulente del Dap, esperto di edilizia penitenziaria, interviene sul piano carceri, fermo dal 2009. Che fine ha fatto il Piano carceri, quello che, varato nel gennaio 2009 dal Consiglio dei ministri, avrebbe dovuto risolvere l’emergenza delle carceri italiane, diventata sempre meno sopportabile sia per detenuti che per tutta la comunità penitenziaria? All’allora capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, furono dati poteri straordinari per accelerare la costruzione di nuovi istituti di pena, addirittura “eco-compatibili e ad emissioni zero”. Ma a distanza di sette anni nulla è stato realizzato e la situazione è sempre più drammatica: dal carcere di Enna a quello delle Vallette a Torino, passando perTrani e per il minorile Beccaria di Milano. Le criticità sono quasi sempre le stesse: bagni a vista, muffa sulle pareti, infiltrazioni di acqua piovana nelle celle e nelle stanze degli agenti di sorveglianza, ambienti freddi e fatiscenti. Carenze igieniche e strutturali che offendono “la dignità e la privacy dei detenuti ristretti” e costringono “i poliziotti penitenziari a lavorare in ambienti squallidi”, dichiara Federico Pilagatti, segretario regionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). Dopo aver dedicato un tavolo di lavoro all’architettura del carcere durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, il ministro della Giustizia Andrea Orlando è tornato a parlare di Piano carceri nella sua relazione per l’anno 2016: “Il nuovo modello penitenziario orientato al rispetto dei principi della Costituzione […] richiede anche interventi di adeguamento delle strutture penitenziarie. Il tema dello spazio vivibile viene, così, a declinarsi secondo un valore qualitativo, funzionale al processo di risocializzazione. In questo campo, le linee d’azione dovranno, pertanto, essere orientate ad incrementare non solo le dimensioni, ma la qualità degli spazi destinati al movimento, alle iniziative culturali e trattamentali ed alla socialità [..] Pertanto, gli interventi di edilizia penitenziaria dovranno essere coerentemente orientati al processo di umanizzazione della pena”. È davvero arrivato il momento di concretizzare quanto messo solo su carta? Lo chiediamo all’architetto Domenico Alessandro De Rossi, già consulente del Dap, esperto di edilizia penitenziaria e curatore del libro “Non solo carcere. Norme, storia e architettura dei modelli penitenziari”, Mursia Editore. I propositi del ministro Orlando sono giusti, perché se si vuole davvero realizzare un Piano carceri bisogna fare prima un grande sforzo culturale. E lo devono fare coloro che progettano e amministrano, non dimenticando mai quali sono lo scopo della pena e la finalità della detenzione: risocializzare il detenuto, dargli un lavoro, farlo seguire da esperti. Purtroppo in Italia lo sforzo massimo che riusciamo a fare per gli istituti di pena è quello di ritinteggiare le pareti. Per non parlare di tutte le idee di modifica che vengono bloccate dall’eccessiva burocrazia. Servono professionisti veramente esperti e che abbiano un curriculum effettivo per poter trattare questa delicata materia. Quale sarebbe per Lei una soluzione? Il patrimonio di cui dispone lo Stato italiano per le carceri è tutto obsoleto; quindi inizialmente andrebbe istituita una commissione che si occupi della dismissione delle carceri ospitate da manufatti storici, che andrebbero destinati ad altra funzione. Penso, ad esempio, a quello di San Vittore a Milano, all’Ucciardone di Palermo, a quello napoletano di Poggioreale, al Regina Coeli di Roma. Quindi costruire nuovi istituti di pena? Sì, in prossimità dei tribunali e in posizione strategica, vicina ai nodi di scambio trasportistici: il carcere è una città nella città, deve essere una realtà che dialoga con la città. L’aiuto dei privati sarebbe utile? Un rapporto con i privati, se gestito bene e con trasparenza, non è detto che debba essere una cosa negativa. L’onere del controllo e della correttezza debbono spettare allo Stato. E con quale filosofia realizzare un carcere modello? Bisogna entrare nella logica di una ristrutturazione comportamentale, utilizzando una tipologia di edilizia differenziata in base al comportamento del detenuto, accompagnandolo nella penitenza attraverso un percorso che mano a mano gli dia più libertà, a seconda del suo livello di rieducazione. Riuscendo a trasmettere più fiducia a chi lo ha preso in carico, potrà essere trasferito in celle diverse, più confortevoli rispetto a quelle più dure dove è stato recluso ad esempio per essersi macchiato di un grave reato, fino ad arrivare addirittura in quelle senza sbarre, passando per le stanze dell’affettività. È necessario capire inoltre che non si può mettere nello stesso ambiente un terrorista o un omicida con uno che ha fatto assegni a vuoti, perché devono essere trattati in maniera diversa. Sottoscritto un Protocollo d’intesa Dap-Anci per lavoro detenuti agenpress.it, 6 aprile 2018 Incrementare le opportunità di lavoro e di formazione lavorativa dei detenuti per la tutela dell’ambiente e il recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi e, al tempo stesso, stimolare l’avvio di progetti che coinvolgano la popolazione carceraria nella corretta gestione dei rifiuti, favorendo lo scambio di buone prassi all’interno degli istituti penitenziari. Sono queste le finalità del Protocollo d’intesa sottoscritto oggi in Via Arenula dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo e dal Presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro. L’accordo di collaborazione prevede la promozione e l’attuazione di un programma sperimentale per coinvolgere i detenuti in attività lavorative extramurarie rivolte alla protezione ambientale e al recupero del decoro degli spazi e delle aree di verde pubblico. Inoltre, le comunità penitenziarie saranno sensibilizzate ad incrementare i livelli di raccolta differenziata e coinvolte nella promozione di modelli di gestione del ciclo dei rifiuti. In virtù del protocollo, l’Anci si impegna promuovere i contatti nei Comuni sedi di istituti penitenziari per il raggiungimento degli obiettivi condivisi; e di favorire insieme con il Dap sia la partecipazione a bandi europei che la promozione di progetti da finanziare anche attraverso la cassa delle ammende. Il Protocollo ha durata triennale, è rinnovabile e partirà in via sperimentale dai Comuni capoluogo delle città metropolitane. Il programma delle attività, da aggiornarsi annualmente, sarà demandato ad una apposita Unità paritetica di gestione, composta da due componenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Anci: questa struttura si occuperà di fornire indirizzi, supporto e linee guida per l’attuazione delle attività previste dall’intesa, nonché di monitorare l’andamento della sua operatività e le Convenzioni che saranno stipulate su tutto il territorio nazionale. “Con questo accordo - ha dichiarato il Ministro Orlando - vogliamo sottolineare una volta di più l’importanza del lavoro come leva fondamentale del trattamento penitenziario. Governo e Parlamento hanno scelto di andare verso un nuovo modello penitenziario, finalmente e realmente aderente al dettato della nostra Costituzione: un modello finalizzato non soltanto al reinserimento sociale dei detenuti e al conseguente abbattimento del rischio di recidiva, ma anche allo svolgimento di attività gratuite in favore della collettività come finalità riparativa della pena. Ha valore particolarmente significativo che le attività in cui saranno impegnati i detenuti siano mirate alla protezione dell’ambiente, tema fondamentale per il nostro Paese”. “Questa intesa, che rinsalda e attualizza una collaborazione avviata nel 2012 sui lavori di pubblica utilità - ha affermato il presidente dell’Anci Antonio Decaro - mette alla prova la capacità di tutti noi di saper offrire un’opportunità a chi ha deviato dalla legge. I sindaci sanno bene che spesso i detenuti non sono feroci criminali, ma persone che hanno sbagliato, per svariati motivi. Per queste, soprattutto per i più giovani, il carcere dev’essere un luogo dove scontare la pena, ma anche una occasione di recupero e reinserimento nella società. In particolare al Sud, gli amministratori delle città conoscono le lacerazioni delle famiglie che vivono l’esperienza del carcere. Per questo abbiamo sposato con convinzione l’idea di un protocollo con il Ministero della Giustizia - conclude Decaro - che non obbliga al lavoro forzato, ma dà ai detenuti la possibilità di imparare un mestiere, contribuire alla cura del bene pubblico e riabilitarsi socialmente, agli occhi delle loro famiglie e delle comunità”. “Il protocollo presta particolare attenzione all’ambiente - ha dichiarato Santi Consolo - e valorizza al contempo la formazione e l’impiego lavorativo delle persone detenute. Da oltre 18 mesi l’amministrazione penitenziaria ha intrapreso un percorso virtuoso per incrementare la raccolta differenziata negli istituti che è passata dal 59% del luglio 2016 al 95% del marzo 2018. I detenuti impiegati, ad oggi, sono circa 570 e 973 sono le sezioni detentive in cui operano. Grazie all’accordo siglato oggi con l’Anci puntiamo a raggiungere il 100% della copertura a livello nazionale coinvolgendo anche quei comuni che ancora non hanno attivato il servizio. Il protocollo Anci-Dap può essere considerato un esempio di buona prassi strutturata tra pubbliche amministrazioni, utile all’intera collettività. Puntiamo sul lavoro dei detenuti nel trattamento dei rifiuti che da “ rifiuti” si trasformano in risorse e beni per la collettività e l’ambiente”. La giustizia rischia l’impasse sui debiti dei condannati di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 6 aprile 2018 I crediti non recuperati sono 4 miliardi. Una nuova norma impone di riscuoterli, ma manca il personale. Uno tsunami sta per abbattersi sui palazzi di giustizia con centinaia di migliaia di procedimenti dopo che la finanziaria ha imposto la marcia forzata nelle procedure per la trasformazione in libertà controllata delle pene pecuniarie non pagate che, fino ad ora, spesso erano lasciate agonizzare negli armadi fino alla morte per prescrizione. Lo Stato non riesce a fare pagare quasi mai i condannati. I dati del Ministero della giustizia dicono che tra il 2010 e il 2016 su un oltre 6 miliardi di euro tra ammende, multe e sanzioni amministrative più di 4 non sono stati pagati, pari ad oltre il 50% dell’intero ammontare dei crediti vantati dalla giustizia. Una somma enorme che risolverebbe tutti i problemi della macchina giudiziaria. Paga chi ha un reddito o un patrimonio, ovviamente no gli irreperibili, in maggioranza stranieri, e i nullatenenti. Per costoro la pena pecuniaria deve essere convertita in libertà controllata. Quando le sentenze che contengono una pena pecuniaria diventano definitive vanno per la riscossione all’Agenzia delle entrare e della riscossione (Ader) che ogni mese trasmette al Tribunale un rapporto (introdotto dalla nuova norma) sulla situazione. Se uno non paga, la sua “partita di credito” va alla Procura della Repubblica che entro venti giorni si rivolge al magistrato di sorveglianza per il procedimento di conversione: un giorno di libertà controllata ogni 250 euro di debito. Libertà controllata vuol dire, per esempio, che non si può lasciare il comune di residenza e che ci si deve presentare regolarmente alle forze di polizia. La Procura dovrebbe usare gli accertamenti dell’Ader, ma c’è chi dice che potrebbe anche far rifare tutto dalla Polizia giudiziaria, mentre è certo che il magistrato di sorveglianza “può” ripetere le indagini anche rivolgendosi alle banche, e se magicamente trova qualcosa che prima era sfuggito la palla torna all’Agenzia. Questo iter dovrebbe convincere anche i più recalcitranti a mettere mano a soldi, sempre ammesso che li abbiano, facendo cadere ogni speranza di prescrizione. Il timore è di rallentare ulteriormente il lavoro nei palazzi di giustizia, che già non scorre come un fiume impetuoso, quantomeno per smaltire l’enorme arretrato. Solo a Milano, a marzo il Tribunale aveva trasmesso alla Procura 250 “partite” non riscosse dal 2010. Entro aprile saliranno a diecimila per toccare quota settantamila a ottobre, mentre a regime si prevedono cento pratiche al mese. Non molto diversa la situazione in altri uffici: a Varese si parla di 13 mila fascicoli, a Brescia di sessantamila. Il rischio nemmeno tanto remoto è di ingolfare uffici e forze di polizia in una corsa a passarsi l’un l’altro la patata bollente per scongiurare di sforare i termini e di finire sotto la lente di ingrandimento della Corte dei conti. Il collo di bottiglia saranno i Tribunali di sorveglianza che con gli organici al minimo già a fatica riescono ad occuparsi dei detenuti figurarsi come potranno stare dietro alle “partite di credito” dell’intero distretto di Corte d’appello. La soluzione è sempre la stessa: ci vogliono più magistrati, più personale amministrativo e più polizia giudiziaria. E più soldi. Potrebbero arrivare dalle sanzioni pecuniarie: e il gatto si morde la coda. Avvocati in classe, per insegnare legalità e diritti di Francesca Spasiano Il Dubbio, 6 aprile 2018 Alternanza scuola-lavoro in collaborazione col Miur. Legalità, cittadinanza attiva e cultura delle differenze. Questi i valori di cui l’avvocatura si fa garante nel portare il diritto in classe grazie al progetto Alternanza Scuola-Lavoro. L’iniziativa guarda alle future generazioni nella convinzione che l’educazione civica non consista solo nel rispetto delle leggi, ma soprattutto nella loro conoscenza e nel loro insegnamento per renderle patrimonio collettivo attraverso percorsi formativi che uniscano i saperi teorici con attività concrete nel contesto professionale forense. L’idea di combinare educazione e lavoro, nata nel 2015 con la Buona Scuola, ha suscitato negli ultimi anni alcune critiche tra addetti ai lavori e nell’opinione pubblica, ma nel vasto panorama di esperienze emergono numerosi segnali incoraggianti. Per il Consiglio Nazionale Forense, tra i campioni dell’Alternanza 2016, l’introduzione dell’obbligo per gli studenti degli istituti superiori di svolgere un periodo minimo in alternanza di 200 ore per i licei e di 400 ore per gli istituti tecnici, ha rappresentato l’occasione di portare tra i banchi la cultura del diritto attraverso la collaborazione con Il Miur, formalizzata Il 3 ottobre 2016 con la sottoscrizione di un protocollo d’Intesa. Lo scopo è trasmettere un metodo, e potenziare le conoscenze dei più giovani in materia giuridica, non soltanto per accrescere la consapevolezza rispetto al ruolo dell’avvocato nella società, ma soprattutto per rendere i cittadini del futuro più consapevoli dei propri diritti e doveri nella costruzione di un contesto sociale aperto e multiculturale. Il progetto infatti, con un’offerta didattica di 100 ore tra lezioni frontali e laboratori sperimentali, e la direzione del professore Mario Ricca, intende promuovere il rispetto delle differenze, il dialogo tra le culture e la cura dei beni comuni. “Gli avvocati dovrebbero promuovere un insegnamento del diritto che non si limiti alle solite nozioni, ma che riguardi gli aspetti pulsanti della quotidianità, una grammatica del quotidiano da incrociare con la conoscenza interculturale”, spiega Ricca, per il quale l’educazione civica è necessaria alla creazione di una comunità plurale in cui il diritto si fa strumento di vita. In quest’ottica il Cnf ha costituito una rete di avvocati, referenti del progetto Asl, che negli ultimi due anni hanno potuto confrontarsi sulle diverse esperienze di alternanza emerse su tutto il territorio nazionale in occasione delle giornate di formazione coordinate dal sociologo e scrittore Giovanni Lucarelli. che proprio oggi guiderà un incontro rivolto ai referenti degli Ordini forensi nella cornice del tradizionale incontro “Esperienze a Confronto”, dedicato quest’anno al mondo della formazione. Ma la condivisione è soltanto uno dei principi che hanno ispirato le numerose iniziative, attivate nei vari distretti che aderiscono al progetto. I percorsi formativi hanno privilegiato infatti un approccio learning by doing, con la partecipazione degli studenti a vere e proprie attività professionali, con giochi di ruolo sostenuti da approfondimenti teorici del diritto. Il carattere di riservatezza che contraddistingue la professione rende complicata, se non incompatibile la presenza degli studenti negli studi legali, così l’approccio pratico al lavoro è garantito da metodologie didattiche innovative. Sono quattro i workshop da svolgere direttamente in classe: il Reportage giuridico e le Guide giuridiche; lo studio di consulenza legale in aula e l’avvio di un’autentica start-up, per lo sviluppo di competenze giuridico-economiche specifiche al mondo del lavoro e la produzione di strumenti d’utilità per gli studenti che volessero avviarsi alla professione forense. Anche Strasburgo dice no a Dell’Utri: resti in carcere di Valentina Stella Il Dubbio, 6 aprile 2018 Ieri nuova udienza al Tribunale di Sorveglianza sull’incompatibilità. Ieri si sono scritte altre pagine della complicata vicenda che riguarda la detenzione di Marcello Dell’Utri, sia sul fronte italiano che su quello europeo. Nella mattinata si è svolta una nuova udienza dinanzi al Tribunale di Sorveglianza di Roma per discutere della presunta incompatibilità tra detenzione e condizioni di salute di Marcello Dell’Utri. I suoi avvocati hanno chiesto con un’istanza di verificare se le condizioni in cui è detenuto l’ex senatore di Forza Italia siano compatibili con i diritti umani. Per i difensori, Simona Filippi e Alessandro De Federicis, il trattamento cui è sottoposto Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, sta aggravando le condizioni fisiche e psichiche dell’ex senatore di Forza Italia, affetto da cardiopatia, diabete e tumore alla prostata, e ricoverato dal 14 febbraio scorso al Campus Biomedico di Roma, piantonato 24 ore su 24 da due agenti. Lo scorso 6 febbraio i giudici del Tribunale di Sorveglianza avevano negato la scarcerazione per motivi di salute. In una lettera consegnata ai suoi difensori e depositata ieri in Tribunale, Dell’Utri chiede infatti di pronunciarsi sulla “compatibilità delle attuali condizioni di restrizione, in quanto le stesse non sono più procrastinabili e stanno determinando un evidente degrado delle mie condizioni fisiche e psichiche e pertanto necessita di essere trattata con la massima urgenza”. Come denunciano i suoi difensori, l’uomo “è costretto a stare in una stanza in cui non è possibile neanche aprire la finestra e dorme con una luce sempre accesa puntata in faccia”. La decisione del Tribunale di Sorveglianza è attesa per lunedì. L’unica certezza è che dell’Utri, se nulla cambierà, tornerà in carcere a Rebibbia il 20 aprile prossimo al termine del ciclo di radioterapia che sta facendo per il cancro di cui è affetto. Sul fronte europeo, invece, ieri l’Ansa ha reso noto che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha “deciso di non chiedere al governo italiano di adottare misure per sospendere l’esecuzione della pena di Marcello Dell’Utri”, contrariamente a quanto da lui richiesto. La decisione è stata presa il 29 marzo scorso, ma resa nota solo ieri. Come hanno precisato gli avvocati Saccucci e Nascimbene, la Cedu ha respinto una domanda straordinaria di provvedimento cautelare a tutela della vita del detenuto Dell’Utri che avevano presentato qualche mese fa: “È stata respinta perché da quando è stata presentata la situazione è profondamente mutata; a dicembre era estremamente critica come attestato anche dal Garante dei Detenuti Mauro Palma. Successivamente c’è stato il trasferimento al Campus Biomedico dove è iniziato il trattamento radioterapico. Quindi a fronte di questa situazione la Cedu - che ribadiamo non ha il potere di liberare nessuno ma soltanto di adottare in casi estremamente eccezionali e di gravità estrema dei provvedimenti a tutela della vita di persone che stanno per morire - ha ritenuto che in questo momento non ci fosse questo pericolo. È bene sottolineare - evidenziano i legali - che la situazione è in continuo mutamento. Il quadro complesso della salute di Dell’Utri non si risolve con le dimissioni dal Campus Biomedico. La situazione andrà rivalutata: la convalescenza, dopo tutti questi cicli di radioterapia e una situazione cardiaca compromessa, non andrebbe di certo fatta tra le mura di un carcere”. “La notizia che la Corte europea dei diritti umani ha detto no alla richiesta di sospensione della pena, per motivi di salute, presentata da Marcello Dell’Utri ha commentato l’ex onorevole di Forza Italia Amedeo Laboccetta getta nuovo sconforto su una vicenda che non vuole tenere in alcun conto l’aspetto umano privilegiando esclusivamente quello giuridico su cui del resto ci sarebbe molto da obiettare. Un altro pessimo tassello si aggiunge a questa storia che dà un quadro di una giustizia senza né cuore né anima”. Mantenimento, non pagare l’assegno adesso è reato di Alessandro Simeone La Repubblica, 6 aprile 2018 Oggi entra in vigore l’art. 570 bis del codice penale: chi non paga quanto dovuto per il mantenimento dei figli e dell’ex coniuge rischia una multa di oltre 1000 euro e il carcere fino a un anno. La disposizione nasce con l’intento di dare ordine a una materia confusa, frutto di norme stratificatesi nel corso degli anni. Il codice penale del 1930 puniva, con l’art. 570, coloro che facevano mancare i mezzi di sostentamento al coniuge o ai figli; la norma era interpretata in modo rigoroso e rischiava solo chi faceva dolosamente mancare al coniuge o ai figli i mezzi minima di sussistenza (p.e. il cibo). Dal 1987 è diventato reato non pagare gli assegni per l’ex o per i figli previsti nella sentenza di divorzio (ma non quello in quella di separazione) e, dal 2006, non pagare quello per i figli in genere; in entrambi i casi non era necessario che l’ex o i figli fossero ridotti sul lastrico (il c.d. stato di bisogno) ma bastava, per rischiare il carcere, non pagare esattamente quanto previsto nel provvedimento del Giudice. Dal 6 aprile queste ultime due norme sono abrogate e sostituite appunto con un reato nuovo di zecca. Le implicazioni, non si sa quanto volute dal legislatore, sono molteplici: diventa reato anche non versare l’assegno di separazione per il coniuge; viceversa non versare l’assegno per il figlio maggiorenne non sarà punito se i genitori sono separati o se non sono sposati; lo sarà se i genitori sono divorziati. Infine, vista la formulazione generica della norma, potrebbe finire sul banco degli imputati chi è puntuale con l’assegno mensile, ma magari non ha rimborsato le spese straordinarie dei figli (ad esempio i libri o la visita medica). Il rischio del paradosso è dietro l’angolo: un coniuge rischia il carcere se non paga l’assegno provvisorio di separazione che, con la sentenza finale, potrebbe risultare non dovuto; il figlio maggiorenne i cui genitori sono separati o non sono sposati è meno tutelato di un suo coetaneo i cui genitori hanno divorziato. Diversità di tutela di cui si fa fatica a intravedere una ragione plausibile Occorrerà vedere a questo punto quale posizione assumerà la giurisprudenza ma è certo che un intervento nato con l’obiettivo di semplificare rischia invece di complicare. Rischio penale sull’incentivo al manager di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 15279/2018. L’elargizione dell’indennità di preavviso corrisposta dal cda di Banca Etruria, già in dissesto, all’ex direttore generale come incentivo all’esodo può essere inquadrata come bancarotta preferenziale per essere stato il direttore generale inquadrato come lavoratore subordinato. La Cassazione penale, sentenza n. 15279di ieri, accoglie in parte il ricorso del Pm che chiedeva la bancarotta per distrazione e rinvia la decisione, anche solo per respingerla, sulla questione al tribunale del riesame di Arezzo. Al centro della vicenda approdata in Cassazione gli oltre 700mila euro corrisposti al manager come incentivo all’esodo per effetto di un accordo transattivo deliberato dal consiglio di amministrazione della banca al momento della risoluzione del rapporto di lavoro. Tuttavia solo una parte di questa somma, circa 475mila euro, era stata oggetto di sequestro, la parte cioè ritenuta corrispondente all’indennità supplementare, mentre quella restante era stata considerata alla fine legittima, perché equivalente all’indennità di preavviso prevista dalla normativa contrattuale nazionale nel caso di licenziamento in tronco senza giusta causa. La risoluzione del rapporto di lavoro era avvenuta nel contesto di una situazione di insolvenza nella quale versava l’istituto di credito, dopo le “gravi criticità” evidenziate dalle ispezioni di Banca d’Italia tra il 2012 e il 2013 (carenze di funzionalità degli organi di governance, con ricadute sulla qualità del portafoglio crediti, sulla redditività e sul patrimonio di vigilanza, tanto da imporre un ricambio esteso degli organi medesimi). Nel primo semestre del 2014 era poi stato avviato un procedimento amministrativo a carico anche del direttore generale; con delibera del 30 giugno dello stesso anno, il cda aveva approvato l’accordo raggiunto con il manager che prevedeva il riconoscimento di un incentivo all’esodo, sostitutivo dell’indennità di preavviso e dell’indennità supplementare, ritenuto conveniente anche sulla base di un parere reso da un professionista esterno. Il riesame aveva giudicato tra l’altro che le politiche di remunerazione e incentivazione non fossero d’ostacolo, tenuto conto della necessità di ricambio. Di fronte alla contestazione del Pm per un provvedimento di sequestro solo parziale, la Corte di cassazione sottolinea l’assenza di motivazione del giudice di merito sulla qualificazione possibile dell’indennità di preavviso a titolo di bancarotta preferenziale per essere stato il direttore generale qualificato come lavoratore subordinato. Il pubblico ministero aveva sottolineato come, pur davanti a un inquadramento del manager come lavoratore subordinato, il titolo del pagamento non rientra tra quelli di lavoro espressamente disciplinati dal Codice civile a titolo di riconoscimento del privilegio generale sul credito. Pay per view, archiviazione nulla per gli spettatori abusivi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 15124/2018. È nulla la decisione con la quale il Gip ha archiviato, per particolare tenuità del fatto, il reato di violazione del diritto d’autore, commesso da chi guarda abusivamente la pay per view Premium. La Cassazione (sentenza 15124) ha accolto il ricorso di Mediaset contro la scelta del di applicare il 131-bis e archiviare de plano, dichiarando inammissibile l’opposizione del gruppo milanese senza fissare un’udienza per il contraddittorio. A finire nel registro degli indagati erano state circa 110 persone, quasi tutte residenti a Città di Castello, alle quali un’organizzazione, con sede in Liguria, girava il segnale criptato, previo compenso per il servizio offerto. I “fornitori” attraverso sofisticate apparecchiature erano, infatti, in grado di captare il segnale della tv via cavo e di “cederlo” previo pagamento. Il Pubblico ministero aveva chiesto l’archiviazione per la particolare tenuità del fatto, considerando anche dubbia la violazione del diritto d’autore da parte dei “furbetti” del telecomando. Per il Pm le condotte ascritte agli indagati erano bagatellari: minimo il beneficio economico per gli utenti e limitatissimo il danno per il titolare dei diritti televisivi. Una linea seguita dal Gip che aveva archiviato, bollando come inammissibile l’opposizione di Mediaset che sul danno aveva le idee un po’ diverse. Secondo la holding il danno poteva essere stimato in 580 milioni di euro. A supporto delle sue affermazioni Mediaset Spa chiedeva, come nuovo atto di indagine, di ascoltare le “fonti di prova” in grado di riferire sull’entità del pregiudizio economico cagionato da fatti per i quali era stato instaurato un processo penale. Secondo l’azienda ricorrente, inoltre, i giudici dovevano considerare anche tutte le azioni assunte per contrastare il fenomeno della pirateria. A supporto della tesi Mediaset, sulla nullità del provvedimento, anche il procuratore generale che ha chiesto l’accoglimento del ricorso. Ed è esattamente quanto fanno i giudici della terza sezione penale. La Suprema corte ricorda, infatti, che il provvedimento impugnato è nullo, avendo il Gip archiviato del plano, malgrado le specifiche contestazioni della parte offesa e la richiesta di indagini ulteriori. Un mancato rispetto della norma che prevede la fissazione di un’udienza camerale e un “contraddittorio”. Il Gip ha invece applicato alla sollecitazione investigativa di Mediaset, gli stessi criteri previsti nel caso, del tutto diverso, di archiviazione per manifesta infondatezza del reato. La “231” si estenderà alle frodi Iva di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2018 La direttiva 2017/1371, approvata dal Parlamento europeo il 5 luglio 2017 e recante “norme minime riguardo alla definizione di reati e di sanzioni in materia di lotta contro la frode e altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione” (meglio nota come “direttiva Pif”), mira a rafforzare la protezione delle finanze Ue attraverso l’armonizzazione delle legislazioni penali nazionali in materia e la realizzazione di un livello di tutela equivalente nei diversi Stati membri. Tra i comportamenti considerati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione (cosiddetti “reati Pif”) e che dovranno essere oggetto di criminalizzazione da parte dei legislatori nazionali entro il termine di recepimento del 6 luglio 2019, si segnalano, in particolare, le frodi in materia di Iva. In tale categoria, la nuova normativa euro-unitaria ricomprende tre tipologie di condotte illecite perpetrate in “sistemi fraudolenti transfrontalieri”: utilizzo o presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti relativi all’Iva, cui consegua la diminuzione di risorse del bilancio Ue; mancata comunicazione di un’informazione relativa all’Iva in violazione di un obbligo specifico, cui consegua lo stesso effetto; presentazione di dichiarazioni esatte relative all’Iva per dissimulare in maniera fraudolenta il mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborsi dell’Iva. Tuttavia, la direttiva si applicherà - per espressa scelta del legislatore europeo - “unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell’Iva”, ovvero alle condotte illecite di carattere intenzionale che comportino un danno complessivo pari ad almeno dieci milioni di euro e siano connesse al territorio di due o più Stati membri. Tra le altre cose, la direttiva prevede poi l’obbligo per gli Stati membri di introdurre le misure necessarie affinché le persone giuridiche, nel cui interesse siano commessi i reati Pif, “possano essere ritenute responsabili”. I legislatori nazionali, dunque, sono chiamati a predisporre fattispecie adeguate allo scopo e a prevedere l’irrogazione, in capo agli enti collettivi, di “sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive”. Tra queste, in particolare, la direttiva menziona, oltre alle sanzioni pecuniarie, anche misure di carattere interdittivo (che spaziano dall’esclusione dal godimento di un beneficio/aiuto pubblico fino alla chiusura, temporanea o permanente, degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato), e provvedimenti quali l’assoggettamento a sorveglianza giudiziaria e lo scioglimento dell’ente. È prevista, inoltre, l’adozione delle “misure necessarie per consentire il congelamento e la confisca degli strumenti e dei proventi” dei reati Pif. Nel nostro ordinamento, l’attuazione della direttiva sembra destinata a impattare in misura significativa sul sistema della responsabilità da reato degli enti, che attualmente non contempla, tra i reati-presupposto, i delitti tributari. L’estensione (doverosa, stante il tenore inequivoco della direttiva) della responsabilità degli enti alle frodi Iva “gravi” consentirebbe di arginare, almeno in parte, i tentativi della giurisprudenza di ricondurre, per via interpretativa, i reati tributari nell’alveo del decreto 231. Ci si riferisce, da un lato, all’orientamento secondo cui i delitti di frode fiscale e il delitto di truffa in danno dello Stato (fattispecie, quest’ultima, prevista tra i reati-presupposto) potrebbero concorrere tra loro e, dunque, essere contestati simultaneamente all’ente (interpretazione respinta nel 2010 dalle Sezioni Unite della Cassazione); e, dall’altro lato, alla tesi (più recente, ma comunque sconfessata dalla Suprema corte) secondo la quale i delitti tributari sarebbero ascrivibili all’ente per il tramite del delitto di associazione per delinquere (previsto quale reato-presupposto dal decreto 231 e, nel caso di associazione per delinquere transnazionale, dalla legge 146/2006), muovendo dalla semplice considerazione per cui qualsiasi delitto, ove perpetrato nell’ambito di un’associazione criminosa, potrebbe costituire il fine illecito di tale reato e quindi essere sanzionato, seppur indirettamente, ai sensi del decreto 231. L’introduzione delle frodi Iva “gravi” nel catalogo ex Dlgs 231/2001, peraltro, potrebbe spingere il legislatore a valutare anche, per esigenze di uguaglianza e ragionevolezza, l’allargamento del sistema 231 all’intera materia penale-tributaria. Riesame sequestro: ricorre in Cassazione la parte civile non avvisata dell’udienza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 5 aprile 2018 n. 15290. Il difensore della parte civile ha diritto di ricevere l’avviso e di partecipare all’udienza fissata dal tribunale, sulla richiesta di riesame proposta dall’imputato contro il sequestro conservativo. Se questo non avviene si apre la strada del ricorso per Cassazione contro l’ordinanza con la quale viene annullato o revocato, in tutto o in parte, il sequestro al solo scopo di fare accertare la nullità. Le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 15290, affrontano due distinti problemi e offrono la soluzione. Il primo nodo affrontato riguarda il dovere di spedire, pena la violazione del diritto al contraddittorio da assicurare alle parti, l’avviso dell’udienza davanti al tribunale del riesame che deve decidere sull’impugnativa contro l’ordinanza che ha applicato il sequestro conservativo. Il secondo chiarimento è relativo alla possibilità o meno per la parte civile di proporre ricorso in Cassazione, nel merito come previsto dall’articolo 325 del Codice di rito penale, contro la decisione di annullare o revocare il sequestro conservativo. Per quanto riguarda il tema delle regole da rispettare nel procedimento di riesame dei provvedimenti di natura reale - sottolinea il Supremo collegio - tutto ruota attorno all’interpretazione da dare all’articolo 324 del codice di rito penale (comma 6) che contiene una doppia previsione. Nel primo periodo del comma il richiamo all’articolo 127 sulle forme, nel secondo l’elencazione dei soggetti legittimati a partecipare al giudizio del riesame: pubblico ministero, difensore, soggetto che ha proposto la richiesta. Da una lettura testuale dunque, ammettono i giudici, nessun appunto potrebbe essere mosso nel caso, come quello in esame, in cui l’avviso era stato dato al Pm e al difensore dell’imputato che aveva impugnato l’ordinanza di sequestro conservativo emessa dal Gip, su richiesta della parte civile. Le Sezioni unite forniscono però una lettura, costituzionalmente orientata, della disciplina del contraddittorio da assicurare nel procedimento di riesame, che fa leva sulla disposizione generale dettata dall’articolo 127 del codice di rito penale. I giudici concludono dunque per l’esigenza di assicurare il contraddittorio a tutti i soggetti interessati alla decisione, tra i quali va inserita, senza dubbio, la parte civile che ha ottenuto in prima battuta il riconoscimento delle sue ragioni cautelari, a tutela del credito attraverso l’emissione dell’ordinanza di sequestro conservativo. Il passo successivo compiuto dai giudici è ricordare la nullità del provvedimento se la parte civile non “coinvolta” non partecipa all’udienza. Questa può dunque impugnare davanti ai giudici di legittimità la decisione presa, sempre ovviamente che la danneggi. Le Sezioni unite sottolineano che l’interesse processuale c’è anche in caso di parziale modifica del provvedimento in senso contrario all’istanza della parte civile: anche in tal caso ci sarebbe, infatti, una riduzione delle garanzie di cui è titolare. Il medico specialista non deve limitarsi a prescrivere indagini del proprio campo di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 5 aprile 2018 n. 15178. Il medico specializzato non deve limitarsi a far eseguire al paziente solo esami clinici riguardanti il proprio settore, ma a fronte dei sintomi manifestati dal paziente deve avere quella flessibilità che porti a considerare patologie che non sono del proprio campo e a sottoporre il paziente ad ulteriori e differenti accertamenti. In caso contrario sussiste la responsabilità medica per negligenza o imprudenza. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 15178/18. La vicenda - Nel caso concreto una paziente si era rivolta a un famoso neurologo in funzione dei continui svenimenti. Il professionista, tuttavia, rimanendo esclusivamente nel campo della neurologia aveva prescritto alla paziente un accertamento (cosiddetto “Tilt test”) e se questo fosse andato bene la paziente poteva considerarsi “sana come un pesce”. Ma così non è andata. Questo perché l’esame aveva dato esito negativo, il soggetto continuava ad avere svenimenti e la vicenda si era conclusa con il decesso del paziente per problemi cardiaci. Sul punto il professore di neurologia si era difeso eccependo che la paziente non avesse eseguito l’esame presso la struttura da lui individuata, ma ne avesse scelta un’altra di proprio arbitrio. I giudici di merito avevano già rilevato come l’esame condotto in una struttura diversa non avesse alcuna rilevanza. L’errore commesso dal medico era quello di non aver pensato a un’origine cardiaca degli svenimenti e quindi di sottoporre il paziente a un esame elettrocardiografico. A tal proposito la difesa aveva ritenuto che sulla base di quanto previsto dalla legge Balduzzi (articolo 3 della legge 189/2012) il giudice avrebbe dovuto ravvisare nel caso in esame un’ipotesi di colpa lieve. La norma prevede espressamente che l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attenga alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. La colpa lieve - Tuttavia - si legge nella sentenza - in materia si è formato un orientamento secondo cui la colpa lieve debba essere esclusa nei casi in cui sia ravvisabile una violazione del dovere di diligenza. Quindi la limitazione della responsabilità va ravvisata nei soli casi in cui il professionista abbia agito secondo la best practice senza che ci sia stato alcun errore diagnostico connotato da negligenza o imprudenza. Respinto in definitiva il ricorso del professionista. Galeotta fu la salute e chi la incarcerò di Nicola Mastrogiacomo lamedicinainunoscatto.it, 6 aprile 2018 Sono un medico e lavoro in uno delle tante carceri italiane. Oggi vi scrivo per condividere una fotografia attuale di quella che è la loro condizione. La Costituzione Italiana pone la salute come “fondamentale diritto dell’individuo” e giudica che tendere ad essa è “interesse della collettività” (Articolo 32). Eppure possiamo definire le carceri come delle zone d’ombra. Zone grigie, in cui ci si accontenta delle pochissime risorse che si hanno a disposizione, in cui non esiste la prevenzione ma ci si accorge della malattia a stato conclamato e acuto. E se il presupposto è quello di una salute come valore fondante di un individuo, come potremmo accettare tacitamente questo? La situazione nelle carceri è cambiata quando nel 2008 sono state trasferite al Servizio Sanitario Nazionale tutte le funzioni sanitarie svolte fino ad allora dal Dipartimento penitenziario. Eppure, le cose al giorno d’oggi rimangono di grande emergenza nonostante qualche mese fa siano stati estesi i Lea (Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria forniti dallo stato) anche ai carcerati andando ad aumentare ed innalzare il supporto sanitario dietro le sbarre. Per comprendere meglio l’emergenza in cui ci troviamo prendiamo in considerazione alcuni dati presi da uno studio multicentrico tra più regioni pubblicato nel 2015. Il 70% dei detenuti fuma, con tutte le conseguenze patologiche e prognostiche che ne conseguono. Quasi il 45% è obeso o sovrappeso anche a causa della poca attività fisica e della predisposizione alla sedentarietà. Il 14,5% è affetto da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie. Di queste l’Epatite C ne fa da padrona, ma proprio grazie all’estensione dei Lea, sarà possibile trattare con i nuovi farmaci le forme più gravi. La tubercolosi è presente 20 volte di più che all’esterno. Tra queste malattie c’è poi tutta la parte psicologica che merita una menzione a sé. Ben oltre il 40% dei carcerati presenta almeno una patologia psichiatrica e circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio. Infatti, è proprio quest’ultimo il dato che ci dovrebbe far rabbrividire. Dal 2000 ad oggi su 2749 morti in carcere 992 sono morti suicidi, ben più di un terzo. Il suicidio è la prima causa di morte dietro le sbarre. E per questa grave sconfitta della modernità qualcosa si può fare. Negli anni 80, gli Stati Uniti d’America avevano il nostro stesso tasso di suicidi ma, tramite percorsi di formazione del personale nel riconoscere i primi stati di angoscia e depressione e nel conoscere manovre di primo soccorso, si è riusciti a ridurlo del 70%. Dimenticarsi che il carcere non ha solo funzione punitiva ma anche rieducativa è uno dei più grandi errori che possiamo compiere. Non si può dare per scontata una cosa del genere. Chi entra in carcere ci entra per pagare un errore che la legge ha ritenuto punibile. Ma all’interno di quelle mura, il detenuto deve imparare anche a migliorare la sua condizione, a capire i suoi errori ed evitare di ricommetterli una volta fuori. Proprio parlando di rieducazione, ad esempio, per quanto riguarda la tossicodipendenza vi sono studi che ci fanno comprendere come proprio il 70-98% dei detenuti, incarcerati per reati connessi alla droga, ricade entro 12 mesi nella tossicodipendenza se non supportati e curati con percorsi specifici dietro le sbarre. Pensare che quasi un carcerato su due abbia problemi di natura psichica non ci dovrebbe fare interrogare su come li stiamo trattando? Su come stanno vivendo? Ognuno di loro se è lì di certo ha commesso degli errori e, gravi o lievi che siano, vanno condannati a pieno. È giusto che loro stiano scontando la loro condanna, ma è profondamente sbagliato che non la stiano affrontando con la stessa dignità di esseri umani con la quale hanno messo piede in quelle mura. Si valuta il progresso, la modernità e l’eticità di uno stato dal modo in cui tratta le donne e i suoi carcerati. È davvero questo lo stato in cui vogliamo vivere? Lazio: stranieri in carcere, i reati sono minori ma i problemi sono grandi retisolidali.it, 6 aprile 2018 Il rapporto delle Caritas del Lazio, “Un mondo in un altro”, fa il punto, a partire dall’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. Contrastare l’esclusione dei detenuti stranieri e migliorare l’efficienza di operatori e volontari che lavorano all’interno dei principali istituti penitenziari del Lazio. È stato questo l’obiettivo del progetto “Un mondo in un altro”, realizzato dalla delegazione regionale della Caritas che per un anno, con i suoi volontari, è stata a fianco dei cittadini stranieri reclusi nelle carceri di Roma, Velletri, Latina, Cassino e Viterbo, ascoltando i loro bisogni e fotografando le criticità di un sistema giudiziario carente sotto diversi aspetti. Il nostro è un Paese che porta ancora sulle spalle le due gravi condanne, emesse dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo che nel 2009 e nel 2013 hanno accusato il nostro Paese di “trattamenti inumani e degradanti in relazione al sovraffollamento delle nostre carceri”. I decreti legge di giugno e dicembre 2013, successivi alla sentenza, hanno cercato di arginare il fenomeno limitando il ricorso alla custodia cautelare, ampliando l’accesso alle misure alternative e aumentando le possibilità di liberazione anticipata per buona condotta. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accusato l’Italia di “trattamenti inumani e degradanti” nelle carceri. Ma la situazione è ancora critica: secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Giustizia, nei 191 istituti di pena italiani risultano presenti 55.381 detenuti, a fronte di una capienza ottimale di 50.174 (incluse le celle non agibili per lavori di manutenzione). La Regione Lazio, con quattordici istituti penitenziari e 5.891 detenuti, è terza dopo Lombardia e Campania per numero di presenze. Più di tremila detenuti si trovano concentrati nelle carceri di Roma, soltanto a Regina Coeli e Rebibbia Nuovo Complesso ci sono oltre 2.500 persone. Reati di sopravvivenza. Una particolare attenzione, va però rivolta alle condizioni dei detenuti stranieri, che rappresentano il 33,45% della popolazione carceraria, un numero molto superiore alla media europea che si attesta al 21%. I detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane hanno commesso reati minori rispetto agli italiani: 8.607 i reati contro il patrimonio, 6.922 contro la persona, 6.571 in violazione della legge sulle droghe, 1.372 in violazione della legge per gli stranieri, solo 95 delitti di mafia. Secondo l’associazione Antigone, tali reati dimostrano che “la devianza degli stranieri si connota per essere strettamente connessa a fattori economici e a ridotte possibilità di sostentamento. In altre parole, non potendo lavorare perché irregolari, e non potendo regolarizzarsi, la scelta dell’azione illecita (compreso il rischio di incarcerazione) risulta un’opzione di sopravvivenza”. Il permesso di soggiorno. Un altro ostacolo per i detenuti stranieri emerso dal rapporto Caritas è la non possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno durante il periodo di detenzione. La legislazione italiana in materia di immigrazione (Testo Unico 286/98) non prevede, infatti, procedure specifiche che consentano di rinnovare il permesso di soggiorno di un cittadino straniero regolare che si trova in stato di detenzione presso un Istituto penitenziario. Anche se le modifiche normative degli ultimi anni rendono più flessibile la legge (prima di un’espulsione si considerano diversi fattori) resta il fatto che uscito dal carcere il migrante può trovarsi privo di ogni tutela. “Per questo motivo”, spiega Caterina Boca (sportello legale Caritas di Roma), occorre, da una parte, consentire al cittadino straniero titolare di permesso di soggiorno di poter richiedere il rinnovo del suo documento proprio durante il trattenimento nell’istituto penitenziario, dall’altra bisogna metterlo nelle condizioni di venire a conoscenza dei propri diritti e doveri rispetto alle procedure amministrative relative alla propria condizione giuridica di migrante in Italia”. I minori. L’alto tasso di incarcerazione dei cittadini stranieri riguarda anche gli istituti minorili. Se da un lato il totale dei detenuti minori va diminuendo, crescono le cifre riguardanti gli stranieri: nel 2011 i minori italiani segnalati ai servizi sociali erano 16.884 mentre oggi sono scesi a 15.729. Invece gli stranieri sono 4.521 mentre nel 2011 erano 3.273. Sempre l’associazione Antigone ha evidenziato il rischio che tra questi minori carcerati “ci siano ragazzi migranti che, dopo un viaggio drammatico, sono stati accusati di essere scafisti solo perché indicati dal vero scafista (assente sull’imbarcazione) come coloro che dovevano reggere il timone o svolgere altre piccole mansioni a bordo”. La formazione. Le buone prassi emerse dal progetto Caritas “Un mondo in un altro” mettono al primo posto la formazione di operatori e volontari, che stanno a stretto contatto con i detenuti. “Meno sai, più rischi di alimentare le aspettative”, sottolinea Caterina Boca. “Il pericolo è che, non conoscendo le leggi, le normative, si rischia di dire una cosa per un’altra. Per cui la formazione è utile sia per aiutare meglio, sia per evitare di sbagliare nei percorsi di assistenza che si fanno. Quanto sia importante la formazione ce lo dimostra quanto accaduto a Viterbo, dove i colleghi sono riusciti ad organizzare la formazione con il personale dell’istituto penitenziario e pur essendo di sabato mattina c’era molto personale e tutti molto interessati, al punto che ci hanno anche chiesto di tornare”. Nuoro: la direttrice di Badu e Carros “ora questo è un carcere a misura d’uomo” di Luca Urgu L’Unione Sarda, 6 aprile 2018 Inaugurata l’ala che a breve ospiterà altri 97 detenuti di massima sicurezza: ci sono palestra, barberia e aula didattica. Una struttura nuova di zecca nel vecchio carcere che a giorni attende i primi ospiti. Quaranta già dalla prossima settimana, poi seguiranno gli altri a scaglioni fino a raggiungere la massima capienza, prevista con la copertura dei 97 posti disponibili. Finalmente decorosa, spaziosa e luminosa con un’area trattamentale al primo piano con una palestra attrezzata, barberia, aule per la didattica e l’infermeria. Insomma, un salto in avanti rispetto al passato caratterizzato da celle anguste e insalubri capaci, assieme alle altre restrizioni, di annientare la persona durante la detenzione. Oggi la scelta, anche di natura architettonica, sembra seguire indirizzi mirati a venire incontro maggiormente ai diritti dei reclusi. In poche parole l’umanizzazione della pena. Saranno - una volta a regime - un centinaio i detenuti - tutti della sezione massima sicurezza e appartenenti alla criminalità organizzata che occuperanno gli spazi appena realizzati dell’area costruita ex novo del carcere di Badu e Carros di Nuoro. Celle con due tre letti e un bagno ampio con doccia e riscaldamento sotto il pavimento. Ma se tra poco più di meno la popolazione carceraria crescerà sensibilmente non è però previsto un rinforzo nei ranghi degli agenti di polizia penitenziaria. Un timore reso palese anche ieri dai rappresentanti delle varie sigle sindacali preoccupati per l’ingente carico di lavoro e per la difficoltà di coniugare sicurezza e affidabilità con gli organici oggi decisamente insufficienti. È stato inaugurato ieri mattina il nuovo braccio del carcere nuorese, dopo anni di lavori andati avanti a singhiozzo fin al decisivo sprint finale. Il taglio del nastro è avvenuto alla presenza delle autorità civili, con in testa il sindaco di Nuoro Andrea Soddu, e religiose (con il vescovo Mosè Marcia) del territorio che hanno voluto toccare con mano quanto di buono si possa fare per migliorare la qualità della detenzione. A fare gli onori di casa la direttrice Patrizia Incollu e il provveditore regionale alle carceri Marcello Veneziano, anni fa anche lui direttore a Nuoro in una stagione particolarmente complessa. Ieri, durante il rapido sopralluogo nei rinnovati spazi, i dirigenti non hanno nascosto quello che si diceva ormai da settimane sulla tipologia dei detenuti che arriveranno nel padiglione. “Saranno 97 e arriveranno in parte dal carcere di Massama e gli altri dai penitenziari della penisola. Tutti appartengono alle associazioni criminali, prevalentemente camorra, mafia e ndrangheta”, ha rimarcato Veneziano che non paventa alcun timore per la presenza in massa di detenuti di questa tipologia. “Ormai un terzo dei reclusi delle carceri sarde appartengono alla criminalità organizzata e la tenuta del sistema non ha mostrato pecche né particolari problemi di tenuta - ha ribadito il provveditore regionale, siamo dunque tranquilli che sarà così anche con i nuovi arrivati, malgrado la carenza di organici”. La direttrice Incollu dal canto suo ha voluto rimarcare il nuovo corso che il padiglione di fatto inaugura. “Il segno del cambiamento è chiaro dall’apertura di una struttura moderna, spaziosa ed efficiente che intende tutelare la dignità del detenuto”. Saluzzo (Cn): la Garante dei detenuti “al carcere Morandi poche luci, tante ombre” di Susanna Agnese corrieredisaluzzo.it, 6 aprile 2018 La relazione della Garante Bruna Chiotti. Nel Consiglio comunale di mercoledì 21 marzo Bruna Chiotti ha illustrato la situazione di una comunità saluzzese di cui si parla poco, dove al 31 dicembre scorso risultavano residenti 344 persone, tutti uomini, e nella quale l’incidenza degli stranieri é del 37,54%. Si tratta del carcere Morandi di Regione Bronda dove da due anni la Chiotti svolge, a titolo di volontariato, il ruolo di garante comunale dei diritti delle persone detenute. Tra le numerose attività svolte, le tante iniziative ed i sopralluoghi ai quali ha partecipato la garante nel 2017 spiccano i 159 colloqui con i detenuti che offrono una fotografia dal basso delle difficoltà e criticità del carcere cittadino. Ad esempio la situazione in cui sono costretti a lavorare i detenuti addetti alla cucina, in un locale con impianto elettrico inadeguato sia dal punto di vista funzionale che della sicurezza, con perdite d’acqua ovunque e cappe di aspirazioni che non funzionano da anni. “Paradossalmente, a fianco della vecchia cucina, da un anno chiamata a soddisfare le esigenze di due padiglioni e dei relativi ospiti, è presente una nuova cucina non attivata, ma attrezzata” scrive la garante nella relazione presentata in consiglio comunale. L’anno scorso al “Morandi” sono avvenuti due suicidi, un tentativo di suicidio con gravi conseguenze ed altri comportamenti autolesionistici o di aggressività verso il personale, episodi estremi di un disagio che può derivare dall’incapacità del singolo di accettare la realtà del carcere, dalla mancanza di prospettive future, dall’abbandono della famiglia, ma anche, scrive Bruna Chiotti, ‘dalla mancanza di risposte da parte del Magistrato di sorveglianza o perché é mancata la capacità di ascolto da parte degli operatori’. Poco meno di un quarto delle persone che al 31 dicembre scorso si trovavano recluse al Morandi (90 su 344) nel giro di due anni usciranno dal carcere (25 entro un anno) ed aspirano a rifarsi una vita diversa: Ma se non c’é la famiglia, un’associazione, una cooperativa... tutte le buone intenzioni ed i propositi maturati in carcere naufragano nell’impatto con la realtà esterna. Per questo é fondamentale che la pena sia costruttiva ed accompagni la persona in un percorso di responsabilizzazione, impresa non facile se si considera che il carcere saluzzese può contare su appena tre educatori per 350 detenuti, una “grave carenza che impedisce di fatto di svolgere un ruolo riabilitativo o immaginare un percorso di inserimento esterno sia lavorativo sia di fine pena”. Tanti progetti, anche ambiziosi, che vanno nella direzione di un inserimento lavorativo si arenano sovente per difficoltà tecniche e burocratiche: il birrificio interno gestito da Pausa Caffè, ad esempio, inaugurato in un clima di entusiasmo quasi nove anni fa, dà lavoro ad un solo detenuto mentre é quasi naufragata “per mancanza di soluzioni o per negligenza” l’ipotesi di collaborazione con la ditta Sebaste che avrebbe potuto creare posti di lavoro all’interno del carcere; non ha trovato attuazione neanche l’installazione di una struttura per il compostaggio dei rifiuti organici prodotti in carcere (una proposta del Comune), che avrebbe potuto impiegare i detenuti e produrre reddito. Nell’elenco dei progetti rimasti al palo c’é anche l’orto sociale che, spiega la garante, “potrebbe dare lavoro a una decina di detenuti che hanno seguito il corso di giardinaggio ma... non è ancora operativo per mancanza di sostegno economico e dei fondi necessari per iniziare l’attività”. Se a questo aggiungiamo la distanza non solo fisica ed il muro di indifferenza, se non di pregiudizi, che separa il carcere Morandi dai cittadini saluzzesi, il quadro tracciato dalla garante è tutt’altro che incoraggiante. Tra i progetti che hanno funzionato, invece, c’è l’ospitalità della Casa di Donatella, il bilocale di proprietà comunale gestito dall’associazione Liberi dentro che nel 2017 ha registrato una novantina di presenze di detenuti in permesso o parenti in visita al congiunto in carcere. Nonostante le criticità, Bruna Chiotti ha rilanciato la speranza con la proposta di valorizzare le competenze dei detenuti allievi dei corsi di ristorazione aprendo un punto ristoro negli spazi dello spaccio interno al carcere, sull’esempio di “Libera mensa” presso il carcere Lorusso-Cotugno di Torino. Al termine della relazione i consiglieri Fiammetta Rosso e Aldo Terrigno per la maggioranza, Domenico Andreis e Carlo Savio per la minoranza, hanno ringraziato la garante per il lavoro svolto. E Savio ha aggiunto: “Il carcere non è cosa isolata ma dev’essere integrato: chi ha sbagliato non deve essere rigettato dalla società. Più ci sono lavoro ed istruzione e più c’è possibilità di non reiterare i reati”. Lucera: al via Corso di formazione come addetto alla ristorazione lucerabynight.it, 6 aprile 2018 I destinatari sono 10 detenuti, più un detenuto con il ruolo di mentore e acquisiranno competenze spendibili nel mondo del lavoro, relative al settore della ristorazione, dalla preparazione e cottura di cibi, alla conoscenza delle attrezzature e dei servizi vari afferenti alla ristorazione. Inoltre, acquisiranno conoscenze relative all’aspetto merceologico, alimentare, di sicurezza sul posto di lavoro e di capacità relazionali con il cliente. È stato avviato il Corso di formazione per “Addetto alla ristorazione”, nell’ambito dell’iniziativa sperimentale di inclusione sociale per le persone in esecuzione penale” della Regione Puglia (Avviso pubblico n. 1/2017). Il corso avrà la durata di 1 anno, per un totale di 1000 ore e sarà gestito dall’Ente di Formazione I.R.F.I.P. di Pietramontecorvino (Fg). Si articolerà in un modulo specifico di 900 ore, integrato da 100 ore di “accompagnamento e sostegno educativo all’utenza svantaggiata”. Bari: Ipm “Fornelli”, così i minorenni si ricostruiscono una vita in carcere di Natale Cassano baritoday.it, 6 aprile 2018 Tante le iniziative per il reinserimento sociale organizzate all’interno dell’Ipm “Fornelli” di Bari. A maggio Made in carcere commercializzerà le “Scappatelle”, che garantiranno un reddito a tre adolescenti dell’istituto penitenziario. “I ragazzi non vanno lasciati da soli. Bisogna fargli capire che hanno sbagliato, ma insegnargli al contempo che dopo il carcere c’è tutta una vita davanti”. Ne è sicura Luciana Delle Donne, creatrice del marchio “Made in carcere”, con il quale dal 2004 organizza progetti sociali in favore dei detenuti. Iniziative che prima hanno riguardato esclusivamente gli adulti rinchiusi nel carcere barese, ma che negli ultimi due anni hanno abbracciato anche i minorenni dell’istituto penitenziario “Fornelli”. Le “Scappatelle” - L’ultimo progetto messo in campo è quello delle “Scappatelle”. Un nome particolare, se pensiamo che è rivolto ai 32 ospiti del carcere minorile, ma che invece richiama l’idea di scappare dalla realtà di straniamento che può portare la vita da galeotto, ancora di più per un ragazzo in età adolescenziale. “L’idea è quella di insegnare loro un mestiere - spiega la Delle Donne - Per questo abbiamo pensato alla cucina e in particolare a dei biscotti vegani, realizzati in un laboratorio del carcere senza latte e uova”. La vera via di uscita delle Scappatelle però, è la consapevolezza di ottenere finalmente un guadagno. I tre ragazzi che al momento partecipano al progetto - “ma in futuro ci piacerebbe estendere il numero dei partecipanti” assicura l’imprenditrice - avranno un regolare contratto e uno stipendio per le ore passate a sviluppare le loro arti pasticcere”. Come ogni lavoro che si rispetti, i loro guadagni deriveranno dalla vendita dei biscotti, che da maggio approderanno nei supermercati della catena Megamark, supporter del progetto che ha anche comprato il forno con cui i piccoli pasticceri realizzano le loro creazioni. “Questi mesi sono serviti a curare la loro preparazione e il packaging del progetto - spiegano da Made in Carcere - e non è l’unica iniziativa organizzata per far vivere loro la quotidianità di tutti gli adolescenti”. Cinema e calcio - All’interno del Fornelli, infatti, vengono anche organizzate attività ludiche mensili. Dal film accompagnato dall’immancabile bevanda e popcorn, alla partita di pallone. “Ogni tre mesi organizziamo un torneo per i 32 ospiti dell’istituto penitenziario” racconta la Delle Donne. Partite a cui nel 2017 hanno partecipano non solo i giovani detenuti, ma anche gli alunni degli istituti sul territorio. L’ultimo torneo si è tenuto lo scorso mese - “90° in carcere” il nome dell’iniziativa: un triangolare tra le squadre rappresentanti il carcere minorile, la Bosch Bari e la Commissione Sport del Comune. Prima del calcio d’inizio la Bosch ha anche donato alla squadra ospitante un kit sportivo realizzato dalle 20 detenute che partecipano ai progetti dell’associazione, “alle quali viene offerto un percorso formativo - raccontano - con lo scopo di un definitivo reinserimento nella società lavorativa e civile”. Ragazzi ai fornelli - La cucina rimane comunque una delle attività preferite per il reinserimento sociale dei piccoli. Non solo per il laboratorio di pasticceria della Made in carcere - che in futuro potrebbe abbracciare anche la produzione di alimenti salati, ma anche per i corsi di addetto alla cucina organizzati dalla Onlus Anthea, che nel 2016 aveva lanciato il progetto “Fornelli Biomediterranei”: 320 ore, con lezioni pratiche e teoriche su sicurezza del lavoro, igiene e sicurezza alimentare, merceologia degli alimenti, sistemi di autocontrollo Haccp, tecniche di conservazione e di cottura, gestione e approvvigionamento della dispensa. Corsi che poi sono proseguiti anche negli ultimi due anni, insegnando ai ragazzi che oltre le mura del carcere c’è una nuova vita, lontana dalla criminalità e dagli errori del passato. Torino: otto detenuti hanno chiesto asilo politico torinoggi.it, 6 aprile 2018 Grazie a una convenzione che permette ai carcerati stranieri di fare un percorso per richiedere la protezione umanitaria. Sono otto gli stranieri rinchiusi nel carcere di Torino che, nel primo anno del progetto, hanno fatto richiesta di asilo: per 4 di loro l’iter continua ad andare avanti. È questo il quadro emerso durante l’incontro che si è svolto in Sala Colonne sul tema “Immigrazione e diritto di asilo dentro e fuori”. Un’occasione per il rinnovo della convenzione tra International University College (Iuc), Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” e Garante delle Persone private della Libertà Personale della Città di Torino, che permette ai carcerati stranieri di fare un percorso per richiedere la protezione umanitaria. Un’iniziativa, come ha spiegato la Garante per i diritti delle persone detenute Monica Gallo, derivata dalla richiesta “di un detenuto che riteneva di correre un grave pericolo nel ritornare al suo Paese”. Roma: comunicato dello “Sportello per i diritti” dell’Associazione Antigone Ristretti Orizzonti, 6 aprile 2018 I colloqui in carcere rappresentano l’unico momento di reale contatto tra detenuto, congiunti o altre persone. In particolare, grazie anche ai colloqui con persone diverse dai congiunti, i detenuti possono proseguire o avviare relazioni con il mondo esterno fondamentali per il loro reinserimento. A tal fine, l’Ordinamento Penitenziario sancisce che “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone […]” ed il regolamento di esecuzione ribadisce che i colloqui con terze persone “sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi”. In definitiva, i colloqui tra detenuti e “terze persone” sono favoriti dalla normativa, che difatti non vi pone alcuna preclusione. A dispetto di ciò, in data 28.3.2018, la Direzione dell’istituto di Roma Rebibbia N.C. ha emesso un ordine di servizio decisamente restrittivo. Invero, ai sensi di questo provvedimento “saranno valutate ed autorizzate dal Direttore solamente nel caso in cui l’interessato non effettui colloqui con i propri familiari”. È di tutta evidenza che si tratta di una limitazione che si pone contrasto con quanto sancito dalla normativa in materia. Per tale ragione auspichiamo che la Direzione riveda al più presto questa sua decisione. Roma: giardinieri contro detenuti a Villa Ada, rimosso il capo di Cecilia Gentile La Repubblica, 6 aprile 2018 Doveva essere il primo giorno di servizio a Villa Ada per i detenuti “ingaggiati” dal Campidoglio per la pulizia dei parchi. Ma il debutto è stato un flop. E non certo per loro responsabilità. “Intorno alle 9 della mattina - racconta Alessandro Leone, presidente dell’associazione Leprotti di Villa Ada, che ieri ha assistito all’accaduto - sono arrivati due pullman della polizia penitenziaria, scortati da varie volanti. Gli agenti hanno atteso una buona mezz’ora che si facesse vivo l’addetto del Servizio giardini responsabile della villa. Alla fine gli agenti lo hanno rintracciato telefonicamente. C’è stato un lungo scambio, poi i pullman hanno fatto dietrofront e se ne sono andati”. Dalla ricostruzione a posteriori, il Servizio giardini si sarebbe fatto trovare completamente impreparato all’arrivo dei detenuti, sprovvisto anche degli strumenti necessari agli interventi. Alle legittime rimostranze del Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria, la sindaca Virginia Raggi ha risposto sostituendo il responsabile. Oggi i detenuti ci riprovano. Genova: “Desdemona non deve morire”, attori detenuti in scena il 10 aprile lavocedigenova.it, 6 aprile 2018 Associazione Teatro Necessario Onlus e Casa Circondariale Genova Marassi per uno spettacolo al Teatro della Corte. Che succede quando un personaggio shakespeariano appare dietre le sbarre di un carcere? Lo scopre il regista Sandro Baldacci grazie al lavoro realizzato con gli attori detenuti di Marassi. Al Teatro della Corte, martedì 10 aprile, ore 20,30, lo spettacolo dell’Associazione Teatro Necessario Onlus in collaborazione con la Casa Circondariale Genova Marassi: “Desdemona non deve morire”, di Fabrizio Gambineri e Sandro Baldacci, da “Otello” di William Shakespeare. Con la Compagnia Teatrale Scatenati. Racconta il regista Sandro Baldacci: “In questo spettacolo, dopo aver affrontato il tema della reclusione manicomiale in Padiglione 40 e quello della giustizia in Billy Budd, la compagnia degli Scatenati, citando palesemente il film dei fratelli Taviani Cesare deve morire, affronta questa volta il tema della violenza di genere. In un contesto sociale in cui la violenza sulle donne occupa quotidianamente un posto di primo piano nella cronaca nera, questa rivisitazione visionaria di Otello, l’archetipo shakespeariano di tutte le gelosie, si prefigge lo scopo di scandagliare le deviazioni psicologiche che possono spingere un uomo a trasformare il più bel sentimento del mondo in un incubo atroce. Senso del possesso, megalomania, rifiuto di immedesimarsi nell’altro, incapacità di affrontare la realtà del cambiamento. Queste le storture che, unite a pochezza intellettuale, spingono gli autori delle violenze a ritenere di potersi erigere a giudici e carnefici delle proprie vittime, trasformando così le loro esistenze, parafrasando Bernardo Bertolucci, in tragedie di uomini ridicoli”. Violenza domestica. Polizia e criminologi perché sia davvero “l’ultima volta” di Deborah Brizzi Corriere della Sera, 6 aprile 2018 Siglato a Milano tra Questura e Cipm il protocollo per l’ ingiunzione trattamentale: perché chi maltratta possa fermarsi prima. “Oh! Non permetterti mai più, eh?! La prossima volta che chiudi così ti prendo a pugni in faccia!”. Sono solo due delle decine di registrazioni fatte da - useremo nomi di fantasia - Vittoria, perseguitata dall’ex compagno che non si rassegnava alla fine della loro relazione. Quelli riportati sono stralci di telefonate fatte dal persecutore a suo figlio minorenne, manipolato, sfruttato come pretesto per tenere sotto controllo i movimenti di Vittoria. La storia tra Vittoria e Antonio - così lo chiameremo - inizia vent’anni fa, sono ragazzi di periferia, quella periferia milanese che troppo spesso abitua le persone alla violenza e al sopruso. Vittoria si accorge presto che Antonio è geloso, troppo geloso. Ossessionato. Ma lascia correre, fanno un figlio insieme ed è più importante, quel figlio che poi verrà strumentalizzato dal padre, quello stesso che assisterà disperato ai maltrattamenti, agli insulti agiti contro la madre, ha dodici anni oggi e forse diventerà l’ennesimo prodotto di quella violenza assistita. Assorbita. Vittoria prova diverse volte a separarsi da Antonio ma torna sempre sui suoi passi perché si sente forte, tanto da far cambiare Antonio che giura e spergiura, ogni volta, “questa è l’ultima volta”. Nel 2009 nasce il loro secondo figlio ma le cose non cambiano, Vittoria è disperata e nel 2015, il 3 marzo del 2015, prende il coraggio a due mani e va a denunciare Antonio. Non ne può più e quella volta lui l’ha picchiata duro. Il 3 marzo 2016, esattamente un anno dopo, nascerà la loro terza figlia. Sì, perché dopo la denuncia Antonio si trasforma in un angelo e nonostante Vittoria si sia trasferita dai suoi genitori, lui la persuade a tornare a casa, “questa è l’ultima volta”. Ma dura poco, la situazione degenera dopo la nascita di Aurora, lui è sempre più irritabile, geloso, controllante. Lei torna a vivere con i suoi genitori ma lui non demorde, con la scusa di voler stare con i figli chiama a qualsiasi ora del giorno e della notte sui cellulari dei bambini, si presenta dietro la porta di casa e cerca di entrare, batte forte, tanto da terrorizzare tutti. Vittoria, i bambini, i suoi genitori. Finalmente Vittoria si decide: a febbraio di quest’anno chiede ufficialmente che Antonio sia ammonito e il questore di Milano emette un Decreto di Ammonimento. Anche grazie a questo atto, le forze dell’ordine possono intervenire severamente. Il 21 marzo Vittoria chiama il numero delle emergenze: lui è ancora dietro alla sua porta. Antonio viene arrestato. Il 21 marzo inizia la primavera per Vittoria e i suoi tre figli, l’ultima dei quali ha poco più di due anni. L’ammonimento del Questore è un atto amministrativo che sta guadagnando sempre più spazio nella prevenzione dei reati di Stalking, Maltrattamenti e Cyberbullismo. È una sorta di ultimo avvertimento fatto al persecutore o al maltrattatore, che permette alla persona offesa di non ricorrere immediatamente alle vie penali, scelta sempre molto complessa quando si parla di familiari. L’Ammonimento, inoltre, consente alle Forze dell’Ordine di intervenire in maniera incisiva quando i comportamenti violenti, talvolta persino criminali, non cessano e di monitorare a distanza ravvicinata le situazioni critiche. Questo efficacissimo strumento verrà potenziato dall’ingiunzione trattamentale: il 5 aprile è stato sottoscritto un Protocollo d’Intesa tra la Questura di Milano e il Cipm, Centro Italiano per la Promozione della Mediazione, fortemente voluto dai firmatari - il Questore, dottor Marcello Cardona e il presidente del Cipm, dottor Paolo Giulini - e dalla Dirigente dell’Anticrimine, dottoressa Alessandra Simone. Dal 5 aprile, le persone colpite da Ammonimento verranno esortate a rivolgersi al Cipm per intraprendere un percorso trattamentale gratuito atto alla comprensione e alla gestione delle proprie emozioni. Se la storia che abbiamo raccontato fosse finzione potremmo permetterci di immaginare cosa sarebbe potuto accadere a Vittoria se non avesse trovato il coraggio di rivolgersi alla Polizia, potremmo chiederci cosa le sarebbe successo se non avesse avuto a disposizione lo strumento dell’Ammonimento. Ma la sua è una storia vera e dal cinque aprile i tanti “Antonio” che circolano per la Milano avranno una possibilità in più: potranno scegliere di farsi aiutare concretamente e forse quel “Questa è l’ultima volta”, non sarà più una bugia. Perché la violenza contro le donne, è un problema degli uomini. Export di armamenti al top e all’oscuro del Parlamento di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 6 aprile 2018 Anticipazioni sulle licenze di vendita di armi 2017 del ministro Azzarello ma senza relazione alle Camere. Vendite per oltre 10 miliardi incluso il Golfo. Riarmo in vista e solo 150 mila addetti, compreso l’indotto. Appena entrato in carica il nuovo Parlamento è già stato scavalcato, ignorato quale organo sovrano su un settore che dire strategico è dire poco: il controllo sull’export delle armi e dei sistemi militari. Se ne sono accorte le organizzazioni che da quasi tre decenni sorvegliano l’attuazione della legge 185 sul rilascio delle licenze di esportazioni di armamenti: Amnesty International, Oxfam, Rete della Pace, Rete per il Disarmo, Movimento dei focolari e Fondazione Finanza Etica. Hanno scoperto che il ministro plenipotenziario Francesco Azzarello, direttore dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama) soltanto tre giorni fa, come una sorpresa da uovo di Pasqua, ha rilasciato una intervista all’agenzia Ansa fornendo anticipazioni “pesanti” sulle vendite di armi all’estero nell’anno appena trascorso. Anticipazioni ancorate a “una serie di considerazioni anche di tipo politico prima dell’invio al Parlamento della relazione prevista dalla legge 185”, denunciano le associazioni pacifiste, che parlano di “grave sgarbo istituzionale”. I dati diffusi con questa curiosa anteprima parlano chiaro: le autorizzazioni all’export armiero per il 2017 ammontano a 10, 3 miliardi di euro, quindi si attestano per il secondo anno di fila sopra la soglia dei 10 miliardi, anche se il dato complessivo, pari a 14,9 miliardi di commesse autorizzate è in calo del 31% sul 2016. E il bilancio dell’anno scorso resta, per esplicita e soddisfatta sottolineatura del ministro Azzarello “il secondo valore più alto di sempre”. Ciò che ha fatto la differenza due anni fa è stata la grossa partita dei 28 Eurofighter venduti al Kuwait per 7,3 miliardi ma la componente di export direzionata verso i Paesi del Golfo, e quindi verso i sanguinosi conflitti mediorientali, continuano a costituire la fetta più grossa della torta. Nel 2017 c’è infatti da considerare la partita del valore di 3,8 miliardi per navi e missili venduti al Qatar. Quanto alle bombe sfornate dagli stabilimenti sardi della Rwm Italia, per essere utilizzate - come ha denunciato anche l’Onu - dall’Arabia saudita nella strage di civili in Yemen, nell’anno appena trascorso e probabilmente proprio per merito delle denunce delle associazioni pacifiste e delle organizzazioni internazionali, le licenze sono passate da 486 milioni del 2016 a 68 milioni del 2017. Nel frattempo il tradizionale mercato di sbocco delle industrie armiere italiane, in primis Leonardo-Finmeccanica e Fincantierima anche tutta una serie di aziende medio-piccole, cresciute di numero da 124 a 136 in un solo anno, che spesso producono in joint venture con imprese straniere in modo da aggirare leggi e limitazioni - cioè il mercato costituito dagli altri paesi della Ue e Nato - ha recentemente subito una contrazione. Ma a ben vedere si tratta di una impasse temporanea, destinata a essere soppiantata da un trend d’incremento. L’avvisaglia viene proprio in queste ore dal Cile, dove - al salone International Air & Space Fair ancora in corso Leonardo ha appena siglato un contratto con il ministero della Difesa britannico per la fornitura di una suite di protezione elettronica per ammodernare la flotta di elicotteri da combattimento, una cinquantina in tutto, Apache della Raf. L’orizzonte della Brexit non frena affatto la compartecipazione tecnologica tra Leonardo, Thales, Bae Systems e la statunitense Boing per quanto riguarda radar, sensori e apparecchiatura da guerra. Al contrario l’Europa, che già oggi è la seconda potenza al mondo per spesa in armamenti, nel prossimo futuro si riarmerà sempre di più. Come denuncia un report del sito Sbilanciamoci.info con il nuovo strumento di cooperazione rafforzata per la creazione di una difesa comune europea - Permanent structure cooperation, in sigla PeSCo - è lecito prevedere, invece che un risparmio per la razionalizzazione dei costi degli eserciti nazionali, in realtà una esplosione delle spese per sistemi d’arma iper tecnologici. Da quanto il PeSco è stato varato da 25 paesi Ue, in sordina, nel dicembre 2017 la spesa dei paesi europei per le armi è già aumentata e a partire dal 2020 si prevede uno stanziamento di 5,5 miliardi tra fondi europei e nazionali destinati all’acquisto di sistemi di difesa e per la ricerca, con la possibilità che questi soldi vengano anche svincolati dal conteggio dei deficit di spesa pubblica. In italia il business bellico, a detta dello stesso Azzarello, rappresenta lo 0,9% del Pil e dà lavoro, incluso l’indotto, ad appena 150 mila persone. Ed è bene ricordare che, a fronte di tutti questi miliardi spesi, il moltiplicatore della spesa militare - come ricorda il centro studi Rosa Luxemburg, è assai più basso di quello di servizi pubblici e manutenzione del territorio e beni comuni. Migranti. A bordo della nave della Ong Sea Watch: “i libici ostacolano i soccorsi” di Andrea Palladino Il Fatto Quotidiano, 6 aprile 2018 La Procura dell’Aia indaga sulla Marina di Tripoli: acquisito il rapporto Onu. Migranti, anzi, naufraghi appena salvati picchiati con le corde. Minacciati con le armi. Violenza e spregiudicatezza. Il rapporto firmato dal segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres sulla situazione della Libia, pubblicato il 12 febbraio 2018 e acquisito dalla procuratrice del Tribunale penale internazionale nei giorni scorsi, contiene parole durissime sulle azioni della Guardia costiera di Tripoli. Nelle 17 pagine del report finito all’Aia, dopo aver evidenziato le violazione dei diritti umani da parte delle istituzioni libiche, l’attenzione si focalizza su un episodio del 6 novembre 2017, documentato anche da immagini video diffuse lo scorso anno, girate dai volontari della Ong Sea Watch, intervenuti insieme ai libici per un salvataggio. È il caso esemplare per il segretario generale dell’Onu, che mostra il trattamento violento nei confronti dei migranti, destinati ad essere riportati nei centri di detenzione. Luoghi dove subiranno ulteriori violenze. Il racconto degli operatori umanitari - confermato sostanzialmente dal rapporto delle Nazioni Unite - di quell’intervento della Guardia costiera libica dello scorso novembre è un duro atto di accusa: “Mentre ci stavamo avvicinando con i gommoni - racconta Gennaro Giudetti, uno dei soccorritori della Sea Watch - è arrivata anche la motovedetta della Guardia costiera libica, che non ha mai collaborato via radio. Io ero sul primo mezzo di salvataggio e arrivando vicino al gommone ho visto subito le persone galleggiare sull’acqua, con diversi morti. Sentivamo le voci strozzate dall’acqua dei naufraghi, vedevo solo delle mani che uscivano fuori dalle onde. Ho dovuto scegliere chi salvare, è stato drammatico”. In questo scenario l’intervento dei libici ha creato una situazione difficilissima: “Non distribuivano i giubbetti di salvataggio, semplicemente lanciavano i salvagente rigidi. Quando noi siamo arrivati i libici cercavano di cacciarci. addirittura ci hanno lanciato delle patate addosso mentre recuperavamo le persone in acqua. Loro gridavano continuamente, ma nessuno di loro è sceso in acqua con il gommone per salvare vite”. Quei naufraghi recuperati dalla motovedetta libica, una volta a bordo, sono stati trattati con violenza, come ricorda il report ora sul tavolo della Corte penale internazionale: “Quando ci siamo allontanati con il gommone abbiamo visto sul ponte della nave dei libici alcuni migranti ammassati sul ponte e i libici per non farli alzare, per non farli agitare più di tanto, li picchiavano con le corde della nave, con una mazza e li prendevano a calci”, racconta Giudetti. Gli interventi della Guardia costiera libica nei salvataggi dei migranti sono in aumento. Lo scorso anno circa 20 mila persone sono state riportate in Libia dalle motovedette di Tripoli, fornite dal governo italiano e con equipaggi formati in Italia. L’attenzione della Procura della Corte penale internazionale sulle violazioni dei diritti umani denunciate dalle Nazioni Unite era già nota fin dallo scorso anno. A novembre la procuratrice Fatou Bensouda, intervenendo al Consiglio di sicurezza dell’Onu, aveva annunciato l’apertura di una inchiesta preliminare sui crimini commessi nei confronti dei migranti. L’acquisizione dell’ultimo report del segretario generale porta all’interno del fascicolo i comportamenti delle motovedette libiche, la cui azione è coordinata e finanziata dall’Italia, con fondi europei. La presenza della Marina militare italiana all’interno della catena di comando della Guardia costiera di Tripoli è stata indirettamente confermata dal gip di Catania, che nel decreto di convalida del sequestro della nave della Ong spagnola Proactiva parla apertamente di un “coordinamento” di fatto delle azioni delle motovedette libiche da parte degli ufficiali italiani. La problematicità delle relazioni con la marina libica è ben chiara alle Nazioni Unite. Nella relazione del 12 febbraio scorso il segretario generale Guterres ricorda che il rapporto dell’Onu con la Guardia costiera libica è stato sottoposto dalla task force sui diritti umani a una valutazione di rischio. Lo stesso avverrà per i rapporti con il Dipartimento di Tripoli che gestisce i centri di detenzione. Niger. Alt alla missione italiana, ma in 40 sono già nella base di Niamey di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 aprile 2018 Bloccato anche l’invio dei militari italiani a Tunisi. Da risolvere il problema del reparto mandato nella capitale nigerina per la pianificazione logistica. La partenza era prevista per giugno. Ma la missione dei soldati italiani in Niger, già approvata dal Parlamento nel gennaio scorso, è sospesa. Troppe resistenze a livello locale hanno convinto il presidente nigerino Mahamadou Issoufou a chiedere al nostro governo un rallentamento nelle procedure di invio del contingente, che di fatto si traduce in uno stop. Bloccata anche la partenza dei militari per la Tunisia: la richiesta di 60 uomini era stata fatta dalla Nato, ma in questo caso il premier Yussef al-Shed ha fatto sapere che sarebbe stato meglio evitare di darle seguito e tutto si è fermato. Resta dunque da risolvere il problema del reparto che era stato mandato a Niamey per la pianificazione logistica: 40 persone che il governo potrebbe decidere di far rientrare visto che al momento restano confinate nella base statunitense in attesa di nuove disposizioni. I ministri contrari - Era stato il titolare della Difesa nigerino Kalla Moutari a sottoscrivere un “accordo di collaborazione” con la collega Roberta Pinotti il 26 settembre 2017. Il 1 novembre 2017 e il 15 gennaio 2018 aveva invece spedito due lettere con la richiesta di un contingente “per l’addestramento per il controllo dei confini”. Istanza accolta a Montecitorio il 17 gennaio quando sono state prorogate e rifinanziate tutte le missioni all’estero. In realtà già dieci giorni dopo la radio francese Rfi rilancia le perplessità del ministero degli Esteri nigerino con una fonte che sottolinea il fatto di “non essere stati consultati” e soprattutto “non siamo d’accordo”. Circola l’ipotesi che sia stato il governo di Parigi a fare pressioni affinché il nostro Paese rimanesse fuori dalla Coalizione già presente con Stati Uniti e Germania. E prende corpo il 10 marzo scorso quando il ministro dell’Interno, Mohamed Bazoum, definisce la missione “inconcepibile” spiegando che l’unica possibilità è “l’invio di alcuni esperti, senza ruoli operativi”. Una dichiarazione che convince il ministro degli Esteri Angelino Alfano a frenare: “Il dispiegamento della missione non può che avvenire su richiesta delle autorità nigerine e sulla base di consenso per rispettare profondamente la sovranità del Niger. Sono ovvietà, ma nell’ambito del diritto internazionale è fisiologico che sia così”. Il reparto schierato - Nei giorni successivi ci sono numerosi contatti a livello governativo ed è lo stesso presidente nigerino a sottolineare le difficoltà di accogliere i soldati. Adesso bisognerà quindi stabilire il ruolo dei 40 militari già partiti nelle scorse settimane, che non hanno più compiti operativi. E non è escluso che si decida di farli rientrare in Italia, sia pur scaglionati, visto che in questa situazione non possono nemmeno uscire dalla base statunitense a Niamey dove sono ospitati e dove hanno allestito il quartier generale. Il decreto approvato per “fornire supporto alle attività di sorveglianza delle frontiere e del territorio” prevedeva l’invio di “120 unità nel primo semestre e fino a un massimo di 470 unità entro la fine del 2018”. Costo dell’operazione: “40 milioni e 482 mila euro”. Soldi che a questo punto potrebbero essere destinati ad altri impieghi. Il no di Tunisi - Sospeso anche l’esborso dei circa 5 milioni che Montecitorio aveva destinato alla missione in Tunisia. In questo caso si trattava di partecipare con 60 soldati alla missione Nato per “supportare le forze di sicurezza tunisine nella costituzione e messa in funzione del Comando Joint e sviluppare e rafforzare le attività di pianificazione e condotta di operazioni interforze, specialmente nel controllo delle frontiere e nella lotta al terrorismo”. Il governo di Tunisi ha avuto numerosi contatti con i colleghi italiani spiegando che la presenza dei militari non appariva necessaria, soprattutto tenendo conto degli equilibri interni e della situazione locale. E così si è deciso di soprassedere. Lasciando al prossimo governo l’onere di decidere come e dove impiegare i contingenti. Serbia. Fotoreporter italiano torna libero dopo venti giorni di carcere di Mauro Ravarino Il Manifesto, 6 aprile 2018 Mauro Donato, il fotoreporter torinese arrestato in Serbia il 16 marzo, è finalmente libero. Accusato ingiustamente di aggressione e rapina ai danni di alcuni profughi afghani è uscito ieri dal carcere di Sremska Mitrovica per tornare in Italia. Donato si era recato nei Balcani insieme al collega Andrea Vignali per documentare la vita dei migranti e le attività dei diversi operatori umanitari lungo la “Balkan Route”. I familiari di Mauro e l’avvocato Alessandra Ballerini, dopo giorni di infinita attesa, ringraziano amici, colleghi e quanti si sono in ogni modo adoperati per la sua liberazione e, in particolare, “il presidente della Fnsi Beppe Giulietti, l’associazione stampa Subalpina, l’ex senatore Luigi Manconi e l’ufficio italiani all’estero della Farnesina”. Donato, 41 anni, apprezzato fotografo nonché uno dei principali autori della mostra “Exodos. Rotte migratorie, storie di persone, arrivi, inclusione”, era stato fermato vicino al confine croato mentre tornava dal reportage. Su di lui era piombata l’accusa di rapina perché identificato attraverso la foto della sua carta identità, fotocopiata giorni prima alla frontiera: uno scatto di dieci anni fa che non corrisponde al suo attuale aspetto. Ben presto scagionato dalle vittime, perché non c’entrava nulla, ma non - almeno per venti giorni - dal Tribunale serbo che ha voluto, senza motivo, prolungare il suo arresto. Vittima di uno scambio di persona ma anche di un accanimento inusuale, Donato può ora riabbracciare i familiari. “È finita una brutta disavventura”, ha dichiarato a caldo il reporter. Brasile. Le prigioni da cui nessuno vuole scappare di Sonia Montrella Agi, 6 aprile 2018 Viaggio nelle Apac, le carceri in cui non ci sono secondini e i detenuti hanno le chiavi delle celle. Ed è merito anche dell’Italia. Immaginate una prigione in cui sono i detenuti stessi a conservare le chiavi delle loro celle e dove non ci sono né armi né carcerieri. E magari i prigionieri vengono chiamati per nome anziché essere catalogati da un numero, indossano i loro vestiti, cucinano e si occupano anche della sicurezza. Quella prigione esiste (in Brasile) e, a differenza di quello che si può pensare, da lì i detenuti non pensano minimamente a scappare. Sono le Apac, acronimo che sta per “Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati”, sono circa una cinquantina su tutto il territorio, ospitano oltre 3.000 detenuti e rappresentano l’alternativa dei sogni in un Paese che si piazza al quarto posto per popolazione carceraria al mondo. E in cui il i penitenziari si ritrovano ogni giorno a fare i conti con sovraffollamento, rivolte mortali, disordini e scontri fra gang. Una bomba ad orologeria che scoppia puntualmente. Le Apac, invece, sono dei veri e propri centri di recupero che come prima cosa insegnano ai detenuti - anzi ai “recuperandi” - a non tenere lo sguardo basso, a lavorare per sentirsi parte della società e a studiare. Queste ultime due sono condizioni imprescindibili per restare nelle Apac, tutti devono darsi da fare a meno che non si è malati. Le condizioni per entrare nell’Apac - Le condizioni indispensabili per aprirne uno sono il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati. Per entrarvi il detenuto deve: essere condannato in via definitiva; deve aver fatto un periodo di detenzione nel carcere; deve aver fatto richiesta di entrare in un’Apac; la sua famiglia deve vivere vicino al carcere perché farà parte del programma. E siccome l’idea di un centro per detenuti con queste caratteristiche nacque negli anni ‘70 da un gruppo di volontari cristiani guidati dall’avvocato Mario Ottoboni, le giornate dei detenuti sono scandite da sveglia, preghiera e lavoro. Renato, che si prepara all’avvocatura mentre sconta 20 anni - Tra i detenuti del centro Apac a Itauna, nel sud-est del Brasile, c’è anche Renato Da Silva Junior. Renato ha 28 anni e un sogno: diventare avvocato. Sta studiando sodo per riuscirci anche se sa che ciò avverrà tra molto tempo. Renato ha scontato appena un quarto della pena a 20 anni di detenzione che gli è stata comminata per omicidio. “I miei sogni sono più grandi dei miei errori”, ha detto al Guardian. “E farò tutto quello che posso per uscire da qui prima possibile”. Per ora, grazie al suo impegno ha ottenuto uno sconto di pena di due anni. Nella prigione di Itauna, le chiavi della porta d’ingresso del settore uomini è nelle mani di David Rodrigues de Oliveira. 32 anni, David non ha alcuna intenzione di evadere: “Il mio prossimo obiettivo è il rilascio con la condizionale in modo da poter uscire una volta a settimana. Devo pensare alla mia famiglia. Non posso rovinare tutto”. Ogni detenuto infatti è sottoposto a un determinato regime a seconda del reato: chiuso, semi aperto e aperto. E poi c’è un altro motivo: chi scappa perde il diritto all’Apac e torna nel sistema carcerario tradizionale. La recidiva crolla - Coordinate e supportate da una decina di anni dall’italiana Avsi, le Apac, le carceri senza guardie né armi, un’eccellenza che stanno registrando da anni dei risultati interessanti: la recidiva scende fino al 20 per cento, rispetto alla media brasiliana che sfiora l’80. Il tutto grazie a un metodo, si legge sul sito dell’Avsi, che si fonda sul fatto che il condannato riconosce di aver commesso un errore e decide di cambiare vita, scontando la pena all’interno delle Apac. Dopotutto la filosofia che guida questi centri è “Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori”. “I condannati generalmente non provano sensi di colpa - ha spiegato alla Stampa Valdeci Antonio Ferreira, direttore generale dell’associazione che coordina le APAC - perché dicono: io ho rubato, ma in questo Paese tutti rubano! Io non vendevo droga, erano gli altri che la compravano! Io non ho stuprato una donna, è stata lei a provocarmi! Per questo grazie al lavoro dei volontari e all’accompagnamento degli altri detenuti in fase di recupero cerchiamo di mettere in atto la “terapia della realtà”: ognuno deve essere messo di fronte al male che ha fatto, agli errori che ha commesso”. Non appena questo avviene, ha continuato Ferreira, bisogna però immediatamente evitare che la presa di coscienza per il male commesso diventi un macigno che schiaccia: “Dobbiamo separare l’uomo dal suo errore, dal suo peccato, dal suo reato. Ridargli speranza di poter cambiare”. Un modello da esportare - Il metodo funziona, al punto che dal 2009 grazie anche ad alcuni finanziamenti dell’Unione Europea, questo modello è stato replicato anche in Cile, Costa Rica ed Ecuador. “Non per idealismo, neppure per utopia - spiega l’Avsi - Ma perché funziona, le persone che scontano qui la pena non sbranano la loro umanità, escono che sono ancora capaci di relazioni buone. E queste carceri convengono a tutti: il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo del costo del carcere comune, e quello di mantenimento è dimezzato. Brasile. Lula ora è a un passo dalla prigione: “si consegni entro le 17” di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 6 aprile 2018 La Corte suprema brasiliana ha detto no all’ultimo ricorso della difesa di Lula: l’ex presidente starà in una cella speciale, e nei suoi confronti è assolutamente vietato l’uso delle manette. Il Paese con la politica a pezzi tra colpi di scena e accuse di golpe. “Un giorno tragico per la democrazia e per il Brasile”, dice una nota del Pt, il Partito dei lavoratori che non riesce a immaginare un futuro senza il suo padre fondatore. Clacson in festa e i pupazzi gonfiabili di un galeotto con la barba conquistano intanto l’Avenida Paulista, la city di San Paolo dove otto abitanti su dieci detestano Lula e lo vogliono vedere dietro le sbarre. Ora l’impensabile fino a qualche anno fa è diventato realtà e già oggi per l’ex presidente del Brasile - il più popolare della sua storia e il più famoso nel mondo - si schiuderanno le porte di un carcere. Per scontare una dura pena a 11 anni e un mese per corruzione. Il giudice Sergio Moro, il protagonista della Mani Pulite brasiliana, gli ha concesso “in considerazione della carica occupata nel passato” di consegnarsi spontaneamente a Curitiba entro le 17 di venerdì. Una cella speciale è già pronta nella sede della Polizia federale ed è assolutamente vietato l’uso delle manette. Il Stf, la Corte suprema del Brasile, ha detto no all’ultimo ricorso della difesa di Lula. Si è discusso se un condannato in secondo grado, come è il suo caso in questo processo, debba andare subito in carcere, oppure se la presunzione di innocenza garantita fino alla Cassazione debba avere la meglio. Ha vinto per 6 a 5 la prima tesi, in un dibattito tecnico trasmesso in diretta che ha tenuto il Brasile davanti alla tv per dieci ore. Dopo di che tutto può ancora succedere, perché qui la giustizia ha una tradizione consolidata di colpi di scena, come insegna da dieci anni l’irrisolto caso di Cesare Battisti. Non è escluso che Lula possa essere rimesso rapidamente in libertà dopo un ricorso presentato dalla difesa e accolto da un unico giudice supremo a suo favore, o che addirittura l’alta Corte ribalti il suo proprio orientamento con qualche nuovo cavillo. Dal punto di vista politico, invece, la prigione di Lula - reale o virtuale - pone un punto fermo. L’ex presidente, teoricamente in testa ai sondaggi per le elezioni di ottobre, è fuori dai giochi. La legge è chiarissima su questo punto, un condannato in secondo grado è ineleggibile. “Resta il nostro candidato, in quanto innocente, e perché Lula è il più grande leader popolare di questo Paese”, insiste il Partito dei lavoratori, dove la tentazione di lanciare una campagna elettorale anticipata, con un candidato chiuso in un carcere, è molto forte. L’idea è puntare sull’aspetto emotivo di una simile offensiva, per tentare alla fine di spostare i consensi su un candidato vero. Ma i problemi non sono soltanto del Pt, nello scenario politico brasiliano. Tre anni di inchieste giudiziarie a 360 gradi hanno lasciato il segno in tutti i partiti e le prossime elezioni saranno le più incerte di sempre. L’attuale presidente Michel Temer sogna di tentare la riconferma ma parte da indici di popolarità molto bassi. Altri candidati hanno già una storia alle spalle di mancate vittorie: Geraldo Alckmin, Marina Silva, Ciro Gomes. C’è poi la destra filomilitare di Jair Bolsonaro, i cui consensi negli ultimi anni sono cresciuti molto. Uno dei fatti nuovi è il ritorno sulla scena politica delle forze armate, che in Brasile hanno governato in una lunga dittatura dal 1964 al 1985. Numerosi gli interventi dei militari sui social network.