Gli stranieri detenuti tra integrazione e reinserimento di Veronica Manca* Il Dubbio, 3 aprile 2018 Sono 19.765, il 34% della popolazione carceraria, e oltre la metà (7.871) sono in attesa di giudizio. A Trento quattro seminari (9 e 16 aprile e 21 e 28 maggio) organizzati dall’associazione Atas Onlus, con Antigone, Camera penale “M. Pompermaier”, ordine degli avvocati di Trento. In un territorio in cui il 73% dei detenuti è di origine straniera - un unicum sul panorama italiano - il multiculturalismo, la diversità di culture, diritti e lingue rappresentano caratteristiche tipiche del trattamento penitenziario. Nella Casa circondariale di Trento sono infatti 211 gli stranieri presenti su 306 detenuti (al 28 febbraio 2018): una percentuale di molto elevata rispetto alla media nazionale, se solo si pensa che rispetto al totale dei presenti (58.163), 19.765 unità - di cui solo 888 donne - sono rappresentate da detenuti stranieri, con una percentuale, quindi, pari al 34% rispetto alla totalità. Significativo, inoltre, che il dato per cui, oltre la metà dei reclusi, 7.871, siano imputati, in attesa di giudizio, mentre gli altri 11.840 siano detenuti definitivi. A livello nazionale, comunque, più di 1/ 3 dei detenuti è di origine straniera, con una forte incidenza di extracomunitari: Marocco (18,6%), Romania (13,1%), Albania (13,1%) e Tunisia (10,7%), la presenza di detenuti egiziani è, inoltre, raddoppiata nel giro di nove anni (3,3%). In alcune Regioni, la percentuale degli stranieri in carcere supera sensibilmente il 50% e la presenza in termini numerici assume cifre importanti, oltre al caso del Trentino Alto Adige, si ha la Lombardia, la Regione con il numero maggiore in assoluto di migranti ristretti (3.851). Possiamo dedurre, quindi, che il 50% della popolazione straniera detenuta risieda nelle carceri del Nord, solo il 25% al centro e il 20% al Sud. Date le peculiarità della popolazione reclusa nelle Case circondariale della Regione Trentino Alto Adige - nel complesso 290 stranieri, un vero e proprio “atlante carcerario”, tra cui 23 detenuti provenienti dall’Africa del Sud, 51 dal Marocco, 20 dalla Nigeria, 25 dalla Romania, 75 dalla Tunisia, 9 dal Pakistan, 7 dal Senegal - risulta giocoforza vitale che gli operatori del settore, dagli avvocati, agli educatori, alla magistratura e al terzo settore si impegnino, in una prospettiva di “rete”, per predisporre degli strumenti trattamentali, informativi e giuridici, che consentano ai detenuti di espiare una pena in condizioni dignitose, perché comprensibili e accessibili, e, soprattutto funzionali ad intraprendere un percorso di (re) inserimento della propria società di appartenenza, la nostra oppure quella di provenienza. Operazione molto complessa e delicata. Le difficoltà di approccio a un detenuto straniero - nelle dinamiche del processo penale e del trattamento penitenziario - sono notevolmente maggiori rispetto al contatto con un detenuto italiano: in primo luogo, il detenuto straniero spesso non parla correttamente la lingua italiana (e, in ogni caso, non ha una completa rappresentazione del diritto italiano): va da sé, quindi, che non sempre il detenuto straniero partecipa consapevolmente alle fase processuali, non comprendendo le tempistiche, le attese, le mancate risposte, i dinieghi, i gradi di giudizio, etc. La necessità che si potenzi la figura dell’interprete sia in fase di cognizione sia in sede esecutiva è di tutta evidenza: sorge, quindi, l’esigenza di ripensare, con gli esperti del settore, al rafforzamento del ruolo dell’interprete anche all’interno del carcere. L’esperto linguista, inoltre, è una figura che mal si concilia con i bisogni reali dei detenuti stranieri, che oltre ad un deficit linguistico, spesso provengono da una differente impostazione culturale (per tutti, vedasi i sex offenders): il mediatore culturale, o ancora meglio, l’esperto culturale rappresentano delle figure professionali nuove, che potrebbero rappresentare un punto di svolta (e di riferimento) per il trattamento penitenziario del detenuto straniero, a mo’ di ponte, tra cultura e diritto, tra l’interno del carcere e l’esterno della società (secondo i poli concettuali di esclusione/ inclusione). La valorizzazione di strumenti culturali e giuridici rappresenta, quindi, il tema principale attorno al quale il territorio deve scommettere per una maggior responsabilizzazione delle istituzioni coinvolte nel trattamento penitenziario dei detenuti stranieri. In tale prospettiva, si colloca il ciclo di Seminari su carcere, pluralismo e diritto, intitolato “Stranieri e carcere: oltre gli stereotipi della criminalità, irregolarità e marginalità sociale”, organizzato dall’Associazione Atas Onlus di Trento/Cinformi della Provincia Autonoma di Trento, in collaborazione con Antigone, Camera penale “M. Pompermaier”, Ordine degli Avvocati di Trento, che si articola su quattro appuntamenti 9 e 16 aprile e 21 e 28 maggio e che vede la partecipazione della Magistratura di Sorveglianza di Trento, dei principali esponenti del Foro di Trento e della Camera penale, il comandante della Polizia Penitenziaria e il responsabile dell’Area educativa presso la Casa circondariale di Trento, oltreché la Garante dei diritti dei detenuti per la città di Trento e altri docenti e ricercatori universitari. Il ciclo di incontri, inoltre, prevede interventi anche di studiosi delle scienze umane (antropologi ed interpreti) e dei coordinatori del terzo settore: l’obiettivo è offrire una visione interdisciplinare del fenomeno dell’immigrazione, dal primo approccio linguistico, alla dimensione culturale, fino alle dinamiche processuali. Il corso è, altresì, gratuito e aperto a tutti coloro che siano interessati ai temi proposti, dagli avvocati, al mondo del volontariato penitenziario, oltre che ai volontari e agli operatori già attivi in enti e associazioni che operano nella realtà penitenziaria locale. *Avvocato del Foro di Trento “La custodia cautelare come metodo di indagine? Ma questo è illegale” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 3 aprile 2018 Claudio Moreno, autore di “Un ambasciatore a Regina Coeli”. “Quando una persona viene arrestata pur sapendo di essere assolutamente innocente, sprofonda in una situazione paradossale in cui soltanto un’inamovibile fiducia nel sistema democratico - e quindi anche nella magistratura - può permettergli di far fronte alle inaccettabili condizioni di detenzione che sono offerte dall’odierna situazione carceraria”. Le parole dell’ambasciatore Claudio Moreno scavano nella propria esperienza personale, incardinandosi al momento in cui un magistrato nel marzo del 1993 lo convocò in qualità di persona informata dei fatti - riguardo a programmi di cooperazione allo sviluppo di tredici anni prima - e, rientrato a Roma, senza neanche ricevere un avviso di garanzia, venne arrestato e tradotto a Regina Coeli. Furono necessari quattordici anni per ottenere l’assoluzione da ogni addebito per non aver commesso il fatto, un percorso di riabilitazione che culminò con la sua nomina a Presidente del Comitato per i Diritti Umani dal Maee a presidente del Main Committe nella Conferenza Onu contro razzismo, xenofobia e relative discriminazioni tenutasi a Durban nel 1999. La sua storia è ora raccontata nel libro “Un ambasciatore a Regina Coeli” (Editori Riuniti). Ambasciatore Moreno, ritiene che, rispetto al tempo della sua detenzione, talune problematiche carcerarie - sovraffollamento, precarie condizioni sanitarie, carenza dell’assistenza, ecc. - siano state superate o per lo meno vi siano stati miglioramenti sensibili? Ripongo fiducia nelle testimonianze delle mie amiche Radicali Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, che hanno una profonda conoscenza dell’attuale condizione delle carceri e mi riferiscono che nulla è cambiato: i motivi della loro lotta risiedono nel fatto che non vi sono stati cambiamenti rilevanti da venticinque anni a questa parte. Dirò di più: l’immutabilità di queste inaccettabili condizioni detentive sono anche un riflesso della strumentalizzazione che viene spesso fatta dagli inquirenti per cercare di esercitare un sistema di pressione indebita. È chiaro che se il pubblico ministero possiede tutte le prove della colpevolezza dell’indagato non esiste alcun problema in merito mentre, al contrario, se queste prove non ci sono e sono assenti riscontri o alcun altro tipo di risultanza, il sistema adottato da qualunque casa circondariale acquista un valore sproporzionato rispetto alla possibilità che un indagato resista alle pressioni dell’inquirente. Credo che sia di enorme importanza risolvere il problema della custodia cautelare, che deve essere riservata solo ai casi di assoluta certezza del crimine, perché altrimenti, qualora dovesse venire adottata come metodo d’indagine, allora, come affermato da Rita Bernardini, rappresenterebbe un sistema di tortura e pressione indebita. Cosa pensa della pratica dell’isolamento, cui ha dedicato particolare spazio all’interno del suo libro? Parlare di isolamento è davvero paradossale, in quanto non c’è momento più affollato: ci si trova insieme a quella che viene chiamata “la schiumatura della giornata”, ovvero tutti coloro i quali sono stati fermati nei giorni immediatamente precedenti, dal tossicodipendente allo spacciatore persino all’omicida. L’istituzione dell’isolamento è caratterizzata in modo particolare dalle condizioni inaccettabili cui si viene sottoposti: non c’è possibilità di fornitura esterna o adeguata alimentazione, non c’è la televisione, sono assenti i giornali e anche l’illuminazione lascia alquanto a desiderare. Dovrebbero definirla ‘ sala d’attesa dei detenuti’. È sicuramente uno dei momenti più duri della detenzione. Ritiene vi sia una certa relazione tra giustizialismo e populismo? Credo che non vi sia coincidenza perfetta tra populismo e giustizialismo. Il giustizialismo è un approccio dirigenziale di una classe - in particolare quella della magistratura - che interviene per sostituirsi al potere politico, mentre il populismo è un fenomeno di altro tipo. Come giudica la condizione dei diritti civili in Italia? In quanto Presidente del Comitato per i Diritti Umani, sono stato chiamato, tutti gli anni, a rilasciare una testimonianza giurata di fronte a tutte le relative Commissioni, le quali a loro volta operavano sulla base di denunce fatte da enti di volontariato o da parti politiche che presentavano una sorta di bilancio in riferimento ai vari settori. Ai nostri giorni, il problema del razzismo e la discriminazione nei confronti dei lavoratori stranieri ha assunto le dimensioni di fenomeno nazionale. Non si può dire che l’Italia sia più o meno responsabile di infrazioni dei diritti umani: lo è ciclicamente, così come lo sono molti altri Paesi, fra i quali i tanto decantati Paesi scandinavi che presentano problematiche di carattere analogo. Ho avuto il piacere e l’onore di essere stato Presidente del Main Committee - ovvero la principale Commissione della Conferenza delle Nazioni Unite contro il razzismo, la xenofobia e le relative discriminazioni a Durban, in Sudafrica, dando il mio modesto contributo alla Carta infine approvata, mentre la Conferenza precedente e quella successiva fallirono per l’abbandono dei principali Paesi occidentali. Ho potuto quindi seguire le problematiche del razzismo e della discriminazione in momenti in cui esse non erano ancora contrassegnate da quel carattere epocale e continentale che stanno invece assumendo oggi in Europa. Pur senza arrivare alle aberrazioni dell’Ungheria e di altri Paesi balcanici, bisogna tenere presente che vi sono Paesi che semplicemente non accettano di condividere le decisioni comunitarie e la relativa suddivisione di quote di migranti, rifugiati riconosciuti come tali. Stiamo attraversando un momento di crisi di quello spirito solidaristico che ha sempre caratterizzato l’Europa, ma devo tuttavia rilevare come l’Italia - nonostante taluni episodi poco edificanti a livello locale e regionale - abbia dato prova di resipiscenza e accettazione del diverso più di tanti altri Paesi, a cominciare dai nostri vicini Austria, Svizzera e Francia. Lei è sempre stato molto vicino alle posizioni del Partito Radicale. Cosa ha rappresentato per lei la figura di Marco Pannella? Marco Pannella è stato innanzitutto un grande amico, mi sono sentito molto onorato di essere suo consigliere all’interno dell’amministrazione. Sono stato un ammirato realizzatore di alcune delle grandi idee di Pannella, prima fra tutte quella della lotta contro lo sterminio per fame, in qualità di Direttore Esecutivo del Fondo di 1900 miliardi stanziato proprio a tal fine che, pur non avendo mantenuto tutte le attese, ha rivestito un’importanza esemplare di aiuto non condizionato da precedenti di carattere colonialistico o legato a interessi geopolitici ed economici. In molti casi, la mia carriera si è intersecata con le meravigliose e generose battaglie del Partito Radicale. Lo Stato mi ha detto: “ok, sei innocente, però ti rovino” di Pietro Cavallotti* Il Dubbio, 3 aprile 2018 lettera di un imprenditore distrutto nonostante l’assoluzione da accuse di mafia. Lo scorso 22 marzo si è tenuta presso la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo l’udienza per la revocazione della confisca disposta nei confronti dei miei familiari. Mi ci sono avvicinato con sentimenti contrastanti. Da un lato ero certo delle nostre ragioni; dall’altro non sapevo se riporre ancora la mia fiducia nella giustizia terrena. Quando la Cassazione, con nostra grande sorpresa, confermò la confisca, quando ricevemmo dai carabinieri - come al solito, in prossimità delle festività natalizie - l’atto con cui ci veniva ordinato di lasciare, senza indugio, le nostre case, provai a fare di tutto per evitare ai miei familiari l’ennesima umiliazione. Avevamo chiesto all’Agenzia nazionale dei beni confiscati la possibilità di occupare la casa, pagando un corrispettivo, in attesa del ricorso alla Corte europea. Non ricevemmo alcuna risposta. Proposi ricorso straordinario alla Corte europea, ma la Corte mi rispose che interviene d’urgenza solo nel caso in cui sia a repentaglio la vita di una persona, e si sa che togliere la casa non significa togliere la vita. Nulla valse ad evitare lo sfratto e, con l’anima in spalle, fummo costretti ad abbandonare le case costruite con il lavoro onesto dai nostri padri e nelle quali noi figli avevamo vissuto la nostra infanzia. “Sig. Cavallotti, lei le ha le prove nuove per fare l’istanza di revocazione?!”, mi rispondeva l’avvocato quando lo sollecitavo ad agire per la riapertura del processo. E la mia replica era: “Avvocato, ma se non le andiamo a cercare, come le dobbiamo avere le prove nuove?”. Anche questi discorsi capita di fare ad una persona impelagata con la giustizia. Compresi di dover impiegare gli ultimi anni della mia vita nello studio dei fascicoli della vicenda giudiziaria della mia famiglia, alla ricerca di prove nuove che permettessero la riapertura del processo. Non potevo mollare, non potevo lasciare che i sacrifici di una vita venissero per sempre cancellati. Lo dovevo a mio padre, a mia madre e a tutti i miei parenti che hanno condiviso le stesse sofferenze. All’immobilismo e alla rassegnazione che, pian piano, cominciavano a prevalere su di noi, doveva seguire una reazione. E la reazione ha comportato per me lo studio immane non solo degli atti processuali ma anche del contesto criminale a cui i miei familiari sono stati erroneamente ritenuti contigui. Se mi fossi limitato soltanto a studiare le carte processuali, difficilmente avrei potuto individuare prove nuove. La verità doveva essere ricercata là fuori. La prima difficoltà nella quale mi sono imbattuto era quella di dimostrare, con prove nuove, l’innocenza di persone, miei familiari, già assolte perché il fatto non sussiste. Questo è il paradosso delle misure di prevenzione: dimostrare di non avere avuto niente a che fare con la mafia di fronte a una sentenza che ti ha assolto perché non hai avuto niente a che fare con il crimine. Le fonti aperte, come internet, si sono rivelate preziose alleate per comprendere alcune dinamiche criminali e per smentire, con fatti certi, le accuse mosse nei nostri confronti. Mi ricordo i viaggi fuori dalla Sicilia, alla ricerca di riscontri alle nuove ipotesi difensive che pian piano affioravano nella mia mente. “Di fronte a una grave ingiustizia, non ci possiamo rassegnare”, dicevo ai miei familiari cercando di sollevare il loro morale a pezzi, riaccendendo nei loro cuori la speranza ogni qualvolta li aggiornavo sulle nuove prove che man mano emergevano. È stato un viaggio pieno di insidie e di difficoltà, alla ricerca della verità. Un viaggio che ho compiuto con la forza del figlio che non si rassegna, con la grinta di chi è vittima di una ingiustizia e non vuole soccombere, ma anche con la lucidità del giurista che si deve estraniare dall’emozione per essere lucido e selezionare ciò che può essere utile per vincere la causa. Ma è stato anche un viaggio a ritroso nel tempo che mi ha permesso di rivedere la mia vita, di constatare come essa sia stata influenzata da questa vicenda giudiziaria e di immaginare come sarebbe stata se lo Stato non avesse deciso, un giorno, di intraprendere, per i motivi che le recenti notizie di cronaca hanno contribuito a chiarire, una campagna di annientamento nei confronti di persone innocenti che avevano fatto solo il bene. Per fortuna, nonostante tutto, siamo ancora vivi e lottiamo per l’affer-mazione dei nostri diritti. Dalla polvere del tempo è stata riportata alla luce una sentenza che si pone in netta contraddizione con la confisca; sono state raccolte oltre ottanta dichiarazioni che smentiscono le affermazioni dei periti allora nominati dal Tribunale, nuove dichiarazioni di collaboratori di giustizia, nuove dichiarazioni di persone informati dei fatti, nuove sentenze che permettono di chiarire i fatti di causa. I nostri avvocati sono stati bravissimi a esporre al Tribunale tutte le prove raccolte. I miei studi giuridici mi convincono che le ragioni per un accoglimento dell’istanza di revoca ci sono tutte. Ma l’esperienza personale mi convince che, forse, l’accoglimento dipende solo dalla volontà dei giudici, forse dalla volontà politica, in un contesto anomalo in cui rimettere in discussione un provvedimento che ha inchiodato alla croce per venti anni centinaia di famiglie, ridotto alla fame un intero paese, distrutto patrimoni costruiti con i sacrifici, significherebbe assestare un duro colpo ad un intero sistema sul quale molti individui hanno fondato carriere e si sono arricchiti in danno della comunità e di molti padri di famiglia. Cosa che ha riconosciuto indirettamente il Pubblico Ministero nel momento in cui ha chiesto il rigetto della nostra istanza. Non so se aspettarmi giustizia, di certo vivo questi giorni di tremenda attesa con la serenità propria di chi sa di avere fatto tutto quanto era umanamente possibile fare per far valere le proprie ragioni. In questo viaggio ho conosciuto persone straordinarie, come gli avvocati Baldassare Lauria, Aucelluzzo, Marcianò, Iacona, Chinnici, Stagno d’Alcontres e Piazza; altre che non meritano di essere ricordate. E, per fortuna, ho incontrato il Partito radicale, l’unico che ha deciso di ascoltarci e fare della mia vicenda e di quelle analoghe alla mia una campagna coraggiosa di informazione e di lotta per affermare, anche nella lotta alla mafia, principi e metodi da Stato di Diritto, come invocava Leonardo Sciascia, non la “terribilità” dello Stato e delle misure di emergenza. *Imprenditore Giornalisti: la Suprema corte precisa i limiti in caso di sequestro e perquisizione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 19 gennaio-5 marzo 2018 n. 9989. L’attività svolta dal giornalista impone, anche ai fini della legittimità di provvedimenti di perquisizione e sequestro, il rispetto dei limiti indicati dall’articolo 200, comma 3, del Cpp in tema di prova testimoniale, e cioè l’”indispensabilità” della rivelazione della fonte informativa ai fini della prova del reato per cui si procede, nonché l’impossibilità di accertare altrimenti la veridicità della notizia in possesso del perquisito. Inoltre, la peculiare attività del giornalista implica la necessità di valutare con particolare rigore la “proporzione” tra il contenuto del provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria e le esigenze di accertamento dei fatti: solo in tal modo, infatti, si può assicurare che l’attività investigativa sia condotta in modo da non compromettere il diritto del giornalista alla riservatezza della propria corrispondenza e delle proprie fonti, in ossequio alle indicazioni desumibili dagli articoli 200,comma 3, e 256 del Cpp, nonché 10 della Convenzione Edu. Lo ha affermato la sezione VI della Cassazione con la sentenza 19 gennaio-5 marzo 2018 n. 9989. Il principio espresso dalla Cassazione - Da ciò deriva che, ai fini della legittimità di un provvedimento di ricerca della prova nei confronti di un giornalista in relazione agli atti e documenti relativi alla sua attività professionale, sono necessarie non solo l’indispensabilità della rivelazione della fonte informativa del medesimo ai fini della prova del reato per cui si procede, e l’impossibilità di accertare altrimenti la veridicità della notizia in possesso del perquisito, in linea con quanto prevede l’articolo 200, comma 3, del Cpp, ma occorre anche che il vincolo sia apposto esclusivamente su quanto è strettamente necessario per l’accertamento dello specifico fatto oggetto di indagine. La distinzione tra sequestro e perquisizione - La Corte di cassazione, peraltro, ritiene di dovere comunque distinguere tra limiti relativi al sequestro e limiti relativi all’attività di perquisizione. Sicuramente, si sostiene, la procedura di acquisizione di atti e documenti nei confronti di un giornalista non indagato presuppone la formulazione di una richiesta di esibizione delle cose ritenute pertinenti: se il giornalista non è sottoposto a indagini, è coerente con le esigenze dell’esercizio della libertà di stampa ritenere che, solo in caso di rifiuto, o di atteggiamento elusivo, si potrà procedere a perquisizione. Tuttavia, la mancata collaborazione può legittimare un’attività di ricerca “ad ampio spettro” ed estendersi, in particolare, anche a interi sistemi informatici o telematici, ancorché protetti da misure di sicurezza, così come prevede l’articolo 247, comma 1-bis, del codice di procedura penale. Infatti, precisa ancora la Corte, escludere l’ammissibilità di un’efficace attività di ricerca al cospetto di un atteggiamento non collaborativo, quando sussistono i presupposti della indispensabilità della notizia ai fini della prova del reato per cui si procede, nonché l’impossibilità di accertare altrimenti la veridicità della stessa in possesso del giornalista, significherebbe rimettere le sorti dell’indagine all’esclusiva volontà di quest’ultimo. Diversa è l’ipotesi del sequestro, giacché non è legittima l’acquisizione in modo indiscriminato, ad esempio, di un intero archivio elettronico, imponendosi la ricerca e l’acquisizione dei soli dati effettivamente rilevanti, rispetto ai quali cioè si motivi la necessità dell’acquisizione per lo specifico fatto oggetto di indagine. In termini, cfr. sezione VI, 24 febbraio 2015, Rizzo: il comma 3 dell’articolo 200 del Cpp riconosce al giornalista il segreto professionale limitatamente al nominativo delle persone dalle quali ha ricevuto notizie fiduciarie, con la particolarità, rispetto alle altre categorie tutelate da segreto, che il giudice può ordinare al giornalista di indicare comunque la fonte delle notizie in suo possesso laddove tali notizie siano indispensabili per le indagini e sia necessario accertare l’identità della fonte. Tale diritto al segreto, con il limitato ambito in cui esso può essere escluso, si riflette anche sulle condizioni e i limiti che devono caratterizzare il mezzo della perquisizione e del sequestro. Infatti, il rispetto del principio di proporzionalità tra il segreto professionale riconosciuto al giornalista professionista a tutela della libertà di informazione e l’esigenza di assicurare l’accertamento dei fatti oggetto di indagine penale, impone che l’ordine di esibizione rivolto al giornalista ai sensi dell’articolo 256 del codice di procedura penale, e l’eventuale successivo provvedimento di sequestro probatorio, siano specificamente motivati anche quanto alla specifica individuazione della res da sottoporre a vincolo e all’assoluta necessità di apprendere la stessa ai fini dell’accertamento della notizia di reato; con la conseguenza che il sequestro probatorio della memoria del personal computer di un giornalista che abbia opposto il segreto professionale è consentito soltanto ove siano ritenute l’infondatezza del segreto e la necessità dell’acquisizione per l’indagine, ma l’attività investigativa deve essere condotta in modo da non compromettere il diritto del giornalista alla riservatezza della corrispondenza e delle proprie fonti. Le conclusioni in linea con giurisprudenza Cedu - In definitiva, anche alla luce delle stringenti indicazioni dei principi della Cedu, non può ritenersi legittimo il provvedimento che disponga l’attività di ricerca e l’eventuale sequestro di documenti per individuare la fonte del giornalista senza che sia esplicitata contestualmente la situazione particolare che, a determinate condizioni, consente di superare il diritto del giornalista alla segretezza della fonte. Intercettazioni utilizzabili anche nel procedimento “frazionato” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2018 Corte cassazione - Sezione VI, sentenza 29 novembre 2017-8 marzo 2018 n. 10567. I risultati delle intercettazioni telefoniche legittimamente acquisiti nell’ambito di un procedimento penale inizialmente unitario sono utilizzabili anche nel caso in cui il procedimento sia successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, atteso che, in tal caso, non trova applicazione l’articolo 270 del Cpp che postula l’esistenza di procedimenti ab origine tra loro distinti. Pertanto, l’applicabilità di tale disposizione non può essere invocata ove, nel corso di intercettazioni legittimamente autorizzate, emergano elementi di prova relativi ad altro reato, pur totalmente svincolato da quello per il quale l’autorizzazione è stata debitamente rilasciata. Lo ha affermato la sezione sesta della Cassazione con la sentenza 8 marzo 2018 n. 10567. Le motivazione della Suprema corte - Trattasi di affermazione ampiamente condivisibile giacché esula dall’ambito di applicabilità dell’articolo 270 del Cpp, come si evince dal suo tenore letterale, l’ipotesi in cui nell’ambito del medesimo procedimento vengano disposte intercettazioni per un reato e da esse emergano gli estremi di un altro reato. Infatti, in tale evenienza si tratta di utilizzare le intercettazioni agli effetti di prova di un reato diverso da quello per il quale la captazione è stata autorizzata e non di utilizzare i contenuti delle conversazioni intercettate in un procedimento diverso da quello nel quale l’intercettazione è stata disposta (cfr., di recente, sezione VI, 15 luglio 2015, Rosatelli e altro; nonché, sezione VI, 8 giugno 2016, Procura della Repubblica tribunale di Roma in procedimento Proietti e altro). Secondo altro più rigoroso orientamento, peraltro, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’articolo 266 del Cpp, i suoi esiti sono utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, purché, si tratti di reati per i quali queste avrebbero potuto essere disposte ai sensi dell’articolo 266 del Cpp (sezione VI, 9 maggio 2017, X., nonché, sezione II, 18 dicembre 2015, Roberti e altri). Separazione: accesso abusivo al sistema della banca per i marito che usa i dati della moglie di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 30 marzo 2018 n. 14627. Il diritto ad esercitare una difesa in sede di separazione non giustifica il marito che controlla abusivamente on line il conto della moglie per usarlo davanti al giudice. La Corte di cassazione conferma la condanna del ricorrente per accesso abusivo al sistema informatico della banca, “violato” per accedere ai dati della moglie. Senza successo la difesa cerca di confondere le acque parlando del legittimo utilizzo di una chiavetta “genera codici” in uso al marito. Dai controlli effettuati in sede di merito era, infatti, risultato che i conti correnti dei coniugi erano due, uno cointestato e un altro solo della signora. E la chiavetta si riferiva solo al conto con la doppia titolarità, mentre per quanto riguardava il conto “singolo” la moglie aveva revocato al marito la delega ad operare on line. Non passa neppure la tesi secondo la quale la condotta sarebbe stata non punibile perché commessa per esercitare un diritto, nello specifico quello di difesa, come previsto dall’articolo 51 del Codice penale. Una causa di giustificazione che però, chiarisce la Cassazione, non vale nel caso esaminato. La norma, infatti, non può arrivare a giustificare indebite intromissioni nella sfera di riservatezza della controparte processuale, neppure quando si invoca un diritto di difesa particolarmente ampio. L’azione di cui si sostiene l’irrilevanza penale “ per essere scriminata - si legge nella sentenza - deve pur sempre costituire una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto che si pretende di aver esercitato”. Salerno: detenuto muore per una perforazione all’intestino, scatta l’inchiesta cronachedellacampania.it, 3 aprile 2018 È morto in carcere a Fuorni per una perforazione all’intestino dopo che era stato ricoverato alcuni giorni prima per accertamenti presso la sezione detentiva dell’azienda ospedaliera San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno ma era stato dimesso. Lamentava forti dolori addominali. Aniello Bruno, 50 anni, un noto pregiudicato di Angri condannato per associazione camorristica è morto nella notte tra sabato e domenica in un disperato tentativo di intervento chirurgico per tamponare la perforazione che aveva all’intestino. La moglie, che lo aveva visto il giorno prima durante il colloquio, ha presentato una denuncia attraverso l’avvocato Pierluigi Spadafora. La salma del detenuto ora è stata sequestrata e il magistrato ha disposto l’autopsia che dovrà chiarire le cause della morte ed eventuali responsabilità. La moglie ha saputo della morte del marito la domenica di Pasqua quando è stata avvisata che l’uomo era morto durante un intervento chirurgico in ospedale senza nemmeno avvisarla del suo ricovero. Anche i compagni di cella hanno fatto sapere tramite l’avvocato che Aniello si lamentava da una settimana. La moglie ora vuole capire se il marito poteva essere salvato se ci fosse stata una maggiore attenzione nelle visite mediche. Il magistrato ha disposto il sequestro anche di tutte le cartelle cliniche. Detenuto morto in carcere, i Radicali: negati i diritti umani La dura nota di Salzano contro l’ennesima vittima rinchiusa nel carcere di Fuorni. “Ennesima morte a Fuorni”. Inizia così il comunicato con il quale Donato Salzano, segretario dell’associazione Radicale “Maurizio Provenza” commenta il decesso di un 50enne avvenuto nel carcere di Salerno. “Aveva una moglie e una famiglia, era di Angri, si chiamava A. Bruno, circa cinquant’anni, non aveva smesso di essere cittadino italiano, tant’è che aveva ancora in tasca la tessera del servizio sanitario nazionale. Ancora una volta, terzo detenuto morto dall’inizio di questo 2018 a Fuorni, dopo i due morti tra novembre e dicembre del 2017, cinque morti in cinque mesi, questo il triste bilancio di una banalità del male che non si ferma neanche il giorno di Pasqua - il duro atto d’accusa di Salzano. A poche ore dalla celebrazione del Giovedì Santo di Papa Francesco al carcere di Regina Coeli con le sue parole di forza e amore in difesa degli ultimi nelle carceri: “la pena che non è aperta alla speranza non è cristiana e non è umana”. E ancora: “La banalità del male ostinatamente rifiuta e nega i più elementari diritti umani. Certamente a questa pena illegale il più delle volte anticipata, si aggiunge l’altra pena dei trattamenti inumani e degradanti, tra questi sicuramente la mancata assistenza sanitaria - si legge ancora nella nota, quel diritto alla salute tutelato dalla Costituzione e dalla legge, il più delle volte negligentemente o dolosamente negato nelle carceri. In Italia non c’è la pena di morte? Certo che no! Ma nelle infami carceri italiane però c’è la pena fino alla morte. A strage di diritto segue ancora strage di popoli”. Intanto è stata aperta un’inchiesta per chiarire le cause del decesso dell’uomo. A quanto pare, i carabinieri della compagnia di Salerno hanno sequestrato la cartella clinica, per ricostruire la dinamica della tragedia. Teramo: sovraffollamento, delegazione Radicale nel carcere di Castrogno Il Centro, 3 aprile 2018 La riforma dell’ordinamento penitenziario e l’assenza del Garante fra i temi toccati nel corso della visita da Rita Bernardini, Maurizio Acerbo e ‘Nduccio. Sovraffollamento e riforma dell’ordinamento penitenziario: sono alcuni dei temi affrontati nel corso della visita che Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito radicale, ha fatto nel carcere teramano di Castrogno. Con lei una delegazione composta da Laura Longo, per anni presidente del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila, Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista e il comico abruzzese Germano D’Aurelio, in arte ‘Nduccio. Carcere di Castrogno, i motivi della visita della delegazione - Rita Bernardini, membro della presidenza del Partito radicale, Laura Longo, per anni presidente del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila, Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista e il comico abruzzese Germano D’Aurelio, in arte ‘Nduccio si sono ritrovati questa mattina a Teramo per verificare e denunciare lo stato di sovraffollamento (video di Luciano Adriani) “Per me ha un significato particolare recarmi al carcere di Castrogno per le festività pasquali, avendolo fatto in più di un’occasione insieme a Marco Pannella”, ha ricordato la Bernardini, “non posso però fare a meno di sottolineare che, nonostante le promesse, il consiglio regionale d’Abruzzo non ha ancora nominato il Garante dei detenuti”. Bologna: “bisogna tornare a difendere gli ultimi, cercandoli ovunque” di Concita De Gregorio La Repubblica, 3 aprile 2018 L’intervista Roberto Morgantini, fondatore delle Cucine popolari di Bologna. Roberto Morgantini ha 71 anni, a Bologna lo conoscono tutti. Barba e capelli bianchi, voce bassa. Una di quelle persone che quando entra in una stanza si sente. Una vita nel sindacato, Cgil ufficio stranieri, poi nell’associazione “Piazza Grande”. Lo incontro in via del Battiferro, quartiere Navigli, nella vecchia sede di una casa del Popolo, alle pareti le foto ridenti di Enrico Berlinguer. Ha aperto qui una delle sue Cucine popolari. Nella città di Fico, Morgantini ha deciso di provare a far funzionare una rete di almeno sei centri di “social food”, cucina del riuso destinata a chi non ha soldi per fare la spesa. Per ora le cucine sono tre, in zone diverse della città: ci lavorano cento volontari, preparano 2800 pasti al mese. Le persone che vengono a mangiare sono per metà italiane e per metà straniere. “Non di rado gli italiani sono di più”. Non avendo soldi (“non ne ho mai avuti di miei, spero di non averne mai”) nel 2015 ha deciso con Elvira, con cui viveva da 38 anni, di sposarsi e chiedere come regalo una donazione per avviare l’attività. Puntavano a ventimila euro, ne hanno raccolti settantamila. Così, alla soglia dei suoi settant’anni, si è messo a cercare chi potesse regalare cibo alle cucine, ai fornelli a cucinare, a tavola a servire. E a trattare con le istituzioni per le infinite burocrazie. Invece di andare in pensione. “Ma come si fa ad andare pensione dallo stare al mondo? Non si può mica rinunciare al proposito di creare relazioni, di migliorare una vita, anche una sola”. Il risultato elettorale se lo aspettava? “Era nell’aria, scritto. Una frana che viene da lontano. Si sentiva che si era fatto pochissimo, e non c’è stato uno scatto di reni. È un malanno che c’è dentro un paese che non riesce a scuotersi, a cambiare direzione”. Si era fatto pochissimo su cosa? “Sull’immigrazione, sull’insicurezza, sul lavoro. Non c’è più difesa se sei fragile, si sente questo: il compito di tutelare chi non può farlo da solo è stato abbandonato. Non c’era empatia, si è perso un po’ davvero il senso della rappresentanza”. Parla della sinistra politica? “Certo. Il crollo elettorale ha delle ragioni. Bisogna tornare proprio da dove siamo partiti. Tornare alle radici. Le radici sono storia. Essere davvero schierati dalla parte dei più deboli ma anche avere la consapevolezza di appartenere a loro, provare a difenderli davvero. Dire “difendiamo gli ultimi” ieri era tutt’uno con la sinistra. Oggi gli ultimi sono dappertutto, sono più difficili da rappresentare e da intercettare. Bisogna farlo in modo capillare, stando nei luoghi, ascoltando i bisogni”. Invece? “Invece la classe dirigente si è messa a cercare consensi a tavolino: al centro, a destra. Quello che si è praticato conta. Hanno avuto paura di essere sinistra. Aver rinunciato al radicalismo si è pagato. L’identità: se si perde, ci si indebolisce”. Mi faccia un esempio. “Prenda le battaglie sull’immigrazione. Almeno l’ultima cartuccia te la potevi sparare, con lo ius soli: hai avuto paura di perdere qualche voto. Anche se non realizzi l’obiettivo, combatti. Invece hai dato l’idea di scappare di fronte ad un problema. E non era la prima volta. Sembrava tutto fatto, tutto a posto. Poi girare le spalle in quei termini è stata una delusione terribile. Un po’ di coerenza sui principi, accidenti. Si è sacrificata una storia in cerca dei consensi dell’elettorato cattolico moderato, e si è perso l’uno e l’altro”. È ancora l’amalgama mal riuscita tra Ds e Margherita? “Ma ex Dc ex Pci possono stare insieme, credo di sì. Naturalmente bisogna trovare un equilibrio fra diversi, rinunciare a qualcosa di proprio in nome di qualcosa di tutti. Guardi qui, in questa mensa di quartiere. Noi siamo in una casa del Popolo, un luogo del vecchio Pci. Abbiamo fatto un patto con il prete della parrocchia: noi non dobbiamo ideologizzare nessuno, gli abbiamo detto. Voialtri non dovete benedire nessuno perché son già benedetti quelli che vengono. Quindi al centro abbiamo messo la persona. Una mensa è carità? No, è una sonda che va al fondo della comunità, misura la temperatura del mondo in cui viviamo, funziona da antenna. Abbiamo capito di cosa c’era bisogno quando siamo tornati a guardare i poveri in faccia, negli occhi. Contatto, cuore, progetto, azione”. Basta una mensa, dice, per capire il mondo? “Basta stare in mezzo alle persone. Sono le pratiche che fanno cambiare le idee, non il contrario. Nessuno si convince di niente a parole, nemmeno un bambino. È l’esempio, l’azione che fa germogliare il seme della relazione, della parola, dello scambio. Spesso del dubbio. Se metti un razzista a mangiare con uno straniero, se glielo metti davanti allo stesso tavolo, vedrà una persona: comincerà a parlare, alla fine si racconteranno le loro storie. Succede sempre. Però certo: se chiudi i luoghi: le case del popolo, i circoli. Allora dove lo fai il lavoro di comunità?”. Come avete cominciato? “Mi sono giocato un po’ della credibilità che mi ero costruito in questa città. Sono andato in giro a parlare del progetto: aprire sei cucine del riuso, una in ogni quartiere di Bologna. Bisogna essere ovunque c’è bisogno, ho detto. Se da una parte facciamo il polo del cibo di lusso, dall’altra dobbiamo, dobbiamo dare da mangiare a chi non ne ha. Poi, coi soldi del matrimonio, senza aspettare nessuno abbiamo cominciato. Sono passati tre anni. Siamo a 250 persone nelle tre cucine, abbiamo la lista d’attesa dei volontari, una cosa mai successa. C’è una grande disponibilità delle persone di fare cose concrete. È un patrimonio immenso la voglia delle persone di mettersi a disposizione di progetti che realizzano equità e giustizia. È un vero delitto ignorarlo, sprecarlo o peggio: mortificarlo e offenderlo”. Lavorano solo volontari, nelle Cucine sociali? “Non solo volontari di quartiere. Ci danno una mano anche i richiedenti asilo del centro di accoglienza di viale Lenin, studenti con difficoltà di inserimento. Lavoriamo in accordo coi servizi sociali. E con le scuole, naturalmente. Una parte del cibo che riutilizziamo viene dalle mense scolastiche. Intercettiamo quello che verrebbe scartato dalla refezione scolastica. Lo rigeneriamo e prepariamo pasti. I ragazzi sono venuti spesso coi loro insegnanti, alunni delle scuole elementari. Abbiamo parlato della povertà, cos’è la povertà. Loro hanno mangiato qui poi hanno servito, hanno apparecchiato loro, servito gli altri ospiti”. Chi sono gli ospiti delle Cucine popolari? “Guardi, li vede. A momenti sono più gli italiani. Ma non è una mensa per i poveri, questa. Perché ai poveri non si può dare l’ulteriore pena di vergognarsi di esserlo. Non si possono mettere tutti insieme nel ‘posto dei poveri’ dove loro si vedono tra loro e gli altri, i non poveri, restano indenni dal vederli. Questa è una mensa di quartiere, vengono tutti. A quel tavolo ci sono gli architetti di un importante studio che ha sede qui, chi vuole può venire, mangia, poi se vuol dare qualcosa dà quello che vuole. L’altra faccia della povertà è la mancanza di relazioni libere e aperte, di relazioni col resto del mondo. I ghetti”. La perdita di relazioni nasce dalla povertà? “Certo, anche. In questo quartiere il 40% delle persone vive da sola in casa. Qui si siedono ai tavoli persone sole che magari abitano nello stesso isolato. Dalle relazioni nascono spesso anche opportunità”. Per esempio? “Due profughi che venivano qui con la bambina…Hanno incontrato una mia amica al tavolo, un giorno. Poi un altro giorno e poi un altro. Hanno parlato tanto, lei li ha portati a casa sua per tre mesi, intanto il padre ha trovato un piccolo lavoro, poi ha trovato casa. Sono autonomi, adesso. Non sono più qui”. Non succede sempre. Non succede spesso. “Basta che succeda una volta per aver realizzato un obiettivo. Nel momento in cui conosco qualcuno e lo riconosco come persona. È così che cominciano a cadere i pregiudizi, non con le spiegazioni. Meno che mai con gli slogan, che servono a costruire barriere. Noi andiamo avanti così. A settembre apriamo il quarto centro, spero. Nel quartiere Savena, a Villa Paradiso”. Come vi finanziate? Avete sostegni pubblici? “Nessuno, a parte l’uso dei locali. Paghiamo le utenze, i servizi, tutto. Facciamo iniziative di finanziamento. Quest’anno abbiamo fatto e messo in vendita un libro sul ponte di Stalingrado con le opere che anche gli ospiti hanno partecipato a dipingere. Naturalmente c’è la solidarietà che arriva dalle persone, da cooperative, da aziende, anche da persone che vengono qui”. Se dovesse dire, in due parole, come si tengono insieme accoglienza e sicurezza? “Si tengono insieme naturalmente. Attivandosi. Uscendo di casa. La paura la combatti se guardi in faccia cosa ti fa paura. La politica dovrebbe creare queste occasioni: il posto e il tempo della relazione fra persone. La sinistra non può perdere d’occhio chi resta indietro, altrimenti perde anche se stessa. Poi non mi faccia domande generali, astratte. Io so solo mettere a tavola, stare in cucina”. Roma: un pallone per battere il carcere di Stefano Liburdi Il Tempo, 3 aprile 2018 Partita a calcetto tra giornalisti e detenuti con pena alternativa. La palla corre veloce tra i piedi dei giocatori in maglia gialla. Dal centro viene smistata sulla sinistra, poi un altro tocco in avanti, finché la sfera non arriva a Danilo, in posizione un po’ defilata verso destra. Danilo stoppa la palla che rimane incollata al suo piede sinistro, poi la sposta leggermente e carica il destro. Tiro secco, forte e per il portiere avversario non c’è nulla da fare. Siamo nell’ultima azione della partita e questo è il gol che vale la vittoria per i ragazzi de “Il Centro”. Danilo si gira e corre sorridente verso i compagni che sono già protesi verso di lui per abbracciarlo. La partita che si è appena conclusa, è stata giocata contro una selezione di giornalisti ed è stata organizzata dalla Onlus “Il Centro” e dal quotidiano Il Tempo. I ragazzi vincitori sono dei detenuti in regime di custodia alternativa al carcere. Sono ospiti del “Centro” che li segue nel loro processo di riabilitazione. La partita di calcetto è stata voluta dagli organizzatori per regalare un momento di svago ai ragazzi della comunità e per far conoscere alla gente esterna, il lavoro quotidiano degli operatori e degli ospiti della struttura. Per questo motivo, dopo la sfida sul campo, Il Tempo si è recato a Casal Bertone dove c’è la sede del “Centro permanente di prevenzione alle tossicodipendenze”. Per raggiungerla percorriamo un viottolo che sbuca su una collinetta proprio di fronte al centro commerciale Auchan, con la sua insegna che padroneggia sull’intera area. Il prefabbricato è circondato da un prato ben curato, con panchine, tavolini e piante. Ad accoglierci la responsabile della struttura Letizia Capezzali e lo psicologo Gianluca Di Monte. Intenti nei loro lavori ritroviamo, tra gli altri, gli avversari della combattuta partita di calcetto. Ci sono anche Danilo e Christian, ostici rivali nella sfida e gentilissimi “padroni di casa” adesso. Ci rendiamo subito conto di respirare un’aria di serenità che non credevamo di trovare in un luogo di questo tipo. “Noi siamo il ponte che porta queste persone dalla detenzione alla libertà”. Ci dice Gianluca, precisando che la porta è aperta a chiunque abbia delle dipendenze, qualsiasi esse siano. La comunità è nata nel 1980 per volere di Pietro Barone, un abitante della zona che gestiva un’edicola e che era stato toccato molto da vicino da una brutta esperienza, con l’intento di creare un posto che aggregasse i giovani togliendoli dalla strada e offrendo loro delle alternative diverse a quelle della droga, diffusissima in quegli anni nelle vie del quartiere. Con il tempo, ai primi volontari si sono aggiunte figure professionali che hanno allargato l’attività. I problemi e i mezzi limitati, creano non poche difficoltà agli operatori che però non si arrendono. “Qui seguiamo i ragazzi che arrivano, ma anche le loro famiglie” prosegue Gianluca mentre ci fa visitare l’interno. Un corridoio, dove notiamo una libreria con molti titoli interessanti, separa la segreteria dalla sala colloqui. In fondo la cucina e un’altra stanza per le attività ricreative. A spiegarci come si svolge una giornata tipo sono Danilo e Christian: “Arriviamo qui alle nove e poco dopo ci raduniamo e gli operatori assegnano le mansioni. C’è chi cucina, chi è dedito alle pulizie e chi ai lavori nel giardino. Qualcuno va a fare la spesa. Poi ci raduniamo per il pranzo e dopo un momento di pausa, si fanno delle attività rieducative. Dopo si prepara la chiusura, ognuno con le proprie mansioni”. Ci sono poi degli appuntamenti settimanali, come la palestra, i corsi di informatica e di inglese (molto importanti per dare una formazione ai ragazzi) e altre attività come la pittura. “Cerchiamo di trasmettere fiducia e tranquillità ai ragazzi, alternando però la comprensione a una certa rigidità. La nostra è una continua altalena tra diversi stati” ci confida un operatore. Un modo “diverso” quindi per scontare la propria pena (là dove i casi lo permettono), da parte di persone che hanno commesso degli errori, ma che qui possono trovare la voglia di riscatto e riprendersi la propria persona e il proprio tempo, iniziando un percorso che li porterà ad abbandonare la cultura criminale e, una volta liberi, a rendere più sicura la società. Ognuno arriva al “Centro” con la sua storia personale per intraprendere un percorso che lo può portare fino al reinserimento nel mondo del lavoro e nella società. Un ospite ci racconta dei suoi mesi trascorsi in carcere con l’art. 74 per associazione dedita al narcotraffico. Poi l’arrivo nella comunità e la possibilità, da qui a poco, di iniziare a lavorare come magazziniere. Un altro ricorda la sua esperienza carceraria, dove ha conosciuto la dipendenza dagli psicofarmaci: “Ho perso 20 chili in quel periodo. Grazie all’aiuto di una psicologa, ne sono uscito e ho trovato la forza per andare avanti”. C’è chi però ancora non ce l’ha fatta. Nella comunità si ricordano ancora di “un paziente che passati due anni in cui ha seguito scrupolosamente il programma terapeutico, è ricaduto nella dipendenza dopo che il magistrato continuava a rigettare le sue istanze, senza tenere conto dei pareri nostri e degli assistenti sociali. Abbiamo dovuto ricominciare da capo tutto il percorso”. Ci salutiamo, promettendo di rivederci presto in campo per la rivincita. Mentre percorriamo al contrario il viottolo, ci viene in mente l’art. 27 della Costituzione Italiana (sì quel testo che tutti, giustamente, difendono ma che pochi hanno letto): “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Napoli: “Al di là del muro”, parlando con i detenuti omosessuali di Poggioreale di Pasquale Ferro ilmondodisuk.com, 3 aprile 2018 “Al di là del muro”. Titolo significativo per un interessante progetto di Arcigay Napoli (presidente, Antonello Sannino) che, insieme al centro Sinapsi dell’Università Federico II e alla casa circondariale di Poggioreale, crea un sostegno psicologico, legale, ma anche ludico letterario per i detenuti omosessuali e transessuali nel carcere napoletano. Sicuramente gli operatori scelti da Sannino si troveranno davanti a realtà di grande solitudine, abbandoni, emarginazione e discriminazioni, ma anche a storie di amori, riscatto, sogni per un futuro migliore. Infatti, auguriamo a questi ragazzi che la loro vita, una volta pagato il debito con la giustizia, sia costellata di stelle. Certo, per avere una pena detentiva sono stati commessi dei reati ma, le storie sono tante, si intrecciano tra di loro diventando cosi un complicato romanzo di momenti drammatici. “Tre passi e stongo n’faccia o muro” canta Miryam Lattanzio in una canzone dedicata ai carcerati, quei tre passi anche verso un mettere a dura prova il proprio pudore. La dignità è l’espressione dell’essere, condividere gli spazi carcerari con sconosciuti è duro. Un’esperienza sicuramente traumatizzante, specialmente se è la prima. Inoltre, essere detenuto omosessuale dichiarato in carcere non ti rende speciale. Sicuramente sei additato e emarginato dagli altri ospiti.Puoi trovarti anche di fronte a altre etnie con credi e culture diverse. Allora bisogna adattarsi a una convivenza forzata, forse stabilendo delle regole del buon vivere, forse prendendo coscienza che comunque si è nella stessa barca. E si va avanti aspettando la magica parola libertà. La parola libertà non è intesa solo come scarcerazione, quando ti ricongiungi con i tuoi affetti e con la tua casa. A Napoli si dice: “Voglio sta’ dint’ ‘e pezze mie”. Un detto che ha un significato importante: sottolinea il desiderio di possedere la propria vita anche se povera… Libertà di pensiero, di espressione, di stare dentro o fuori le regole, ma sicuramente stare dentro le regole ti regala una serenità interiore. Visitare i detenuti in qualità di operatore non è semplice, devi avere il buon gusto di essere discreto, rispettando la persona che ti trovi di fronte, devi essere tu a entrare nel loro mondo usando il loro linguaggio, dimostrando che sei uno di loro, che si possono fidare di te, solo così le barriere di difesa si abbassano e iniziano a colloquiare con te. Allora scopri velleità e sentimenti nascosti, si parla di tutto: di musica di letteratura, ma soprattutto di… vita. È bello ascoltarli mentre parlano della loro passione per il teatro, per il calcio, dei gruppi musicali preferiti. Uno di loro racconta che ama gli U2, i Pink Floyd ma anche la canzone classica partenopea. Mentre l’altro, di fronte, intona una canzone di un qualsiasi neomelodico napoletano. Noi operatori ci intromettiamo nell’appiccicata parlando della storia di amore tra l’imperatore Adriano e Antino, oppure spiegando le origini della parola Fummenello/a, vasetto (leggi Abele de Blasio, antropologo fine 800), omosessuale, ricchione. Questa ultima risulta offensiva, ma in effetti ha origini nobili, con due scuole di pensiero. Parliamo anche di quanto fosse naturale praticare l’omosessualità nelle epoche della cultura greco romana, tutto questo lo si fa in una chiave ludica, ma nei loro occhi leggi la curiosità del sapere, del conoscere terminologie, aneddoti e storie cui non si erano mai interessati. Il tutto è un dare e avere: tu operatore lo fai per un dovere morale verso chi è stato meno fortunato di te, oppure per le scelte sbagliate, loro, in cambio, ti regalano la loro dignità, il loro pensiero. Ti svelano una parte della loro esistenza. Siamo sicuri che se ci fosse un colloquio da soli, uscirebbero reconditi momenti di inconfessabili sogni. Noi operatori abbiamo l’obbligo di ascoltarli, fare in modo che quello sia un momento di sfogo, per liberarsi, almeno per qualche ora, dall’asfissiante aria rarefatta della cella. Ritornando alla parola “libertà”: Arci Gay, in collaborazione con un’altra associazione Lgbt come Coordinamento Campania Rainbow e Anddos Blu Angels, ha pensato a un percorso tra letteratura e video proiezioni. I ragazzi scriveranno e interpreteranno le loro emozioni, i loro pensieri e sogni. L’idea ha suscitato interesse e subito la penna si è data da fare su vari block notes. Il progetto è in fase embrionale, ma loro sono entusiasti , tanto che hanno scelto anche il titolo per l’eventuale kermesse. “Lettere, amore è libertà”. Sicuramente li vedremo in scena. E poi c’è l’angolo editoriale: i ragazzi scriveranno le loro storie per una eventuale pubblicazione Intanto, Arci gay Napoli è impegnato su vari fronti tra il “discusso” Gay Pride di Pompei, i vari progetti umanitari. Di tutto questo parliamo con Antonello Sannino Come sono i rapporti con le istituzioni carcerarie? Come si sviluppa “Al di là del muro”? Negli ultimi anni stiamo cercando di aprire a nuove istanze, provenienti dalle persone Lgbt, che spesso sono marginalizzate dalla nostra stessa comunità. Ci stiamo occupando di immigrazione, disabilità, senza fissa dimora e detenuti. Con il progetto Iride, di cui Arcigay è partner, progetto sulla prevenzione delle malattie a trasmissioni sessuali nelle carceri italiane, siamo entrati in contatto con il direttore del carcere di Poggioreale, Antonio Fullone e dall’incontro abbiamo ampliato il protocollo d’intesa “Al di là del Muro” già in essere tra Poggioreale e Università Federico II, includendo anche il Comitato Arcigay di Napoli. Gay Pride a Pompei il 30 giugno, ci sarà? In questi giorni stiamo cercando di costruire la giornata dell’orgoglio Gay (Good as you) nel vesuviano. E stiamo toccando con mano quanto fosse necessario fare un Pride in provincia, in una città dalla grande eco internazionale, ma che purtroppo vive soffocata da una cappa di ipocrisia. Sono arrivate le minacce di Forza Nuova, vi prenderemo a calci sulle gengive per difendere il Santuario, che hanno fatto ancora una volta passare il nostro Paese come un posto dove la modernità stenta a trovare cittadinanza. Minacce partite da una squallida strumentalizzazione del cristianesimo, il cui pensiero più vero e profondo dovrebbe invece insegnare a noi tutti e a noi tutte il rifiuto della violenza, un etica dell’accoglienza, della pace e del rispetto degli altri e delle diversità. L’imprenditoria locale e la cittadinanza è pronta al Gay Pride e lo sta vivendo con estremo entusiasmo, quello che invece vediamo scarseggiare in una classe dirigente locale e nelle Istituzioni territoriali che faticano a capire Quanto questo evento e l’estensione dei diritti siano una grande opportunità di crescita per il territorio. Noi a Pompei ci saremo e sarà una grande giornata di colori, di pace e di gioia. Progetti futuri? Sono tanti i progetti per il futuro, che per noi è già presente, ma non possiamo immaginare un futuro senza sognare e il fatto stesso che oggi abbiamo ancora tanta capacità di sognare ci fare essere certi di poter costruire un futuro migliore per tutti e per tutte. Non voglio elencare i tanti progetti in cantiere, ma ne voglio segnalare uno su tutti: credo sia necessario nei nostri territori, una vera casa di accoglienza per persone Lgbt vittime di violenza e di discriminazioni. Queste dichiarazioni dimostrano quanta strada sia stata fatta, ma anche quanto sia lungo il percorso per i diritti. E come risulti ancora difficile spiegare che l’immagine iconografica degli omosessuali è molto lontana da quella che i mass media vogliono fare apparire. Non solo lustrini, anche se pensiamo che sia sacrosanta la lotta per la visibilità: troviamo sicuramente più volgari atteggiamenti maschilistici, che qualche innocente seno al vento. Oppure vogliamo ritornare a quando i lidi balneari dividevano gli spazi tra uomo e donne, o all’epoca in cui le donne dovevano abortire in modo clandestino o quando addirittura non potevano votare? Ma non guardiamo al passato. Siamo proiettati nel futuro: oggi questi diritti negati ci fanno sorridere. E crediamo fermamente che le generazioni future sorrideranno al pensiero che nel nostro presente non esistessero matrimoni ugualitari o una vera legge contro l’omofobia. Cogliamo l’occasione per ringraziare l’onorevole Monica Cirinnà (per la legge 76/2016 sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze) e augurarci tutti di portare avanti bandiere Rainbow che sventolano ideologie colorate di diritti, rispetto e doveri. Como: ricette dal Sapore di libertà, “Cucinare al fresco” con i detenuti del Bassone di Lorenzo Canali ciaocomo.it, 3 aprile 2018 “Un profumo di soffritto mi ha fatto sentire a casa…ha allontanato la tristezza”. Aveva cominciato così il suo racconto un detenuto nel carcere del Bassone ed è nata da lì l’idea di un ricettario nell’ambito del laboratorio “Parole da condividere” coordinato dalle giornaliste Laura D’Incalci e Arianna Augustoni. Con il titolo allusivo e giocoso “Cucinare al fresco” è una raccolta di 21 ricette e, soprattutto, di esperienze vissute fra le pareti del Bassone, o meglio, nei pochi metri quadrati di celle dove i protagonisti di un percorso di detenzione hanno deciso di non sopravvivere nell’inedia, ma di recuperare i passi di un riscatto possibile. Un gruppo di ragazzi come tanti che hanno deciso di mettersi in gioco in un laboratorio fatto non solo di parole, ma di idee e di genialità perché cucinare in carcere non è come farlo in una cucina da chef stellati. Loro sono Emanuele, Nicola, Salvatore, Petrovych, Elio, Livio, Alessandro, Germano Vittorio, Gianfranco, Gianluca, Jounes e Gasparino, tanti cuochi con la voglia di “evadere dalla monotonia”. Hanno parlato, spiegato e scritto “con gusto”, per il piacere di portare all’esterno, come si cucina dietro le sbarre e quanto ci si debba ingegnare per preparare pranzetti degni di una tavola delle feste. Dagli arancini “Fatti da me”, all’insalata di pesce, fino alla pasta al forno alla sancataldese, con un accenno alle cucine orientali, come il tajine preparato da Jounes. Fino ai dolci più golosi. È una carrellata di idee e di suggerimenti da riproporre nelle tavole di tutte le famiglie, ma con una qualità in più: la solidarietà e la voglia di riscattarsi da una vita fatta di difficoltà. Ricette da provare, da gustare, magari da rielaborare…soprattutto da raccontare. Sì, è il racconto a sprigionare la creatività che sorprende ancor prima di un assaggio, prima del sapore. Racconti di vita, di storie e di ricordi, ma soprattutto, di tanta speranza. Il progetto, nato poco dopo le festività natalizie, è la storia di come si trascorrono le festività lontani dalla famiglia, in queste pagine, infatti, i detenuti hanno voluto parlare di come ci si organizza per alleviare le sofferenze spadellando e condividendo pranzi e cene. “La cucina è sempre stata la nostra grande passione - commentano i detenuti -, sin dall’inizio abbiamo messo in pratica le diverse doti condividendo e insegnando ai concellini cosa preparare e dispensando qualche suggerimento”. Ora questa passione per alcuni è diventata anche un lavoro in quanto lavorano in cucina e, ogni giorno, preparano i pasti caldi per i detenuti. Qualcuno spiega anche che ai fornelli si sente libero, ma qualcun altro racconta che ci si arrangia con quello che si trova e che è permesso tenere. Poche cose, ma utili per non far mai mancare nulla di quello che c’è. Hanno partecipato al progetto “Cucinare al fresco”: Emanuele Abbate, Nicola Fumai, Salvatore Galletti, Salvatore Mammino, Elio Orlando, Emanuele Palmieri, Livio Pintus, Alessandro Pusceddu, Germano Vittorio Rossi, Gianfranco Sculli, Gianluca Sculli, Jounes Tayeb, Gasparino Triolo. Migranti da Israele ai Paesi occidentali, retromarcia di Netanyahu: “Sospeso l’accordo” di Davide Frattini Corriere della Sera, 3 aprile 2018 Il premier israeliano frena dopo avere inserito il nostro Paese tra quelli coinvolti nei prossimi 5 anni in un piano di ricollocazione dell’Onu. La Farnesina aveva smentito. La legge israeliana li chiama “infiltrati” e in realtà non se ne “infiltrano” più dal 2012, da quando il premier Benjamin Netanyahu ha dato ordine di costruire la barriera al confine con l’Egitto. Sono rifugiati africani contrabbandati dai beduini - per loro una merce come un’altra assieme alla droga e alle armi - attraverso la penisola del Sinai, marce forzate a digiuno fino a quella che avrebbe dovuto essere solo una tappa verso l’Europa. Invece dentro Israele sono rimasti incastrati - tra una burocrazia poco umanitaria e le scelte populiste del governo di destra - in quasi 40 mila, clandestini, senza permessi per lavorare. Soprattutto eritrei, scappati dalla dittatura che ad Asmara li costringe a prestare il servizio militare senza data di scadenza. L’Eritrea non è in guerra ma il presidente Isaias Afewerki sfrutta la propaganda di un altro possibile conflitto con l’Etiopia per schiavizzare attraverso la divisa l’intera popolazione. Benjamin Netanyahu aveva promesso che da ieri sarebbero stati deportati in massa, ricollocati in Paesi africani, il Ruanda o l’Uganda, dove rischiano - denunciano le organizzazioni per i diritti umani - di venire di nuovo mercanteggiati e svenduti ai despoti che danno loro la caccia. L’espulsione - in cambio di 3500 dollari e un biglietto aereo - è stata contrastata dalle associazioni benefiche locali, osteggiata dai rabbini americani, criticata da scrittori come Amos Oz, David Grossman, Etgar Keret, frenata dalla Corte Suprema. Il primo ministro ha cercato una soluzione e ha annunciato di aver trovato un accordo con l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, l’Unhcr: 16.520 migranti, tra loro anche sudanesi, dovrebbero essere accolti in nazioni occidentali - “come l’Italia, la Germania, il Canada” ha elencato Netanyahu - e altrettanti sarebbero rimasti in Israele almeno per cinque anni. Ancora troppi per i leader più oltranzisti della coalizione che nella notte hanno spinto Netanyahu a sospendere l’intesa. Dei 40 mila migranti arrivati ne sono rimasti poco più di 35 mila. Le organizzazioni israeliane per i diritti umani fanno notare che i clandestini rappresentano meno della metà dell’1 per cento della popolazione e il conservatore Jerusalem Post ricorda: “Questo Stato è stato anche fondato come rifugio per gli ebrei contro la violenza antisemita. Così noi dobbiamo aiutare chi scappa dalle persecuzioni”. Il trasferimento dei primi 6.000 verso l’Europa e il Nord America - aveva spiegato il governo - dovrebbe avvenire entro 18 mesi. Le destinazioni non sono state definite. Il ministero degli Esteri italiano ha smentito che sia stata trovata un’intesa con Roma: “È un patto bilaterale tra Israele e l’Onu”. Così pure i diplomatici tedeschi: “Non abbiamo ricevuto alcuna richiesta”. Nell’incertezza è toccato ai portavoce di Netanyahu precisare: “Il primo ministro intendeva fornire un esempio di possibili mete. Spetta all’Alto commissariato trovare quali siano”. Alla fine - come ha spiegato Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per l’Europa del Sud - “in Italia potrebbero essere presi in considerazione solo casi di riunificazione familiare”. Il prefetto al fianco della Ong pro migranti di Bardonecchia di Fausto Mosca Il Dubbio, 3 aprile 2018 “Ho voluto ringraziare gli operatori e i volontari del centro di Bardonecchia per l’ottimo lavoro che stanno facendo in un progetto che nasce dalle Istituzioni ed è gestito dal Comune”. L’incidente diplomatico che ha messo a dura prova le relazioni tra Italia e Francia continua a far discutere. Questa volta è il prefetto di Torino, Renato Saccone, a riaccendere i riflettori sull’episodio di venerdì scorso - l’irruzione di agenti francesi, sulle “tracce” di possibili spacciatori, nei locali della stazione di Bardonecchia - con una visita ai volontari di Rainbow4Africa, l’associazione che usufruisce dei locali “violati” dai gendarmi per assistere i migranti intenzionati a oltrepassare il confine. Perché nonostante il clamore mediatico, il lavoro dei volontari non si è fermato un attimo, l’assistenza alle persone in difficoltà è proseguita senza sosta: nelle ultime ore è stato soccorso un minorenne. E la visita di Saccone è un riconoscimento formale all’importante lavoro dell’Ong. Il prefetto “Ci ha fatto i complimenti”, dice Paolo Narcisi, il fondatore di Rainbow4Africa. “Quindi ha espresso la speranza che i rapporti con i francesi tornino presto normali”. Già i rapporti coi francesi. Perché mentre gli esperti si dividono sulla legittimità dell’incursione sul suolo italiano, districandosi tra una serie di accordi bilaterali di complessa interpretazione, le istituzioni e la politica pretendono spiegazioni. Se la Farnesina è arrivata a convocare l’ambasciatore francese, definendo “grave” e “inaccettabile” l’accaduto, i partiti politici - dalla Lega a Leu, nessuno escluso - hanno reagito a brutto muso al blitz di Bardonecchia. “Altro che espellere i diplomatici russi, qui bisogna allontanare i diplomatici francesi!”, aveva dichiarato senza mezzi termini Matteo Salvini, insolitamente interessato al destino di chi aiuta i migranti in difficoltà. “Con noi al governo l’Italia rialzerà la testa in Europa, da Macron e Merkel non abbiamo lezioni da prendere, e i nostri confini ce li controlleremo noi”. Diverso il tono scelto invece dal leader del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, che, da premier in pectore, si è addirittura complimentato con Angelino Alfano: “Bene ha fatto la Farnesina a convocare l’ambasciatore francese. Quanto accaduto a Bardonecchia deve essere chiarito completamente in ogni suo aspetto”. E forse sorpreso da tanto rumore, il governo transalpino ha annunciato di aver sospeso temporaneamente l’accordo in vigore tra Roma e Parigi per evitare altri incidenti diplomatici. “L’Italia è una nazione sorella. Ci andrò nei prossimi giorni per discutere con le autorità italiane dell’incidente nella stazione di Bardonecchia. Nel frattempo ho chiesto alla Polizia doganale di sospendere i controlli”, ha twittato Gérald Darmanin, il ministro francese dei Conti pubblici, secondo cui comunque l’azione dei gendarmi era consentita da un accordo del 1990. Non sono dello stesso avviso le autorità italiane, secondo cui l’utilizzo dei locali della stazione di Bardonecchia non è più a disposizione della polizia francese, proprio perché occupati dalla Ong. A dimostrare la tesi di Roma ci sarebbe un’email del 13 marzo scorso in un funzionario della Dogana francese lamenta a Rfi l’impossibilità di usare la stazione da parte della gendarmeria “perché occupata da altra gente”. In attesa di chiarimenti diplomatici la Procura di Torino non è rimasta con le mani in mano. I pm piemontesi hanno aperto un fascicolo su quanto accaduto la sera del 30 marzo. Il procedimento, per ora, è a carico di ignoti per i reati di abuso e violenza privata. Il procuratore capo Armando Spataro ha anche disposto accertamenti, acquisizioni di documenti ed esami di persone informate sui fatti. Il procedimento - si legge in una nota della magistratura - nasce in seguito ad una prima annotazione inviata in Procura dal Commissariato di Bardonecchia. È a carico di ignoti dato che le generalità degli operatori francesi sono sconosciute. E tra le ipotesi di reato i pm valutano di contestare anche la perquisizione illegale. Migranti. Un episodio della guerra all’umanitario di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 3 aprile 2018 Da dove vengono i gravi fatti di Bardonecchia? Da dove trae origine l’episodio di palese violazione di uno spazio privato e protetto dalle norme comunitarie in favore dei migranti? Vale la pena, per inquadrare questo vero e proprio salto di qualità a livello intraeuropeo nella relazione tra gestione dell’ordine pubblico ed accoglienza, partire dagli albori delle politica estera comunitaria. In piena Guerra fredda, a metà degli anno Settanta, l’allora capo della Commissione, il socialista Jaques Delors, commissionò un memorandum. Lo fece al fine di sviluppare l’embrione della politica estera comunitaria verso l’Africa. L’intuizione di Delors era che per fare l’Europa unita, tendere cioè a quegli ideali Stati Uniti d’Europa dall’Atlantico agli Urali, bisognasse in primis mettere in comune alcuni segmenti delle politiche estere nazionali. Venne così a configurarsi la Convenzione di Lomè, il più importante e paritario accordo commerciale tra l’insieme dei Paesi comunitari e quelli dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico. L’idea dei socialisti di allora era quella, più in generale, di costituire un terzo polo tra Russia sovietica e Stati Uniti, proprio ripartendo dalle relazioni privilegiate e di partenariato, cioè di pari dignità, con il continente africano. Ora, senza entrare nei particolari di quell’accordo, poi di fatto cancellato nelle sue caratteristiche positive dall’avvento del Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio), rimane l’intuizione rispetto al fatto che la politica estera , in un mondo globalizzato, procede e configura quella interna. Ecco che, allora, l’”episodio” di Bardonecchia non è che la prosecuzione transfrontaliera dell’opera di delegittimazione e progressiva normalizzazione in chiave securitaria operata nei confronti delle Ong a partire dal contestabile “codice di autoregolamentazione” imposto alle Organizzazioni di ricerca e salvataggio dei migranti in mare l’estate scorsa e culminata con il sequestro della nave umanitaria di Open Arms qualche tempo fa. Adesso, coerentemente a quel percorso, si passa ad invadere uno spazio di protezione umanitaria forzando in senso estensivo le norme già in essere, ma che non prevedevano assolutamente che il raggio di azione dei gendarmi francesi includesse luoghi privati. Anche l’utilizzo dei test antidroga è una palese violazione dei diritti umani fondamentali, già denunciata più volte, ed in molte parti del mondo, anche dalla Oim, l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni, che ha sempre cercato di resistere all’imposizione dei test biomedici anche come forma di schedatura dei migranti. La posta in gioco allora, ancora una volta, è il concetto stesso di neutralità ed indipendenza che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, l’aiuto umanitario, l’assistenza ai migranti e la loro accoglienza. Questi principi, contenuti nelle Dichiarazioni di Ginevra, adottati da tutte le Ong internazionali che fanno aiuto umanitario e garantiti dalla Federazione Internazionale della Croce Rossa sono, infatti, oggetto di delegittimazione continua sin dai tempi della prima guerra del Golfo, via via sino a divenire chiaramente ostativi alla logica delle varie “guerre costituenti” operate per riconfigurare i rapporti di forza internazionali tra Paesi consumatori e trasformatori di risorse e Paesi fornitori di materie prime. Ecco che, a fronte di guerre fuori da qualunque legittimità onusiana, e contro le richieste delle Ong di poter svolgere il proprio lavoro, scoprendo e denunciando così i crimini connaturati a queste guerre asimmetriche, era necessario disarticolare progressivamente il Diritto internazionale del Diritti uman, e sostituire le Ong indipendenti con altri attori non certo neurali ed indipendenti, come gli eserciti. Dunque, si comincia con l’impedire alle Ong umanitarie di entrare nei teatri di guerra, se non ebbedded, poi le si costringe a limitare la loro azione in favore dei migranti in mare ed ecco che, infine, si invade il loro spazio sul territorio per chiarire che non esiste luogo protetto e neutrale ma che tutto e tutti sono sottoposti alla superiore legge dello “stato di eccezione permanente” giustificato dall’invasione migrante. Il fatto che siano stati gendarmi francesi a farlo è solo una ulteriore prova del senso “costituente” col quale, oramai da qualche tempo, si intende ricostruire sia i rapporti di forza, e non più di collaborazione, tra Paesi comunitari, sia, più in generale, tra Europa e Paesi di migrazione. Una nuova fase della politica interna comunitaria come risvolto di quella estera, insomma. Ultima, ma non per importanza, la reazione delle destre sovraniste è quella di un cane che abbaia ma non morde dato che, se la memoria non condizionata dal momento politico, dovrebbero ricordare quante volte i migranti sono stati respinti con incursioni transalpine nei nostri confini sotto lo sguardo benevolo della Lega. Migranti. I media francesi ignorano i fatti di Bardonecchia Daniele Zappalà Avvenire, 3 aprile 2018 Il blitz dei gendarmi contro il migrante nella sede di una Onlus è rimasto alquanto in sordina sui media transalpini. Complici probabilmente anche il lungo week-end di Pasqua e il fatto che i grandi quotidiani francesi non escano la domenica, il caso di Bardonecchia è rimasto alquanto in sordina sui media transalpini, almeno rispetto al vasto clamore suscitato in Italia. La principale rete televisiva pubblica internazionale, France 24, la cui linea editoriale è molto focalizzata sulle grandi questioni diplomatiche, ha dedicato questa mattina una porzione preponderante della propria rassegna stampa alla polemica, mostrando in particolare le prime pagine di diversi quotidiani italiani e citando stralci di alcuni editoriali. Ma i media audiovisivi di maggior ascolto hanno preferito privilegiare nella propria scaletta del week-end l’attualità interna, dominata dalle informazioni funzionali per il grande esodo di Pasqua, con un’attenzione particolare all’incertezza legata alla grande campagna di scioperi ferroviari che dovrebbe cominciare questa sera. Fra i siti Internet delle maggiori testate, il Figaro ha pubblicato solo nella tarda serata di domenica un articolo non firmato intitolato: “Pasticcio diplomatico fra Parigi e Roma dopo una stecca alla frontiera”. Dando spazio a sua volta ai titoli della stampa italiana, il quotidiano nazionale conservatore ha sottolineato il tentativo di Gérald Darmanin, il ministro dei Conti pubblici (che ha la tutela delle dogane), di “calmare la situazione”, recandosi nei prossimi giorni in Italia e sospendendo provvisoriamente l’accordo di frontiera del 1990 in base al quale Parigi ritiene sempre di aver agito nella legalità. A sua volta, l’altro grande quotidiano nazionale, Le Monde, sul proprio sito Internet, ha dedicato una copertura sobria alla notizia: un articolo non firmato, domenica, composto in gran parte con agenzie Afp, dando conto anche dell’inchiesta giudiziaria aperta a Torino. Nei mesi scorsi, Le Monde aveva dedicato un reportage ai drammi dei migranti lungo la frontiera alpina nei pressi di Bardonecchia, ma il caso diplomatico delle ultime ore ha ricevuto un risalto contenuto, com’è avvenuto anche sul sito Internet del quotidiano cattolico La Croix. Migranti. Le Ong vogliono chiarimenti: “qual è il ruolo dei libici in acque internazionali?” La Repubblica, 3 aprile 2018 La nave Aquarius a Messina con 292 persone a bordo. Ma il personale di Sos Mediterranee e di Medici senza frontiere ha dovuto “contrattare” con la Guardia costiera libica che decide chi può andare e chi deve essere portato indietro. Come accade sempre più spesso. La nave Aquarius di Sos Mediterranee approda a Messina con 292 migranti e un carico di nuove polemiche che rilanciano un interrogativo già oggetto della prima interrogazione del nuovo Parlamento presentata all’indomani del sequestro della Open Arms. Che cosa è improvvisamente cambiato nella gestione dei soccorsi nel Mediterraneo? Quali nuove e sconosciute norme applica la Guardia costiera italiana che riconosce il coordinamento dei libici in acque internazionali pur in assenza di una Sar zone (zona di ricerca e soccorso) ufficialmente dichiarata e impone alle navi umanitarie di interrompere soccorsi già in atto lasciando che siano i libici a decidere, in mare, chi riportare indietro e chi far prendere alle Ong? Quesito riproposto con forza da Sos Mediterranee e Medici senza frontiere i cui team, a bordo della nave Aquarius, per tre volte l’altro ieri sono stati costretti a duri confronti in mare con le motovedette libiche che, nell’ultimo caso, hanno lasciato che prendessero le persone più fragili riportando indietro altri 100 naufraghi ancora su un gommone, separando anche nuclei familiari. Dice Sophie Beau di Sos Mediterranee. “Tre giorni di operazioni complesse e drammatiche. Chiediamo alle autorità europee e internazionali di chiarire con urgenza il quadro di intervento della Guardia costiera libica in acque internazionali. Le attuali condizioni di salvataggio in mare, sempre più complicate e con dei trasferimenti di responsabilità confusi e pericolosi durante le operazioni, sono inaccettabili. Le navi di salvataggio si ritrovano costrette a negoziare, caso per caso, l’evacuazione di persone in difficoltà. È’ data priorità al rinvio delle persone in difficoltà verso la Libia anziché alla loro messa in sicurezza”. Netanyahu si accorda con l’Onu e manda i rifugiati fuori dal Paese di Michele Giorgio Il Manifesto, 3 aprile 2018 Anche l’Italia dovrebbe accoglierne una parte ma la Farnesina dice di non saperne nulla. Lega e Forza Italia insorgono. “Siamo felici che ci siano tanti Paesi pronti ad accoglierci e che Netanyahu abbia fermato le espulsioni. Non saremo più rimandati in Africa a rischio della vita e non fineremo in prigione in Israele. Però si parla solo di concessione di residenze e di permessi di lavoro e non di riconoscimento dell’asilo. Un giorno Israele potrebbe cambiare idea e mandarci tutti via”. Michael Taklit, rifugiato e attivista eritreo, da anni nella zona meridionale di Tel Aviv nota come “piccola Africa”, ci spiega lo stato d’animo nella sua comunità dopo l’intesa tra Israele e l’Alto Commissariato dell’Onu che vedrebbe diversi Paesi, tra i quali, pare, Canada, Germania e Italia, pronti ad accogliere nei prossimi cinque anni una parte dei richiedenti asilo africani ora nello Stato ebraico. Felicità e dubbi anche tra i sudanesi che rappresentano il 20% dei circa 38mila richiedenti asilo africani ai quali il governo israeliano a gennaio aveva offerto solo due possibilità: ritornare in Africa prima del 1 aprile o finire in prigione. “Le perplessità sono comprensibili perché nessuno ha un’idea chiara delle misure che il governo varerà per regolarizzare la posizione dei rifugiati, l’asilo comunque resta l’obiettivo di chi resterà in Israele”, dice Tamar, una degli attivisti israeliani che assieme ad intellettuali, scrittori, accademici, sopravvissuti all’Olocausto e centri per i diritti umani si sono battuti contro le deportazioni degli africani verso il Ruanda e l’Uganda. A spingere Netanyahu verso l’intesa con le Nazioni Unite è stata proprio la retromarcia di Kigali e Kampala dopo l’iniziale disponibilità che avevano dato ad accogliere gli espulsi da Israele. E un passo indietro sembrano farlo anche Germania e Italia che ieri sera hanno fatto sapere di non aver ricevuto alcuna richiesta da parte di Israele o dell’Onu per accogliere i rifugiati. “Non c’è alcun accordo con l’Italia nell’ambito del patto bilaterale tra Israele e l’Unhcr per la ricollocazione, in cinque anni, dei migranti che vanno in Israele dall’Africa e che Israele si è impegnata a non respingere”, hanno comunicato funzionari della Farnesina. Prima erano intervenuti il leghista Calderoli e il forzista Gasparri. Il primo è stato molto chiaro: “Non se ne parla neppure di prenderci una quota dei 16mila clandestini africani che Israele sta per espellere dal suo territorio…Appena si insedierà il nuovo governo rimanderà a casa loro, rimpatriandoli, tutti i clandestini, altro che accogliere quelli espulsi da Israele”. Il secondo, premettendo che lui sta sempre dalla parte di Israele, ha detto di aver letto “sbigottito” che l’intesa coinvolge anche l’Italia. “Bisogna opporsi e anzi chiedere che altri prendano profughi approdati in Italia. Il Parlamento dica no subito”, ha aggiunto Gasparri tirando il ballo quanto è avvenuto a Bardonecchia che a suo dire avrebbe messo “a nudo la catastrofe dell’Italia colabrodo, paradiso dei clandestini che i nostri confinanti non vogliono a casa loro”. Netanyahu però sa il fatto suo. Durante la conferenza stampa assieme al ministro dell’interno Arie Deri, ha detto che oltre 16mila sudanesi ed eritrei andranno in Paesi occidentali (6.000 il primo anno) mentre gli altri 16mila resteranno in Israele in qualità di “residenti permanenti”. Otterranno visti di lavoro e saranno destinati verso località “dove potranno rendersi utili”. “Saremo noi a decidere dove vivranno e dove lavoreranno” ha aggiunto da parte sua Deri confermando che i rifugiati saranno portati in varie aree di Israele, probabilmente quelle meridionali, e allontanati dai quartieri poveri di Tel Aviv, come il governo aveva promesso. Netanyahu, per placare il disappunto di chi chiedeva la deportazione di tutti i “clandestini”, ha preparato un piano di sviluppo e riabilitazione della periferia sud di Tel Aviv che, istigata dalla destra più radicale, si è sollevata in diverse occasioni contro la presenza di migliaia di africani. L’intesa con l’Unhcr ieri sera non era ancora nota in tutti i particolari ma da quello che si è saputo a lasciare Israele per l’Europa e l’America del Nord saranno con ogni probabilità gli eritrei single, che più di altri hanno (invano) chiesto in tutti questi anni di essere riconosciuti come rifugiati politici. Israele è tra i Paesi con il minor numero di riconoscimenti dell’asilo politico. Netanyahu ha sempre negato che eritrei e sudanesi abbiamo cercato rifugio in Israele per scappare dalla guerra o per sfuggire regimi oppressivi. Per il suo governo sarebbero solo dei migranti alla ricerca di lavoro che peraltro, con la loro presenza, minacciano il carattere ebraico del Paese. Ad ostacolare i piani del premier è stata anche la Corte suprema che il mese scorso aveva congelato le espulsioni.