Intervista a Mauro Palma: “la riforma penitenziaria è una priorità” di Roberto Zichittella Famiglia Cristiana, 5 aprile 2018 Il Garante dei reclusi sollecita la rapida approvazione delle nuove norme: “Lo può fare anche il Governo uscente”. L’ufficio di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, si trova ai piedi del Gianicolo, proprio alle spalle del carcere di Regina Coeli visitato da Papa Francesco il giorno di Giovedì Santo per la lavanda dei piedi. “Appartengo a una generazione”, racconta Palma, “che ricorda ancora con emozione l’impatto della visita di Giovanni XXIII a Regina Coeli. Questi gesti dei Pontefici rappresentano prima di tutto un segno di grande vicinanza nei confronti dei reclusi. Papa Francesco, con le sue ripetute visite nelle carceri, anche durante i suoi viaggi all’estero ha il merito di rendere visibile, e non trasparente, una realtà che secondo il comune sentire deve restare nascosta, dietro un muro”. Garante Palma, in questo momento qual è lo stato d’animo dei detenuti nelle carceri italiane? “Lo riassume una parola: attesa”. Attesa di che cosa? “Di un cambiamento che sia in linea con quanto già previsto dalla legge del 1975, dal regolamento penitenziario del 2000, da quanto emerso in tempi più recenti dagli Stati generali sulle carceri e infine dalla riforma dell’ordinamento presentata dal Governo Gentiloni a metà marzo. In sostanza si attende che l’esecuzione della pena sia riportata in assetto con i principi della Costituzione”. Il cambiamento tanto atteso a che cosa deve portare? “A due cose. Primo: alla possibilità di percorsi di reinserimento sociale vero per i detenuti. Secondo: al riconoscimento che, nonostante tutti gli errori commessi, la persona detenuta è un soggetto, non un oggetto del nostro trattamento carcerario. È un soggetto che deve riconoscere i suoi errori, ma al quale si deve anche dare responsabilità, altrimenti non ci sarà mai un reinserimento vero e autonomo”. Il decreto legislativo del ministro della Giustizia Orlando sulla riforma penitenziaria ora però dovrà essere vagliato dalle competenti Commissioni parlamentari del nuovo Parlamento. L’attesa rischia di prolungarsi? “L’invio del testo alle Commissioni parlamentari è un gesto di cortesia istituzionale e credo che, una volta tornato il decreto in Consiglio dei ministri, anche un Governo dimissionario può renderlo operativo. Si tratta di affari correnti”. non sappiamo come saranno formate le Commissioni e, nel caso si formi un nuovo Governo ostile a queste norme, potrebbero esserci dei problemi”. C’è un aspirante presidente del Consiglio, Matteo Salvini, che più volte ha indicato il carcere, con le chiavi delle celle buttate via, come pena ideale per alcuni reati come per esempio l’evasione fiscale. “Sì, ne abbiamo sentite tante, ma credo che al di fuori delle polemiche politiche e delle campagne elettorali alla fine ci sia nelle istituzioni molta più responsabilità. In fondo l’ultima riforma non fa altro che ripristinare in modo molto sensato alcuni aspetti della legge del 1975. I cardini sono la dignità delle persone, il divieto di violenze sulle persone private della libertà, il fine rieducativo della pena, che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Lo Stato italiano, dalla Costituzione in poi, anche attraverso varie sentenze della Corte costituzionale, è cresciuto su quella idea di pena. Sono princìpi che qualunque Governo deve recepire”. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a fine febbraio nelle carceri italiane c’erano 58.163 detenuti, mentre la capienza sarebbe di 50.598. Il sovraffollamento resta un problema grave? “Sì, il problema rimane, anche se non ha più le dimensioni di qualche anno fa. Parleremmo di sovraffollamento anche se il numero dei detenuti eguagliasse quello della capienza. Un sistema carcerario è sano quando è saturo al 92-93 per cento. Lascia esterrefatti che ci siano 7-8 mila carcerati con una pena o un residuo di pena inferiore a un anno. L’articolo 27 della Costituzione parla di pene, non di pena, dà per scontato che il legislatore dovesse pensare a un paniere di pene diversificato. Invece rimane la centralità del carcere”. Malati psichiatrici ma detenuti. “Riforma a metà, 300 da liberare” di Maria Pirro Il Mattino, 5 aprile 2018 Ferraro, l’ex direttore dell’Opg di Aversa: “Servizi territoriali decisivi”. Trecento malati psichiatrici restano in carcere, ma dovrebbero essere assistiti da servizi e strutture sanitarie. È l’effetto di una riforma della psichiatria che non riesce a trasformarsi in pratica corrente, con gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiusi, la mancanza di alternative alla detenzione e altre problematiche irrisolte. A Napoli, ad esempio. Un uomo schizofrenico, reintegrato grazie a una borsa lavoro, litiga con il padre e finisce in cella. “Dove non c’è cura possibile”, avverte lo psichiatra Fedele Maurano, che spiega: “Quest’uomo è ancora dentro, con il rischio di aggravarsi e vanificare i risultati di un percorso di recupero durato anni”. “Dove non c’è cura possibile” - avverte - nel chiedere, in qualità di direttore del dipartimento Salute mentale della Asl, il trasferimento del paziente, da Poggioreale in una comunità che già ospita ex reclusi in Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari chiusi proprio con la legge 81/2014. “Il magistrato risponde di no, per motivi di sicurezza. Ma quali sono le condizioni da garantire? Per un detenuto ai domiciliari sono necessarie le sbarre alle finestre?”. Obietta il medico: “Quell’uomo è ancora dentro, con il rischio di aggravarsi e vanificare i risultati di un percorso di recupero durato anni”. Un intervento, in favore di un altro recluso, è invece sospeso: “In attesa della autorizzazione per la visita richiesta a gennaio”, aggiunge Maurano. E il disagio diffuso, anche per effetto delle difficoltà nella gestione dell’assistenza territoriale, con gli ex internati in Opg affidati direttamente alle Asl. “Eppure, i detenuti ritenuti non imputabili (e quindi da non sottoporre a una pena), m lista per ricoveri esterni nelle Rems, le strutture che hanno sostituito gli Opg, sono più di 300 in Italia”, dice Adolfo Ferraro, psichiatra ed ex direttore del manicomio criminale di Aversa, promotore di “Contenere e curare”, tavola rotonda oggi a Napoli. Nella regione si contano otto detenuti “prenotati” per un posto nelle Rems e una sessantina di assegnazioni previste, non ancora effettuate. “Ma non c’è un monitoraggio preciso a livello nazionale e l’obiettivo prioritario - spesso ancora trascurato nella pratica - deve essere assisterli tutti fuori dalle Rems e da qualunque luogo di detenzione”, chiarisce Giuseppe Nese, responsabile campano del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. “Dal 2015 - fa notare - per 91 pazienti campani su 175 sono state trovate soluzioni alternative grazie all’intesa tra servizi sanitari e magistratura. Tuttavia, la collaborazione uniforme ed efficiente resta un obiettivo da raggiungere”. Un problema è il dialogo (complesso, a dir poco), come dimostra l’odissea di un cinquantenne, proveniente da una famiglia agiata di Secondigliano. Afflitto da un disturbo di personalità, accentuato dall’abuso di alcolici. Già recluso in Opg, portato in una struttura della Asl. Ora in carcere. Il motivo? “È stato arrestato senza avvisare gli operatori sanitari. Tant’è che questa persona è stata poi sistemata nella struttura di osservazione, nell’istituto di Secondigliano, per la valutazione diagnostica. Ma il suo quadro clinico è noto da 20 anni”. Non è un caso isolato, avvisa Maurano. “Capita che sofferenti psichici siano accompagnati in carcere senza contattare i professionisti che li seguono, pur tra mille difficoltà”. Domenico Schiattone è direttore dell’ufficio Detenuti e trattamento al provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per la Campania. Sottolinea: “La tutela della salute deve prevalere sempre sulle questioni legate alla sicurezza, ma può accadere che ci sia prudenza per motivi di pericolosità sociale”. Succede pure che gli psichiatri siano in disaccordo sul da farsi. Maurano cita questa vicenda emblematica: “il piano terapeutico individuale, formulato per un quarantenne con un grave disturbo psicotico, è stato da poco rigettato dal giudice sulla base della relazione del suo perito, che però non ha consultato i colleghi”. Eppure, la riforma impone che sia definito un programma di cura, e anche le modalità di svolgimento, “Se la legge venisse applicata, scatterebbe in automatico l’obbligo di consultare i servizi di competenza per ricostruire la storia clinica e valutare le strategie adeguate. Così la norma appare stravolta”. E non mancano i provvedimenti addirittura opposti adottati da giudici e tribunali diversi nei confronti della stessa persona: “Uno stalker, ritenuto incapace di intendere e volere, già detenuto in un ospedale psichiatrico giudiziario, ora condannato a una pena detentiva”. Al centro della tavola rotonda anche le questioni legate alle articolazioni di salute mentale create, tre anni pruna della legge 81, nelle carceri. Tra le criticità, nella sua relazione, Schiattone segnala l’inadeguatezza degli spazi per attività ricreative, di riabilitazione e socializzazione, a Secondigliano. Dove c’è, però, “una adeguata presenza” di infermieri specializzati. Al contrario, i locali per la riabilitazione sono un punto di forza nel carcere di Benevento, ma scarseggiano gli addetti. Insomma, “la collaborazione tra staff sanitario e personale penitenziario è decisiva. Sostenuta attraverso un osservatorio regionale permanente e un tavolo tecnico sulle Rems, è utile anche alla soluzione dei singoli casi”, rilancia Schiattone, ricordando l’impegno per la revisione dei protocolli finalizzati alla prevenzione dei suicidi in carcere (tragedie che, “nei dati, non si discostano molto dai valori percentuali, in proporzione, registrati tra la popolazione libera”, precisa). “Ci sono stati 50 suicidi, di cui cinque in Campania l’anno scorso. Più 87 tentativi conclamati e 770 episodi di autolesionismo”, certifica Samuele Ciambriello, garante regionale dei diritti dei detenuti, che tratteggia uno “scenario ancora più preoccupante a causa delle generali condizioni detentive: il sovraffollamento aumenta il disagio. Psichiatri, psicologi, tecnici della riabilitazione sono pochi in carcere per un sostegno costante”. Non ultimo punto, i servizi sanitari sul territorio, da rafforzare, con una iniezione di risorse e personale in organico. Altro volto delle stesse difficoltà. Questa non è un’altra storia. Sovranismo giudiziario sull’ergastolo ostativo di Massimo Bordin Il Foglio, 5 aprile 2018 La Cedu ha accolto il ricorso di un detenuto italiano al 41bis. Esiste ormai nel nostro paese una sorta di sovranismo giudiziario che contesta il primato nella gerarchia delle fonti, nei paesi membri del Consiglio d’Europa, delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Se ne è avuto un esempio con il recepimento da parte della corte di cassazione della sentenza della corte europea sul caso Dell’Utri. Sul Fatto quotidiano Giancarlo Caselli scrisse una serrata critica alla decisione dei giudici italiani, ritenendola lesiva della nostra sovranità giurisdizionale. Da ieri il problema si ripropone su un tema ancor più delicato del reato di concorso esterno. La Cedu ha infatti accolto un ricorso di un detenuto italiano condannato all’ergastolo per omicidio e recluso in regime di 41bis perché condannato anche per associazione mafiosa. Si tratta di un caso estremo del cosiddetto ergastolo ostativo, una misura criticata dall’Unione camere penali e dal Partito Radicale. L’avvocato Valerio Vianello, in nome del suo assistito Filadelfo Ruggeri, nel suo ricorso, pone in sostanza la questione di un doppio binario che caratterizza il nostro sistema giudiziario non solo nella fase processuale ma anche in quella dell’esecuzione della pena. La contraddizione, senza farla troppo lunga, si evidenzia nell’aggettivo che conferma il sostantivo. Un ergastolo ostativo è un ergastolo sottolineato che nega in radice il concetto di risocializzazione che dovrebbe giustificare, almeno come possibilità, la pena anche nella sua massima estensione. Nel caso dei detenuti sottoposti al 41bis il contrasto fra princìpi e realtà si evidenzia al massimo. Non si può negare la complessità del problema ma il fatto che la corte europea lo abbia riconosciuto è utile. Carceri, in 5 anni 35 agenti suicidi e 2.250 aggressioni Ansa, 5 aprile 2018 Sono 35 i suicidi e 2.250 le aggressioni subite tra il 2013 e il 2017 dagli agenti di polizia penitenziaria. Un trend che sembra essere in continuo aumento e che svela, tra le righe, le reali condizioni di lavoro del corpo. È il fenomeno registrato da dati ufficiali raccolti dalla Funzione Pubblica Cgil Polizia Penitenziaria attraverso la campagna “Dentro a metà”, lanciata proprio per mostrare le condizioni di vita e di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria. “Dati che segnalano una condizione di vita e di lavoro allo stremo delle possibilità”, dice Massimiliano Prestini, coordinatore nazionale della Fp Cgil Polizia Penitenziaria, che manifesta preoccupazione soprattutto per l’assenza di risposte da parte dell’amministrazione penitenziaria alle richieste del sindacato di avviare un confronto “su una situazione lavorativa la cui gravità non può essere ignorata. Benessere e sicurezza devono diventare priorità nella gestione delle carceri del nostro Paese”. Quella dell’aumento delle aggressioni subite dal personale, fa sapere Prestini, “non è altro che una conseguenza della decisione di tenere le celle aperte nelle carceri e di non impegnare i detenuti in alcun tipo di attività durante tutta la giornata. Se si vuole attuare un nuovo tipo di vigilanza serve più personale nelle carceri, supporto tecnologico per la vigilanza e soprattutto attività lavorative che possano favorire il reinserimento sociale del reo”. Per queste ragioni, conclude Prestini, “se il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non affronterà il problema, le condizioni delle carceri saranno destinate a peggiorare, riportandoci alla situazione di illegittimità sanzionata in un recente passato dall’Europa”. Il Consiglio d’Europa pubblica delle linee guida per proteggere i bambini dei detenuti coe.int, 5 aprile 2018 Il Consiglio d’Europa ha pubblicato oggi delle linee guida destinate ai suoi 47 Stati membri volte a preservare i diritti e gli interessi dei figli minorenni dei detenuti. In Europa, secondo le stime basate sul numero di detenuti, circa 2,1 milioni di bambini hanno un genitore in prigione. Questa situazione può provocare traumi, stigmatizzazione, angosce, perdita delle cure genitoriali e del sostegno finanziario, che potrebbero compromettere il benessere, lo sviluppo personale e la vita stessa di questi minori. Il Comitato dei Ministri, organismo esecutivo dell’Organizzazione, ha adottato una Raccomandazione che ricorda che i bambini dei detenuti hanno gli stessi diritti di altri minori, tra cui quello di mantenere contatti regolari con i genitori, salvo quando sia considerato contrario al loro interesse superiore. Il mantenimento delle relazioni tra bambino e genitori può incidere positivamente non solo sul minore ma anche sul genitore incarcerato, sul personale e l’ambiente penitenziario. Preparare meglio il detenuto al reinserimento dopo la scarcerazione protegge anche la società nel suo insieme, sottolinea il Comitato dei Ministri. Perché dovremmo abolire il carcere di Ndack Mbaye thevision.com, 5 aprile 2018 Per quello che è lo stato attuale del dibattito pubblico riguardo la condizione delle carceri in Italia è indicativo che, ancor prima di ragionare in termini di abolizionismo o riduzionismo e quindi su uno smantellamento dell’istituzione carceraria o di un suo impiego ridotto, gran parte delle risorse e delle energie vadano spese per spiegare una verità che è chiara a chiunque abbia occhi per vedere: il carcere, così com’è, non funziona. E non perché non sia abbastanza severo. Non serve essere mossi da qualche afflato umanitario per capire che gli obiettivi di prevenzione attraverso la deterrenza e la risocializzazione sono ampiamente disattesi, di anno in anno: per rendersene conto è sufficiente leggere uno dei rapporti sulle carceri, come quello che annualmente propone l’associazione Antigone. Ripensare la pena detentiva è indispensabile prima di tutto se l’obiettivo è quello di una reale inversione di tendenza della criminalità. Una criminalità, comunque, che non ha l’incidenza che parrebbe invece premere come un macigno sull’opinione pubblica: come si evince dai dati resi noti dal ministero dell’Interno, nel 2017 gli omicidi sono calati del 15%, risultato mai raggiunto prima d’ora, e in generale i crimini sono calati del 12%. Mentre la recidiva, ossia il ritorno in carcere di persone già condannate in precedenza, si attesta attorno al 70%. Questo significa che i miglioramenti nella nostra società non si devono al carcere. A questo punto diventa necessario comprendere il valore del concetto di pena all’interno della cultura occidentale. Per abbozzarne una prima definizione non serve partire da complicati costrutti filosofici o giuridici: il concetto di pena accompagna in un legame indissolubile quello di punizione per una colpa - e quindi di espiazione dei propri errori - e viene insegnato già in tenera età, secondo un sistema di valori generalmente condiviso. I concetti di castigo e di sanzione da sempre sono conseguenza di un comportamento scorretto e la loro esistenza appare scontata - sembra impossibile l’idea di lasciare impunita la trasgressione a una regola. Anche se oggi tale consequenzialità appare naturale, quello del fondamento della pena è storicamente uno dei problemi più dibattuti, tanto che ancora oggi non si è giunti a un orientamento unanime. È così che, in genere, ci si limita a giustificare la pena facendo appello a esigenze preventive e reattive insieme (dissuadere dal commettere reati e castigare chi è andato contro la norma). Queste necessità a loro volta trovano fondamento in di un discorso socio-psico-criminologico, per cui il criminale va sanzionato per tre motivi: placare gli animi di vendetta della collettività; dissuaderlo dal commettere nuovi reati; somministrargli quel tanto di punizione che sembra indispensabile per ristabilite l’equilibrio sconvolto dal crimine commesso. Ciò si traduce in un sistema di norme giuridiche che prevede una punizione “legale” nei confronti chi le viola, con lo scopo di castigare e dissuadere insieme. È così che si arriva a definire la pena come “la conseguenza giuridica di un reato, cioè la sanzione predisposta per la violazione di un precetto penale”. A questo punto, la pena intesa quale punizione legale necessita di ulteriori giustificazioni in grado di legittimarla agli occhi di chi potrebbe esserne oggetto. Nelle concezioni moderne dello Stato la pena viene solitamente associata al principio contrattualistico secondo il quale i consociati accettano l’imposizione di una regola e di una punizione per la sua violazione sulla base di una volontà generale, sintesi di tutte le libertà dei cittadini. In altri termini, lo Stato viene inteso come un soggetto collettivo che non minaccia le volontà singole, ma piuttosto le tutela, riassumendole in sé. In uno Stato che realizza tali principi - volti teoricamente al bene comune - nessuno dovrebbe rifiutare la pena, spiegandola per mezzo del suo fine: produrre sicurezza attraverso la sottoscrizione di un contratto sociale in cui ciascun consociato abdica a una parte della propria libertà per riporla nelle mani di uno Stato in grado di tutelare ogni interesse individuale e garantire tranquillità e sicurezza. La punizione conseguente alla commissione di un atto contrario a un qualche ordine costituito è sempre stata presente nella storia dell’uomo, ma le modalità di risposta a tale trasgressione si sono modificate nei secoli, insieme agli obiettivi che ci si proponeva di raggiungere mediante il castigo. Se oggi, quando si parla di pena, si pensa quasi immediatamente all’istituzione del carcere, affermatosi come forma essenziale del castigo solo a cavallo del XVIII e XIX secolo, è a causa dunque di un lungo percorso che ha visto il susseguirsi di diversi mezzi punitivi emersi, e poi scomparsi, per determinati motivi storici, sociali, economici e politici. Fra tante modifiche quella più significativa è certamente il venir meno del supplizio: la pena corporale che comportava grandi sofferenze fisiche lascia il passo a un’arte di far soffrire meno rumorosa e spogliata dei suoi aspetti più “spettacolari”. Come scrive Foucault nel suo saggio Sorvegliare e punire, “in pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale.” Venuta meno la spettacolarizzazione del castigo, e quindi la sua corporalità, la punizione inizia dunque a toccare l’esistenza del trasgressore, nella sua esplicazione della libertà personale, intesa non solo come libertà di movimento, ma quale libertà di gestione dei propri affetti, desideri, ambizioni e, ovviamente, del proprio tempo. Le aggressioni, che vanno sotto il nome di “contravvenzioni” e “delitti”, si puniscono dunque per colpire pulsioni e perversioni. Si deve a questo mutamento del bersaglio del castigo la creazione delle carceri, che altro non sono se non la versione definitiva delle Case di correzione e di lavoro, istituite sul finire del XV secolo in Inghilterra, dove per secoli sono stati relegati gli scarti della società, criminali e vagabondi: soggetti che rappresentavano all’epoca un substrato sfruttato o abbandonato, a seconda delle esigenze della società, come la necessità di manodopera oppure di un capro espiatorio. Poi, tutto è rimasto immutato. La scienza penalistica si è evoluta in un’ottica pressoché dogmatica: per giustificare l’esigenza - irrazionale - di preservare la sicurezza dei consociati mediante lo strumento della carcerazione, si è cercato di dare spiegazioni - il più possibile razionali - e le si è raccolte in dissertazioni. Per cercare di dare una parvenza di umanità al carcere si è intervenuti con riforme sul piano internazionale e comunitario, continuando però a sorvolare sulla legittimità di tenere in piedi un sistema diffuso di punizione che si concretizza in una violenza ingiusta, anche se legale. O meglio, in un’ingiusta violenza attuata per mano della legge. I tentativi di dare un volto più umano alla detenzione, comunque, non sono bastati. In Italia, sono 2749 i morti in carcere negli ultimi 18 anni e nel 2017 i morti suicidi sono stati 52. Il numero può impressionare a seconda della sensibilità di ciascuno; da parte mia ne ho colto la portata mutando il mio punto di vista. Mi sono messa nell’ottica di considerare quei 52 suicidi come 52 vittime di omicidio. 52 morti che, se fossero salite stati ammazzati per mano di un pazzo, avrebbero di certo sollevato qualcosa in più del semplice sdegno. Ma si tratta di 52 persone condannate per aver commesso un reato, fuori pertanto dal raggio di azione di un’analisi critica o empatica delle condizioni che le hanno portate al gesto estremo. È per dare seguito a questa necessaria e ormai improrogabile analisi critica che mi sono avvicinata al pensiero abolizionista. Il mio interesse è nato dalla consapevolezza che è giunto il tempo di porsi delle domande, in un momento in cui invece sembriamo circondati solo da risposte, spesso urlate, troppo superficiali rispetto a un problema complesso, che ha bisogno di essere trattato con razionalità e lucidità se si intende superarlo. Il pensiero abolizionista, in realtà, è vecchio quanto quello che legittima lo strumento della carcerazione, ed è ugualmente mutato nel tempo. Possiamo semplificare e dire che ora esistono correnti che puntano alla completa abolizione del diritto penale e/o della detenzione, mentre altre che mirano piuttosto a ridurre l’incisività della punizione legale in carcere. Le carceri italiane sono affollate soprattutto da tossicodipendenti, che dovrebbero piuttosto stare in comunità, e da immigrati incastrati in un sistema di sfruttamento e di illegalità. Anche per buona parte del resto della popolazione carceraria, condannata per reati contro il patrimonio, non avrebbe più senso pensare a strumenti di welfare e inclusione? Sarebbe sicuramente più utile per il consorzio sociale e per chi commette un reato, oltre che per ciò che si vuole affermare attraverso questa punizione cieca: la nostra civiltà. Potremmo depenalizzare il più possibile, sostituendo le sanzioni penali con quelle amministrative o civili e limitando il ricorso alla pena detentiva a extrema ratio. A questo punto il sistema sanzionatorio si articolerebbe in: sanzioni interdittive, che impediscono di svolgere funzioni, professioni o attività connesse al reato per cui si è stati condannati; sanzioni di carattere pecuniario, quali la confisca e l’obbligo al risarcimento; sanzioni amministrative e civili, a carattere prescrittivo, volte a imporre una serie di obblighi per limitare la libertà di movimento del soggetto o a realizzare adempimenti di tipo riparativo. Nei casi limite di detenzione questa si potrebbe scontare nella propria abitazione o in un luogo pubblico di cura e di assistenza, con il fine di mantenere un qualche contatto con la realtà, attenuando così l’effetto devastante del carcere e favorendo la risocializzazione. Nel nostro ordinamento le misure alternative alla detenzione si dovrebbero concretizzare nell’affidamento in prova ai servizi sociali, nella detenzione domiciliare e nella semilibertà. Dico “dovrebbero” perché l’uso che se ne fa è ridotto: infatti, elaborando i dati resi disponibili dal ministero della Giustizia, risulta che in Italia il 55,2% dei condannati sconta la pena in carcere, mentre in Paesi come Francia e Gran Bretagna la percentuale scende al 24%. Non solo: negli altri ordinamenti europei il ricorso alle pene alternative si è rivelato molto più utile anche nella prevenzione della recidiva e nel reinserimento sociale. L’autorizzazione a osare ci viene dalla nostra stessa letteratura giuridico-penalistica, che è una delle più fini al mondo. Non è un caso che la nostra stessa Costituzione, parlando di pena, non menzioni mai il carcere: i nostri padri e le nostre madri costituenti lo conoscevano bene, ma ci hanno lasciato la libertà di intervenire per creare qualcosa di nuovo, individuando la pena giusta per ogni condannato. Ciò in teoria viene già fatto, ma è reso sempre più difficile dallo scarso ricorso alle misure alternative e alle sanzioni sostitutive. Un primo indispensabile passo che si voleva fare con la riforma dell’Ordinamento penitenziario, la cui discussione è stata rimandata per l’ennesima volta. Una riforma che non avrebbe toccato mafiosi e terroristi, ma che si proponeva piuttosto di migliorare la qualità della vita in carcere a tutela della dignità e di incoraggiare il ricorso a misure alternative. Una riforma che ci avrebbe permesso di prendere del tempo per arrivare con un ritardo meno imbarazzante al nostro appuntamento con lo Stato di diritto che pretendiamo di essere. Magistrati e politica: l’architrave del potere di Milena Gabanelli e Dino Martirano Corriere della Sera, 5 aprile 2018 Tutti i cittadini della Repubblica hanno il diritto di accedere alle cariche elettive, e di ritornare, quando lo desiderano, a fare la loro precedente attività. Nel caso dei magistrati che si mettono in aspettativa per candidarsi è vietato iscriversi ai partiti, ma siccome è una questione più di forma che di sostanza, è lecito chiedersi: con quale terzietà si comporterà un giudice eletto in Parlamento, che dopo anni passati a stretto contatto con la politica, rientra nelle aule giudiziarie? Governo e parlamento - In questo passaggio di legislatura, fra i magistrati non ricandidati dai partiti troviamo: la senatrice Anna Finocchiaro del Pd. Entrò in aspettativa nel 1988, quando era pubblico ministero a Catania; dopo aver militato in un partito per in quale ha ricoperto importanti incarichi nell’arco di 30 anni, ora avrebbe intenzione di indossare nuovamente la toga. Ha chiesto di rientrare in ruolo anche l’ex pm di Milano Stefano Dambruoso, eletto a suo tempo con Scelta Civica. Chiedono di rientrare in magistratura Doris Lo Moro (già giudice del Tribunale di Roma), non ricandidata da Liberi e Uguali, e il Procuratore Domenico Manzione (sottosegretario all’Interno). L’ex pm di Viterbo Donatella Ferranti è rimasta fuori ruolo per 18 anni, prima al Csm e poi deputata eletta fra le fila del Pd, proprio in questi giorni è rientrata come giudice di Cassazione. Felice Casson invece risulta essere l’unico ad aver dichiarato di non voler più tornare a fare il magistrato. Il “sindacalista”, il sindaco, il Governatore - Nella lista dei “fuori ruolo” troviamo Cosimo Maria Ferri, già giudice a Massa ed ex leader della corrente di centro destra dell’Associazione nazionale magistrati (il “sindacato” delle toghe). Diventato nel 2013 sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia nel governo Letta, ha poi mantenuto il suo posto in via Arenula anche con Renzi e con Gentiloni, ed ora è stato eletto nel Pd in Toscana. Michele Emiliano, ex procuratore capo della Repubblica di Bari, dal 2015 è Governatore della Puglia ed è passato anche da un doppio mandato da sindaco nel capoluogo pugliese. È stato “processato” dalla sezione disciplinare del Csm perché, cumulando la carica di segretario locale del Pd, ha infranto il divieto d’iscrizione ai partiti politici. Ma alla fine, la “disciplinare” ha deciso di rimettere gli atti alla Consulta per verificare la legittimità della norma. La riforma che non c’è - Sulle falle del nostro sistema, nella primavera del 2017 era intervenuto anche l’Organismo di Controllo contro la corruzione (Greco) del Consiglio d’Europa, chiedendo all’Italia norme più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica. Nella legislatura appena conclusa i partiti hanno anche provato a mettere dei paletti, ma senza successo. Il testo rimpallato tra Camera e Senato introduceva per esempio l’obbligo di prendere l’aspettativa anche per i magistrati che si candidano alla carica di sindaco o che accettano di fare gli assessori. Obbligo che, incredibilmente, oggi non esiste e rende possibile indossare la toga e la casacca di sindaco o di assessore. Mentre l’incompatibilità territoriale vale solo al rientro (non fai il giudice dove sei stato eletto) ma non alla partenza (non ti candidi dove fai il giudice). Poi c’è sempre l’eccezione: Giovanni Melillo, procuratore aggiunto a Napoli, uscito nel 2014 per fare il capogabinetto del Ministero della Giustizia, è tornato lo scorso anno sempre a Napoli, come Procuratore capo. È stato possibile perché non era stato eletto tra le file di un partito, anche se si tratta di incarico fiduciario e deve pertanto seguire una linea politica precisa. Ma qui si apre un altro capitolo. Alti burocrati con la toga - Sotto la punta dell’iceberg, rappresentata dai magistrati che finiscono negli organi elettivi, ci sono poi i togati distaccati al Csm, alla Presidenza della Repubblica, alla Corte Costituzionale. I più numerosi però sono quelli chiamati direttamente dal governo a svolgere il ruolo di capo di gabinetto, direttore generale, capo dell’ufficio legislativo, consulente o esperto giuridico, nelle ambasciate, negli organismi internazionali, nelle giunte regionali, nelle Autorità di controllo. È previsto che il numero non superi i 200, con un distacco che recentemente è stato fissato a 10 anni. La macchina dello Stato, per funzionare, ha bisogno di queste competenze, ma diventa poi difficile sapere cosa succede lungo le tappe di quel “carosello” di incarichi - tra ministeri e stanze del potere - che alcuni magistrati amministrativi percorrono con estrema disinvoltura “in nome della professionalità messa a disposizione della politica”. L’architrave del vero potere - Nei posti chiave incontri il giudice partito dal Consiglio di Stato che, nel corso degli anni, transita negli uffici del segretario generale di Palazzo Chigi, in quello del gabinetto del Ministro dell’Economia, con la prospettiva di approdare all’Autorità di controllo sulla Concorrenza e, infine, ripassare dall’ufficio legislativo del ministero dello Sviluppo economico. E così via, fino al termine del “carosello” che riporta il nostro magistrato - ormai altissimo burocrate - a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato. Dove tutto torna in caso di contenzioso, e dove - in barba al principio della separazione dei poteri - gli potrebbe anche capitare di giudicare e interpretare norme che lui stesso ha contribuito a scrivere. I boiardi di Stato - Sono nomi noti a pochi, passano indenni ai cambi di governo, e rappresentano l’architrave del potere che comanda davvero. Si va da Franco Frattini a Roberto Garofoli, a Filippo Patroni Griffi. Passato dalla magistratura ordinaria a quella amministrativa, oggi è Presidente di sezione del Consiglio di Stato. Nella sua carriera è stato Capo dell’Ufficio legislativo del Ministero della funzione pubblica con 6 governi, Capo di Gabinetto del Ministro per le Riforme Istituzionali, capo del “Dipartimento affari giuridici e legislativi” della Presidenza del Consiglio, Segretario generale dell’Autorità garante per la Privacy, Ministro per la pubblica amministrazione, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Senza nulla togliere alle loro capacità, e senza fare di ogni erba un fascio, il problema sta nel meccanismo che crea gli “specialisti” dell’alta burocrazia, ne consente le incrostazioni, e di conseguenza la paralizza. “Baby gang, situazione eccezionale da fronteggiare con misure eccezionali” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 5 aprile 2018 Iniziativa del Csm con il vicepresidente, Giovanni Legnini, al carcere minorile di Nisida. Tocca questa volta al Consiglio superiore della magistratura confrontarsi con le “baby gang”, diventate a Napoli ormai da anni una triste realtà con cui fare i conti. Ieri un incontro “ad hoc” al carcere minorile di Nisida. Caratterizzate da una sempre maggiore aggressività e violenza, le baby gang tengono in ostaggio interi quartieri della città. Lo loro escalation criminale pare essere senza freno. Al punto che, sotto il profilo strettamente delinquenziale, nulla hanno da invidiare ai gruppi criminali più affermati. Molte le soluzione proposte per fronteggiare il fenomeno diventato endemico, quasi tutte però sostanzialmente inefficaci. Per fare il punto con questo spinoso problema, il Csm ha dunque organizzato ieri al carcere minorile di Nisida una apposita giornata dedicata “alla comprensione del fenomeno delle baby gang e all’individuazione delle necessarie misure organizzative e legislative per contrastarne la diffusione. È una situazione eccezionale a cui bisogna rispondere con misure eccezionali”. L’iniziativa, organizzata dalla Sesta commissione del Csm presieduta dalla laica Paola Balducci, si è sviluppata con l’audizione di esponenti delle istituzioni locali, della giustizia minorile, delle forze dell’ordine, del mondo scolastico, dello sport e del privato sociale che operano a contatto con i minori a rischio. Nutrita la delegazione consiliare composta, fra l’altro, dai consiglieri Antonio Ardituro, Francesco Cananzi, Giuseppe Fanfani, Aldo Morgigni, Maria Rosaria San Giorgio, Alessio Zaccaria. Gli “ingredienti” del cocktail micidiale che alimenta la crescita di questi fenomeni criminali sono stati indicati dal vice presidente del Csm Giovanni Legnini: “disgregazione sociale, mancanza di opportunità di lavoro, dispersione scolastica”. Nulla di nuovo, si dirà. Ed infatti è lo stesso vice presidente ad evidenziarlo in conclusione dei lavori. “Abbiamo notato una non efficiente gestione dei flussi di informazione tra uffici giudiziari e altre istituzioni per quanto riguarda ad esempio i dati sulla dispersione e sull’abbandono scolastico: non voglio dire che questo non completo scambio di dati costituisca il problema alla base di una mancata risposta ma c’è questa necessità per migliorarla”, ha dichiarato al riguardo Legnini. Cosa può fare il sistema giudiziario? Per il momento, ad annunciarlo sempre lo stesso Legnini, “una specifica risoluzione del Csm sul tema delle baby gang al termine di un’iniziativa di ascolto con i diretti protagonisti dell’azione di contrasto e repressiva affidata sia alla magistratura sia ad altre istituzioni’. E Legnini ha anche annunciato che Napoli ospiterà un plenum del Csm dedicato proprio alla giustizia minorile. Al termine degli incontri verranno “elaborate proposte normative, se saranno riscontrate necessarie, e soluzioni organizzative per far si che tutti gli attori siano nelle condizioni migliori per agire”. Forse, però, più del carcere, della polizia e di nuovi interventi legislativi, a Napoli ci sarebbe prima bisogno di lavoro, considerato che il tasso di disoccupazione giovanile è fra i più alti del Paese. Oltre che di momenti aggregativi efficaci e modelli di riferimento che non siano i personaggi della fiction Gomorra. Ma questo non è comunque competenza del Csm. Zagrebelsky: “l’aiuto al suicidio non può essere reato ma va rispettata la scelta del governo” di Liana Milella La Repubblica, 5 aprile 2018 “Quella norma è incostituzionale, ma più voci davanti alla Corte, compresa quella del governo, potranno rendere la decisione dei giudici più consapevole”. È questa l’opinione di Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte di Strasburgo. Gentiloni dà all’Avvocatura la difesa dell’articolo 580 del codice penale, incostituzionale per i giudici di Milano nel caso Cappato-Dj Fabo laddove punisce anche l’aiuto al suicidio. Era necessario farlo? “L’intervento del governo è una facoltà, non un obbligo. Di solito il presidente del Consiglio interviene per sostenere l’infondatezza della questione di costituzionalità o, per una ragione o per l’altra, la sua inammissibilità. In tal modo il governo difende il Parlamento legislatore e discute le conseguenze di un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, che potrebbero richiedere una propria iniziativa legislativa”. Il governo interviene sempre contro? “Vi è qualche caso in cui il governo è intervenuto sostenendo che la questione era fondata e la norma incostituzionale. In altri il governo non è intervenuto probabilmente perché la fondatezza della questione era evidente, senza conseguenze di sistema”. Sui temi etici però, come la procreazione e le adozioni, si contano casi in cui il governo non ha mosso l’Avvocatura. “Non conosco le ragioni che hanno indotto il governo a intervenire, ma ciò che importa è il contenuto del suo intervento. In linea generale direi che la delicatezza della questione rende comunque utile che alla Corte siano rappresentate tutte le argomentazioni possibili. Più ampio è il contraddittorio, più consapevole risulterà la decisione”. Il governo, facendo una scelta politica “di sinistra”, coerente con la legge sul bio-testamento, non poteva aspettare le decisioni della Consulta? “La legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento va certo nel senso di valorizzare l’autonomia della persona, anche in ordine alla fine della vita. Ma direttamente non riguarda il caso del suicidio assistito. E insisto nel dire che sarà importante conoscere che cosa sosterrà l’Avvocatura, per conto del governo, davanti alla Corte”. Il ministero della Giustizia ci tiene a precisare che la decisione “non è contro Cappato” e lascia intendere di essere favorevole a un’interpretazione ampia della norma che non consideri reato l’aiuto fornito a Fabo. Proprio la direzione in cui sembra andare la stessa Avvocatura. “Appunto. Indipendentemente dalle conseguenze che la sentenza della Corte avrà sul processo a Cappato, quanto il ministero fa sapere dimostra che, secondo il governo, una via diversa da quella dell’eccezione di costituzionalità era possibile. Il giudice avrebbe potuto attribuire all’articolo 580 del codice penale un significato restrittivo rispetto alla sua portata letterale, così da limitare fortemente l’ambito dell’amplissima formula “ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. Se questa possibilità esistesse utilizzando gli ordinari strumenti interpretativi per adeguarsi ai principi costituzionali, il giudice sarebbe tenuto a tentarla. Ma mi pare che la Corte di assise di Milano il tentativo l’abbia fatto, arrivando a una conclusione negativa, che io condivido. A mio avviso correttamente quei giudici hanno sollevato la questione di costituzionalità”. Da giurista come la pensa sul 580? Copre il caso Cappato? “La questione davanti alla Corte riguarda l’articolo 580 del codice penale nella parte in cui punisce chi agevola il suicidio di chi già abbia deciso di por fine alla propria vita, equiparandolo a chi determina altri al suicidio. Due ipotesi del tutto diverse: la prima non incide sulla volontà libera di chi voglia uccidersi, mentre la seconda interviene proprio sull’autonomia della persona, spingendola al suicidio. Questo è un primo motivo di incostituzionalità, per la irragionevolezza del trattare allo stesso modo due situazioni radicalmente diverse. Si può aggiungere che l’ipotesi di punire (con grave pena) l’aiuto al suicidio anche nel caso in cui la persona non è fisicamente in grado di suicidarsi senza l’aiuto altrui crea una diseguaglianza ingiustificata a danno di chi si trova nelle condizioni di maggior debolezza, impossibilitato persino a suicidarsi”. E la Consulta come potrebbe cavarsela? “Penso che la previsione dell’aiuto al suicidio come delitto sia incostituzionale, per il rispetto che la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti umani assegnano all’autonomia e alla dignità della persona nella gestione della fine della propria vita. È inammissibile punire chi aiuta taluno a compiere legittimamente un atto di libertà. Un problema per la Corte sorgerebbe se ritenesse di definire casi in cui l’aiuto al suicidio fosse lecito (fine vita, sofferenze non affrontabili con terapie), mantenendo la punibilità per i casi diversi. In ogni caso è assurdo assimilare l’aiuto all’istigazione al suicidio”. La denuncia di Dell’Utri: “il mio cancro peggiora per colpa dei magistrati” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2018 L’ex senatore contro le toghe del Tribunale di Sorveglianza. L’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri ha deciso di denunciare presso il Csm sei magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Roma che in varie occasioni hanno deliberato sulla sua posizione carceraria. In particolare Dell’Utri ha chiesto al Csm di valutare il comportamento a suo parere “superficiale e inerte” assunto dai magistrati quando sono stati chiamati a decidere in merito alla incompatibilità tra il suo stato di salute e la detenzione. Secondo Dell’Utri i continui dinieghi in merito a misure alternative alla carcerazione per potersi curare hanno provocato un peggioramento delle sue condizioni. Come si legge nelle 12 pagine dell’esposto redatto dagli avvocati Simona Filippi e Alessandro De Federicis, “il magistrato di sorveglianza avrebbe dovuto attivarsi fin dall’indicazione di una sospetta neoplasia prostatica e consentire al detenuto un rapido accesso alle strutture sanitarie evitando così ritardi nella diagnosi e nelle cure che hanno portato al successivo aggravamento della patologia”. Come ci spiega l’avvocato Filippi “i medici del Campus Biomedico, dove attualmente è ricoverato Dell’Utri piantonato 24 ore su 24, hanno evidenziato che il tumore da basso rischio si è trasformato ad uno ad alto rischio, in procinto di espandersi oltre la prostata e infiltrarsi in altri tessuti”. Inoltre, “dal luglio 2017 al gennaio 2018 la direzione del carcere quasi ogni giorno ha scritto al tribunale di sorveglianza, allegando le relazioni del medico di Rebibbia per evidenziare la problematica sanitaria di Dell’Utri e la sua incompatibilità col carcere ma nulla è stato fatto, nessun magistrato ha fatto poi un colloquio con il detenuto. È evidente che i magistrati di sorveglianza non hanno mai preso in considerazione la situazione”. E sulle voci circolate secondo cui in diverse occasioni la Presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma avrebbe fatto pressione sulla direzione del carcere affinché si prendessero provvedimenti per evitare la scarcerazione, l’avvocato Filippi ci dice che tale ipotesi è stata oggetto dell’esposto con “l’augurio che si tratti di qualcosa di infondato - come crediamo - perché il contrario sarebbe gravissimo”. Ora l’esposto verrà assegnato ad un procuratore che si occuperà dell’attività istruttoria. Poi sarà inviato tutto al Csm che farà le sue valutazioni. La sezione disciplinare del Csm deciderà se archiviare o comminare le sanzioni ai magistrati. Intanto oggi ci sarà una nuova udienza presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma per discutere dinanzi a due magistrati - che non sono tra i denunciati - e decidere sulla incompatibilità, sulla quale concorda anche il Garante Nazionale dei Detenuti, Mauro Palma, con la detenzione “disumana” presso il Campus Biomedico. Eccesso di legittima difesa: a giudizio l’oste lodigiano che sparò a un ladro rumeno La Stampa, 5 aprile 2018 Mario Cattaneo venne svegliato di notte da tre ladri entrati nella sua trattoria. Il procuratore di Lodi, Domenico Chiaro, ha chiesto il rinvio a giudizio per eccesso colposo di legittima difesa di Mario Cattaneo, 68 anni, l’oste di Casaletto Lodigiano (Lodi) dal cui fucile la notte del 10 marzo dello scorso anno, partì una rosa di pallini che uccise un romeno di 32 anni che con tre complici si era introdotto nel suo locale. L’oste si svegliò di soprassalto nel cuore della notte. Erano appena passate le 3 e con il figlio e la moglie scese dal primo a piano terra. Lui imbracciava il fucile. Mario e il figlio cercarono di aprire la porta che dà su un cortiletto da cui provenivano i rumori. Quando riuscirono, a fatica, ad aprirla, uno degli aggressori afferrò l’arma che Cattaneo imbracciava. L’oste perse l’equilibrio, cadde e partì un colpo. Petre Ungureanu cadde a terra ferito. I tre complici lo portarono fuori dalla proprietà. Le perizie del Ris hanno confermato che sull’arma erano presenti tracce di dna di un terzo soggetto che non aveva nulla a che fare con i familiari di Mario. Ci sono poi le lesioni su Cattaneo: tre costole rotte e ecchimosi varie a confermare la colluttazione. Il giovane, ferito, fu trascinato ma poi abbandonato dai complici davanti al cimitero di Gugnano, a poche centinaia di metri di distanza dall’osteria. Il bottino lasciato a terra dai ladri durante la precipitosa fuga consisteva in pochi euro del fondo cassa e alcune stecche di sigarette. Già nei mesi scorsi l’accusa iniziale di omicidio volontario era stata derubricata a eccesso colposo di legittima difesa con l’avviso di chiusura delle indagini, mentre a Cattaneo è arrivata la solidarietà di politici, soprattutto del centrodestra, che hanno anche visitato il suo locale. Lui, per pagare le spese della difesa, ha anche scritto un libro con le ricette di famiglia: dal pollo alla cacciatora, agli asparagi selvaggi con cipolla e grana. Ora è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio su cui dovrà decidere il gip nei prossimi giorni. All’oste erano giunte numerose attestazioni di solidarietà. Anche il leader della Lega, Matteo Salvini, nei giorni successivi alla tragedia era andato a cena nell’Osteria dei Amis. Direttiva Ue. Presunzione d’innocenza dall’1 aprile Italia Oggi, 5 aprile 2018 In vigore dal 1º aprile le nuove norme che garantiscono il diritto alla presunzione di innocenza e il diritto di presenziare al processo. Esse sono contenute nella direttiva (Ue) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio in base alla quale agli indagati e imputati è riconosciuta la presunzione di innocenza fi no a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza. La normativa punta inoltre ad assicurare una migliore tutela dei diritto di restare in silenzio e del diritto di presenziare al proprio processo. Essa garantirà infatti che chiunque in tutta l’Ue possa beneficiare di tali diritti procedurali, attualmente non tutelati allo stesso modo in tutti gli Stati membri. Per Vera Jourova, commissaria per la Giustizia, i consumatori e la parità di genere, “ogni anno nell’Ue 9 milioni di persone devono affrontare procedimenti penali. La presunzione di innocenza è un diritto fondamentale e deve essere rispettato nella pratica in tutta Europa. Ogni cittadino deve sempre avere la garanzia di un processo equo”. Induzione e non corruzione per i consulenti che chiedono mazzette di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 4 aprile 2018 n. 14949. Induzione a dare o promettere utilità e non concussione e corruzione in atti giudiziari per i consulenti tecnici che chiedono e prendono soldi per far passare la domanda di invalidità. La Corte di cassazione, con la sentenza 14949, respinge il ricorso del consulente di parte e di quello d’ufficio “sodali” in un accordo: il primo chiedeva al suo cliente denaro da passare al consulente del giudice per alzare la soglia di invalidità fino ad ottenere l’assegno. La cifra in gioco era di 700 euro e questo è uno dei punti sui quali gioca la difesa per ottenere l’attenuante prevista dall’articolo 323-bis del codice penale che scatta in caso di delitti contro la Pubblica amministrazione quando il danno è di particolare tenuità. Ma sul punto c’è il primo no della Suprema corte. I giudici della seconda sezione penale ricordano, infatti, che nei delitti contro la Pa nella valutazione sulla possibilità di applicare o meno l’attenuante, non pesa soltanto l’entità del danno economico o del lucro conseguito ma anche l’atteggiamento soggettivo dell’agente. Nel caso specifico per la Suprema corte il no è giustificato in virtù dell’insistenza con la quale il denaro era richiesto. Non passa neppure la richiesta delle attenuanti generiche, anche qui, giustamente negate per la gravità della condotta: un mercimonio delle funzioni messo in atto in settore delicato come la sanità. Quando il comportamento imprudente del pedone è causa esclusiva dell’evento Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2018 Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Investimento di pedone - Pedone come causa esclusiva dell’evento - Presupposti. Nel settore dei reati in materia di circolazione stradale al fine di accertare se il comportamento colposo della vittima del sinistro costituisca mera concausa dell’evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente, o piuttosto causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, occorre verificare se esso risulti del tutto eccezionale, atipico, non previsto né prevedibile. Secondo la Suprema Corte anche in questo specifico settore appare maggiormente in grado di descrivere il fenomeno della causa da sola sufficiente a produrre l’evento la più recente ricostruzione giurisprudenziale (Cass. pen., sez. U., n. 38343 del 18/09/2014) che indica nell’ estraneità del fattore all’esame dall’area di rischio gestita dal garante il connotato che meglio permette di identificare la causa interruttiva. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 22 marzo 2018 n. 13312. Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Investimento di pedone - Causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento - Colpa esclusiva della vittima - Presupposti. Il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo (imprudente o in violazione di una specifica regola comportamentale) del pedone, ma occorre che la condotta del pedone configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento. Ciò che può ritenersi, solo allorquando il conducente del veicolo investitore (nella cui condotta non sia ovviamente ravvisabile alcun profilo di colpa, vuoi generica vuoi specifica) si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di “avvistare” il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, infatti, l’incidente potrebbe ricondursi, eziologicamente, proprio ed esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente ed operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 31 luglio 2013 n. 33207. Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Circolazione di pedoni - Mancata concessione della precedenza ai veicoli (articolo 134 C.D.S.) - Causa esclusiva dell’investimento - Esclusione. Nell’ipotesi di inosservanza del pedone dell’obbligo di concedere la precedenza ai veicoli (articolo 134 C.d.S.), può solo essere valutata come concausa dell’evento, ma non come causa autonoma esclusiva che interrompa il nesso di causalità tra la condotta di guida del conducente e l’investimento. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 26 gennaio 2010 n. 3339. Circolazione stradale - Norme di comportamento dei pedoni - Investimento di pedone in autostrada - Prevedibilità - Condizioni. È responsabile del reato di lesioni colpose il conducente che investa un pedone il quale si trovi già sulla sede autostradale nell’atto di attraversarla da destra verso sinistra ed essendo visibile fin dall’inizio dall’autovettura del conducente in uscita dalla galleria. (Precisa la Suprema Corte che diverso è il caso di attraversamento di un pedone dalla posizione di fermo sulla piazzola di sosta della sede stradale, che non può considerarsi prevedibile, essendovi un assoluto e comunemente rispettato divieto di attraversamento ed essendo altresì evidente che se si imponesse al conducente di decelerare alla semplice vista del pedone, pure in assenza di motivi di sospetto, ne risulterebbe gravemente compromessa la stessa circolazione e la sicurezza degli automobilisti, costretti a confrontarsi con un improvviso arresto di una autovettura che procede a velocità elevata). • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 3 novembre 2008, n. 41029. Salerno: carcere killer, tre eventi luttuosi in solo quattro mesi La Città, 5 aprile 2018 Aniello Bruno è il terzo detenuto deceduto negli ultimi quattro mesi. Prima di Bruno, il 12 febbraio scorso, era deceduta una sessantacinquenne napoletana che avrebbe lasciato il carcere il prossimo anno. Per lei la morte è sopraggiunta a causa di un infarto. A dicembre scorso era morto il quarantottenne Francesco Nisi di Castelcivita, con problemi di salute mentale. L’uomo, ospite di una casa di cura salernitana, era stato trasferito in carcere. Nisi era deceduto sul pullman della Polizia penitenziaria durante il trasporto dal carcere di Fuorni al Palazzo di giustizia. Anche in questo caso è stata aperta un’inchiesta della magistratura, ancora in corso, per stabilire anche la funzionalità dell’apparato cardiorespiratorio e l’interazione con i farmaci somministrati nel luogo di detenzione. Un quarto episodio risale al 2016: nella notte tra il 25 e il 26 dicembre, fu trovato morto in un bagno della casa circondariale di Salerno il 36enne salernitano Alessandro Landi. L’uomo aveva accusato un forte dolore al petto ma non fu trasferito in ospedale e poco dopo morì. Per questo decesso sono stati rinviati a giudizio per omicidio colposo due medici del carcere. Il sindacato Sappe aveva denunciato che dietro le sbarre in Italia, da un’indagine della Società italiana di medicina penitenziaria, due detenuti su tre sono ammalati e la metà non lo sa. I dati più allarmanti riguardano le malattie infettive: 5mila hanno l’Hiv, 6.500 i portatori attivi del virus dell’epatite B, tra i 25mila e i 35mila i carcerati affetti da epatite C. Oltre la metà della popolazione carceraria straniera (il 34% dei detenuti in Italia) è portatrice latente di tubercolosi. Nuoro: nuova sezione di Alta Sicurezza per 97 detenuti a Badu e Carros Ansa, 5 aprile 2018 Tutti in regime di alta sicurezza in arrivo dalla penisola. Dopo una lunga attesa è stata inaugurata la nuova ala del carcere di Badu e Carros a Nuoro, che ospiterà 97 detenuti in regime di alta sicurezza in arrivo a partire dalla prossima settimana. Al taglio del nastro hanno partecipato la direttrice dell’istituto Patrizia Incollu, il provveditore penitenziario della Sardegna Maurizio Veneziano, il vescovo Monsignor Mosè Marcia e il sindaco Andrea Soddu. “Ai 187 detenuti attuali se ne aggiungeranno altri 97 che arrivano dalla penisola, tutti per gravissimi reati - ha spiegato Veneziano - a Badu e Carros è in fase di progettazione un’ulteriore ala per altri 100 detenuti, quindi il carcere avrà una capienza regolamentare a seguito dell’ulteriore ristrutturazione di circa 370 detenuti. I 97 in arrivo sono in gran parte detenuti della criminalità organizzata, quindi con alle spalle reati di particolare gravità sociale. Sono previste nuove assunzioni di agenti. I nuovi detenuti verranno inseriti gradualmente ma credo che la nuova ala sarà interamente occupata a fine mese”. Scoppia la polemica, però, sulla carenza di organico: “Ben venga l’aumento di detenuti ma non si può fare a meno di un aumento congruo di agenti di Polizia penitenziaria - ha rimarcato Giovanni Villa della Fnp Cisl - mancano almeno 50 unità per appianare il numero previsto dalla pianta organica ma noi chiediamo almeno di avere 30 poliziotti in più. Attualmente a Nuoro ci sono 160 agenti di Polizia penitenziaria quando ce ne vorrebbero oltre 200 per circa 180 detenuti, di cui 100 in regime di alta sicurezza. A breve ci saranno quasi 100 nuovi inserimenti di detenuti ad altissima pericolosità, per questo rivendichiamo le nuove assunzioni di personale entro poco tempo”, ha concluso il sindacalista. Bologna: alla Dozza poco spazio e lavoro per i reclusi zic.it, 5 aprile 2018 Per il garante dei detenuti emerge una condizione “afflittiva” dovuta al poco spazio e all’assenza delle “celle aperte” in alcune sezioni. A molti non è permesso svolgere attività lavorative a causa delle poche risorse. “L’inoperatività, nella sezione infermeria del carcere di Bologna, del cosiddetto regime a celle aperte”, unita al “limitato spazio vitale a disposizione”, risulta “significativamente afflittiva” per i detenuti. Lo scrive, dopo un sopralluogo svolto nei giorni scorsi, il Garante dei detenuti del Comune, spiegando che in quella sezione “non è possibile stare fuori dalle camere di pernottamento, se non per quattro ore al giorno, durante la permanenza all’aria aperta in spazi oltretutto particolarmente limitati”. Una chiusura particolarmente problematica per i detenuti, visto anche lo spazio limitato a loro disposizione. Secondo il Garante “sono stati riscontrati profili di transitorio sovraffollamento in tre celle del piano terra in cui sono ospitate le persone (28 al piano terra) in ingresso, in attesa di essere collocate nelle varie sezioni dopo aver effettuato gli screening sanitari”. Al primo piano “si trovano 14 persone ricoverate per ragioni sanitarie, a cui se ne aggiungono sei collocate in questi spazi per ragioni di opportunità, vigente un regime di chiusura delle celle per 20 ore su 24, data la loro appartenenza a categorie non omogenee di detenuti che non possono stare insieme”. Presenti inoltre quattro persone “sottoposte a regime di grande sorveglianza, sotto il controllo visivo di operatori penitenziari”, poiché la direzione teme che possano tentare il suicidio. Per quanto riguarda la sala d’attesa riservata ai familiari dei detenuti, per il Garante essa è “in condizioni accettabili anche se non particolarmente ampia”. Nelle sezioni del primo piano giudiziario, in particolare la 1A, 1C, 1D, “la possibilità di essere impegnati in attività lavorative non è adeguata alla domanda, a causa delle limitate risorse a disposizione”. Nel dettaglio, “All’1A sono collocate 50 persone prossime alla scarcerazione, a un anno dal termine dell’espiazione della pena, che non hanno potuto usufruire di misure alternative”. In questa sezione si rileva un significativo numero di cittadini stranieri, segno che il sistema detentivo colpisce in maniera rilevante persone già di per sé potenzialmente soggette a situazioni di marginalità, e nelle celle non sono presenti le docce. Nella sezione 1C “sono tendenzialmente collocate le persone tossicodipendenti (in questo caso 52), senza separazione fra imputati e condannati in via definitiva, a cui il Sert interno eroga assistenza sanitaria, con particolare riguardo alla terapia metadonica”. Anche qui, scrive il Garante “c’è una significativa prevalenza di cittadini extracomunitari”. Le sezioni 1B e 1D sono quelle in cui si vive una condizione migliore rispetto al resto della struttura, a queste si accede attraverso la stipula di un “patto trattamentale” fra il detenuto e la direzione. Ferrara: “Conversazioni dalla finestra”, per parlare di cultura in carcere estense.com, 5 aprile 2018 Le attività per i detenuti in via Arginone vengono raccontate alla cittadinanza durante un ciclo di incontri-aperitivo. Parlare di cultura adottando un punto di vista diverso, come quello a favore della persona detenuta in carcere, può fare scoprire bellezze nascoste e avvicinare al volontariato. È questo che si propone di offrire ai cittadini il ciclo di incontri-aperitivo con i conduttori di progetti culturali nella casa circondariale “C. Satta” di Ferrara dal titolo “Conversazioni dalla finestra: la cultura in carcere”, in programma tra aprile e maggio in diversi luoghi pubblici di Ferrara. Ognuno degli incontri, che si terrà dalle 19 alle 21 martedì 10 aprile al ristorante “Scaccia nuvole”, martedì 17 aprile al pub “Clandestino”, lunedì 7 maggio alla pasticceria “San Giorgio” e martedì 15 maggio al centro di promozione sociale Ancescao “La Resistenza”, prevede la proiezione del film documentario “Epica Carceraria” sul lavoro “Gerusalemme Liberata”, realizzato da Marinella Rescigno e Davide Pastorello dal laboratorio del teatro in carcere, e un momento di discussione e dibattito alla presenza di chi porta avanti attività culturali nella casa circondariale di via Arginone, come il laboratorio teatrale, la redazione del periodico “Astrolabio”, il laboratorio di pittura, il laboratorio di fotografia, i percorsi scolastici, la biblioteca. Fare percorsi culturali in carcere significa dare la possibilità alla società di raccontarsi nuovamente e aprire il ventaglio delle offerte di realizzazione di un individuo a coloro che spesso da queste offerte, per provenienza sociale, sono rimasti esclusi. A partire da queste opportunità il detenuto ha la possibilità a sua volta di raccontarsi con un linguaggio nuovo e più adatto a sé, accorciando le distanze che li separano dalla società da cui esso è temporaneamente escluso. Questi momenti vogliono invitare la cittadinanza a riflettere, partendo dalle esperienze con la popolazione ristretta, sul ruolo stesso della cultura. Sperimentare nuovi linguaggi narrativi e trovare nuove forme di espressione del bello hanno un significato e un’importanza centrale nei processi di trasformazione della società, che sono tutti i giorni sotto i nostri occhi. Durante gli incontri ogni referente delle attività illustrerà il proprio metodo di approccio al detenuto e le difficoltà e gli aspetti positivi della propria esperienza, inoltre saranno presentati pubblicazioni e materiali informativi relativi ai progetti culturali che hanno trovato continuità nel carcere. L’iniziativa è promossa da Teatro Nucleo e Agire Sociale nell’ambito del progetto Cittadini Sempre, che all’interno della casa circondariale di Ferrara coinvolge enti del terzo settore, amministrazioni pubbliche e cittadini. Catanzaro: un evento teatrale presso la Casa Circondariale “Ugo Caridi” Ristretti Orizzonti, 5 aprile 2018 In occasione della Giornata Mondiale del Teatro e della Quinta Giornata del Teatro in Carcere, il prossimo 12 aprile c.a., presso la Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, verrà organizzato un evento teatrale, in collaborazione con l’Associazione Culturale “La Ribalta” di Vibo Valentia. Un’associazione culturale, che non persegue scopi di lucro e che, da anni, segue un percorso di teatro sperimentale e di ricerca, mediante la partecipazione ad una serie di stages tenuti da attori professionisti. L’Associazione si prefigge di promuovere la cultura attraverso la convergenza di passioni e di ispirazioni, per proporre incontri finalizzati all’aggregazione sociale e, soprattutto, volti ad interagire in contesti sociali difficili. La compagnia Teatrale “La Ribalta”, vanta diversi premi ottenuti a livello regionale, ma anche nazionale; Ultimo il premio come miglior compagnia, miglior attore protagonista (Emilio Stagliano) e Miglior Attore non Protagonista (Antonio Fortuna) all’interno della Rassegna Regionale, organizzata dalla Uil-Te e che vedrà la compagnia, rappresentare la Calabria, al prossimo concorso nazionale. A livello Nazionale, vanta, due prestigiosissimi premi, nell’ambito della Rassegna TalentArte 2015, presieduta da Pippo Franco, rispettivamente migliore attrice protagonista a Giusi Fanelli e il premio critica “Giuseppe Mannini” all’attore Emilio Stagliano (miglior personaggio). In occasione della Giornata Mondiale del Teatro 2018, porterà in scena, presso la Casa Circondariale di Catanzaro, “Serata in famiglia”, una commedia tratta dalla pièce francese di enorme successo “Le Prénom”, divenuta poi “Cena tra amici”, film da record e che in Italia ha dato spunto alla Regista Francesca Archibugi di scrivere e dirigere “Il nome del figlio”. Tale sceneggiatura, che trasuda ritmo, colpi di scena, dialoghi sferzanti e risate, catapulta lo spettatore all’interno di un appartamento e ci si sente immediatamente “a casa”. Cosenza: libri per i detenuti del carcere di Rossano strill.it, 5 aprile 2018 Proficua raccolta di libri per i detenuti del carcere di Rossano da parte dell’associazione socio culturale di promozione sociale territoriale nonché di volontariato denominata Fidelitas, capitanata dal Presidente avvocato Giuseppe Vena e coadiuvato da numerosi soci iscritti, che opera quotidianamente su tutto il territorio della Piana di Sibari. Si è svolta nei giorni scorsi la cerimonia di consegna dei libri presso la casa circondariale di Rossano, alla presenza del direttore Dott. Giuseppe Carrà e del personale carcerario, che ha speso parole di lode verso l’associazione Fidelitas per il bellissimo gesto di solidarietà compiuto in favore dei detenuti. I libri raccolti, oltre cinquecento, hanno ad oggetto varie materie didattiche oltreché di saggista e narrativa. I libri donati verranno impiegati dalla struttura carceraria per accrescere il grado d’istruzione e di cultura dei detenuti affinché una volta usciti dall’istituto possano integrarsi nella società civile. Il regalo - per come ha affermato il Presidente Vena - che i soci dell’associazione Fidelitas hanno voluto fare ai detenuti della struttura carceraria è quello di alleviare loro la sofferenza della detenzione, affinché quest’ultima si traduca nell’opera di rieducazione a cui deve tendere l’espiazione della pena. Premio Goliarda Sapienza. Il tutor Purgatori: tra i detenuti ho trovato impegno e coraggio di Roberta Barbi vaticannews.va, 5 aprile 2018 Giurato prima, tutor poi: il giornalista d’inchiesta Andrea Purgatori non rinuncia a prestare il proprio lavoro per il Premio Goliarda Sapienza, un’esperienza “arricchente che ti mette in contatto con un’umanità che altrimenti non incontreresti mai”. Dai retroscena della strage di Ustica al parodiante fanta-revisionismo di Fascisti su Marte: nella sua lunga carriera Andrea Purgatori ha dimostrato un amore talmente incondizionato per la scrittura da renderlo assolutamente eclettico, anche se: “Mi sono spesso occupato di drammi, di persone che pagano con la vita il loro impegno - precisa - e questo è stato un punto di forza che mi ha fatto conoscere dai detenuti e mi ha permesso di entrare più facilmente in contatto con loro”. Il carcere come mondo da raccontare - “Partecipo da anni a quest’iniziativa perché in me ha risvegliato la curiosità che tutti coloro che lavorano o hanno a che fare con la creatività devono avere - racconta - anche se cerchiamo di dimenticarcene, anche se cerchiamo di rimuoverlo, il carcere è una realtà che fa parte anche della nostra esistenza, un luogo in cui vive un mondo di persone che hanno qualcosa da raccontare”. Raccontare per sentirsi “dentro la vita” - Il giornalista e sceneggiatore, per le diverse edizioni di Goliarda Sapienza ha interpretato sia il ruolo di tutor che quello di giurato, lavorando a stretto contatto sia con gli adulti sia con i più giovani: “Come membro della giuria è esaltante avere la possibilità di leggere tutti i racconti - ricorda - per i detenuti raccontare le esperienze vissute, quelle che li hanno particolarmente segnati, così come i propri sogni, è un modo per sentirsi ancora dentro alla vita che dovranno riprendere una volta fuori”. Nelle loro pagine non ha trovato grandi differenze rispetto all’età anagrafica degli autori, piuttosto differenze legate al mondo interiore e alla capacità personale di esprimersi. Impegno e coraggio, però, sono stati una costante. Prima i fatti, poi i gesti e le parole - Ed ecco il principale consiglio che il tutor Purgatori ha dispensato quest’anno ai suoi allievi: “Far precedere i fatti ai gesti e alle parole, nel senso che prima va costruito il cuore della storia, quello che ti prende quando la leggi, e intorno a esso, poi, gira tutto il resto, le descrizioni e i dialoghi”. Molti i detenuti che hanno fatto tesoro dei suoi consigli: per alcuni, infatti, la scrittura e la partecipazione a Goliarda Sapienza non sono state esperienze conclusesi nel giro di pochi mesi, ma hanno fatto nascere passioni e speranze. Colpevoli di essere innocenti, in tv storie di ordinaria ingiustizia di Valter Vecellio Il Dubbio, 5 aprile 2018 Alberto Matano su Rai3 riprende la trasmissione, raccontando le vicende di persone rinchiuse in carcere senza aver commesso alcun reato. Trascrivo quello che cinque anni fa annota Carlo Verdelli: “Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l’ha spezzato in due, anche se lontana, non lascia in pace neanche la nostra coscienza. E non solo per l’enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare “il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese” (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un’ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà”. Verdelli riconosce che se non fosse stato per Marco Pannella, per i radicali che allora si era (e mi onoro di averne fatto parte), e per “campioni” come Piero Angela, Giacomo Ascheri, Enzo Biagi, Vittorio Feltri, Indro Montanelli, Leonardo Sciascia e pochissimi altri, quell’”affaire” chissà come si sarebbe concluso. Forse, chissà, sarebbe prevalsa la perversa logica che in quei giorni viene espressa da Camilla Cederna: “Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto”. Quando con il mio amico Raffaele Genah pubblichiamo - è il 1987 - quello che forse è il primo libro che racconta “Storie di ordinaria ingiustizia”, ci imbattiamo in decine di casi, persone prese “in piena notte”, che sì, qualcosa effettivamente hanno fatto: come Tortora sono innocenti. Colpevoli di essere innocenti. Dalla terribile esperienza di cui è vittima, esce schiantato; ma fino all’ultimo suo respiro è fedele al suo proposito: “Io sono qui e lo sono anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono. E sono molti, sono troppi”. Più che mai oggi: a parte il Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale, nessuna forza politica, da destra a sinistra, pone nella sua agenda la questione della Giustizia, del diritto al Diritto, la sua conoscenza e consapevolezza: individuale e collettiva. E si badi: nessuno significa, letteralmente, nessuno. Nel frattempo, tra l’indifferenza dei tanti e il compiacimento di qualcuno, questi orrori proseguono, si consumano a cadenza quasi quotidiana. Che dire, per esempio, del caso dell’ex senatore Antonio Caridi? Recluso nel carcere di Rebibbia per oltre un anno e otto mesi, accusato di essere uno dei componenti del vertice della cupola politico- affaristico-mafiosa che domina la vita economica e sociale di Reggio Calabria, al centro di un’inchiesta nata ben quindici anni fa, finisce in carcere sulla base di esigenze cautelari sfuggenti, vista la distanza dai fatti. Il Senato spinto dalla furia giustizialista del Movimento 5 Stelle e del Partito Democratico, autorizza l’arresto. Un provvedimento stroncato per ben due volte dalla Corte di Cassazione, che demolisce nel merito gran parte delle accuse, basate su prove ritenute insufficienti, tra cui dichiarazioni di pentiti di dubbia credibilità. Nelle redazioni dei giornali e dei telegiornali siamo ben attenti (non sempre, a dire il vero) a non mostrare gli arrestati con i polsi bloccati dalle manette. Quando proprio non se ne può fare a meno, perché i servizievoli operatori di carabinieri o polizia su quei polsi hanno indugiato, abbiamo cura di oscurarle, con pudiche sgranature. Come se lo spettatore o il lettore sia così sprovveduto da non capire e non sapere che quell’uomo, circondato da uomini in divisa e fatto salire con ogni cautela su un’automobile delle forze dell’ordine, non è ammanettato. Vien davvero voglia di dire: bella ipocrisia. È così che ci nettiamo la coscienza, professionale e umana? La butto lì (e mi piacerebbe conoscere l’opinione del mio amico Giuseppe Giulietti, che so essere persona onesta in ogni senso, e particolarmente sensibile alle questioni dei diritti di libertà); e parlando a lui, mi rivolgo, beninteso, a tutti i garantisti che siamo e vogliamo essere: più che evitare di mostrare le manette, non dovremmo aver cura di non mostrarle proprio, le persone sottoposte a fermo? Non dovremmo evitare di mostrare le fotografie, quasi sempre volti ritratti con poco riguardo, ed evitare perfino di citare i nomi? Troppi vengono poi prosciolti, e hai voglia a dire che si sono sbagliati… Conosco l’obiezione: diritto di cronaca. Già: e il diritto della persona? Quelle per cui Tortora dice: “Io sono qui e lo sono anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono. E sono molti, sono troppi”? Dal caporalato alla libertà: storie di ribellione e riscatto nelle campagne italiane di Sonia Ricci La Repubblica, 5 aprile 2018 Da Rosarno alle Langhe, ecco le cooperative che ridanno dignità agli sfruttati e distribuiscono prodotti gastronomici di qualità: dalle salse di pomodoro ai formaggi dalle marmellate al miele, alla raccolta di agrumi e olive. Seguici anche su Facebook. Per otto mesi Lamine Bodian si è svegliato a Laureana di Borrello, vicino a Rosarno, in Calabria. Ha vissuto in una casa abbandonata, in campagna, senza luce né acqua. Ogni giorno ha raccolto mandarini e dopo aver finito ha percorso chilometri per andare a prendere venticinque litri d’acqua per poter bere e lavarsi. Non è nato lì. È senegalese. Se gli chiedi com’era la vita nei campi, dice: “Ci trattavano come cani, li chiamavamo padroni”. Come lui, Ibrahim, Suleman, Sidiki, ma anche Giuseppina, Paola e Abdullah che non ci sono più, sono stati servi dell’agricoltura: per mesi e mesi hanno raccolto arance e riempito cesti di pomodori per meno di 25 euro al giorno. Hanno sofferto nella via crucis del mondo agricolo, girando le terre e le stagioni in cerca di frutta e verdura da raccogliere. Fortunatamente alcuni di loro, non tutti purtroppo, sono riusciti a trovare un impiego normale grazie a diverse realtà nate negli ultimi anni per contrastare lo sfruttamento nei campi e il caporalato. E questa è la storia di quegli ex braccianti delle campagne di Foggia e Nardò in Puglia, Rosarno in Calabria e nelle Langhe in Piemonte che hanno deciso ribellarsi dalle condizioni di lavoro opprimenti nelle quali vivevano. Continuano a lavorare la terra, ma non vengono più pagati a cottimo a seconda delle cassette raccolte, né sopravvivono in casupole fatiscenti e tende ammassate attorno ai margini delle città. Hanno deciso di creare qualcosa di diverso: associazioni e reti di distribuzione, preparano salse di pomodoro, producono formaggi, marmellate, miele, raccolgono agrumi e olive in autonomia e con contratti regolari, senza dover sottostare alle logiche di sfruttamento imposte dalla grande distribuzione organizzata. Certo, tutto si può dire tranne che il caporalato a Rosarno sia storia passata: dopo otto anni dalla rivolta scoppiata nel 2010, i migranti africani vivono ancora come bestie nel ghetto di San Ferdinando, in condizioni igienico-sanitarie pessime. In quei territori, nella Piana di Gioia Tauro, da alcuni anni opera una delle prime esperienze di rivalsa dei braccianti: Sos Rosarno. Un progetto nato dalle assemblee all’ex Snia di Roma, in via Prenestina, con i ragazzi africani che lì avevano trovato ospitalità. Nei mesi successivi alla rivolta hanno cercato di creare un “altro mercato” e ci sono riusciti grazie al sodalizio con una decina di produttori calabresi. Oggi arance e olio vengono vendute a un prezzo giusto e alcuni di quei ragazzi sono tornati a Rosarno per lavorare con contratti regolari. La campagna, direttamente e indirettamente, dà risposta a 60 lavoratori - alcuni sono impiegati tutto l’anno, altri per circa tre mesi - e gli agrumi arrivano un po’ in tutta la penisola, grazie soprattutto alla grande rete dei Gruppi d’acquisto solidale che sostengono il progetto. Tra i migranti africani giunti fino a Roma dopo la rivolta di Rosarno c’era anche Suleman Diaria. Originario di Yorobougoula, un villaggio nel sud del Mali, è uscito dai ghetti calabresi e da quattro anni è presidente della cooperativa sociale Barikamà, produttrice di yogurt e ortaggi biologici. Insieme a lui lavorano altri sei giovani africani. Tutto è iniziato con pochi litri di latte, all’ex Snia e oggi Suleman e gli altri - con l’aiuto del socio Mauro e di alcuni ragazzi con la sindrome di Asperger - producono centinaia di vasetti alle porte della Capitale, nell’agriturismo Casale di Martignano. Il loro yogurt è apprezzatissimo e viene venduto nei mercati rionali di Roma, ai Gas e nelle botteghe di quartiere, ma il riscatto per questo gruppo di ragazzi passa anche per il Caffè Nemorense: il piccolo bar del parco omonimo che da fine 2017 è gestito dalla stessa cooperativa. Col nascere di queste realtà è stata creata una rete più grande che le racchiude tutte. Fuori Mercato riunisce produttori agricoli, attivisti, migranti e italiani che dalla Sicilia alla periferia industriale di Milano hanno deciso di darsi delle regole comuni: autogestione, produzioni contadine e rispetto delle condizioni di lavoro sui campi e in fabbrica. In questo mercato alternativo dell’agroalimentare c’è anche una storia fatta di salse e schiumarole: Sfrutta Zero. Migliaia di vasetti portano questa etichetta e attraversano l’Italia, da Sud a Nord, scavalcando l’Appennino e percorrendo la pianura padana. Partono dalla Puglia - tra Nardò e Bari - e arrivano fino alle tavole del Trentino, ma quello che viene trasformato in passata non è un pomodoro qualunque. Dietro a questo progetto, infatti, c’è una straordinaria comunità di tipo cooperativo e mutualistico, in grado di sottrarsi alle multinazionali delle conserve. L’hanno fatta nascere due associazioni: Diritti a Sud e Solidaria. I protagonisti sono migranti, contadini, giovani precari e disoccupati che lavorano i campi stagionalmente con contratti regolari e paghe dignitose. Non hanno terreni di proprietà, li affittano stagionalmente insieme a van e trattori, piantano e coltivano il pomodoro senza utilizzare pesticidi o sostanze chimiche di alcun tipo, lo raccolgo, e poi lo portano alle aziende conserviere locali. Spostandoci in Campania e Basilicata s’incontra Funky Tomato, la rete che si impegna a redistribuire il lavoro e combattere lo sfruttamento agricolo. Nasce nel 2015 per iniziativa di attivisti e persone impegnate sul territorio: una realtà diversa dalle altre, né una cooperativa né un’associazione, bensì una vera e propria filiera agricola. Si acquista tramite pre-finanziamento a partire da maggio quando viene avviata la campagna d’acquisto e le conserve arrivano a metà agosto, con i pomodori provenienti dalla zona del Vesuvio, Sarno e Oppido lucano. L’anno scorso ne sono state prodotte 150mila. Di questa filiera fanno parte tante piccole aziende agricole che accettano di produrre secondo i criteri contenuti nel disciplinare di Funky Tomato: agricoltura organica, capacità produttiva e tutela del lavoro, quest’ultimo un capitolo gestito direttamente dal consorzio. Molti migranti e alcuni italiani vengono assunti stagionalmente - per 40-50 giorni - tramite contratti di rete che stipula la filiera stessa. Un modo per arginare il fenomeno del caporalato. La grande rete di Fuori Mercato ospita anche le olive di Nocellara del Belice, in Sicilia. Grandi, verdi, dal sapore fruttato e delicato, da settembre a dicembre vengono raccolte da centinaia di lavoratori, soprattutto migranti, costretti a vivere nel ghetto Erbe Bianche di Campobello di Mazara. Nel 2013, dopo la morte di un ragazzo bruciato vivo mentre cercava di accendere un fornello, sono nate le prime assemblee tra italiani e africani, organizzatisi poi con l’obiettivo di continuare a coltivare i campi. Poco dopo è nato ContadinAzione, dove oltre alle olive vengono prodotti pomodori secchi, olio e paté. A differenza delle altre organizzazioni Rimaflow il cibo, oltre a produrlo, lo distribuisce. È una ex fabbrica di Trezzano sul Naviglio, comune dell’hinterland milanese, dove fino al 2012 si producevano tubi per condizionatori di auto e camion. Dopo la delocalizzazione dello stabilimento, gli operai licenziati - italiani e stranieri - hanno deciso di prenderla in autogestione e oggi funge da centro di distribuzione di alimenti soprattutto per Gas e spazi sociali, oltre ad avere al suo interno la Cittadella dell’altra economia dedicata all’artigianato. In quei capannoni arrivano prodotti che seguono la stessa filosofia delle realtà citate finora, utili a varie produzioni alimentari, come il Rimoncello (il limoncello prodotto con i limoni di Sos Rosarno), vari tipi di conserve e prodotti da forno. Nonostante negli anni siano nate varie realtà come queste, l’emergenza legata allo sfruttamento dei lavoratori in agricoltura è tutt’altro che finita. Nell’ottobre 2016 il Parlamento italiano ha approvato la nuova legge sul caporalato, che prevede pene più severe per le aziende che si avvalgono dell’intermediazione illecita, e il Governo ha promesso maggiori controlli. Aspettando che la legge porti risultati concreti - se mai ce ne saranno - si spera che altri lavoratori si ribellino da condizioni d’impiego disumane. Come ha fatto Lamine in Calabria: “Continuavo a pensare: non sono uno schiavo e neppure i miei fratelli africani lo sono. Non ho più accettato di essere un cane”. E così da lavoratore della terra, sfruttato e vessato, prima ha lavorato con Sos Rosarno, poi è diventato un mediatore culturale lavorando nelle questure del Mezzogiorno. Ora è lui ad aiutare gli altri migranti in difficoltà. Cambridge Analytica, Facebook ammette: “gli utenti coinvolti sono 87 milioni” di Martina Pennisi Corriere della Sera, 5 aprile 2018 L’annuncio in un post di Mike Scroepfer, Chief Technology Officer di Menlo Park, che spiega i “piani di restringere l’accesso ai dati di Facebook”. Il fondatore: “Non abbiamo fatto abbastanza. È stato un grosso errore, è stato un mio errore”. I dati di 87 milioni di utenti Facebook - 70 milioni e 632 mila negli Stati Uniti - potrebbero essere stati esposti all’utilizzo improprio da parte di Cambridge Analytica. Non si tratta, quindi, dei soli 50 milioni di amici dei 270 mila che avevano scaricato l’applicazione this-is-your-digital-life, come ricostruito dalle inchieste di New York Times e Guardian che lo scorso 17 marzo hanno scoperchiato il vaso di Pandora delle informazioni sfruttate dalle cosiddette terze parti. L’ammissione - “È stato un mio errore”, ha ribadito Mark Zuckerberg ai giornalisti, annunciando un deciso taglio dei dati a disposizione degli sviluppatori di prodotti digitali collegati a Facebook (e anche a Instagram. Non si potrà più, inoltre, cercare profili altrui usando email e numeri di telefono). Ha poi rimarcato di essere saldamente al comando di Menlo Park. “Sono ancora io la persona migliore per gestire Facebook. Si fanno degli errori e si impara lungo la strada. Ammetto che non ci siamo resi conto a sufficienza di quali fossero le nostre responsabilità”, ha dichiarato, sottolineando come per ora lo scandalo non abbia avuto “alcun impatto significativo” sull’utilizzo da parte degli utenti. Secondo i dati comunicati ieri sera dal social network, in Italia a scaricare l’app del ricercatore di Cambridge Aleksandr Kogan sono state 57 persone, che hanno concesso l’accesso alle informazioni di 214.077 amici. Sono 214.134, quindi, i connazionali potenzialmente coinvolti nell’attività di Cambridge Analytica, che nel 2012 aveva lavorato con un partito italiano “che aveva avuto successo l’ultima volta negli anni 80”. I Paesi colpiti - Dopo gli Usa, i Paesi maggiormente coinvolti sono le Filippine, l’Indonesia e, con un milione di utenti, il Regno Unito. Nel resto della lista delle dieci zone più interessate non compare l’Europa, in cui il 25 maggio entrerà in vigore il nuovo regolamento per la protezione dei dati personali: Zuckerberg ha chiarito - smentendo le voci circolate durante la giornata di ieri - che quanto previsto in termini di trasparenza o portabilità dei dati verrà applicato anche nel resto del mondo. Da lunedì prossimo, chi può essere stato coinvolto nello scandalo di Cambridge Analytica verrà avvisato dal social. Tra sette giorni, invece, Zuckerberg dovrà rispondere dell’accaduto anche davanti al Comitato per l’energia e il commercio della Camera Usa. Per l’imprenditore 33enne si tratta di una delicata prima volta davanti al Congresso americano. Migranti. Manconi: “diritti umani e stranieri irregolari, in Italia dignità a rischio” di Luca Liverani Avvenire, 5 aprile 2018 Oltre che sulle violazioni dei diritti umani in casa d’altri - Paesi autoritari o in via di sviluppo - c’è un gran bisogno di tenere alta l’attenzione sul mancato rispetto della dignità umana in un Paese moderno e democratico come l’Italia. Migranti, rom, detenuti, senza fissa dimora. L’esperienza della Commissione per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, giunta al termine con la fine della legislatura in quanto commissione straordinaria, merita di essere reiterata. È la richiesta della mozione depositata ieri al Senato e sottoscritta da quasi tutti i gruppi. A darne l’annuncio è la senatrice di +Europa Emma Bonino, intervenendo alla presentazione del bilancio dell’attività della Commissione, presieduta finora dall’ex senatore dem Luigi Manconi, ora coordinatore dell’Unar. “Abbiamo depositato una mozione per instaurare la Commissione speciale diritti umani - dice - e speriamo di poterlo fare velocemente. Dovrebbe essere una commissione permanente, alla Camera è una sottocommissione di quella Esteri, spero che anche lì si possa fare un lavoro in questo senso. Hanno firmato tutti i gruppi - spiega la senatrice - tranne Fratelli d’Italia”. Notevole la mole di lavoro prodotta dalla Commissione i questi cinque anni: 184 tra riunioni, audizioni e sedute, 45 missioni, 30 convegni e 10 proiezioni cinematografiche su temi attinenti. Manconi la definisce “una mappa geografica delle violazioni dei diritti umani, delle politiche di disuguaglianze, dei luoghi in cui viene esercitata la privazione della libertà personale”. Giuliano Amato, giudice costituzionale, sottolinea l’importanza della Commissione che “ci costringe a guardare situazioni che rappresentano il nodo problematico per la stessa sopravvivenza delle nostre democrazie liberali. La democrazia illiberale è un ossimoro ma per molti sta diventando sempre più desiderabile”. E aggiunge: “Oggi noi italiani, di fronte al contatto reale con le diversità, non possiamo più guardare dall’alto in basso” la società americana o sudafricana. “Assistiamo a un’esplosione scandalosa delle diseguaglianze sociali”, sottolinea Luigi Ferrajoli, giurista e allievo di Norberto Bobbio. “La Repubblica italiana di fatto ha promosso, anziché rimuovere, le diseguaglianze: in pochi anni sono raddoppiati i poveri” e concepiamo “l’esistenza di “persone illegali” che devono vivere nascondendosi”, quella massa di “immigrati irregolari che da anni risiedono e lavorano in Italia e che a migliaia finiscono nei centri di detenzione per essere espulsi dopo un controllo documenti dei vigili urbani, lasciando senza mezzi di sussistenza intere famiglie”. Persone la cui privazione della libertà personale “è affidata a un giudice di pace, una materia sottratta alla legittima giurisdizione, con un atto puramente burocratico”. Una situazione che andrebbe urgentemente sanata per decreto, afferma Ferrajoli, “su cui si gioca l’identità democratica dell’Italia e dell’Europa”, scossa dai “movimenti sovranisti che temono per la messa a rischio della loro identità culturale: forse quella razzista e falsamente cristiana?”. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, prima di tutto si augura che la riforma dell’ordinamento penitenziario, “approvata dal governo oltre il filo di lana, alla Camera debba solo passare per una presa d’atto”. E ricorda come “per la dignità umana occorre una perenne tensione per la rimozione degli ostacoli che di fatto la negano”. E allora, conclude Emma Bonino, “Il nostro Paese ha ancora bisogno di una Commissione per la tutela dei diritti umani”. Nei lager di Tripoli alla ricerca di un migrante scomparso di Domenico Quirico La Stampa, 5 aprile 2018 L’impossibile promessa alla sorella arrivata in Italia. Gli uomini costretti a pagare per lavorare fuori dalle carceri, le donne alla mercé dei miliziani. Sono venuto a Tripoli a cercare un uomo, un ragazzo di ventiquattro anni, un migrante. Adesso che, all’aeroporto, mi incolonno nella folla pigiata di viaggiatori, rivenduglioli, salafiti, spie, miliziani mi accorgo di quanto il mio scopo sia assurdo. Mi hanno chiesto di ritrovare una pagliuzza nell’immenso mucchio della migrazione, impigliata nella rete che noi e i libici abbiamo teso sulla spiaggia del mare. Di lui ho soltanto un nome, Lehi, una data e un luogo di nascita, Yassap in Costa d’Avorio. E un numero di telefono, libico, che quasi certamente non potrò usare per non metterlo in pericolo, per non allertare coloro che lo hanno forse rapito imprigionato reso schiavo. Ecco. Ora che sono qui quello che provo assomiglia all’eccitazione che si avvertiva quando a scuola il professore cominciava la lezione di geometria con queste parole: prendiamo un punto nell’infinito. L’auto corre sul lungomare, la vicinanza del deserto si avverte nei colori dell’aria che è chiara e celestina, il cielo di un azzurro pallido, leggero, di un rosa che sfuma ormai nel tramonto vale di più della città che gli deve quanto ha di meglio. Vedo intorno le solite case strette come scaglie di pigna di una architettura spuria, strade senza carattere, senza bellezza né ricchezza, l’immondizia a mucchi, i murales della rivoluzione, “alla fine liberi”, sudici e illeggibili. Devo cercare, nel gran gioco del caso e della sorte, uno di coloro che hanno solo terre straniere e nemmeno una patria, che vivono con linguaggi presi a prestito, trascinati dal vento. Sapevo che avrei dovuto immergermi non nella Tripoli palese ma in una Tripoli incavernata e occulta, quella delle milizie e dei loro traffici, degli accordi opachi scritti da noi nel 2017 per mettere sotto controllo la migrazione. L’aereo che mi ha portato da Tunisi è appunto uno di quelli che vengono usati, due volte la settimana, martedì e giovedì, per i “rimpatri volontari”. Fuori è nuovo, dentro, sui sedili, c’è attaccata l’abitudine a folle di poveri, l’usura e l’odore di abiti usati, di sporte stracariche, di misere cose. Scorrono i palazzi di Gheddafi, non ultimati o distrutti, scheletri di cemento che il tempo ha già reso scuro, cumuli di rovina alti come grattacieli. In lontananza sembrano castelli intatti. Poi mano a mano che ci si avvicina si decompongono e si dissolvono in ruderi confusi con gli altri edifici: come se lo sfacelo non fosse già avvenuto ma avvenisse in quegli attimi. Essi danno infinite volte la stessa esibizione, morire sotto i nostri occhi tutte le volte che li si guarda. La promessa Ho accettato questo compito perché ho incontrato una giovane donna, Sabine e la sua bambina. È la sorella del ragazzo che sono venuto a cercare. Lei ha attraversato il mare in barcone, il marito è sparito in Libia e non ne sa nulla da due anni. Un altro fratello è morto in mare. Resta Lehi, scomparso e poi riaffiorato a novembre con una telefonata in cui raccontava di esser nella casa di un libico e chiedeva aiuto. Chiuso in un centro di detenzione, stremato, malato, era stato portato via dal suo padrone che per non riportarlo in prigione voleva denaro: ottocento euro subito e poi, trecento, ogni mese. È il nuovo business, in attesa di riprendere quello dei barconi e del mare. Sabine e i parenti hanno mandato il denaro; poi da gennaio, improvviso, il silenzio. Se non avessi guardato negli occhi Sabine, se non l’avessi ascoltata aggrapparsi a un indizio, a un dettaglio, a una briciola di informazioni per riaccendere le speranza, non avrei accettato. Vi era qualcosa di così straziante in questo scavare nel passato, nel minuscolo episodio di un tempo, purtroppo senza via di uscita, per trovare un’ultima prospettiva, per credere e sperare, che ne sono rimasto sconvolto. Lo confesso: all’inizio ho pensato ecco, questo è un caso emblematico della migrazione, da raccontare… E poi ho accettato perché ho capito che non ci sono casi emblematici nella migrazione, che questo è il discorso che usano gli aforismi rozzi e ottusi degli xenofobi: l’invasione dell’occidente i governi e gli umanitari imbelli i popoli feroci avidi di denari e di donne… No! nessuna storia di migranti è emblematica, di nulla. È singola, intoccabile, una storia umana e basta. Cercare il ragazzo è un obbligo di fronte a questa animosità crudele che sembra entrata nella circolazione sanguigna del mondo. Al ministero degli Interni a Tripoli, per i permessi, incontro una novità. Stavolta non potrò andare in giro da solo. Mi accompagnerà sempre un mukhabarat, un agente della sicurezza. È la conseguenza del filmato della Cnn, con migranti venduti come schiavi. I libici corrono ai ripari: basta indagini impiccione, viaggiatori curiosi. Il mio custode è simpatico ma meticoloso, non mi lascia mai, è come una ombra. Ho conosciuto ancora i paesi dei socialismi reali, le “guide”, gli “interpreti”, gli accompagnatori-spia. E dunque anche stavolta, a Tripoli, inizio il gioco di questa prigionia pratica, spicciola, una perenne lotta tra la pazienza e la noia in cui dapprima vince la noia e poi forse la pazienza. Ma per me, che devo cercare senza dirlo una persona, tutto diventa più difficile. Per il momento ho solo i luoghi, l’atmosfera, l’aria che Lehi ha respirato, tutti i giorni, i mesi in cui è stato qui dopo il viaggio nel deserto. Ci sono tutti, questi luoghi di tragedia o di normalità, in cui è stato e in cui voglio ritrovare la sua orma e sentirne l’eco. E per tutto questo, per tornare sulle sue tracce, ripercorrere i suoi passi con i miei, immaginare ciò che ha percepito, vissuto, sofferto, non ho bisogno di autorizzazioni né di incontri. Questa storia è viva. Il quartier generale C’è un punto da cui bisogna iniziare e il punto è Sekha, il “Centro per la lotta alla immigrazione clandestina” nel cuore di Tripoli. Lehi deve essere passato di qui perché tutti i migranti raccattati dalle milizie, presi in mare, prima o poi, vi fanno sosta dolorosa. Strano: non mi hanno posto difficoltà per venire qui, quasi desiderino che visiti questo luogo. Ora capisco perché. Hanno organizzato oggi una festa, una festa per bambini prigionieri con le loro madri. La strategia si fa più sofisticata: cancellare l’immagine del lager per migranti, convincere l’occidente che spende bene qui i suoi soldi, che nessuno viola “i diritti umani”. Infatti arrivano, giulivi, due rappresentanti delle Nazioni Unite, accarezzano bimbi, assaggiano dolcetti. Sotto una tenda ornata con palloncini, stanno le donne, stringono i bimbi in braccio, cupe, silenziose. Hanno messo loro in testa buffi cappellini di cartapesta. Nessuno si muove dal suo posto, girano le sorveglianti con maschere da commedia dell’arte. Avanza con gran fracasso una orchestrina con pifferi, piatti e tamburo. Un uomo mascherato da Minnie detta il tempo, fa danzare bambini storditi, che cercano di tornare dalla madre, getta coriandoli. Era falso. Era come un balletto di bambole. Ed era triste. Crudele. Mi fanno sedere tra le “autorità”. Il responsabile del centro pronuncia banalità bonarie e inesorabili. Accanto a me rappresentanti diplomatici di alcuni paesi che hanno cittadini nella prigione: Camerun, Centrafrica, Somalia. Guardano a terra, mesti, come vergognandosi, mi rispondono a monosillabi. La massima crudeltà non è mai calda. Si ha quando persecutore e vittima la usano e la subiscono ormai senza passione. I funzionari dell’Onu se ne vanno distribuendo lodi. Le guardiane respingono, sgarbatamente, donne e bambini nella loro gabbia. Minnie si rivela un agente barbuto. Gira per il cortile ancora per metà in maschera. Alcuni somali, nella confusione, hanno avvicinato il loro diplomatico, un giovane elegante. È arrivato su un’utilitaria, con l’autista, ma piena di toppe e sfregi, il motore in agonia, il guidoncino somalo legato a un provvisorio bastone di ferro. Ha prestato il telefono a un migrante che sta cercando di chiamare i genitori. Minnie, furibondo, urla e a pugni e spintoni li ributta nella prigione. Ecco: cosa accade in questi luoghi un minuto dopo che il cancello si è chiuso solo dietro i visitatori? I migranti, fitti, le mani appese alle grate mi fissano senza parlare come si fissa in un’ora di abbandono e di solitudine la vicenda delle onde del mare. Tripoli è il caos, una gigantesca rete di estorsione, un trust che va dal banale racket di quartiere alle banche ai migranti venduti a noi o alle famiglie, al gasolio imboscato e caricato su navi cisterna e venduto a Malta in Italia in Grecia in Turchia. Ma un caos che non si vede: gente che vocia sul lungomare davanti ai ristoranti che espongono il pesce, pesce grosso sanguigno appena pescato, file di sangue rosso filettano le teste argentee e colano dalle ceste; salafiti obesi muovono ventri prominenti verso i fragili paradisi di una pasticceria; un gruppo di neri attende un ingaggio con l’esca di badili e cazzuole; lunghe file si allungano pazienti al complicato prelievo di piccole somme consentite nei bancomat. Bisogna continuare, altre discese tra le ombre. Fare in fretta: qui stanno cancellando le tracce con i rinvii “volontari”. Tanto ne restano, di migranti, settecentomila nelle vie, nei tuguri, nelle galere private delle bande: su cui calerà il nostro silenzio, e di cui fare ciò che si vuole. Ad al Matar, la via del vecchio aeroporto, mi assicurano che ci sono ivoriani. Ottocento rinchiusi in due hangar, un pagliericcio accanto all’altro, ciotole di cibo in cui mangiano accucciati a terra, a gruppi, con le mani. I guardiani, divise nere, teste rasate o barbe e capelli alle Guevara giocano con un calcio balilla: “Si consegnano volontariamente i negri… non dobbiamo nemmeno cercarli… non ce la fanno più”. Cerco, senza fare troppe domande. Uno degli ivoriani mi sussurra un nome: Tajoura, vai lì, ci sono quelli che hanno catturato da poco. Il tempo è cambiato, un freddo salato e sferzante, da inizio di temporale, che ricorda ogni volta la presenza del mare. Dieci chilometri e siamo a Tajoura. Arrivo insieme a una delegazione dell’Unione europea, alla guida un diplomatico ungherese. Sono venuti ad assistere al rimpatrio di un centinaio di nigeriani e senegalesi. Davanti al capannone i migranti sono allineati in questa mattinata spietata di pioggia e gelido vento in quadrati ben ordinati, stanno seduti sui ginocchi come solo gli africani sanno fare, in mano il documento arancione di espulsione. I bus sono già pronti, il motore acceso: in piedi in fila per uno salite buon viaggio e a non più rivederci… I diplomatici rabbrividiscono in giacchetta e cravatta, si vede che hanno fretta di tornare al tepore delle Mercedes. Non mi lasciano entrare nell’hangar dei migranti. Fanno uscire una ragazza, somala. Ha sedici anni, è piccola, il corpo esile avvolto da un lungo vestito, i piedi chiusi in pantofole nere come quelle delle bambole. La sua straordinaria bellezza si intuisce, dunque, dal volto e dalle mani. Il volto è lievemente solcato da qualche ruga agli angoli degli occhi, la fronte è alta, si vedono pulsare le vene che la percorrono dall’alto in basso, la bocca piccola, gonfia e palpitante, anche quando, anzi soprattutto quando sta in silenzio. E gli occhi… non ho mai visto uno sguardo come questo. All’inizio pensavo fosse cieca perché gli occhi attraversavano me e le cose come se cercassero qualcosa che era dietro di esse. Gli occhi dei profeti. E delle vittime. È partita da Galkaio quando aveva 14 anni, da sola. Fuggiva il padre che è uno shebab: “Io sono Ahnam, ma Ahnam non esiste più si è perduta... Vogliamo uscire di qui, vedere città, vivere…”. Dal padiglione degli uomini emerge un nigeriano, una specie di kapò, ha le chiavi, collabora con le guardie, tiene buoni i migranti. L’ultima possibilità, lo abbordo, gli sussurro il nome di Lehi. Mi guarda senza parlare. Immigrazione dal Messico, Trump firma l’ordine: la guardia nazionale schierata ai confini La Repubblica, 5 aprile 2018 Sostegno dai governatori di Texas e Arizona, entrambi repubblicani: “Misura necessaria per contenere il massiccio flusso migratorio”. I governatori del Texas e dell’Arizona, stati confinanti con il Messico, hanno espresso il loro sostegno alla decisione del presidente degli Usa Donald Trump di schierare la Guardia nazionale alla frontiera. Il governatore dell’Arizona, Doug Ducey, e quello del Texas, Greg Abbott, entrambi repubblicani, hanno concordemente definito la misura disposta da Trump “necessaria” per contenere il “massiccio” flusso migratorio verso gli Stati Uniti e mantenere la sicurezza delle loro comunità. Da parte sua Abbott ha ricordato che da quando ha assunto nel 2015 il suo incarico ha mantenuto “una presenza continua” della Guardia nazionale al confine, assieme a militari del Dipartimento della pubblica sicurezza. “L’odierna azione dell’amministrazione Trump rafforza l’impegno del Texas per la sicurezza della nostra frontiera e per la difesa dello Stato di diritto, e per questo esprimo il mio ringraziamento e il mio appoggio. Ducey ha dato il “benvenuto” alla decisione di Trump, e ha osservato che “Washington ha ignorato questo problema per troppo tempo” e che “c’è bisogno di aiuto”. Dopo il calo registratosi con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca l’immigrazione dal Messico negli Usa è aumentata e nel giorno in cui il presidente annuncia l’invio della Guardia nazionale al confine messicano i dati dicono che è tornata ai livelli precedenti. I migranti irregolari fermati alla frontiera sono stati nel gennaio e febbraio di quest’anno 72.517, a fronte dei 66.018 dei primi due mesi del 2017. “Abbiamo recentemente visto i numeri degli attraversamenti illegali del confine risalire ai livelli precedenti dopo il minino degli ultimi 40 anni registrato in aprile dell’anno scorso”, ha riconosciuto la segretaria alla Sicurezza interna, Kirstjen Nielsen. Nell’aprile del 2017 i migranti fermati erano stati 15.766, meno di un terzo dello stesso mese dell’anno prima. Insomma, quello che era stato chiamato ‘effetto Trump’, e agitato come uno dei successi dell’amministrazione, sembra finito. Oggi, secondo il Diparimento della Sicurezza interna, un migrante ogni 10 fermati alla frontiera fa subito domanda d’asilo sostenendo di rischiare la vita nel suo Paese di provenienza. Nel 2013 faceva domanda solo uno ogni cento. “I trafficanti sanno che queste persone non possono, per legge, essere facilmente rimandante nei loro Paesi”, ha detto Nielsen, che ha assicurato: “Non permetteremo che i precedenti livelli d’immigrazione diventino la norma”. Vietnam. Quasi 100 i dissidenti in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 aprile 2018 Ottantotto uomini e nove donne: sono almeno 97 i dissidenti nelle carceri vietnamite e domani potrebbero diventare 103, poiché si chiuderà il processo ai danni di sei attivisti per l’infondata accusa di “sovversione del governo popolare”. Ha faticato molto a compilare la lista, Amnesty International, che ammonisce: dato il clima di segretezza imposto dalle autorità del Vietnam, il numero reale potrebbe essere assai più alto. La lista dei 97 detenuti, 18 dei quali hanno oltre 65 anni, comprende 57 fedeli di credi religiosi (37 dei quali praticano culti nativi), e poi avvocati, attivisti per la democrazia, difensori dei diritti umani e ambientalisti, tutti condannati al termine di processi-farsa solo per aver espresso le loro opinioni o portato avanti campagne con mezzi pacifici. Molti dei detenuti si trovano in isolamento e non possono avere contatti con famiglie e avvocati. La tortura è diffusa: si segnalano pestaggi coi manganelli e con cavi di gomma, calci, pugni, scariche elettriche e l’obbligo di rimanere in posizioni dolorose. Tra le dissidenti in carcere c’è la nota blogger Nguyn Ngc Nhu Qunh, nota con lo pseudonimo di “Madre fungo”, condannata nel giugno 2017 a 10 anni per “propaganda”, le cui condizioni di salute stanno peggiorando anche a causa del diniego di cure adeguate imposto dalla direzione delle prigioni. Brasile. L’Alta Corte respinge la richiesta di Lula per evitare il carcere Corriere della Sera, 5 aprile 2018 La decisione del Supremo tribunale federale presa con una maggioranza di un solo voto: 6 contro 5. Luis Inacio Lula Da Silva, il politico più popolare del Brasile e favorito nei sondaggi per le presidenziali dell’ottobre prossimo, può finire in carcere per scontare una pena di 12 anni: il Supremo Tribunale Federale (Stf) ha respinto oggi una richiesta di habeas corpus presentata dagli avvocati del leader del Partito dei Lavoratori (Pt). Come previsto, la decisione è stata presa con la più ridotta delle maggioranze possibili: è stato il voto a sorpresa della magistrata Rosa Weber che ha spostato la bilancia a sfavore di Lula, nel corso del lungo e dotto dibattito dei magistrati del Tsf che ha tenuto con il fiato sospeso milioni di brasiliani per più di dieci ore. L’ex presidente chiedeva che fosse sospesa la pena che gli è stata inflitta - nove anni in prima istanza a Curitiba, diventati 12 in appello a Porto Alegre - per corruzione passiva e riciclaggio, finché i suoi legali non avranno esaurito ogni possibile ricorso contro la sentenza. La risposta è stata negativa, per 6 voti contro 5. Sebbene l’hashtag #LulaPresoAmanha (Lula in carcere domani) ha scalato la classifica su Twitter durante la giornata, è poco probabile che l’ex presidente sia arrestato nelle prossime ore. Tanto per cominciare, i suoi avvocati hanno tempo fino al 10 aprile per presentare un ricorso contro la decisione del Tsf. Resta però che la sentenza di oggi segna un duro colpo per Lula e per il Pt, che deve cominciare a preparare una candidatura alternativa per le presidenziali, mantenendo però alta la bandiera del suo leader, che continua a proclamare la sua innocenza mentre i suoi compagni lanciano un nuovo slogan: “Lula vale la lotta!”. La decisione del Tsf ha anche un impatto immediato sulla crescente polarizzazione dell’opinione pubblica brasiliana, ogni volta più schierata con la stessa contrapposizione totale delle folle di manifestanti che si sono affrontate oggi a Brasilia, davanti alla sede dell’Alta corte: per alcuni Lula è il simbolo della corruzione politica, per altri è un eroe popolare vittima di una cospirazione golpista.