Nasce la Commissione speciale che valuterà la riforma delle carceri Il Manifesto, 4 aprile 2018 Arriva, prima al Senato e poi alla Camera, la Commissione speciale che, da sola, esaminerà tutti i provvedimenti del governo uscente in attesa che vengano costituite le commissioni parlamentari permanenti. Per formare le quali serve che siano definite la maggioranza e le opposizione, dunque bisogna aspettare il governo. Ragione per cui la commissione speciale, che tra l’altro esaminerà il Def e altri provvedimenti delicati come il decreto delegato sulle carceri, potrebbe questa volta avere vita non breve. Alla Camera possibile la convergenza tra grillini e Pd, se dovesse essere confermata la tradizione che vede indicato alla guida il presidente uscente della Commissione bilancio. In questo caso un esponente della corrente Emiliano, Francesco Boccia. Attenti all’uso del Taser nelle carceri: per l’Onu è uno strumento di tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 aprile 2018 Secondo l’agenzia giornalistica Reuters sarebbero 104 i casi nelle prigioni usa la cui morte sarebbe da collegare all’utilizzo dell’arma. partita la sperimentazione in sei città italiane della pistola elettrica e potrebbe andare a regime. Martini Smith aveva 20 anni, era incinta e spogliata quasi nuda in una cella della prigione americana di Franklin County a Columbus, nell’Ohio. Era stata detenuta con l’accusa di aver pugnalato un ragazzo che lei aveva accusato di picchiarla. Due agenti le avevano ordinato di spogliarsi, togliersi tutti i gioielli e indossare una camicia da notte. Lo fece, ma non era stata in grado di obbedire al comando di togliere dalla lingua un piercing d’argento. “Tira fuori la lingua”, le aveva ordinato l’agente. Smith provò, invano, inserendo le dita di entrambe le mani nella sua bocca per togliere l’anello. Le sue dita però erano intorpidite, perché era stata ammanettata per sei ore con le mani dietro la schiena. L’anello era scivoloso, disse Smith, chiedendo un tovagliolo di carta. Gli agenti però rifiutarono. “Voglio solo andare a dormire”, gridò Smith. L’agente l’avvertì di nuovo, poi sparò: i dardi elettrificati del Taser colpirono il petto della Smith: crollò contro il muro di cemento e scivolò sul pavimento, ansimando, con le braccia sul petto. “Perché mi hai fatto questo? - disse gemendo dal dolore. Non sto danneggiando nessuno. Non posso tirarlo fuori!”. Cinque giorni dopo, Smith ha avuto un aborto spontaneo. L’incidente risale al 2009 ed è tra i centinaia di casi documentati dall’agenzia giornalistica Reuters in cui i Taser sono stati utilizzati in modo improprio o collegati ad accuse di tortura o punizioni corporali nelle prigioni degli Stati Uniti. La Reuters ha identificato 104 morti che coinvolgerebbero l’utilizzo dei Taser dietro le sbarre. Alcune delle morti in custodia sono state ritenute multi-fattoriali, senza una causa distinta, e alcune sono state attribuite a problemi di salute preesistenti. Ma il Taser è stato elencato come causa o fattore che ha contribuito a oltre un quarto delle 84 morti nei detenuti in cui l’agenzia di stampa ha ottenuto i risultati dell’autopsia. Dei 104 detenuti che morirono, solo due erano armati. Un terzo era in manette o altre restrizioni quando era stato usato lo stordimento. In oltre due terzi dei 70 casi in cui Reuters era in grado di raccogliere tutti i dettagli, il detenuto era già immobilizzato tramite manette dagli agenti penitenziari e quindi non pericoloso. I casi elencati dimostrano l’utilizzo improprio dei Taser nei contesti detentivi: le armi, progettate per controllare i sospetti violenti o minacciosi per strada, dimostrano come sono ancora meno legittimi dietro le sbarre, dove i prigionieri sono generalmente confinati in una cella, spesso trattenuti e quasi mai armati. Mentre i Taser possono essere un modo efficace per fermare un assalto a una guardia o ad un altro detenuto, ex agenti penitenziari hanno raccontato ai giornalisti di Reuters che le armi vengono usate troppo spesso su persone che non rappresentano una minaccia fisica imminente. Steve Martin, ex consulente del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti denunciò che i Taser hanno “un alto potenziale di abuso dietro le sbarre”. “Quando infliggi dolore - disse Martin, dolore serio, per il solo scopo di infliggere una punizione corporale, quella si chiama tortura”. Ma che cosa sono i Taser e come funzionano? Siamo abituati a vederli soprattutto nei film d’azione provenienti dagli Stati Uniti. Oppure in alcuni servizi del telegiornale, sempre provenienti dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Il primo a teorizzare e realizzare un dissuasore elettrico è del ricercatore e scienziato della Nasa Jack Cover che, nel 1969, inizia a progettare e sviluppare il prototipo iniziale della pistola elettrica. Dopo cinque anni di studi e ricerche Cover termina il suo lavoro: il primo esemplare di Taser funzionante è presentato alla stampa. Jack Cover decide di “dedicare” questa arma futuristica al suo eroe d’infanzia Tom Swift: Taser, infatti, altro non è che l’acronimo di “Thomas A. Swift’s electronic rifle” (“fucile elettronico di Thomas A. Swift” in italiano). Inizialmente, la pistola elettrica utilizza una piccola carica di polvere da sparo per rilasciare gli elettrodi, tanto da essere classificata dal Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms come arma da fuoco. I successivi sviluppi tecnologici permettono di sostituire la polvere da sparo con un detonatore a sua volta elettrico. A inizio anni 90 Jack Cover collabora con i fratelli Patrick e Thomas Smith nello sviluppo di un nuovo modello che, in dotazione alle forze dell’ordine, permetta di ridurre i conflitti a fuoco che tanti morti provocano in quegli anni. Nel 1994 è presentato l’Air Taser model 34000, sprovvisto di carica di polvere da sparo e quindi non più considerata arma da fuoco. Il 1999 è l’anno dell’Advanced Taser M, molto somigliante a una “normale” pistola e dotata della tecnologia brevettata “neuromuscolar incapacitation”, in grado di paralizzare per alcuni secondi la persona colpita dalla scarica elettrica. Nel 2004, con il rilascio del nuovo modello (il Taser X26), questa tecnologia è soppiantata dalla “shaped pulse technology”, capace di rilasciare gran parte della scarica elettrica solo dopo aver trapassato la barriera rappresentata da abiti e cute. Pur essendo chiamata in modi molto differenti - Taser, pistola elettrica, dissuasore elettrico - quest’arma è sostanzialmente “mono-marca” e “mono-modello”. Il Taser, che ricorda una pistola per forma e grandezza, si compone di due elettrodi capaci di colpire un obiettivo con un flusso di corrente elettrica ad alto voltaggio, ma basso amperaggio. L’elettricità che scorre nei due cavi del Taser altro non è che un flusso di energia - sotto forma di carica elettrica - che scorre attraverso un materiale conduttore (che può essere un cavo di metallo o un corpo umano). Per analogia, si potrebbe dire che la corrente elettrica scorre in un cavo di metallo allo stesso modo in cui un flusso d’acqua scorre all’interno di un tubo. Proseguendo con questa analogia, è possibile descrivere il Taser come una pistola ad acqua che spara a grande pressione (alto voltaggio), ma a bassa velocità (basso amperaggio). Il voltaggio, infatti, misura la “pressione” (la forza o differenza di potenziale) effettivamente esercitata per far “scorrere” la carica elettrica all’interno del conduttore; l’amperaggio il “flusso” attuale di elettroni (più o meno il numero di elettroni che passa nella sezione di cavo nell’unità di tempo) che passa nel conduttore. Proprio per questo motivo, il dissuasore elettrico è in grado di stordire la persona colpita - sino a immobilizzarlo per alcuni secondi - senza provocare, al livello solo teorico, danni letali. Nella sua configurazione standard, la scarica del Taser dura non più di 5 secondi; sufficienti, comunque, a inviare segnali intensi al sistema neuro- muscolare della persona colpita. Questi segnali provocano grande dolore e stordiscono l’obiettivo, che non può far altro che cadere a terra, immobilizzato. Ora, ben presto, anche la polizia italiana potrà utilizzare questo strumento. Intanto è partita la sperimentazione in sei città. Si comincia a Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia. Appena i poliziotti avranno misurato gli effetti del dispositivo e soprattutto testato l’utilizzo si andrà a regime in tutta Italia. Una procedura che coinvolgerà anche i carabinieri. Un’arma che l’Onu considera uno strumento di tortura. L’esempio statunitense insegna. Valanga di domande da giudice onorario di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 aprile 2018 Sono arrivati più di sessantamila richieste per 400 posti. Circa 60mila domande per 400 posti complessivi nella magistratura onoraria, 300 da giudice di pace e 100 da vice procuratore. Quasi certamente nessuno si aspettava un simile numero di concorrenti per partecipare alle selezioni per la nomina a magistrato onorario. I posti sono stati banditi dai Consigli giudiziari presso le 26 Corti d’Appello, la scorsa settimana scadeva il termine per la presentazione delle domande, a seguito della riforma della magistratura onoraria entrata in vigore nel 2017. Numeri che fanno riflettere sul drammatico momento di crisi che sta attraversando il Paese. L’analisi è affidata al presidente dell’Ottava Commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente sulla magistratura onoraria, il togato Francesco Cananzi. “Da una prima elaborazione dei dati è emerso che il 62% delle domande proviene dal meridione (dalla Campania quasi il 25%, seguito dalla Sicilia al 12% e dalla Puglia, intorno al 10%), il 22% dal centro ed il 16% dal nord”, ha dichiarato Cananzi. Il 73% delle domande proviene da candidati nella fascia anagrafica fra i 30 ed i 49 anni, mentre per il 66% i candidati sono donne. Numeri che, ha aggiunto Cananzi “evidenziano chiaramente una situazione di crisi occupazionale e professionale soprattutto nel meridione; una conferma ulteriore dell’esistenza di due parti del Paese, ognuna delle quali offre, purtroppo, opportunità economiche, professionali ed occupazionali decisamente diverse, specie per le donne”. “D’altro canto la forte domanda proveniente dagli avvocati, circa il 73%, consente di poter ritenere che il contributo che sarà fornito - ha poi concluso il consigliere del Csm - sarà connotato da un adeguato grado di professionalità, necessario per l’inserimento dei nuovi Gop e Vpo nell’ufficio per il processo e nell’ufficio di collaborazione del Procuratore della Repubblica, unità organizzative di supporto all’attività giurisdizionale che assumono sempre più un ruolo centrale nell’organizzazione giudiziaria per la qualità del servizio offerto ai cittadini”. Per chi passerà la selezione per titoli è previsto un tirocinio di 6 mesi e un corso formativo non inferiore alle 30 ore. L’emolumento mensile è fissato in circa 700 euro netti, per due udienze settimanali. Ciò per evitare che il magistrato onorario sia una professione a titolo “esclusivo” ma temporanea e compatibile con lo svolgimento di altre attività lavorative. Nessuna indennità è prevista in caso di malattia o maternità. Lo stesso dicasi per i contributi pensionistici, a carico dell’interessato. Per chi verrà ammesso, nelle intenzioni del legislatore, la possibilità però di un accrescimento professionale derivante dall’esercizio della giurisdizione per almeno quattro anni a fianco dei magistrati “veri”. “L’aiuto al suicidio è reato”. Il Governo contro Cappato di Simona Musco Il Dubbio, 4 aprile 2018 Il Governo ha deciso di costituirsi in Corte costituzionale nel procedimento contro Marco Cappato per la morte di Dj Fabo. È caduto dunque nel vuoto l’appello dell’associazione Luca Coscioni, che aveva raccolto 15mila firme chiedendo all’esecutivo di non difendere il reato di istigazione e aiuto al suicidio. Un appello firmato anche da diversi docenti di diritto delle università italiane, ma rivelatosi vano: nell’ultimo giorno utile, il Governo ha infatti deciso di schierarsi a difesa di un divieto inserito nel codice penale negli anni ‘ 30 e che regola il reato per il quale è imputato Cappato. Una scelta che, come evidenziato da Nicola Fratoianni, di LeU, va nella direzione opposta a quella presa nell’ultimo anno con l’introduzione della legge sul fine vita e va invece incontro alle osservazioni della Lega, che attraverso un’interrogazione del deputato Alessandro Pagano aveva di fatto sostenuto la legittimità degli articoli 579 e 580 del codice penale, che parlano di “omicidio del consenziente” e di “aiuto al suicidio”. Sul punto ora dovrà pronunciarsi la Corte costituzionale, chiamata in causa dalla Corte d’Assise di Milano, che lo scorso 14 febbraio, dopo la richiesta dei pubblici ministeri Tiziana Siciliano e Sara Arduini di assolvere Cappato “perché il fatto non sussiste” e in subordine di inviare gli atti alla Consulta, ha ritenuto necessario far valutare la costituzionalità del reato che vede accusato il radicale, cioè aver aiutato Fabiano Antonioni a morire in una clinica svizzera ricorrendo al suicidio assistito. La Corte costituzionale dovrà chiarire in particolare la legittimità dell’articolo 580 del codice penale, nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione”, in quanto in violazione di alcuni articoli della Costituzione e degli articoli 2 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I giudici avevano rimarcato il diritto costituzionale di ciascuno alla libertà di decidere “quando e come morire” e che di conseguenza solo le azioni che pregiudicano tale libertà possono costituire un reato. E quella di morire, hanno dimostrato le testimonianze in aula, fu una decisione lucida e cosciente del 40enne milanese Antoniani, rimasto tetraplegico e cieco dopo un grave incidente d’auto. “Prendo atto della decisione del Governo Gentiloni”, ha commentato la segretaria dell’associazione Coscioni e coordinatrice del collegio di difesa di Cappato, Filomena Gallo che sostiene invece l’incostituzionalità del reato. Una scelta “legittima”, ma anche pienamente “politica”, visto che l’esecutivo avrebbe potuto agire “altrettanto legittimamente in senso opposto e raccogliere l’appello lanciato da giuristi come Paolo Veronesi, Emilio Dolcini, Nerina Boschiero, Ernesto Bettinelli e sottoscritto da 15.000 cittadini, che chiedevano al Governo italiano di non intervenire a difesa della costituzionalità di quel reato”. Per quanto riguarda Marco Cappato, ha aggiunto l’avvocato Gallo, “il nostro obiettivo non cambia: vogliamo far prevalere i principi di libertà e autodeterminazione riconosciuti dalla Costituzione italiana e dalla Convezione europea dei diritti umani, nella convinzione che Fabiano Antoniani avesse diritto a ottenere in Italia il tipo di assistenza che - a proprio rischio e pericolo - ha dovuto andare a cercare all’estero con l’aiuto di Marco Cappato”. Amaro anche il commento di Mina Welby, che ha definito la decisione “un grave passo indietro dell’Italia sul fronte dei diritti. Una persona che si trova nelle stesse condizioni di Dj Fabo ha diritto di chiedere di andarsene ha sottolineato -. Per questo l’articolo 580 del codice penale oggi e in questi determinati casi non ha più senso di esistere”. Dj Fabo, il Governo alla Consulta: “l’aiuto al suicidio resti reato” di Liana Milella La Repubblica, 4 aprile 2018 L’Avvocatura nel giudizio alla Corte costituzionale: infondate le richieste del tribunale di Milano. Il governo Gentiloni “contro” la Corte d’assise di Milano che si è rivolta alla Consulta per il suicidio assistito di Dj Fabo e l’accusa di istigazione contro il radicale Marco Cappato. Da ieri alle 13, nell’ultimo giorno utile, il fascicolo della Corte si è arricchito di 17 pagine, quelle firmate dall’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri. Proprio all’Avvocatura, il 30 marzo, il premier Paolo Gentiloni ha affidato l’incarico di “difendere” l’articolo 580 del codice penale, che non solo disciplina l’istigazione pura e semplice al suicidio, punendola da uno a cinque anni, ma anche l’aiuto a mettere fine alla propria vita, sotto forma di “agevolazione”. Ne dà notizia, protestando, l’Associazione Luca Coscioni, che è stata accanto a Fabiano Antoniani, Dj Fabo, durante il suo percorso verso la morte. La presidente Filomena Gallo definisce quella di Gentiloni “una scelta oltre che del tutto legittima, anche pienamente politica, visto che l’esecutivo avrebbe potuto legittimamente agire in senso opposto”. Proprio per invitare il governo a non intervenire l’associazione ha raccolto 15mila firme, tra cui quella di Roberto Saviano. Un atto dovuto? Ma il premier era obbligato a mettere in pista l’Avvocatura dello Stato sulla costituzionalità dell’articolo 580? La sua è stata una scelta politica, su cui ovviamente plaude la Lega, o meramente tecnica? La cosiddetta “determinazione di intervento”, cioè la decisione del solo presidente del Consiglio sull’opportunità di far scendere in campo gli avvocati dello Stato, non viene presa nel corso di un consiglio dei ministri. Ma in compenso è controfirmata dal sottosegretario alla presidenza, in questo caso da Maria Elena Boschi. È preceduta, questo sì, da una consultazione tecnica tra i ministeri interessati, quello della Giustizia in quest’occasione. I motivi del ricorso - Proprio via Arenula, con il Guardasigilli Andrea Orlando, dopo aver letto l’ordinanza della Corte di assise di Milano del 14 febbraio, pubblicata nella Gazzetta ufficiale il 14 marzo, ha ritenuto non solo opportuna, ma anche necessaria la presenza dell’Avvocatura, perché il rischio di quell’eccezione di costituzionalità, secondo i giuristi del ministero, poteva essere quello di azzoppare l’articolo 580 anche nella parte in cui punisce un aiuto al suicidio che diventa una sorta di vera e propria spinta a uccidersi. Da qui l’invito alla Consulta a decidere per una sentenza “interpretativa di rigetto”, una bocciatura del ricorso che però fornisca anche un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma. Il passo indietro del Governo È accaduto però che il governo, anche su questioni rilevanti, decidesse di non costituirsi. Il costituzionalista pisano Roberto Romboli ha calcolato che nel triennio 2014-2016, su 474 questioni, la presidenza del Consiglio si è costituita in 343 casi. Detto che il governo non può farlo sulle leggi regionali, la percentuale resta alta. Tre casi specifici. Innanzitutto il Porcellum, la famosa legge elettorale bocciata dalla Consulta nella sentenza del gennaio 2014. Il governo Letta restò a guardare. Poi altri due esempi, il ricorso sulla procreazione assistita per la selezione pre-impianto (sentenza 229/2015) e il riconoscimento di un’indennità per l’adozione di bambini oltre i 6 anni (205/2015). Renzi era a palazzo Chigi in questi casi. Come dice una fonte autorevole dell’Avvocatura “sui temi etici è accaduto che il governo decidesse di non costituirsi”. “Inammissibile e infondato” È netto il giudizio dell’avvocato dello Stato Palmieri sul ricorso. Una bocciatura piena. In 17 pagine si distrugge l’impianto delle 16 scritte dai giudici per chiedere l’intervento della Corte. Richiesta “infondata, non rilevante, inammissibile”. La prima critica, l’infondatezza, riguarda l’articolo 580 in sé, definito “norma di sistema ragionevole”, che se “venisse cancellata, determinerebbe un vuoto normativa rilevante”. Il ricorso è “inammissibile” perché i giudici non hanno fatto fino in fondo il loro lavoro, quello di interpretare la norma e adeguarla al caso concreto. “Il giudice - scrive Palmieri - poteva cercare un’interpretazione costituzionalmente orientata”. Che, a suo avviso, era possibile. Invece ha preferito rifugiarsi nel ricorso alla Consulta. Col rischio di creare, in caso di bocciatura, “un vuoto normativo rilevante”. Confische preventive, misure incompatibili con lo Stato di Diritto di Pietro Cavallotti* e Sergio D’Elia** Il Dubbio, 4 aprile 2018 Il Partito Radicale sta preparando un pacchetto di riforme di iniziativa popolare in materia di giustizia, per le quali inizierà a breve la raccolta delle firme. Dentro a questo pacchetto ci saranno anche delle proposte volte a modificare l’attuale sistema delle misure di prevenzione antimafia. Come provano le vicende drammatiche di molti imprenditori che le hanno subite, si tratta di misure incompatibili con lo Stato di Diritto, che vengono applicate, in un processo di tipo inquisitorio, sulla base di semplici sospetti e che permettono allo Stato di confiscare l’intero patrimonio di una persona anche se assolta da ogni accusa in sede penale. Per rendersi conto delle principali criticità della normativa vigente, è sufficiente considerare che la confisca di prevenzione ha un contenuto fortemente punitivo-afflittivo, malgrado la giurisprudenza sia di diverso avviso. Non previene alcunché mentre affligge la persona che la subisce. Togliere a una persona tutto il patrimonio, finanche la casa familiare, significa privare lei e la sua famiglia di ogni mezzo di sostentamento; significa travolgere il suo passato (il patrimonio, solitamente, è un complesso di beni in cui si identificano intere generazioni) e distruggere il suo futuro. I presupposti di applicazione delle misure di prevenzione sono, inoltre, caratterizzati da un intollerabile tasso di aleatorietà con la conseguenza che le persone sono irrimediabilmente esposte all’arbitrio dei giudici. Anche dal punto di vista processuale la normativa si espone a censure. Basti dire che la confisca è preceduta dal sequestro. Lo stesso giudice che ha disposto il sequestro, inaudita altera parte, deciderà se revocare il sequestro o disporre la confisca, in ciò rivalutando i medesimi elementi indiziari con una evidente violazione del principio della imparzialità del giudice. Il decreto di sequestro non può essere impugnato innanzi al Tribunale della Libertà, né è possibile ottenerne la sospensione nelle more dell’accertamento giudiziale. A differenza di ciò che è previsto per il procedimento penale, è richiesto l’indizio e non la prova. L’indizio, inoltre, non deve essere né grave, né preciso, né concordante. Esempio: è sufficiente la dichiarazione di un collaboratore di giustizia, non riscontrata, per asserire giudizialmente la contiguità dell’indiziato alla mafia. I beni vengono gestiti da amministratori giudiziari - spesso impreparati - che portano al collasso le aziende, lasciando in mezzo a una strada tutti i lavoratori e i fornitori, con un gravissimo danno per tutto il sistema economico e per le vite di tutte le persone coinvolte. Le notizie di cronaca, a partire dal cosiddetto “scandalo Saguto”, ci dicono che siamo di fronte ad un sistema opaco che ha generato molti abusi e soprusi nel nome della presunta “lotta alla mafia”. In estrema sintesi, la proposta del Partito Radicale messa a punto dagli imprenditori vittime di sequestro di prevenzione come Pietro Cavallotti e Massimo Niceta e dall’avvocato che li ha assistiti, Baldassare Lauria, si muoverà in tre direzioni: 1. Tassativizzare le fattispecie di pericolosità sociale per renderle coerenti con il principio di legalità; 2. Prevedere che chi viene assolto nel merito in sede penale, per gli stessi fatti, non possa subire l’applicazione della misura di prevenzione; 3. Nel caso in cui lo Stato abbia il sospetto (attenzione: non la prova) che l’imprenditore sia vicino alla mafia, si interviene nominando un commissario che non si sostituisce ma si affianca all’imprenditore, controllandone l’operato; il giudice potrà impartire all’imprenditore diverse disposizioni che quest’ultimo dovrà rispettare; se queste disposizioni vengono violate allora si interviene con il sequestro. Ovviamente, nel caso dei gravi indiziati o dei condannati per mafia, si interverrà con gli strumenti penali classici del sequestro preventivo e della confisca. In questo modo si prevengono le infiltrazioni della criminalità organizzata nel sistema economico senza distruggerlo; si salvaguardano la continuità aziendale e i posti di lavoro; si previene il crimine senza distruggere le vite delle persone. Non vogliamo abrogare la legge scritta con il sangue di martiri di mafia, la vogliono riportare alla purezza originaria ripulendola dalle incrostazioni frutto del populismo penale. La modifica dell’attuale sistema delle misure di prevenzione che propone il Partito Radicale unisce tutti coloro che vogliono combattere seriamente la mafia e che hanno a cuore le libertà e i diritti fondamentali delle persone. A differenza del passato, oggi c’è una praticabilità dello strumento delle proposte di legge, grazie al fatto che il Senato, alla fine della scorsa legislatura, ha riformato il proprio regolamento nel senso, tra l’altro, di garantire una calendarizzazione alle proposte di legge di iniziativa popolare. Sarà difficile che queste istanze di civiltà giuridica possano essere tradotte in legge, sarebbe già un passo avanti riuscire a raccogliere le firme e, finalmente, a porre al centro del dibattito politico e pubblico il problema delle misure di prevenzione, nel rispetto delle diverse posizioni e nel segno di una antimafia governata non da uno stato di emergenza in servizio permanente effettivo ma da principi e regole propri di uno Stato di Diritto. *Imprenditore **Segretario di Nessuno Tocchi Caino, coordinatore della presidenza del Partito Radicale Assoluzione in appello senza risentire i testi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 3 aprile 2018 n. 14800. In caso di riforma della condanna in assoluzione il giudice non è tenuto a rinnovare il dibattimento e dunque a riascoltare i testi considerati decisivi per la condanna in primo grado. Per “compensare” l’obbligo meno stringente deve però fornire una motivazione “rafforzata”, giustificando in modo razionale le ragioni che lo hanno portato a prendere le distanze dal verdetto di primo grado. Resta ferma ovviamente la facoltà di rinnovare la prova dichiarativa se considerata fondamentale in base al codice di rito penale (articolo 603). Le Sezioni unite, con la sentenza 14800, dirimono il contrasto sul dovere o meno di rifare il dibattimento anche quando la riforma della sentenza è “migliorativa” per l’imputato. I giudici precisano che la strada scelta non lede i diritti della parte offesa, ed è in linea con la riforma del codice di rito penale messa in atto con la legge 103/2017. Il nuovo quadro normativo, risultato degli innesti operati dalla legge 103, non impone affatto di ritenere che il giudice di appello sia obbligato a disporre una rinnovazione generale e incondizionata dell’attività istruttoria svolta in primo grado. Quest’ultima può, infatti, essere concentrata solo sulla fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del Pm, attraverso la richiesta al giudice di appello di una nuova valutazione. Solo nel caso in cui, in seguito a tale rinnovazione dovesse apparire “assolutamente necessario” lo svolgimento di ulteriore attività istruttoria, scatterebbe la disciplina ordinaria prevista dall’articolo 603 comma 3 del codice di rito penale. Per le Sezioni unite l’espressione utilizzata dal legislatore nella nuova disposizione (comma 3-bis) secondo cui il giudice, deve nel caso considerato, rinnovare il dibattimento, non equivale affatto al dovere di “rifare” integralmente l’attività istruttoria - ipotesi che sarebbe del tutto in contrasto con l’esigenza di evitare un’irrazionale e automatica dilatazione dei tempi del processo - ma va letta semplicemente come la previsione di una nuova, “mirata” assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice di appello decisive per accertare la responsabilità. L’obbligo del giudice è invece limitato alla riassunzione delle sole prove dichiarative che siano state oggetto di una valutazione sbagliata in primo grado e considerate decisive per sciogliere l’alternativa tra proscioglimento e condanna. Prescrizione solo dall’ultima rata di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 3 aprile 2018 n. 14784. Truffa a consumazione prolungata se la truffa, finalizzata ad ottenere finanziamenti pubblici a rate, è basata su un solo progetto iniziale. Con la sentenza 14784, la Corte di cassazione ha confermato il sequestro di 650 milioni di euro, per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, disposto nell’ambito dell’inchiesta sul crac della società Aeradria che gestiva l’aeroporto “Federico Fellini” di Rimini-Miramare. Nel mirino dei giudici, erano finiti amministratori locali e manager accusati di mettere in atto delle strategie per confondere le acque in merito a contributi pubblici destinati alle compagnie aree, tra cui Ryanair, sotto forma di incentivi per la promozione delle attività turistiche. La Suprema corte “stralcia” - rinviando Tribunale al per un nuovo esame, la posizione dell’ex presidente della provincia, per una carenza di motivazione sul ruolo svolto rispetto ad un reato che si era realizzato circa tre anni prima della sua elezione. Non passa la tesi della difesa tesa ad affermare le prescrizione del reato o almeno di alcune condotte. Ad avviso dei ricorrenti “infatti” il termine doveva essere conteggiato dalla data di ogni singolo illecito. Per la Suprema corte però non è così. Correttamente il tribunale, nel caso esaminato, ha escluso che si possa parlare di una pluralità di episodi criminosi, quanto piuttosto di un reato a consumazione prolungata, che si è dunque perfezionato con l’erogazione dell’ultima rata del contributo, avvenuta nel febbraio del 2012. I giudici della prima sezione penale, ricordano che la cosiddetta truffa a consumazione prolungata - configurabile quando la frode è strumentale ad ottenere erogazioni pubbliche il cui versamento viene rateizzato - si consuma nel momento in cui viene percepita l’ultima “tranche”. Perché questa tipologia di truffa sia ipotizzabile è necessario che tutte le erogazioni siano riconducibili ad un originario e unico comportamento fraudolento. Si può al contrario parlare di fatti autonomi di reato, quando per ottenere ulteriori erogazioni statali, dopo la prima, è necessario mettere in atto altre attività illecite, che hanno una valenza distinta e vanno considerate come “singoli” fatti reato. Nel caso esaminato la Suprema corte ritiene corretta la ricostruzione fatta in sede di riesame. Secondo i giudici del Tribunale, infatti, l’operazione che aveva portato al finanziamento illecito era nata in un contesto unitario. E il fatto che i contributi arrivassero “scaglionati” “non fa perdere alla vicenda esaminata - scrivono i giudici - il carattere di unitarietà che trova il proprio fondamento nel progetto iniziale”. Sull’Iva la particolare tenuità vale solo per scostamenti minimi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2018 Corte di cassazione, sentenza 3 aprile 2018, n. 14595. La non punibilità per particolare tenuità del fatto in caso di mancato versamento dell’Iva scatta solo se l’omissione è vicinissima alla soglia di punibilità. La Corte di cassazione, con la sentenza 14595 del 30 marzo, torna sull’applicabilità dell’articolo 131-bis del Codice penale anche ai reati tributari fornendo un altro parametro: lo sforamento di circa 4.500 euro del tetto fissato per la rilevanza penale, non consente di restare impuniti. Nel caso esaminato i giudici della terza sezione penale giustificano il no al ricorso, ricordando che il grado di “offensività” che dà luogo al reato è già stato stabilito dal legislatore nella misura di 250 mila euro. E, pur ribadendo la possibilità di applicare l’articolo 131-bis in caso di evasione dell’imposta sul valore aggiunto, la Suprema corte sottolinea che perché questo avvenga è necessario che il danno sia esiguo “secondo il significato letterale del termine, scarso trascurabile, quasi insignificante”. Nel caso specifico lo scostamento non poteva definirsi esiguo, come sostenuto dal ricorrente. Il modesto superamento della soglia di punibilità pesa però, generalmente, in positivo nel trattamento sanzionatorio. Nella causa esaminata però non basta. Se l’elemento della cifra contenuta gioca, infatti, a favore dell’imputato, contro di lui di ci sono i precedenti penali specifici: quattro condanne per omesso versamento in delle ritenute previdenziali e Iva. Tanto basta a negare l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche e la concessione dei doppi benefici. La Cassazione si era già espressa sulla particolare tenuità del fatto, collegata ai reati tributari, con la sentenza 51597 del 2017: un verdetto favorevole al ricorrente. Allora la Suprema corte aveva, infatti, dato ragione al contribuente che si era visto respingere la domanda di applicazione del 131-bis, per il reato di omesso versamento delle ritenute certificate. Un no pronunciato dai giudici malgrado il limite dei 150 mila euro fosse stato superato solo per 369 euro. In quell’occasione il tribunale del riesame aveva confermato il sequestro preventivo dei beni e, pur dando atto che lo sforamento era minimo aveva negato che si potesse parlare di danno lieve. Per la Suprema corte i giudici avevano commesso un errore nel valorizzare solo il bene giuridico tutelato, senza esaminare la lesione concretamente messa in atto con il reato. Nella valutazione devono invece pesare le linee “guida” dettate dalla giurisprudenza in tema di reati di reati tributari e non punibilità. Con la sentenza 13218 del 2016 la Cassazione aveva spostato l’asticella della non punibilità decisamente sul no, in un caso di evasione dell’Iva nel quale l’ammontare del debito con l’erario era di 270.703 euro a fronte di un margine di “tolleranza”, per evitare la condanna, di 250 mila euro. La Suprema corte aveva ribadito che l’applicabilità dell’articolo 131-bis del Codice penale presuppone delle valutazioni nel merito, oltre ad una “necessaria interlocuzione con i soggetti coinvolti”. Nel giudizio di legittimità si deve dunque procedere per “step”, verificando prima l’esistenza, in astratto delle condizioni per usare l’istituto. La causa di non punibilità può essere concessa solo in presenza di un doppio requisito: tenuità dell’offesa e non abitualità del comportamento. E il criterio di riferimento resta quello della vicinanza al tetto fissato dal legislatore. Salerno: detenuto morto all’ospedale “Ruggi”, un medico indagato di Salvatore De Napoli La Città, 4 aprile 2018 Ad Aniello Bruno di Angri, sette giorni prima del decesso, fu diagnosticata una colica renale. Venerdì scorso, se invece di una colica renale fosse stato diagnostico un problema intestinale, Aniello Bruno poteva salvarsi? Ruota attorno a questo interrogativo, per ora, l’indagine sulla morte del 50enne detenuto di Angri, avvenuta all’alba di domenica. Questa mattina, alle 10.30, in Procura, il sostituto procuratore Federico Nesso, titolare dell’inchiesta attivata da un esposto dei familiari di Bruno, conferirà l’incarico a un consulente medico legale per stabilire le cause esatte del decesso del cinquantenne angrese e soprattutto per comprendere cosa si sarebbe potuto fare per salvare la vita al paziente. Per ora l’unico indagato è un medico dell’ospedale “Ruggi” che venerdì scorso avrebbe diagnosticato solo una colica renale al detenuto trasportato dalla casa circondariale di Salerno. Come ricordano gli stessi familiari del defunto, da più giorni, almeno una ventina, Bruno accusava uno stato di malessere ed era dimagrito di 18 chili. Solo venerdì scorso sarebbe stato portato per una visita in ospedale e qui gli sarebbe stata diagnosticata una colica renale e poi dimesso. Tornato in carcere a Fuorni, il giorno successivo, a colloquio con la moglie, a causa dei dolori, Bruno non sarebbe riuscito a terminare l’incontro. Nel tardo pomeriggio dal carcere il trasporto all’ospedale “Ruggi” dove viene sottoposto ad un immediato intervento in chirurgia d’urgenza per una presunta perforazione dell’intestino. Operato, l’intervento sarebbe riuscito e sarebbe stato trasferito in sala di rianimazione, dove, però, è deceduto all’alba. Il consulente del pm dovrà ricostruire l’intera vicenda dal punto di vista sanitario, partendo dalla causa del decesso e andando a ritroso. Il medico legale dovrà anche stabilire se venerdì scorso la diagnosi fosse stata altra da quella di colica renale il cinquantenne angrese si sarebbe potuto salvare oppure no. Al momento, questo sembra essere il primo inquadramento investigativo ma non si esclude che possa mutare con l’esito dell’autopsia che potrebbe tenersi già nel primo pomeriggio di oggi. Milano: “il carcere non lo rieduca”, per la prima volta pedofilo condannato a curarsi La Repubblica, 4 aprile 2018 Il Tribunale ha ordinato all’uomo di iniziare un programma “clinico”. Dopo una prima sentenza, infatti, aveva commesso una nuova violenza. Il carcere “sul piano rieducativo” non ha prodotto alcun “effetto” e tenuto conto della “sistematica ricaduta nel comportamento illecito”, connessa ad “un disturbo della sessualità non controllabile”, al detenuto serve anche un percorso di cure per limitare le “pulsioni sessuali”. Con queste motivazioni, per la prima volta a Milano, la Sezione misure di prevenzione del Tribunale ha disposto una “ingiunzione terapeutica” per un pedofilo che venne arrestato nel 2004 per una violenza ai danni di una bambina, condannato e poi, tornato libero, di nuovo arrestato per abusi su altre due bimbe. Il collegio, presieduto da Fabio Roia, dando anche atto del “consenso” manifestato dall’uomo, rinchiuso nel carcere di Pavia, difeso dal legale Attilio Villa e anche affetto da un “ritardo mentale”, gli ha ordinato di contattare “immediatamente” il Cipm (Centro italiano per la promozione della mediazione) del criminologo Paolo Giulini per un programma “clinico-terapeutico”. Nel decreto i giudici (Roia-Tallarida-Pontani) ricostruiscono la vicenda giudiziaria di A. P., 52 anni, “caratterizzata da continue e sistematiche forme di aggressione sessuale”. Del 2016 l’ultimo episodio: violentò una bimba di 5 anni e l’indagine mise in luce che nel 2009 aveva già abusato di una piccola di due anni. Fu arrestato, dunque, per la seconda volta, nell’aprile di due anni fa ed è ancora detenuto, condannato a 4 anni e 4 mesi di carcere. Il primo arresto, invece, era arrivato nel 2004 per violenze nei confronti di una bimba che aveva meno di 9 anni e per quel fatto era stato condannato a 3 anni e 8 mesi, con una perizia che parlò di un “patologico discontrollo degli impulsi sessuali, le cui tendenze deviate il soggetto non sempre riesce a fare a meno di assecondare”. Il Tribunale ha anche disposto le altre “classiche” misure di prevenzione, come l’applicazione, una volta che sarà uscito dal carcere, della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per due anni e il divieto di frequentare asili, scuole, parchi o altri luoghi in cui ci sono minori. La particolarità, però, sta nella decisione - proposta dalla questura di Milano - di prescrivere, anche nel periodo di detenzione e col consenso dell’uomo, “un piano trattamentale che lo porti, attraverso indicazioni di tipo clinico-terapeutico realizzate dagli esperti” del Cipm, “a prendere coscienza del forte disvalore delle condotte violente in una prospettiva di contenimento degli impulsi sessuali”. Milano: “stare in cella non guarisce la pedofilia”, il tribunale ordina cure sanitarie di Sandro De Riccardis La Repubblica, 4 aprile 2018 L’innovativa decisione del tribunale. L’esperto: bisogna puntare sulle risorse del singolo. Un trattamento “di tipo chimico - terapeutico” che possa intervenire lì dove il carcere ha fallito. Una “ingiunzione terapeutica” che impedisca “la sistematica ricaduta, ormai radicalizzata” nella commissione di uno dei reati più odiosi, la violenza sessuale su bambine. A nulla sono serviti i tre anni trascorsi in carcere, e così il collegio della sezione misure di prevenzione del tribunale, presieduto dal giudice Fabio Roia, ha prescritto - anche su proposta del questore Marcello Cardona - per un pedofilo di 53 anni un percorso di cure per intervenire sulle sue “pulsioni sessuali”. L’uomo, responsabile di violenze sessuali a danno di minorenni, è stato arrestato per la prima volta quattordici anni fa per abusi su una bimba. Ma poi, una volta libero, è tornato a colpire. Da due anni è di nuovo in cella, recluso nel carcere di Pavia, ma resta comunque “pericoloso per l’integrità sessuale dei minorenni”. “La pregressa esperienza carceraria per gli stessi motivi - argomentano i giudici - non ha sortito effetto, a discapito di povere e innocenti vittime”. L’uomo, originario di Palermo ma residente a Milano, nel 2004 si macchia di una violenza su una bimba che non aveva compiuto ancora nove anni, e viene condannato a tre anni e otto mesi. Di nuovo libero, nel 2016 viene raggiunto da una condanna a quattro anni e quattro mesi per un’altra serie di terribili episodi, questa volta ai danni di una bambina di 5 anni. Ma proprio nel corso di questa seconda indagine, emergono nuovi casi di rapporti malati, come quello subito da una piccola di appena due anni. Storie, hanno scritto i giudici, che evidenziano un “patologico discontrollo degli impulsi sessuali, le cui tendenze deviate il soggetto non sempre riesce a fare a meno di assecondare”. E che fa dell’uomo “un soggetto socialmente pericoloso”, perché “scarsamente consapevole della sua malattia, unita alla cronicità di disturbo psichico iniziato nella lontana infanzia e mai curato adeguatamente”. Per quello che hanno ricostruito indagini e sentenze, anche dietro la biografia del pedofilo, caratterizzata da “una patologia psichiatrica descritta come ritardo mentale medio”, si nascondono traumi: l’uomo è sieropositivo, vittima di “una più articolata forma di disadattamento sociale”. Milano: “trattamento” dei sex-offenders, un metodo d’avanguardia nato nel carcere di Bollate di Giulio Bonotti La Repubblica, 4 aprile 2018 Parla Paolo Giulini, specializzato nel trattamento degli aggressori sessuali. Se c’è un criminologo che vorrebbe non “comparire”, ma addirittura “scomparire” dai giornali, è Paolo Giulini. Non per sfiducia nei media, per lo meno non in tutti, ma per evitare che una parola fuori posto, un’immagine sbagliata, possa turbare il percorso delle persone che ha, con il suo staff, sotto terapia. Alla sua squadra è stato affidato anche il pedofilo per il quale, come ha stabilito il tribunale su proposta della questura di Milano, “il carcere è inutile”, meglio una cura seria. Ma qual è allora l’approccio giusto per parlare con un pedofilo? “Non tutti quelli che compiono atti sessuali con un minore sono definibili pedofili, in questo caso il magistrato, avendo visto come la carriera criminosa di questa persona abbia aspetti di compulsione sessuale deviante, ha voluto accompagnare alcune misure di prevenzione, fuori dalla cella, inutile in questo caso, con un trattamento specialistico. E il nostro, in questi anni, si sta rivelando efficace per evitare le recidive, cioè che la persona rifaccia gli stessi reati. Il nostro trattamento è criminologico, non chimico, non ci sono pastiglie e psicoterapie”. Osservato dalla strada, il trattamento che viene preparato dallo staff di Paolo Giulini e Francesca Garbarino nasce non da ieri. Era il 2004 quando, all’interno del carcere di Bollate, allora diretto da Luciana Castellano, venne organizzato il primo “gruppo pedofili”: in gergo si chiamava così e prevedeva (e prevede) una sorta di “patto terapeutico”, c’è persino un contratto da firmare, con il quale il “soggetto sotto trattamento” dichiara di voler collaborare e non nascondere le pulsioni e le sue “fragilità”. Nel 2009, gli stessi criteri terapeutici sono stati portati nel “presidio criminologico territoriale”, sovvenzionato dal Comune di Milano. La nostra città è infatti una sorta di avanguardia italiana e da anni sono i magistrati a obbligare imputati e condannati ad affrontare la terapia. Giulini non può dire nulla sui casi singoli di questi quattordici anni intensi, ma, per far capire come questo lavoro di sostegno sia consolidato, “noi - dice - abbiamo attualmente un uomo di oltre 80 anni, agli arresti domiciliari, che può uscire per due motivi, uno è far la spesa e l’altro è venire da noi. C’è anche un detenuto con il braccialetto elettronico, non ancora arrivato al giudizio di primo grado, ma obbligato ugualmente a seguire il trattamento. Quest’anno, il nostro presidio, tra pedofili, aggressori sessuali, stalker, ha 225 persone prese in carico, e 82 sono stati i nuovi accessi. E i nuovi accessi erano 25 l’anno precedente. Sono gli avvocati, le carceri, i magistrati che li mandano. E noi, al momento, abbiamo organizzato quattro gruppi di incontri ogni settimana e uno ogni quindici giorni con i parenti”. Ora, parlare di “fragilità” in queste persone, che invece attaccano, a qualcuno può apparire strano, ma in realtà esiste “una fragilità rispetto alla compulsione sessuale e noi ci sforziamo di puntare sulle risorse del singolo. Insieme con i fattori di rischio, valutiamo i fattori di protezione, mettiamo in evidenza la comprensione per la sofferenza degli altri, la possibile empatia con le vittime, non si tratta di fare terapia e dare pillole, organizziamo un percorso nel quale è la comunità, siamo noi, che ci prendiamo carico della nostra sicurezza”. Ci sono persone che hanno scontato ogni pena, ma da dieci anni continuano a “parlare” con questo staff milanese. Palermo: “così strappiamo al crimine 97 ragazzi su 100” di Romina Marceca La Repubblica, 4 aprile 2018 L’ufficio Servizi sociali del ministero della Giustizia è l’organismo che “salva le anime” dei minorenni che hanno commesso un reato. Tramite la “messa in prova” 32 assistenti li rieducano offrendo loro una seconda possibilità. E quasi sempre riescono nell’intento. Marco di tanto in tanto torna a bussare a quella porta. “Sono io”, dice al citofono. L’ingresso si sblocca dall’interno dell’ufficio o con le impronte digitali di chi in quelle stanze salva anime perdute e precisa: “Non siamo qui per cullare nessuno”. Eppure quei ragazzi non dimenticano e tornano anche solo per un abbraccio. Un acronimo di quattro lettere, Ussm, per indicare l’Ufficio servizi sociali del ministero della Giustizia: una decina di stanze in un edificio accanto all’istituto penale Malaspina dove arrivano minorenni dai 14 ai 17 anni. È qui che c’è chi trova la strada giusta o, al contrario, rinuncia e affronta un processo. È l’approdo di minorenni in attesa di udienza preliminare ma anche di chi è già in carcere. Dall’omicidio al piccolo furto, poco importa. Il futuro di questi ragazzi è tutto da raddrizzare. Il reato più difficile da ammettere? L’abuso sessuale. Reinserire nella società i giovani con progetti riparatori e la riscoperta di sé fino alla messa alla prova o all’affidamento in prova (per chi sconta una condanna) è la battaglia quotidiana di 32 assistenti sociali. A coordinarli Rosalba Salierno, la direttrice: “Entriamo nelle loro vite, incontriamo i genitori, fotografiamo la situazione e individuiamo il disagio che ha spinto un minore a commettere quel certo tipo di reato. Li seguiamo fino ai loro 25 anni”. La messa alla prova è lo step al quale approdano gli indagati anche dopo anni di percorso con gli assistenti sociali. C’è chi ripara la staccionata buttata giù con un calcio o il bullo che dà lezioni private a ragazzi disagiati. Il ragazzino, figlio di mafiosi, che dovrà parlare di fronte a una platea dopo avere studiato la storia di Cosa Nostra. A decidere se un giovane finirà sul banco degli imputati o no è il giudice per l’udienza preliminare. A lui, chi è sotto accusa, chiede di non essere giudicato ma di avere una seconda possibilità. E nella scalata, al fianco di assistenti sociali e a un team di psicologi e educatori, c’è chi arriva alla vetta riuscendo anche a trovare lavoro o riprendendo gli studi lasciati per strada. In Italia nel 2016 sono stati segnalati 14.627 minori. In media, per il distretto di Palermo (che comprende anche le province di Agrigento e Trapani), su mille ragazzi arrivati in un anno davanti al tribunale meno di 30 finiscono in carcere. I “salvatori di anime perdute” si cimentano in imprese difficili che se riescono sono successi assicurati. Uccise un uomo. Adesso Marco punta alla laurea Marco ha ammazzato un uomo. E lo ha fatto quando aveva 14 anni. Lo ha fatto per aiutare un amico diventato l’amante della moglie della vittima. “La prima volta che ci ha raccontato le fasi dell’omicidio eravamo esterrefatti - dicono gli assistenti sociali dell’Ussm - perché non provava alcuna emozione”. Eppure, il fascicolo di Marco viene ricordato come il fiore all’occhiello dell’ufficio perché quel ragazzo è rinato a nuova vita. Tra qualche mese proverà il test d’ammissione per entrare al corso di laurea in Scienze dell’educazione. Proprio lui che non aveva nemmeno finito le medie il giorno in cui arrivò al Malaspina. “Fa parte di una famiglia con poche risorse culturali ma nonostante questo è riuscito ad avere una trasformazione incredibile”, spiegano le due assistenti sociali che hanno seguito Marco per 6 anni. Marco è stato condannato a 10 anni di carcere. Ne ha scontati già 6 e mezzo. Da qualche tempo vive in una struttura di salesiani. Dopo avere seguito il progetto di legalità “Amunì” nel quale i familiari di vittime di mafia incontrano i giovani, Marco ne è diventato il referente per i nuovi minori che arrivano all’Ussm. “Il giorno in cui si è diplomato noi eravamo seduti dietro di lui - raccontano all’Ussm - e adesso non vuole tornare al suo paese. Se dovesse entrare all’università usufruirà di un fondo di una Onlus fondata dai familiari di una nostra collega morta. Perché qui il filo non si spezza mai”. Santo lavorava per la mafia. Ora fa il saldatore Santo è cresciuto a pane e mafia. Un suo fratello è stato vittima di lupara bianca e un altro è già affiliato al clan della sua città. Lui è stato beccato mentre spacciava per conto della famiglia. Ma la sua carriera mafiosa si è interrotta dopo avere varcato la soglia dell’Ufficio dei servizi sociali del Malaspina. Un grosso contributo alla svolta è arrivato dalla mamma di Santo. “Questa donna ha già perso due figli e non vuole perdere il terzo - raccontano nell’ufficio alle spalle dell’istituto di pena - e quindi ci ha dato un contributo fondamentale per salvare suo figlio dalle grinfie della criminalità organizzata”. Santo ha iniziato a lavorare quasi subito. È entrato a far parte di uno dei progetti riparatori dell’Ussm in collaborazione con Fincantieri. Le assistenti sociali per sconfiggere le leggi di Cosa nostra hanno utilizzato un regime di regole altrettanto rigido. Santo ha studiato e lavorato come elettro-saldatore a freddo. Per mesi è stato sotto l’occhio attento di un maestro che è diventato anche il suo punto di riferimento. Sono tra i 15 e i 20 i ragazzi dell’Ussm che dopo l’apprendistato vengono assunti dalle aziende. Santo è uno di questi e adesso vive al nord. Ha lasciato la sua terra e anche la sua mamma. “Ma si è salvato dalla mafia - dice uno degli assistenti che ha avuto Santo in carico - e al suo fianco adesso ha una compagna”. Luca abusò di un amico: dà lezioni private Quella tra la famiglia di Luca e la famiglia di Andrea era un’amicizia che durava da decenni. Finì la sera che Luca abusò dell’amico con il quale era cresciuto. “Qui arrivò una famiglia distrutta - spiegano all’Ussm - e i genitori di Luca piangevano senza sosta”. Luca, invece, non riusciva ad alzare lo sguardo e a incrociare gli occhi degli assistenti sociali. Per un anno e mezzo in quella famiglia il dialogo si è interrotto. “Era come se stessero maturando un lutto”, spiegano all’Ussm. Luca solo dopo mesi ha cominciato ad alzare la testa e a guardare in faccia gli operatori. A passi lenti ha iniziato prima ad avere fiducia negli assistenti sociali e poi ad accettare la sua condizione di accusato di un reato grave. “Mi sento solo, ho paura, non riesco a parlare con mio padre”, tre frasi e in una piccola stanza dell’Ussm è iniziato il percorso di Luca. Gli assistenti sociali per lui hanno indicato una messa alla prova molto significativa. Luca per mesi ha dato lezioni private a ragazzini bisognosi. “Ero nel buio e sono stato accompagnato dagli assistenti sociali verso la luce”, ha scritto Luca al giudice. A poco a poco quella famiglia ha ricominciato a sorridere. “I genitori hanno anche cambiato modo di vestire e di parlare - raccontano i professionisti dell’Ussm - e il padre ci ha confidato che aveva ricominciato a sognare”. Luca oggi è un imprenditore, suo padre ha intrapreso un percorso psicologico. Giorgio diffuse un video hot: ora aiuta una disabile Il sogno proibito delle sue compagne di scuola, il ragazzo super social e griffato. Giorgio, il bello dell’istituto, è rimasto stritolato dalla sua popolarità. Due ragazzine non avevano avuto nulla da ridire quando lui diffuse le immagini di una serata a quattro in casa di un suo amico sulla chat di classe. Ma quei video lo trascinarono in un processo per “diffusione di materiale pedopornografico”. Figlio di professionisti e dall’aria spavalda, Giorgio in realtà in quel suo exploit aveva urlato il suo disagio. Di questo sono convinti i due assistenti sociali che lo hanno seguito. “Nessuno vede al di là della mia bellezza”, ha detto. E così il castello costruito sulla sua posizione sociale e sul suo fisico palestrato si è sgretolato sotto i colpi della presa di coscienza che qualcosa nella sua vita stava andando per il verso sbagliato. “Innanzitutto abbiamo seguito separatamente il ragazzo e i genitori - dicono gli operatori che hanno seguito Giorgio - e per lui abbiamo scelto una mesa alla prova nella quale ha dovuto tirare fuori tutta la sua stoffa”. Giorgio è stato al fianco di una ragazzina disabile, l’ha accompagnata a scuola, al cinema, al parco. È stato accanto a lei per studiare e imparare, insieme, il copione di uno spettacolo teatrale. La pièce è stata messa in scena con i due protagonisti. In prima fila ad applaudire Giorgio c’erano i suoi assistenti sociali ma non i suoi genitori. Spoleto (Pg): nel carcere di Maiano nasce il reparto di osservazione psichiatrica rgunotizie.it, 4 aprile 2018 Il Reparto di osservazione psichiatrico va a sostituire i vecchi ospedali giudiziari. A disposizione una struttura per sei pazienti ed un’equipe multidisciplinare. È per tutelare i detenuti con problematiche di salute mentale che il carcere di Spoleto si è dotato di una nuova struttura, inaugurata proprio negli scorsi giorni. Si tratta del Reparto di osservazione psichiatrico, realizzato nell’ambito del programma che promuove la soppressione ed al contempo il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il Rop nasce infatti dalle indicazioni date dalla Conferenza Stato-Regioni e dagli accordi tra Regione Umbria, Usl Umbria 2 e amministrazione penitenziaria. La struttura andrà ad accoglie quei pazienti per i quali si renderà necessario, ai fini di un approfondimento diagnostico e della redazione di suggerimenti terapeutico-riabilitativi, l’osservazione psichiatrica in un ambiente specifico intra-carcerario. In questo modo l’Autorità giudiziaria avrà tutti gli strumenti per decidere sul prosieguo o meno della detenzione. Ogni qualvolta lo psichiatra di un carcere del territorio, infatti, avrà un dubbio diagnostico o necessiterà di un approfondimento, potrà chiedere all’Autorità giudiziaria l’invio al nuovo reparto. Il Reparto di osservazione psichiatrico si configura quindi come struttura medica di secondo livello ad alta specializzazione con il personale sanitario presente h24. Sei il numero massimo di pazienti che potranno essere ospitati contemporaneamente, di cui uno anche con disabilità se necessario. A disposizione dei detenuti accolti nella struttura ci saranno uno psichiatra, uno psicologo ed un infermiere professionale, che nei 30 giorni previsti dal ricovero provvederanno all’osservazione psichiatrica, alla redazione di consigli di terapia ed alla valutazione delle funzionalità residue, così da poter suggerire un eventuale percorso riabilitativo. Al termine del periodo di osservazione il paziente potrà tornare nel carcere di provenienza. L’equipe, inoltre, lavorerà a stretto contatto con il gruppo della polizia penitenziaria, parte attiva dell’osservazione. Aversa (Ce): i Radicali in visita “l’ex manicomio criminale oggi è un carcere modello” linkabile.it, 4 aprile 2018 Lo scorso venerdì Santo una delegazione di Radicali Italiani guidata da Raffaele Minieri della direzione nazionale e da Emilio Quintieri e Sarah Meraviglia (del comitato nazionale) si è recata in visita ispettiva presso il carcere di Aversa, nell’ambito di un ciclo di ispezioni che ha toccato anche Pozzuoli e Poggioreale. I dati emersi nel corso della visita nell’istituto diretto da Carlotta Giaquinto (direttrice anche a Santa Maria Capua Vetere) raccontano che il carcere di Aversa è un vero e proprio modello a cui ispirarsi. La stessa direttrice, assieme al Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, Commissario Capo Antonio Villano, ha accompagnato la delegazione radicale nella visita che si è protratta per cinque ore. Nato come manicomio, poi divenuto Opg e infine casa di reclusione, il carcere di Aversa è composto da sette sezioni per un totale di 90 celle dove sono ospitati 219 detenuti. Di questi, 163 sono in reclusione a custodia aperta e vi sono ancora undici internati. Gli stranieri sono pochi, non più di quattro. In questo istituto la sentenza Torreggiani è ampiamente rispettata, infatti ogni detenuto dispone di oltre quattro metri quadri di spazio calpestabile nella propria cella. Il carcere di Aversa offre inoltre una vasta gamma di attività: venti detenuti lavorano la terra e in una serra, coltivando prodotti agricoli. Altri dodici ristretti stanno usufruendo di un corso di formazione elettromeccanica della durata di quattro mesi, nell’ambito del progetto Garanzia Giovani. È stata inoltre istituita una scuola media. Altri 80 detenuti sono al servizio dell’amministrazione penitenziaria, due dei quali intra moenia ex articolo 21 (possibilità di lavoro esterno). In prevalenza sono detenuti a basso indice di pericolosità, quasi tutti con un residuo di pena pari o inferiore ai cinque anni. Il tutto perché, come ha spiegato la direttrice alla delegazione radicale, il carcere di Aversa è concepito per essere l’ultimo step prima della libertà e dunque il lavoro è considerato fondamentale. La stessa dottoressa Giaquinto sta lavorando affinché possa essere aperta un’officina vera e propria che dia da lavorare ai detenuti, impiegandoli nella produzione di materiali da vendere all’esterno o ad altre carceri. Nel carcere di Aversa è presente un’ampia zona verde con area gioco per i bambini, vialetti e giardini ben curati dove i detenuti svolgono in primavera e in estate i colloqui con le famiglie. Le sale adibite ai colloqui sono tre. È inoltre in fase di stipula un accordo col comune di Aversa per creare opportunità di lavoro ai detenuti, impiegandoli nella pulizia e nella cura dei parchi pubblici cittadini. Carlotta Giaquinto ha ribadito come il carcere di Aversa, estendendosi in orizzontale, disponga di ampi spazi da poter colmare con diverse attività produttive, confermando la sua determinazione in tal senso. Le celle sono ampie e luminose, ospitano non oltre sei detenuti e a tal proposito si può fare un raffronto con altri istituti come Pozzuoli, dove in una cella vi sono fino a dodici detenute, o Poggioreale con i picchi di nove ristretti in una stanza “tugurio” nel famigerato padiglione Milano. Le sale comuni sono apparse alla delegazione grandi e pulite, munite di fornelli elettrici, frigoriferi, lavabo, e congelatori. Vi è inoltre un campo di calcio in erba naturale, molto ben curato. Il tutto in un ambiente dove nulla sembra lasciato al caso e anzi tutto sembra pensato a misura d’uomo, con l’obiettivo di una convivenza il più possibile umana e civile. In ogni cella vi è il bagno in perfette condizioni con tanto di mattonelle alle pareti e il vano doccia è separato. Il carcere di Aversa, inoltre, dispone di un teatro da 270 posti e perfino di un museo, dove sono custodite parti anatomiche che testimoniano ricerche risalenti al passato “lombrosiano” di una struttura nata come manicomio. Oggi, invece, la casa di reclusione “Filippo Saporito” di Aversa può a pieno titolo essere indicato come un modello da seguire, soprattutto grazie all’impegno della direttrice Carlotta Giaquinto. Teramo: “quella visita al carcere di Castrogno” di Laura Longo* e Maurizio Acerbo** iduepunti.it, 4 aprile 2018 Il carcere è uno specchio delle contraddizioni sociali del nostro paese. Ne riflette le diseguaglianze e i disagi sociali finendo per amplificarli e riprodurli anziché correggerli. Per questo abbiamo accolto la proposta di Rita Bernardini di dedicare la Pasquetta a una lunga visita al carcere di Teramo. Un carcere che riflette la politica dell’amministrazione penitenziaria di rendere alcuni istituti più di altri delle vere e proprie “discariche umane” in cui si incontra il precipitato del disagio sociale. Da sempre a Teramo vengono destinati gruppi consistenti di soggetti con patologie psichiatriche, autori di reati sessuali, tossicodipendenti e condannati per 416 bis. L’eterogeneità della popolazione carceraria non consente trattamenti rieducativi adeguati: i 416 bis in reparto di Alta sicurezza, sono in gran parte giovani con scarsa scolarizzazione a cui non è fornita la scuola primaria e secondaria e sono nell’ozio assoluto. Solo un giovane detenuto si è iscritto all’università ma non ha nessuno che lo segua. Le celle sono sporche e le salette di socialità senza alcun oggetto di svago (solo in pochi casi un biliardino e pure rotto). Riduzione acqua calda e televisioni mal funzionanti. Manca la figura dello “scrivano” particolarmente utile considerata la bassa scolarità della popolazione detenuta. Queste strutturali criticità sono state più volte rappresentate dal magistrato di sorveglianza Francesca Del Villano ma non hanno mai avuto seguito. L’unico dato positivo è l’apertura delle celle dalle 10 alle 17, ma senza opportunità trattamentali finiscono per vagabondare nei corridoi. La polizia penitenziaria è sotto organico e costretta a turni di lavoro che la espongono al burnout. A fine anno ci saranno più di 20 pensionamenti e l’età media del personale carcerario è alta. A fronte di quasi 400 detenuti ci sono solo due educatori. La funzione rieducativa della pena sancita dalla Costituzione diventa una chimera se non vi sono risorse per attività formative, lavorative, culturali, ricreative. In tutto questo emergono le responsabilità del Consiglio Regionale incapace persino di procedere alla nomina del Garante dei detenuti pur in presenza di una candidatura autorevolissima come quella di Rita Bernardini. *Ex-magistrato - gruppo giustizia di Potere al popolo **Segretario nazionale Prc, coordinamento nazionale di Potere al popolo Firenze: quando il bike sharing si trasforma in inclusione Vita, 4 aprile 2018 La società cinese Gobee lascia il mercato europeo abbandonando i propri mezzi per le vie di Firenze. Una cooperativa le recupera per poi rivenderle online. Sono già 41 le due ruote trovate. Così l’ambiente è più pulito e intanto si finanzia il reinserimento lavorativo. Gobee era una della tante piattaforme di bike sharing che sono sbarcate nelle nostre città. Solo che l’avventura del colosso cinese con sede a Hong Kong è durata solo pochi mesi. In una mail inviata a tutti gli utenti (più di 45mila), ha annunciato di abbandonare il progetto e di aver chiuso tutti gli account già attivati, provvedendo al rimborso di ogni eventuale credito. Il motivo? Un business economicamente insostenibile, dicono. Troppi atti vandalici contro le flotte di biciclette lasciate con fiducia al servizio dei cittadini. Dai furti ai danneggiamenti. Non solo l’Italia ma tutta l’Europa è stata una delusione della società. Come si spieghi questo alla luce dei tanti competitor che in tutta Europa rimangono per strada con i propri mezzi non è dato saperlo. Quello che non ha detto Gobee nel comunicare il suo abbandono del mercato Ue è che avrebbe lasciato le bici dove stavano, cioè sui marciapiedi delle nostre città. Così a Firenze le biciclette avranno una nuova vita, grazie a una cooperativa sociale e ai suoi lavoratori “svantaggiati”. Il soggetto è Cooperativa Ulisse, cooperativa sociale che da anni permette ai detenuti di Sollicciano di riparare le due ruote rotte della depositeria comunale per poi rivenderle. Cristiano Sciascia della coop spiega: “Quando ci era stato proposto di collaborare al recupero di queste biciclette in cambio della loro donazione alla cooperativa, ci eravamo resi disponibili in virtù del nostro spirito ambientalista e con una visione di recupero e riciclo di possibili rifiuti”. Un’intesa che è diretta conseguenza di una promessa non mantenuta: l’azienda di Hong Kong secondo la concessione avrebbe dovuto assumere uno dei lavoratori della Cooperativa Ulisse. Poi però c’è stata la doccia fredda dell’addio che ha cambiato i piani. Fino al nuovo accordo. La Cooperativa avrà tempo fino al 30 giugno per trovare le bici sparse in città e segnarle su una mappa provvisoria fornita da Gobee. Alcune bici, infatti, sono scariche e irrintracciabili. Altre sarebbero state nascoste in giardini e luoghi privati da utenti poco ligi alle regole. Le due ruote recuperato finora sono 41. Una volta rivoluzionate nell’estetica verranno rivendute online sui siti di Ulisse e Piedelibero. Bologna: i familiari delle vittime della Uno Bianca “una vergogna quel permesso a Savi” di Luigi Fantoni Il Messaggero, 4 aprile 2018 Tre giorni e mezzo di permesso per le feste, con la possibilità di uscire a pranzo il giorno di Pasqua. Non è la prima volta che Alberto Savi, il più giovane dei tre fratelli della banda della Uno Bianca, 24 morti e oltre 100 feriti a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, può usufruire di un beneficio: detenuto dal 1994, sconta l’ergastolo ma il suo percorso detentivo, in carcere a Padova, parla di pentimento e reinserimento e la sua posizione è meno pesante di quella dei fratelli Roberto e Fabio. Ma i familiari delle vittime non lo accettano nella maniera più assoluta. “È una vergogna, un’indecenza”, ha commentato Anna Maria Stefanini, mamma di Otello, il carabiniere ucciso il 4 gennaio 1991 insieme ai colleghi Andrea Moneta e Mauro Mitilini dal gruppo criminale, in quella che poi prese il nome di Strage del Pilastro. La donna, che ogni anno partecipa alla commemorazione dell’eccidio, non vuole sentir parlare di sconti o benefici per i killer: “Non so come fanno questi giudici a dare agevolazioni del genere a persone che hanno fatto quello che hanno fatto. Noi - aggiunge al telefono la donna - la pensiamo così e non ci ascolta nessuno. Mio figlio aveva 22 anni e tre mesi e io da allora porto fiori al cimitero”. E se Alberto Savi, come riportato da Il Mattino di Padova che lo ha intercettato in strada insieme alla compagna, non ha voluto parlare, dicendo che altrimenti “rischiamo di fare del male a tante persone...”, Stefanini ha replicato: “Poverino... Non ho parole. Male alle persone lo hanno già fatto e nessuno ce lo leva per tutta la vita. Ci si è dimenticati di quello che hanno fatto. Ascoltano più loro che noi, le vittime non contano niente”. Polemiche simili c’erano state a febbraio 2017, quando ad Alberto erano state concesse 12 ore di libertà, passate in una comunità protetta. La rabbia dei familiari delle persone uccise dal gruppo criminale si è fatta proposta: “Si parla sempre dei detenuti, ma parliamo anche delle nostre vittime. Tutte le volte che ci muoviamo oppure che ci sono le ferie loro sono sempre a chiedere qualcosa”, aveva detto nei mesi scorsi la presidente dell’associazione Rosanna Zecchi, chiedendo di cambiare le norme sui permessi premio. “Fatto salvo il rispetto per le autonome decisioni della autorità competenti, non si può ignorare come la comunità bolognese sia turbata dal riaprirsi di antiche ferite mai rimarginate”, ha detto la presidente dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna Simonetta Saliera, esprimendo anche la sua personale “vicinanza e solidarietà” ai familiari delle vittime. Trento: “Liberi da dentro”, lo spazio dei detenuti nell’agorà pubblica Corriere del Trentino, 4 aprile 2018 Il progetto “Biblioteca vivente” porterà in superficie le loro storie. E poi il teatro. Il cuore del progetto è la “biblioteca vivente”, perché il processo della narrazione personale autobiografica è uno degli strumenti più efficaci per conoscere in prima persona vicende e dimensioni abitualmente escluse dal dibattito pubblico. Attraverso “Liberi da dentro”, iniziativa promossa dalla Scuola di preparazione sociale insieme a molte altre realtà del territorio con il patrocinio del Comune di Trento, detenuti o ex detenuti, familiari, volontari e operatori del carcere diventeranno “libri umani” che i lettori potranno “prendere in prestito” conversando con loro a tu per tu. Obiettivo del percorso, che comincerà domani alle 17 negli spazi della Fondazione Franco Demarchi con il primo di cinque incontri sulla sanzione penale oggi in Trentino, è diffondere sul territorio una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone: “La Casa circondariale fa parte della città ma essa non se ne occupa - spiega il presidente della Scuola di preparazione sociale Alberto Zanutto - l’elemento che accomuna le problematiche legate al carcere è il pregiudizio: dai detenuti agli operatori, lo sperimentano tutti”. È per questo che attraverso eventi e incontri pubblici, conferenze, spettacoli e film si vuole puntare alla promozione di una cultura capace di sviluppare una visione di tipo riparativo e alimentare il senso di una responsabilità sociale collettiva. Al termine del ciclo di incontri, sempre alla Fondazione Demarchi, andrà in scena lo spettacolo “Dalla viva voce”, che propone frammenti di storia autobiografica di alcuni detenuti raccolti a Spini dall’insegnante Amedeo Savoia (il 4 maggio alle 20.30), mentre il 16 giugno a Riva del Garda avrà luogo il primo appuntamento della biblioteca vivente (gli altri saranno a Trento il 25 giugno durante le Feste virgiliane e a Lavis il 7 luglio). “Saranno coinvolte persone che vivono un’esperienza Napoli: nello Spazio Giallo del carcere disegni e lettere dei bimbi ai genitori detenuti di Giuliana Covella Il Mattino, 4 aprile 2018 Un albero con foglie di colore rosso e il tronco nero. Una casa dove sono impressi i nomi di tutti i componenti del nucleo familiare. O un semplice “ti voglio bene” come dedica al papà che vive dietro le sbarre. Sono alcune delle creazioni artistiche realizzate dai minori figli dei detenuti (molti sono boss o affiliati) nel carcere di Secondigliano all’interno del cosiddetto Spazio Giallo, una stanza dedicata ai genitori reclusi e ai loro figli. Un percorso di accoglienza attivo dal 2016, grazie all’associazione Bambinisenzasbarre di Milano, che aiuta i bambini a orientarsi e ad attenuare l’impatto con l’ambiente potenzialmente traumatico del carcere e offre loro possibilità di non perdere il legame affettivo con il padre in cella. Il progetto, coadiuvato da Lia Sacerdote, presidente dell’associazione e sostenuto dalla Fondazione Altamane Italia, ha visto un incremento di piccoli utenti nei giorni precedenti la Pasqua: circa 50 sono stati i bambini che hanno varcato le porte del penitenziario per incontrare i genitori detenuti. “Il venerdì santo - spiega l’artista counselor Daniela Morante, dell’associazione Ars Fluens - abbiamo accolto una cinquantina di minori dai 2 ai 16 anni, che hanno dipinto a quattro mani insieme ai papà, a cui hanno anche scritto lettere per Pasqua. Il progetto è fondamentale per il recupero del rapporto padre-figlio. In particolare lavoriamo sulla rabbia che spesso manifestano questi bimbi data la situazione che vivono in famiglia e sull’affettività”. Ma quali sono le varie fasi d’intervento volte al recupero di una sana genitorialità? Lo Spazio Giallo (luogo di prima accoglienza, allestito nella sala d’attesa del carcere); il laboratorio di pittura arte-terapeutico (dove i bambini dipingono in coppia con i padri); e gli incontri di ascolto per i soli padri. Qui la Morante, insieme ad un’equipé formata da psicologo, assistente e tirocinanti dell’Università Suor Orsola Benincasa, accoglie i bambini per prepararli all’incontro con il genitore detenuto e poi partecipare al tavolo di pittura, in coppia con il genitore, al di fuori della presenza materna. I bambini e i papà hanno così la possibilità di esternare, nel linguaggio muto del segno e del colore, ansie, paure e mancanze. “In questo modo il carcere - dicono gli operatori - diventa per i bambini un appuntamento piacevole e non più un luogo che incute timore”. L’Amministrazione carceraria, così come gli educatori interni e il personale della polizia penitenziaria, hanno sposato la causa: “il loro consenso ha permesso di estendere il beneficio delle attività a tutto il contesto penitenziario, creando un clima di distensione ed armonia laddove spesso, c’è odio e tristezza”. L’associazione Bambinisenzasbarre fa parte della rete di associazioni europee Cope (Children of Prisoners Europe) ed ha firmato nel 2014 con il ministero di Giustizia e l’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza la Carta italiana dei diritti dei figli dei detenuti, volta a trasformare i bisogni di questi minori in diritti. “L’Italia è il primo Paese che ha siglato questa Carta - afferma la Sacerdote -. Una firma ed un segno forte per i 100mila figli di genitori detenuti è uno strumento radicale che trasforma il bisogno del mantenimento del legame affettivo in diritto, liberando questi minorenni da una colpa non loro”. Alessandria: progetto “SocialWood”, i detenuti creano oggetti d’arredo ecologici alessandrianews.it, 4 aprile 2018 Grazie a un contributo della Fondazione Social nasce in carcere il progetto SocialWood e si lavora per l’apertura del punto vendita direttamente in piazza Don Soria. Darà lavora ad almeno 4 detenuti: dai pallet in legno a oggetti d’arredo ecologici e di qualità. Chi ha “bucato” il muro di cinta della Casa circondariale Catiello Gaeta di piazza Don Soria? Il “colpevole” si chiama SocialWood ed è un progetto davvero innovativo, capace di coniugare più di un aspetto positivo e ormai quasi pronto per aprire ufficialmente i battenti in città. Grazie al finanziamento ottenuto dalla Fondazione Social, promossa dall’Associazione Ises, l’obiettivo di questa ambiziosa iniziativa passa dalla possibilità di unire la valorizzazione di materie prime di scarto con le competenze di persone detenute, capaci di imparare un mestiere che sarà loro utile una volta uscite dal carcere e di realizzare prodotti d’arredo di grande fascino. A raccontare il progetto è Andrea Ferrari, dell’associazione Ises, che spiega: “Stiamo ultimando la strutturazione del negozio sulle mura di cinta della Casa Circondariale, così da poter vendere i prodotti realizzati dai detenuti direttamente con un affaccio in piazza Don Soria. Si tratta di una novità importante per la città ma anche di una situazione più unica che rara in Italia, perché le strutture detentive sono state spostate quasi ovunque fuori città o comunque il zone periferiche, mentre in questo caso il Catiello - Gaeta è centralissimo e si può sfruttare questa peculiarità”. Ma non è tutto: “il progetto vuol essere un punto a disposizione di tutto territorio e ci stiamo attrezzando per non vendere solamente i prodotti realizzati dai detenuti, ma anche per aiutare associazioni no profit e del terzo settore a vendere o offrire i propri prodotti, che potranno trovare posto nel nostro negozio. Speriamo così di contribuire a finanziare altre attività positive e utili per la città”. “Non è stato semplice dare il via a questo progetto - spiega Ferrari - perché il carcere è sotto la tutela della Sovrintendenza, ma ormai siamo agli ultimi lavori e il negozio potrà aprire i battenti a giugno”. Attualmente sono 15 le persone che seguono il corso di falegnameria promosso dalla Fondazione Casa di Carità, Arti e Mestieri all’interno del carcere e di questi 4 lavoreranno direttamente al progetto SocialWood. “Man mano che il progetto crescerà speriamo di poter aumentare la sinergia con il corso di formazione e implementare il numero di persone impiegate” raccontano da Ises. I prodotti realizzati nascono dal legno di riciclo, in particolare dai bancali, riutilizzati per fare mobili o oggetti di arredo: una nuova vita che consentirà di ottenere prodotti ecologici e dal desing molto particolare, tanto da suscitare l’interesse non solamente dei privati ma anche di realtà come la Biblioteca di Cascina Grossa o il Comune di Lu Monferrato, che hanno scelto di investire proprio negli arredi prodotti da SocialWood. Il ricavato via via ottenuto dalle vendite viene reinvestito nel progetto, così da implementarlo sempre più. Per qualsiasi informazione la mail di riferimento è la seguente: info@associazioneises.org. “Questo progetto consente di mostrare i suoi risultati concreti, utilizzabili e reali del lavoro svolto dai detenuti - racconta la direttrice del carcere, Eleno Lombardi Vallauri - è una vetrina e un mio sogno personalissimo che coltivo da anni, e che in qualche modo mi è stato regalato, visto che il progetto è precedente al mio ritorno come direttrice delle carceri cittadine, (ormai riunite da un punto di vista amministrativo ndr). Bucare il muro del carcere è una bella occasione per passare un messaggio di distensione e positività anche a tutta la cittadinanza, specialmente se si considera i ricordi negativi che la Casa Circondariale porta con sé nella storia di Alessandria. Siamo già d’accordo con i partner del progetto che questo possa essere un punto d’inizio e abbiamo la speranza di poter sviluppare sempre più questa iniziativa. È importantissimo - conclude la direttrice - mostrare anche quanto di buono viene fatto in carcere e che può essere utile anche al resto della città”. Fotoreporter torinese detenuto in Serbia, la famiglia: “condizioni psicofisiche preoccupanti” di Antonello Micali La Repubblica, 4 aprile 2018 Il professionista è apparso molto provato durante la visita della moglie, che con l’avvocato chiede alle autorità un intervento urgente. Nonostante il recente viaggio in Serbia della moglie e dell’avvocato non si sblocca la situazione della detenzione del fotoreporter torinese Mauro Donato, detenuto dal 16 marzo scorso in un carcere del Paese balcanico dove si era recato insieme ad un collega per documentare la vita dei profughi e le attività dei diversi operatori umanitari. All’angoscia per la surreale vicenda ora si debbono aggiungere nuove preoccupazioni: i familiari e il legale del reporter nell’ultima comunicazione rilasciata ai media esprimono infatti forte inquietudine per lo stato di salute psicofisica di Mauro. Il giornalista è stato fermato mentre stava lasciando il Paese dell’ex Jugoslavia ed arrestato con l’accusa, subito rivelatasi infondata, di rapina aggravata dall’uso della violenza (per la cifra di 3 euro) ai danni di tre profughi afgani. “Nonostante l’accusa sia stata immediatamente smentita dalle stesse vittime che non hanno riconosciuto in Mauro il loro aggressore e da numerose altre testimonianze, Mauro Donato si trova ancora ristretto in carcere e le sue condizioni psicofisiche destano allarme - scrivono i familiari del reporter - Vive con comprensibile angoscia le accuse contestategli e la detenzione in un paese straniero e, pur certo che la propria innocenza sarà accertata dalle autorità giudiziarie, vede dilatarsi i tempi della sua reclusione che si svolge in una sorta di isolamento non potendo egli comunicare con nessuno a causa delle barriere linguistiche”. Mauro è apparso visibilmente provato durante le visite rese dalla moglie e svoltesi attraverso un vetro divisorio che inibiva qualsiasi contatto. “La moglie Giulia, i tre figli, i colleghi e gli amici e i legali della famiglia esprimono forte preoccupazione sia per il dilungarsi della detenzione di Mauro - conclude l’avvocato Alessandra Ballerini - nonostante sia evidente e dimostrata la sua totale estraneità ai fatti contestatigli, sia per il peggioramento delle sue condizioni di salute e chiedono alle autorità competenti di occuparsi di questa delicata vicenda con la massima attenzione e solerzia possibile”. Israele. Piano alternativo ai trasferimenti forzati di richiedenti asilo in Ruanda e Uganda? Forse… di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 aprile 2018 Israele ha abbandonato il piano di espellere migliaia di richiedenti asilo eritrei e sudanesi verso Ruanda e Uganda. Sulla decisione del primo ministro Benjamin Netanyahu hanno inciso le pressioni di un forte movimento di protesta della società civile e l’elevato timore che la Corte suprema, dopo averlo sospeso, avrebbe bocciato il piano. L’alternativa era stata annunciata ieri, 2 aprile, in una conferenza stampa: con la collaborazione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, in cinque anni Israele avrebbe trasferito in paesi occidentali disponibili 16.250 richiedenti asilo eritrei e sudanesi. Un numero analogo avrebbe ricevuto un permesso temporaneo di soggiorno in Israele e sarebbe stato creato un organismo per migliorare le condizioni dei quartieri meridionali di Tel Aviv, dove vive il maggior numero di richiedenti asilo. La notizia pareva rassicurante: i paesi occidentali offrono maggiori garanzie, rispetto a Ruanda e Uganda, di fronte al rischio del rimpatrio forzato nei paesi di origine. Questi paesi peraltro devono essere ancora individuati: poco dopo aver fatto il nome di Italia, Canada e Germania, la Farnesina ha protestato e le autorità israeliane hanno fatto marcia indietro: “era un mero esempio di paese occidentale”. Dopo, anche Berlino ha fatto sapere che non c’è alcun accordo in vista. E a fine serata, Netanyahu ha sospeso tutto. Stati Uniti. Asilo negato ad afgana sfregiata dal marito Taliban di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 4 aprile 2018 La giovane Shakila Zareen ha perso metà del viso per un colpo di pistola. Solo il Canada le ha aperto le porte. La sua vicenda come quella della ragazza che Time mise in copertina nell’agosto 2010. Nell’agosto 2010 Time magazine decise di mettere in copertina l’immagine di Bibi Aisha, una ragazza afgana dell’Oruzgan a cui era stato tagliato il naso. “Che cosa succede se lasciamo l’Afghanistan”, diceva il titolo, lasciando intendere con una certa spregiudicatezza che la mutilazione era da attribuire ai Taliban. In realtà a devastare il volto della diciottenne era stato il marito, che l’aveva presa in moglie quando lei aveva 12 anni e che non era nuovo a gesti di violenza. Il taglio del naso e delle orecchie era la conseguenza di un tentativo di fuga della giovane. Ma in fondo, sembrava suggerire il settimanale americano, perché sottilizzare? Anche il marito era un integralista, o magari era lo stesso gesto a qualificarlo come tale. Aisha ha ripreso a vivere in Maryland, con un naso ricostruito dai chirurghi e tanto coraggio. In un certo senso, nella tragedia ha avuto fortuna: se la sua disgrazia fosse successa durante la presidenza Trump, si sarebbe vista negare ogni possibilità di asilo. È quello che è accaduto a Shakila Zareen, 23enne afgana di Baghlan, a cui il marito ha sparato in pieno viso, portandole via un occhio, una guancia, metà della mandibola. Ricoverata a Kabul, operata diverse volte a New Delhi, la giovane era stata definita “rifugiata” dalle Nazioni Unite e il governo americano aveva dato un “via libera” iniziale alla sua richiesta di asilo. Nel giugno scorso, però, il Servizio cittadinanza e immigrazione degli Stati Uniti ha fatto sapere che Shakila non aveva ottenuto l’asilo “per motivi discrezionali legati a problemi di sicurezza”. In altre parole, il “no” non deve essere giustificato, per cui non è nemmeno chiaro se il diniego sia effettivamente legato alle norme introdotte dalla nuova amministrazione. Ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan, nel 2001, da parte di Usa e alleati, i diritti delle donne erano una delle preoccupazioni fondamentali, un argomento incontestabile per giustificare l’intervento militare. Hillary Clinton ne aveva fatto una bandiera, ma l’idea di uno stravolgimento culturale brusco, senza mediazioni, aveva irritato la stessa popolazione, donne comprese. Le organizzazioni legate all’avanzamento della condizione femminile erano arrivate a essere più numerose di tutte le altre messe insieme. Oggi, però, oltre sedici anni dopo l’intervento occidentale, gran parte delle Ong ha dovuto levare le tende per motivi di sicurezza, i Taliban sono di nuovo all’offensiva e controllano una grossa fetta del Paese. E le ragazze che hanno avuto il coraggio di sfidare gli integralisti per andare a scuola, adesso rischiano di essere sfregiate con l’acido. È baldanzoso anche il marito di Shakila, il quale ha fatto sapere, attraverso i familiari, di non essere ancora soddisfatto. È anche lui un fondamentalista, amico di capi Taliban, e la ribellione della moglie lo ha irritato, al punto che continua a minacciare i suoi parenti rimasti in Afghanistan. La ragazza è terrorizzata all’idea di ritrovarselo davanti un giorno, anche nella sua casa di oggi, in Canada. Quanto agli Usa, il britannico Guardian suggerisce un’ipotesi grottesca ma non improbabile sul “no” all’accoglimento della richiesta d’asilo. Dopo tutto, Shakila è la moglie di un Taliban. Droga e diritti umani, le Filippine alla sbarra di Marco Perduca Il Manifesto, 4 aprile 2018 A metà marzo scorso, il Presidente Rodrigo Duterte ha annunciato che le Filippine si ritireranno dalla Corte Penale Internazionale (Cpi) perché il Procuratore Fatou Bensouda ha avviato un esame preliminare sulle massicce e sistematiche violazioni dei diritti umani nell’arcipelago, causate dalla “guerra alla droga”. Secondo quanto riportato dalla stampa internazionale e denunciato da diverse organizzazioni non-governative, dall’estate del 2016 Duterte sarebbe responsabile, direttamente o indirettamente, della morte e sparizione di oltre 12.000 persone e di intimidazioni, arresti arbitrari e soprusi ai danni di decine di migliaia di filippini. Lo Statuto della Cpi ritiene condotte di questo tipo “crimini contro l’umanità”. Le Filippine non sono il solo paese ad aver minacciato l’abbandono della Corte alla notizia di indagini sulle più alte cariche dello Stato; negli ultimi 10 anni diversi paesi hanno minacciato di ritirarsi dallo Statuto di Roma senza però dare mai seguito agli annunci. Duterte invece è uno che piuttosto si spezza ma non si piega. Però secondo le regole della Corte, anche nello scenario peggiore, per i prossimi dodici mesi le Filippine non potranno sottrarsi alla sua giurisdizione. Quando nella seconda metà degli anni Ottanta il Presidente di Trinidad e Tobago, Arthur Robinson riportò all’Onu la necessità di istituire una giurisdizione penale competente su crimini di portata transnazionale commessi da individui, le sue denunce erano dirette principalmente alla corruzione e alle violenze seminate nei Caraibi dalle narcomafie durante il transito della cocaina colombiana verso il nord. Durante i negoziati sullo Statuto della Corte Penale Internazionale il narcotraffico fu escluso dalle competenze della Corte anche perché in quegli anni all’Onu era arrivato Pino Arlacchi che predicava l’eradicazione forzata di coca e papavero, magari in combutta coi Talebani, per cancellare le droghe dalla faccia della terra entro il 2008. Da quando la Cpi è attiva, il narcotraffico non è mai rientrato neanche tangenzialmente in nessuno dei casi indagati e giudicati all’Aia. Sebbene una trentina di Stati membri delle Nazioni Unite prevedano la pena di morte per reati di droga, e una dozzina uccidano sistematicamente centinaia di persone anche per mera detenzione di sostanze proibite, negli ultimi anni le campagne abolizioniste hanno incluso le efferatezze della guerra alla droga tra gli argomenti a favore della cancellazione o sospensione delle esecuzioni capitali da codici penali e costituzioni. Le Filippine hanno abolito la pena di morte nel 1987 a seguito della deposizione del dittatore Marcos ritenendo che possa però essere nuovamente applicata per reati gravissimi. Secondo Duterte chi ha a che fare con la droga deve subire la più severa delle punizioni: la morte. Durante la sessione da poco conclusasi della Commissione Droghe all’Onu di Vienna, Forum Droghe, DrcNet e l’Associazione Luca Coscioni hanno organizzato un dibattito con il senatore filippino Antonio Trillanes denunciando le tecniche della guerra di droga di Duterte. Trillanes ha accusato il suo Presidente di voler punire ampie fette della popolazione per nascondere le responsabilità dell’establishment nel traffico internazionale di stupefacenti. La notte prima del suo intervento è stato accusato di sedizione - è libero su cauzione -, e da quando è rientrato a Manila si batte contro il ritiro delle Filippine dalla Cpi. Lo Statuto della Corte è frutto di decenni di lotte contro l’impunità e se questo Stato venisse condannato per i crimini commessi in nome della “guerra alla droga”, sarebbe d’importanza fondamentale per lo Stato di Diritto internazionale e contro le fallimentari politiche proibizionistiche.