Messa alla prova per 26 persone in 18 sedi locali dell’Unione sportiva Acli Italia Oggi, 30 aprile 2018 Lavori di pubblica utilità a tutela del patrimonio archivistico e culturale nonché prestazioni di lavoro inerenti a specifiche competenze o professionalità per quegli imputati che abbiano fatto richiesta di sospensione del procedimento penale con messa alla prova. È questo l’oggetto della convenzione nazionale che è stata firmata il 19 aprile scorso dal ministro della giustizia Andrea Orlando e dal presidente nazionale dell’Unione sportiva Acli Damiano Lembo. La concessione della messa alla prova - spiega una nota del dicastero - è subordinata alla prestazione di lavori di pubblica utilità, che consiste in attività non retribuite in favore della collettività. A questo scopo, l’Unione sportiva Acli mette a disposizione 26 posti per lo svolgimento di tali attività in 18 sedi locali, dislocate su tutto il territorio nazionale e contemplate nell’allegato che è passibile di aggiornamento. I lavori di pubblica utilità, oggetto della convenzione stipulata, saranno meglio declinati sul territorio, anche in considerazione della specifica natura del bene interessato e con il coinvolgimento degli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe). Mansioni, durata e orario di svolgimento della prestazione lavorativa gratuita saranno disposti nel programma di trattamento e nel rispetto delle esigenze di vita dei richiedenti, dei diritti fondamentali e della dignità della persona. La sede locale dell’U.s. Acli comunicherà all’Uepe territorialmente competente il nominativo del referente incaricato di coordinare le prestazioni di ciascun imputato, comunicando tempestivamente eventuali inosservanze, assenze o impedimenti. A sua volta - spiega ancora la nota del ministero - l’Uepe indicherà il nominativo del proprio funzionario, incaricato di seguire l’andamento della messa alla prova. Per la pianificazione degli interventi verrà costituito un Comitato paritetico composto da rappresentanti dei due enti firmatari e la Convenzione, della durata di cinque anni, potrà essere rinnovata. Progetto del Ministero per videocamere in dotazione a Polizia penitenziaria diritto24.it, 30 aprile 2018 Il Ministero della Giustizia potrà avviare un nuovo progetto di videosorveglianza in mobilità per garantire maggiore sicurezza alle attività della Polizia Penitenziaria, ma dovrà adottare precise misure a tutela della riservatezza delle persone coinvolte. Lo comunica il Garante privacy nella newsletter di oggi. Il progetto presentato all’Autorità, prosegue la nota, prevede l’implementazione di due sistemi di registrazione audio/video, uno applicato a veicoli della Polizia Penitenziaria e l’altro indossato direttamente dagli agenti in servizio. Gli apparecchi in dotazione potranno essere attivati sia a distanza, dalla centrale operativa competente, sia dall’operatore impegnato sul campo, ma solamente in specifici contesti preventivamente determinati, come, ad esempio, il trasferimento o il piantonamento di detenuti o la tutela dell’ordine e della sicurezza negli istituti penitenziari (perquisizioni straordinarie, sommosse, interventi per reati in atto). Al fine di garantire il corretto trattamento dei dati e il rispetto dei diritti delle persone riprese, tutte le attività di videosorveglianza saranno sottoposte a precisi controlli gerarchici e verifiche. È, ad esempio vietato agli operatori di trattenere copia dei filmati, di divulgare o comunicare indebitamente il loro contenuto. I filmati scaricati, tra l’altro, avranno impresso il numero identificativo dell’apparecchio utilizzato, che consentirà di individuare l’agente o il veicolo cui l’apparecchio era in dotazione, nonché la data e l’ora delle registrazioni. Gli operatori, inoltre, quando la situazione sul campo lo consente, dovranno informare le persone riprese con i dispositivi mobili che è in corso una registrazione per motivi di sicurezza. Nel corso dell’istruttoria, il Garante della privacy ha chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di effettuare una precisa valutazione del tipo di dati personali - quali immagini e suoni - e delle modalità adottate, affinché siano sempre rispettatati i principi di necessità e proporzionalità previsti dalla normativa. L’accesso alle registrazioni sarà quindi consentito solo al personale espressamente autorizzato e le stesse non potranno essere conservate oltre i limiti di tempo specificamente previsti. Il Garante, pur riconoscendo la validità delle modifiche già apportate durante l’esame della documentazione, ha disposto l’adozione di ulteriori cautele che limitino il rischio di eventuali ingerenze ingiustificate nei diritti e nelle libertà fondamentali delle persone interessate. Prima di avviare il progetto, il Ministero dell’Interno dovrà quindi rafforzare le misure di sicurezza, chiarire chi può rilasciare le credenziali di accesso al sistema e definire meglio tutti gli aspetti relativi a riprese effettuate all’interno dei tribunali o attinenti a fatti che non costituiscono reato. Davigo, Di Matteo e l’onda grillina sognano il ribaltone tra i magistrati di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 30 aprile 2018 A luglio elezioni del Csm, la corrente dell’ex leader Anm può stravincere anche dopo la polemica rilanciata dall’ex pm sulla trattativa Stato-mafia. All’ombra delle convulsioni dei partiti c’è un’altra campagna elettorale che sta entrando nel vivo: quella per il rinnovo del Csm. A luglio magistrati eleggeranno i 16 membri togati e il Parlamento gli 8 componenti laici. Il clima è stato surriscaldato negli ultimi giorni da tre fatti collegati: la pubblicazione di un libro sul caso Robledo che mette sotto accusa il Csm e il sistema delle correnti; la discesa in campo di Piercamillo Davigo a capo della corrente “anti-establishment” Autonomia e Indipendenza; la polemica contro Csm e Anm scagliata dal pm antimafia Nino Di Matteo all’indomani della sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia. Si delinea una resa dei conti elettorale. Il dibattito si è infiammato nelle assemblee e nelle mailing list dei magistrati a partire dalla pubblicazione del libro “Palazzo d’ingiustizia” (Marsilio). Il tema è lo scontro, partito nel 2014 nella Procura di Milano tra l’allora procuratore Bruti Liberati e l’aggiunto Robledo. L’autore, il giornalista Rai Riccardo Iacona, ricostruisce nei dettagli la vicenda ma la rilegge in chiave politica. La tesi è che la sorte toccata a Robledo, trasferito e privato delle funzioni di pm per aver denunciato omissioni e insabbiamenti di indagini su politica e affari, sia esemplare del nuovo corso della magistratura: archiviato il ventennio berlusconiano di guerra con la politica, una casta di capicorrente gestisce in modo cooperativo i rapporti con governo e partiti, decide nomine e promozioni secondo canoni di fedeltà anziché di merito, isola e punisce chi non si adegua (nell’ultimo anno i procedimenti disciplinari sono cresciuti del 50%). La tesi è supportata da interviste a magistrati di peso. Una di queste è particolarmente dura: il magistrato veneto Andrea Mirenda accusa il Csm di utilizzare “metodi mafiosi”. Dalla Anm e dal Csm si sono levate proteste, fino a invocare procedimenti disciplinari. Per difendere Mirenda è intervenuto Davigo. Negli stessi giorni il pm palermitano Di Matteo, forte della vittoria processuale sulla trattativa Stato-mafia, lamentava “l’assordante silenzio” della magistratura associata e del Csm (quindi, implicitamente, delle correnti “di sistema”) a fronte degli attacchi subiti dal mondo politico. Un uno-due pugilistico che segna l’avvio della campagna elettorale più incerta e velenosa della storia del Csm. Inedita la sfida tra quattro correnti: Area di centrosinistra; Unicost centrista; Magistratura Indipendente originariamente collocata nel centrodestra anche se il leader Cosimo Ferri è appena stato eletto in Parlamento nel Pd. E poi c’è il quarto incomodo, il protagonista più battagliero e mediatico: Davigo. L’ex dottor sottile del pool di Mani Pulite ha fondato la corrente Autonomia e Indipendenza con una scissione da Magistratura Indipendente. Il suo esordio elettorale in un convegno nel palazzo di giustizia di Roma è stato uno show. Ha irriso il Csm paragonandolo a Caligola per l’arbitrarietà delle nomine: “Ormai mi aspetto perfino la nomina di un cavallo” a capo di una Procura o di un tribunale. Pochi giorni dopo, in piena campagna elettorale, ha impugnato davanti al Tar la decisione del Csm di preferirgli Domenico Carcano come presidente aggiunto della Cassazione. Davigo e Di Matteo sono i magistrati più stimati dal M5S. Entrambi hanno partecipato un anno fa a un convegno organizzato dal M5S alla Camera. Evocato polemicamente da Berlusconi come “il loro vero candidato premier”, Davigo ha sempre smentito incontri con Grillo e velleità politiche. Ma il suo sodale Sebastiano Ardita, pm siciliano antimafia e candidato con lui al Csm, l’anno scorso era stato ospite applaudito alla kermesse di Davide Casaleggio a Ivrea. Dove quest’anno la star è stata Di Matteo. L’esordiente corrente di Davigo ha il vento in poppa, come tutti i movimenti anti-sistema. Vanta un leader carismatico e immacolato, ha posizioni riconoscibili, sa farsi apprezzare da una base delusa. Agita le ultime contestate nomine del Csm, che hanno beneficiato toghe reduci da esperienze, anche lunghe, in partiti e Parlamento. I rivali la temono, tanto da aver rinunciato a opporre un avversario in grado di sbarrare la strada ad Ardita nel collegio dei pubblici ministeri. Davigo sbancherà tra i cassazionisti. Circolano già tabelline su quali potrebbero essere i numeri del nuovo Csm. Autonomia e Indipendenza potrebbe eleggere tre, se non tutti i suoi quattro candidati, e scavalcare una, se non due correnti storiche. Contemporaneamente il M5S, che nel vecchio Csm aveva eletto solo uno degli otto membri laici, questa volta potrebbe indicarne tre. Gli uni e gli altri potrebbero costituire un blocco forte, radicato e ideologicamente coeso, mentre il patto tra correnti tradizionali scricchiola e si dimensiona il fronte di sinistra, con il Pd che potrebbe scendere da 4 a un seggio. L’onda lunga del 4 marzo potrebbe provocare un clamoroso ribaltone negli equilibri di potere nella magistratura, con effetti a cascata su nomine nelle Procure più importanti, giurisprudenza disciplinare, poteri dei capi degli uffici, interlocuzione con il governo. Ancora Cento Passi: ecco chi sono gli eredi della lezione di Peppino Impastato di Giovanni Tizian e Lirio Abbate L’Espresso, 30 aprile 2018 A 40 anni dall’omicidio, L’Espresso ricorda con uno speciale di copertina il ragazzo di Cinisi ucciso da Cosa nostra. Lo fa raccontando i giornalisti di frontiera che hanno raccolto il testimone portando avanti inchieste sul territorio. L’eredità di Peppino Impastato la troviamo disseminata lungo la penisola. Dalla Sicilia all’Emilia passando per la Campania. L’Espresso ha girato l’Italia per raccontare alcune storie non di singoli cronisti, ma di collettivi e redazioni che hanno raccolto il testimone di Impastato. E pubblicherà le loro storie nel prossimo numero in edicola domenica 29 aprile con uno speciale dal titolo “Ancora Cento passi” per ricordare Peppino Impastato, 40 anni dopo l’omicidio di quel 9 maggio 1978 quando si concretizzò il progetto di ucciderlo ordito dal capo di cosa nostra, Tano Badalamenti. Quarant’anni dopo i depistaggi di Stato che volevano trasformare Peppino in un terrorista ucciso dal suo stesso progetto dinamitardo. Oggi l’eredità di Radio Aut e dei compagni di Peppino rivive in decine di esperienze, dalla Sicilia alla Pianura Padana passando per la Campania con Radio Siani, alla redazione televisiva e radiofonica di Trm a Palermo, in amministrazione giudiziaria perché sotto sequestro per mafia, riempie notiziari e palinsesti con speciali tv contro le cosche siciliane e invita i Riina a ripudiare la mafia; il collettivo di studenti di Reggio Emilia che con video inchieste racconta il lato oscuro dell’Emilia. Storie diverse, legate, però, dalla medesima passione, la stessa che ha guidato Peppino con Radio Aut nella giungla di Mafiopoli. Raccontare il Paese sconosciuto. Quel Paese delle periferie, della provincia, dei territori. Territori dove si combatte una guerra quotidiana tra poteri criminali e mafiosi e cittadini onesti, nell’indifferenza dell’informazione mainstream. E con un altissimo tasso di rischio per i giornalisti, senza tutele e sotto attacco dei clan. L’Espresso ritorna anche, a 40 anni dalla morte di Peppino, sugli ignobili depistaggi che portarono l’inchiesta sull’omicidio in un vicolo cieco. Chi ha subito puntato all’attentato terroristico escludendo la mafia, è stato l’allora maggiore dei carabinieri Antonio Subranni che scrisse in un’informativa che Impastato si era ucciso o era morto in un fallito attentato. La relazione della Commissione parlamentare che indagò sul caso Impastato parla proprio di “depistaggio”. Molti anni dopo la corte d’assise ha condannato il mandante dell’omicidio, il boss Gaetano Badalamenti. Mentre Antonio Subranni, lo ritroviamo fra gli imputati del processo alla trattativa Stato-mafia, condannato a 12 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. Strage di Bologna, il dolore del mondo nelle lettere alla città ferita di Ilaria Venturi La Repubblica, 30 aprile 2018 A migliaia scrissero al sindaco dopo il 2 agosto 1980: leader politici e gente comune. Ora gli archivi svelano quel fiume di solidarietà. E i vaglia con le offerte alle famiglie dei morti. L’indignazione dei democratici francesi nel telegramma di François Mitterand in veste di segretario del partito socialista. E lo sdegno nel biglietto in bella calligrafia della signora Paola, impiegata statale. Il cordoglio del parlamento europeo a firma di Simone Veil, quello di Amintore Fanfani e Nilde Iotti. E lo sgomento di Maria che scrive in nome del padre martire della Resistenza veronese. La preoccupazione di Enrico Berlinguer (“stiamo seguendo gli sviluppi di questa immane tragedia minuto per minuto”). E le firme raccolte di tenda in tenda dai campeggiatori di Lido degli Scacchi contro il “vile attentato fascista”. I dieci milioni di lire inviati da Carmelo Bene e i 326 dollari raccolti con uno Spaghetti’s dinner dalla settantenne Rose di Los Angeles. Missive e vaglia. Parole e contributi in denaro. Big di Stato e gente comune. Solidarietà e partecipazione nell’era ante-Facebook. Dagli archivi del Comune di Bologna esce la reazione che scattò, via posta, subito dopo la strage alla stazione, l’atto terroristico di stampo neofascista che provocò 85 morti e 200 feriti. Migliaia di lettere e telegrammi - istituzionali ma anche e soprattutto di pensionati, operai, studenti, emigrati e militanti - indirizzati all’allora sindaco Renato Zangheri nei giorni successivi al 2 agosto 1980: fogli vergati a mano e scritti a macchina, dolore e rabbia fissati sulla carta intestata degli alberghi, perché era estate e si era in vacanza. Ma c’era l’urgenza di spedire sostegno alle vittime, mettere in buchetta la condanna di una strage. È la storica Cinzia Venturoli ad aver aperto questi inediti faldoni della coscienza civile. Gilberto che ricambia l’abbraccio ricevuto dai bolognesi quando entrò col suo plotone per liberare la città il 21 aprile del 1945. Il messaggio dei medici statunitensi laureati all’Alma Mater, le parole della scuola di Manuela Gallon, vittima a 11 anni: “Addio bimba”. Scritti che diventeranno uno spettacolo teatrale (regia di Matteo Belli), per la prossima commemorazione: “Sinfonia di soccorsi”. Un progetto dell’assemblea legislativa regionale con l’associazione dei famigliari delle vittime per narrare la reazione sociale e non ancora social di “chi si sentiva parte di un tutto e voleva esserci, non per presenzialismo: era una necessità collettiva”, osserva la storica. Lettere che arrivano sotto le torri dall’Urss e dagli Usa, da Yalta, da tutta Europa. Si mobilitano i carcerati: pronti a donare il sangue. I villeggianti a Pieve di Cadore inviano una sottoscrizione contro quella “mostruosità eversiva”, i lavoratori della Rinascente mettono nero su bianco la loro “inquietudine”, scrivono i militanti del Pci, anche della sezione australiana, gli ex combattenti, i profughi cileni, l’Unione contro il nazismo di Tel Aviv. Bologna diventa il mondo di tutti. Susan da Buffalo ammira “il modo umano” con cui ha reagito la città. “Bisogna continuare a cercare le verità mancanti sulla strage e a ricordare le vittime - spiega Cinzia Venturoli - Queste carte aggiungono un tassello in un momento in cui è così difficile tenere coesa la società. Rispondono cioè a una domanda che spesso mi fanno gli studenti: come si reagisce a una strage?”. Al sindaco di un piccolo comune reggiano sembrano poche quelle 825mila lire inviate, “invece il dolore della mia gente è grande”. Dopo tre mesi, annuncia il giornalino del Comune conservato tra le carte, il fondo per le vittime arriva a un miliardo di lire. “Il paese ha in sé le forze per schiacciare i nemici della convivenza civile”, scriveva Nilde Iotti. Lo dice altrimenti chi si firma “una ragazza qualsiasi”: “Non è tutto finito, nelle persone ci sono ancora tante cose belle e buone: la migliore difesa contro qualsiasi rigurgito reazionario”. Con la riforma penale un forte “filtro” sul patteggiamento di Alessandro Diddi Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2018 La riforma penale (legge 103/2017) ha dato un ulteriore giro di vite ai già angusti limiti per accedere in Cassazione. Dal 3 agosto del 2017 le doppie conformi di proscioglimento non possono più essere impugnate in sede di legittimità, se non nei casi previsti dall’articolo 608, comma 1-bis, del Codice di procedura penale (eccesso di potere del giudice, inosservanza o erronea applicazione della legge penale o violazione di norme processuali a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità e decadenza) e la possibilità per la “parte” di sottoscrivere personalmente gli atti di ricorso è stata abolita (613 Cpp). Un’altra previsione, che ha già trovato molteplici applicazioni, è quella che introduce ulteriori limiti alla ricorribilità per Cassazione delle sentenze di patteggiamento. A seguito della riforma, infatti, le sentenze ex articolo 444 Cpp possono essere impugnate per Cassazione solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto o all’illegalità della pena o della misura di sicurezza (articolo 448, comma 2-bis, Cpp). Le recenti pronunce della Suprema corte chiamate ad attuare il nuovo regime hanno utilizzato il dettato delle norme per sostenere (sulla base del principio del ubi voluit dixit) l’impossibilità di eccepire dinanzi alla Corte la mancata motivazione in ordine alla sussistenza delle cause di proscioglimento ex articolo 129 Cpp, nonostante la loro obbligatoria rilevabilità, ai sensi dell’articolo 444 Cpp, da parte del giudice del merito. Orientamenti rigorosi - Peraltro, anche in relazione ai motivi rispetto ai quali il ricorso sarebbe a stretto rigore ammissibile (perché rientrante nel perimetro del nuovo articolo 448, comma 2-bis), le prime applicazioni assecondano orientamenti rigorosi. Così, con riguardo al controllo sulla corretta qualificazione giuridica del fatto - che costituisce il fulcro attorno al quale di regola si sviluppa la funzione nomofilattica esercitata dalla Corte di cassazione - si è osservato che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità la generica denuncia dell’erronea qualificazione giuridica, in quanto essa può essere rilevata solo se dipendente da errori valutativi (di diritto) causati da evidenti sviste del giudice e risultanti in maniera palese dal provvedimento impugnato (si veda la sentenza di Cassazione 15553/2018). Anche in relazione al sindacato sulla formazione del consenso dell’imputato, la Corte (si veda la sentenza 15557/2018) ha ritenuto incensurabile l’accordo raggiunto tra Pm e difensore, anche qualora tale accordo non rispecchi quanto richiesto dall’imputato (come nel caso in cui l’accordo non recepisca la richiesta di concessione nella massima estensione delle circostanze attenuanti generiche). L’impatto sui processi - Il nuovo corso inciderà sulla speditezza dei processi, soprattutto se si considera che le cause di inammissibilità dei ricorsi, in queste ipotesi, ai sensi del comma 5-bis (sempre introdotto dalla legge Orlando) dell’articolo 610, sono rilevate senza formalità di procedura: il che significa che la Corte decide senza contraddittorio, fuori udienza e con decisione avverso la quale potrà essere proposto, ricorrendone le condizioni, ricorso straordinario ex articolo 625-bis Cpp. È significativo che le decisioni richiamate configurino la compressione dell’area del controllo demandato alla Cassazione quale conseguenza inevitabile dell’ammissione di responsabilità implicita nella richiesta di patteggiamento (ricostruzione, quest’ultima, per la verità, mai pacifica in letteratura). Ancora, sempre secondo la Corte, l’applicazione concordata della pena postula anche la rinuncia dell’imputato a far valere eventuali nullità, diverse da quelle relative alla richiesta di patteggiamento e al consenso a essa prestato (sentenza 17434/2018) e ad eccepire il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto (sentenza 43874/2016). L’impostazione seguita dalla Corte consegue l’obiettivo del restringimento del perimetro cognitivo del giudizio di legittimità a favore della complessiva efficienza del sistema. Tale apprezzabile risultato, tuttavia, finisce col disconoscere la portata oggettiva della garanzia posta dalla Costituzione a fondamento dell’incondizionata ricorribilità per violazione di legge di tutte sentenze. Col figlio solo dieci minuti al mese, bocciato ricorso del detenuto al 41bis tusciaweb.eu, 30 aprile 2018 Boss mafioso in regime di carcere duro protesta perché può vedere per soli dieci minuti al mese il figlio minore di 12 anni senza il vetro divisorio. Ma la cassazione gli dà torto. Secondo la corte suprema non è ammissibile il ricorso presentato da un detenuto siciliano di 41 anni, detenuto nel supercarcere di Viterbo in regime 41 bis, contro l’ordinanza con cui, il 10 marzo 2017, il tribunale di sorveglianza di Roma aveva già rigettato il suo reclamo contro il provvedimento del magistrato di sorveglianza di Viterbo. Il magistrato di sorveglianza di Viterbo aveva, a sua volta, rigettato il reclamo contro la determinazione del Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), con la quale era stato stabilito che per i detenuti in regime di 41 bis, durante il colloquio visivo mensile, è limitato a dieci minuti il tempo di permanenza, senza vetro divisorio, dei minori di anni 12, in compagnia del padre o nonno del detenuto. “Nessuna lesione di alcun diritto soggettivo del detenuto - la motivazione - dal momento che tali condizioni non ostacolano l’effettuazione dell’incontro, le comunicazioni verbali e le manifestazioni affettive, consentite anche mediante contatto fisico diretto. Pertanto è salvaguardata la stabilità del legame e la relazione parentale”. L’insussistenza di una posizione di diritto soggettivo del detenuto deriverebbe dall’insindacabilità delle determinazioni adottate dall’amministrazione penitenziaria nell’esercizio dei poteri discrezionali, funzionali alla tutela delle esigenze di sicurezza e ordine interno dell’istituto di pena, che assumono un rilievo valutativo ancor più rilevante laddove le pretese azionate dal detenuto riguardino soggetti sottoposti al regime detentivo speciale di cui all’articolo 41 bis. “Per queste ragioni - conclude la cassazione - il ricorso proposto deve essere rigettato”. Non c’è legittima difesa per chi accetta la sfida di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2018 Cassazione, sezione V penale, sentenza 6 aprile 2018 n. 15460. Non è invocabile la legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida. Lo sostiene la Cassazione con la sentenza 15460/2018. Come è noto, la legittima difesa esige che il fatto sia commesso per la necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (ex pluribus, sezione V, 20 marzo 2013, Setti). Infatti, i presupposti essenziali della scriminante della legit­tima difesa, ammessa nei confronti di tutti i diritti, personali e patrimoniali, sono costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legittima: la prima è costituita dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto (proprio o altrui); la seconda inerisce alla necessità di difendersi, rispetto a un pericolo altrimenti inevitabile, e alla proporzione tra la difesa e l’offesa provocata all’aggressore (cfr., ex pluribus, sezione I, 27 febbraio 2001, Mignemi; sezione IV, 12 febbraio 2004, Lopez). Il primo dei presupposti per l’applicabilità dell’esimente è, quindi, quello dell’“attualità” del pericolo dell’“offesa ingiusta”, che va inteso, secondo la migliore interpretazione, come esistenza di una situazione di attacco illegittima e “in corso”, la cui cessazione dipende necessariamente dalla reazio­ne difensiva (sezione I, 10 gennaio 2002, Pica). Da ciò derivando, sotto il profilo dell’ingiustizia dell’offesa, e quindi della situazione di pericolo, che è inapplicabile la scriminante in qualsiasi caso di volontaria determinazione di tale situazione: come nell’ipotesi in cui l’agente abbia contribuito a innescare una sorta di duello o di sfida contro il suo avversario o attuato una spedizione punitiva nei suoi confronti, ponendosi con ciò volontariamente in una situazione di inevitabile pericolo per la propria incolumità, fronteggiabile solo con l’aggressione altrui (come nella vicenda esaminata dalla Cassazione) (cfr. sezione I, 20 dicembre 2011, El Farnouchi; nonché Sezione I, 27 novembre 2012, Spano). E da ciò derivando, sotto il secondo profilo, che non vi è spazio per l’applicabilità della scriminante quando l’aggressione si è ormai esaurita (cfr. sezione I, 15 aprile 1999, De Rosa). Né è configurabile la scriminante allorquando si verta nell’ipotesi di difesa preventiva o anticipata, giacché appunto l’attualità del pericolo implica un effettivo, preciso contegno del soggetto antagonista, prodromico di una determinata offesa ingiusta, la quale si prospetti come concreta e imminente, così da rendere necessaria l’immediata reazione difensiva (sezione I, 27 ottobre 2010, Celeste). Il secondo presupposto è rappresentato dalla “inevitabilità” del pericolo dell’offesa ingiusta, che implica l’assoluta necessità (ergo, l’ineluttabilità) della reazione quale unico modo per salvare il diritto minacciato: inevitabilità che è esclusa allorquando l’aggredito abbia la possibilità di evitare l’aggressione con modalità comportamentali diverse dalla reazione che espone a pericolo l’incolumità fisica dell’aggressore. Ciò che si verifica, ad esempio, qualora il soggetto abbia la possibilità di allontanarsi dall’aggressore senza pregiudizio e senza disonore (il cosiddetto commodus discessus); ovvero, qualora la reazione sia sostituibile con altra meno dannosa, ugualmente idonea a tutelare il diritto esposto al pericolo. Responsabilità datore, non basta il comportamento negligente del lavoratore di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2018 Cassazione, sezione IV penale, sentenza 18 aprile 2018 n. 17404. Nel sistema della normativa antinfortunistica, per potere considerare interrotto il nesso causale tra l’incidente e la condotta del datore di lavoro, è necessario che la condotta del lavoratore cui si vuole ricondurre la causa esclusiva dell’evento sia caratterizzata dalla cosiddetta “abnormità”, ossia da quel comportamento del lavoratore che assume valenza interruttiva del nesso di causalità fra la condotta del garante in tema di sicurezza e l’evento dannoso verificatosi a suo danno: tale condizione, peraltro, si verifica non perché il comportamento del lavoratore qualificato come abnorme sia “eccezionale”, ma perché esso risulta eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (cfr. sezioni Unite, 24 aprile 2014, Espenhahn e altri). Ciò che la Corte, sentenza 17404/2018, ha escluso, versandosi in un’ipotesi disciplinata dall’articolo 71, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008, che pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di mettere “a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di cui all’articolo 70, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie”. È principio assolutamente pacifico quello secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, l’addebito di responsabilità formulabile a carico del datore di lavoro non è escluso dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell’infortunio, giacché al datore di lavoro, che è “garante” anche della correttezza dell’agire del lavoratore, è imposto (anche) di esigere da quest’ultimo il rispetto delle regole di cautela (cfr. articolo 18, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81). A tale regola, si fa unica eccezione, in coerente applicazione dei principi in tema di interruzione del nesso causale (articolo 41, comma 2, del Cp), in presenza di un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile del lavoratore: in tal caso, anche la condotta colposa del datore di lavoro che possa essere ritenuta antecedente remoto dell’evento dannoso, essendo intervenuto un comportamento assolutamente eccezionale e imprevedibile (e come tale inevitabile) del lavoratore, finisce con l’essere neutralizzata e privata di qualsivoglia rilevanza efficiente rispetto alla verificazione di un evento dannoso (l’infortunio), che, per l’effetto, è addebitabile materialmente e giuridicamente al lavoratore. Ciò può verificarsi in presenza (solo) di comportamenti “abnormi” del lavoratore, come tali non suscettibili di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. In questa prospettiva, secondo la lettura più recente e accreditata (cfr. anche, in parte motiva, sezioni Unite, 24 aprile 2014, Espenhahn e altri), il datore di lavoro non può essere chiamato a rispondere dell’infortunio subito dal lavoratore non solo quando il comportamento di quest’ultimo risulti definibile come “abnorme” e quindi non suscettibile di controllo da parte del titolare della posizione di garanzia (dovendosi considerare abnorme non solo il comportamento posto in essere in una attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, ma anche quello “connesso” con lo svolgimento delle mansioni lavorative, ma consistito in qualcosa di radicalmente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili imprudenti scelte del lavoratore nell’esecuzione del lavoro), ma anche quando il comportamento del lavoratore, pur non abnorme di per sé, risulti “eccentrico” rispetto al rischio lavorativo che il titolare della posizione di garanzia è chiamato a “governare” (sezione IV, 26 settembre 2014, Colella, che, da queste premesse, in una fattispecie in cui al sindaco di un Comune si era addebitato un infortunio subito da uno “stradino” comunale, sul rilievo della pretesa mancata formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza, ha annullata con rinvio la sentenza di condanna che non aveva approfondito se l’infortunio si fosse veramente verificato nell’ambito delle mansioni svolte dal lavoratore, sì da potersene fare discendere l’addebito di carenza di formazione; diversamente, si era finito con l’addebitare al titolare della posizione di garanzia un comportamento prevenzionale rispetto a una condotta del lavoratore di cui non si era verificata la coerenza con le mansioni; nello stesso senso, anche sezione IV, 5 maggio 2015, Viotto, che ha attribuito rilievo “interruttivo” anche al comportamento “esorbitante” del lavoratore: nozione nella quale si sono fatte rientrare quelle condotte che fuoriescono dall’“area di rischio” che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva, e che non rientrano nell’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni concernenti il contesto lavorativo). Omesso versamento dei contributi: irrilevante l’impossibilità ad adempiere del datore Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2018 Reati previdenziali - Omissione contributiva - Reato a dolo generico - Scelta consapevole di non adempiere all’obbligo contributivo - Sussistenza di difficoltà economiche - Irrilevanza. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali è a dolo generico ed è integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti e alla manutenzione dei mezzi destinati allo svolgimento dell’attività di impresa, e di pretermettere il versamento delle ritenute, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 aprile 2018 n. 15786. Reati previdenziali - Omissione contributiva - Illiquidità - Irrilevanza. Il reato di omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non è escluso dalla condizione di difficoltà economica in cui versi il datore di lavoro, tale da averlo indotto a privilegiare altre destinazioni delle somme che avrebbero dovuto essere accantonate per i versamenti. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 10 agosto 2017 n. 39072. Previdenza e assistenza (assicurazioni sociali) - Contributi - Omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni effettuate - Crisi di liquidità del datore di lavoro - Idoneità a escludere l’elemento soggettivo - Insussistenza. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (articolo 2 del Dl n. 463 del 1983, convertito dalla legge n. 638 del 1983) è integrato, siccome è a dolo generico, dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, sicché non rileva, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la circostanza che il datore di lavoro attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte a debiti ritenuti più urgenti. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 settembre 2017 n. 43811. Previdenza e assistenza - Previdenza e assistenza (in genere) - Omesso versamento di contributi - Mancanza di liquidità - Società capogruppo - Legale rappresentante. In caso di omesso versamento dei contributi è ininfluente ai fini della condanna la circostanza di non poter disporre di liquidità e di dipendere dalla società capogruppo: il legale rappresentante deve anche con i propri beni fronteggiare la situazione. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 28 aprile 2016 n. 17429. Reati previdenziali - Omissione contributiva - Illiquidità - Irrilevanza - Pagamento stipendi - Precedenza - Esclusione - Ripartizione delle risorse disponibili. In tema di omesso versamento contributivo il datore di lavoro non può legittimamente invocare a propria discolpa l’impossibilità di adempiere per mancanza della necessaria liquidità, neppure dando la precedenza al pagamento degli stipendi rispetto al pagamento del debito contributivo verso l’Inps, poiché è suo preciso onere ripartire le risorse disponibili al momento di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori dipendenti in modo da poter adempiere all’obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò può riflettersi negativamente sull’integrale pagamento delle retribuzioni medesime. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 18 marzo 2015 n. 11353. Sicilia: "Oltre i confini", progetto di recupero per detenuti stranieri di Concetta Purrazza meridionews.it, 30 aprile 2018 “Molti non possono capire neanche i motivi del carcere” Fornire assistenza legale, psicologica, sociale e percorsi di reinserimento lavorativo. È l’obiettivo del progetto "Oltre i confini", della cooperativa "Prospettiva futuro", messo in atto in 23 istituti penitenziari di nove province. Tanti i ragazzi diventati scafisti per disperazione. La vita dopo il carcere per Fofana ha il sapore del riscatto e della libertà. “Il mio viaggio è iniziato dalla Guinea, da dove sono partito all’età di 16 anni”, racconta. Giunto in Libia ma privo di soldi per la traversata, è costretto da un gruppo di trafficanti a mettersi in mare alla guida di un’imbarcazione con duecento persone. Nonostante l’inesperienza, raggiunge le coste siciliane ma ad Augusta viene arrestato con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Rilasciato dopo un mese di reclusione, entra in un percorso di recupero: svolge un tirocinio formativo alla lega navale di Catania e si iscrive all’istituto nautico. Oggi i suoi occhi sognano il mare. “Vorrei lavorare con le navi, ma ora la sfida più grande è prendere il diploma”. Fofana ce l’ha fatta. Ha ricominciato a sperare grazie al progetto Oltre i confini, finanziato da Fondazione per il Sud e realizzato dalla Cooperativa Prospettiva Futuro di Catania in collaborazione con una vasta rete di partner istituzionali e del sociale. “Molti detenuti stranieri, tra cui numerosi minori - spiega Domenico Palermo, coordinatore del progetto - vengono arrestati con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nell’immediatezza dello sbarco”. Bollati come scafisti, perché al timone di imbarcazioni di fortuna, in realtà, “sono vittime innocenti della disperazione di arrivare in Italia a tutti costi”. I trafficanti li reclutano tra gli stessi migranti che non dispongono del denaro per il viaggio. “È necessario - afferma - colpire i veri responsabili rivedendo la legislatura sul reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina”. Per i detenuti stranieri accusati di questo reato, privi di informazioni sulla normativa nazionale in materia di immigrazione, c’è il rischio per la propria incolumità nell’eventualità di un rimpatrio. Senza famiglie, mezzi linguistici e diritti, conducono in cella un’esistenza precaria ed emarginata. È da queste premesse che è stato avviato Oltre i confini. “L’obiettivo - sostiene Palermo - è quello di fornire agli stranieri, detenuti nelle strutture penitenziarie di tutta la Sicilia assistenza legale, psicologica e linguistica per favorire il loro accesso alle misure alternative di detenzione e a percorsi lavorativi di reinserimento sociale”. In tre anni sono stati raggiunti 1203 detenuti di 26 nazionalità, provenienti in prevalenza da Tunisia, Egitto, Gambia, Nigeria, Mali, Senegal. Le attività hanno coinvolto 23 istituti penitenziari, nove centri per l’impiego e nove uffici di esecuzione penale esterna. “Circa 660 persone hanno fatto richiesta di incontrarci. Per ciascuno di loro è stato redatto un programma con la collaborazione del personale penitenziario che abbiamo formato perché privo di competenze specifiche sul trattamento di detenuti stranieri”. Dai colloqui individuali sono emerse le esigenze dei singoli ma anche le precarietà del sistema carcerario. “In primo luogo, in nessuno degli Istituti penitenziari della Sicilia operano mediatori culturali”. In mancanza di queste figure professionali, diventa impossibile comunicare, ricevere informazioni sull’accesso alla protezione internazionale e sopperire alle esigenze quotidiane del carcere. “Per i richiedenti protezione internazionale, dato che gli uffici immigrazione non dispongono di personale per recarsi in carcere - confessa - abbiamo predisposto un modello di manifestazione di volontà che, sottoscritto da 101 detenuti, è stato inoltrato agli uffici immigrazione e alle commissioni territoriali competenti”. Altre criticità riguardano la mancanza di indumenti per il cambio e la negazione del diritto di comunicazione telefonica con i familiari “anche dopo un anno e più di detenzione”. Difficoltà confermate dalle associazioni partner del progetto. “Numerosi detenuti - afferma Nino Battiato, psicologo e presidente della cooperativa sociale Golem di Valguarnera - non solo non conoscevano la ragione della detenzione perché non capivano l’italiano, ma non potevano contattare telefonicamente le famiglie o usufruire di vestiario”. Per quanto riguarda il reinserimento lavorativo, attraverso il progetto sono stati attivati 16 tirocini all’interno o all’esterno del carcere. “La rete fattoria sociali di Sicilia ha individuato la mia cooperativa - racconta Claudia Cardillo responsabile dell’associazione Ener-getica - per far svolgere a un giovane albanese un tirocinio extra murario di sei mesi in una serra di Giarre. Asim aveva tanta voglia di integrarsi e andare avanti malgrado la dura esperienza del carcere che lo aveva segnato”. “All’interno del progetto - aggiunge Battiato - abbiamo dato la possibilità ad un detenuto del Gambia di svolgere il tirocinio all’interno della casa circondariale di Enna e successivamente anche all’esterno dopo che è stato scagionato”. Tra le note dolenti evidenziate da Palermo c’è l’impossibilità per i detenuti di ottenere i documenti o richiedere il rinnovo durante la detenzione. “Nonostante l’impegno - dichiara - abbiamo incontrato molti stranieri che si sono visti negare il rinnovo del permesso di soggiorno e sono stati costretti a rimpatriare, anche dopo anni di contributi pagati all’Inps”. La storia di Dionis somiglia a quella di tanti altri detenuti che rischiano l’espulsione sebbene abbiano intrapreso un percorso di reinserimento. “A che serve essere persone migliori - si domanda - se al termine della scarcerazione si viene espulsi senza alcuna possibilità di regolarizzare la propria situazione?”. Il carcere l’ha cambiato. Adesso vuole solo lavorare e dimenticare gli sbagli passati. Tramite il progetto ha svolto un tirocinio in una fattoria didattica che si è trasformato in un contratto a tempo indeterminato. Lui e la moglie sognano una famiglia, ma per ora, in attesa della sentenza definitiva, vivono in un limbo. “Ho già pagato per il mio reato ma per lo Sato Italiano resto un criminale a vita”, dice. “Per la prima volta, con questo progetto - interviene Palermo - si dà voce ai detenuti stranieri, reclusi negli istituti penitenziari dell’isola, che sono soggetti vulnerabili perché non possono fruire di misure alternative. Vorremmo che Oltre i confini diventasse la prassi”. Ma l’impegno dell’associazione è rivolto anche ai detenuti siciliani. “Lavoriamo da oltre vent’anni in sinergia con il ministero della Giustizia per portare tra i reclusi siciliani attività educative e progetti di recupero. Siamo attualmente presenti all’interno del carcere Bicocca a Catania. Rivolgiamo una particolare attenzione ai minori entrati nel circuito penale e ci occupiamo del loro reinserimento sociale perché meritano un futuro migliore”, conclude. Toscana: in 5 anni 23 suicidi in carcere, la Regione vara piano di prevenzione quotidianosanita.it, 30 aprile 2018 Il suicidio è la seconda causa di morte nelle strutture di detenzione e elevatissimo è il numero di tentati suicidi e gli atti di autolesionismo. Per arginare il fenomeno la Giunta Regionale ha approvato il “Piano per la prevenzione delle condotte suicidarie”. Stanziati circa 32 mila euro destinati soprattutto ad attività di formazione degli operatori e alla realizzazione di un’indagine epidemiologica sullo stato di salute nelle carceri. Nei 18 istituti penitenziari della Toscana (16 per adulti e 2 per bambini), dal 2012 al 2017 sono avvenuti 23 suicidi, 737 tentati suicidi e 6.520 atti di autolesionismo. Numeri che fanno del suicidio la seconda causa di morte in carcere. Ora, con una delibera approvata dalla Giunta nel corso della sua ultima seduta la Regione Toscana ha varato il “Piano per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti della Toscana, e linee di indirizzo per i Piani locali” con cui vuole arginare il fenomeno. Il Piano, che è stato sottoscritto dal Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, da rappresentanti dell’Agenzia regionale di sanità (Ars) della Toscana e dai referenti per la salute in carcere delle tre Asl toscane, comprende anche gli strumenti clinici utili per gli operatori sanitari al fine di individuare il livello di rischio suicidario dei detenuti negli istituti penitenziari della Toscana. Il Piano è finanziato con 32.900 euro per attività di formazione diretta agli operatori coinvolti, in particolare quelli più a diretto contatto con la quotidianità dei detenuti, e per un’indagine epidemiologica curata dalla Ars sullo stato di salute nelle carceri. Impegna inoltre le Asl a redigere, entro tre mesi dall’approvazione del Piano, concordemente con l’amministrazione penitenziaria e avvalendosi dei propri referenti per la salute in carcere, il Piano locale per la prevenzione delle condotte suicidarie negli istituti penitenziari del proprio territorio. Catanzaro: diritti dei detenuti, la Camera Penale proclama astensione dalle udienze cn24tv.it, 30 aprile 2018 L’Unione delle Camere Penali Italiane, cui aderisce anche la Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” - stante il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della Riforma Penitenziaria nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari - ha ritenuto necessaria un’ulteriore e immediata presa di posizione dell’Avvocatura penale che unifichi e coordini gli sforzi di tutti coloro che si sono impegnati per l’attuazione della Riforma. L’associazione dei penalisti italiani, ancora una volta in prima linea nel richiedere il rispetto dei diritti di tutti i detenuti, ha così deciso di proclamare per le giornate del 2 e 3 maggio un’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale e di dover, altresì, porre in essere una mobilitazione nazionale, prevista per giorno 3 maggio a Roma, al fine di sensibilizzare la politica, l’informazione e l’opinione pubblica. “Nel corso della lunga e travagliata vicenda dell’approvazione della riforma Orlando, l’Ucpi - si legge nella nota - che ha messo anche a disposizione di tutti coloro che credono che la Delega del Parlamento debba trovare piena ed immediata attuazione, la pagina Facebook “Si alla riforma penitenziaria”, affinché venga fatta corretta informazione sulle ragioni di un cambiamento - ha più volte richiesto al Governo lo stralcio della riforma penitenziaria sulla quale far convergere i consensi della maggioranza, al fine di accelerarne l’approvazione”. “Tale richiesta è stata, però, sempre respinta ponendo l’approvazione della riforma penitenziaria in coda alla legislatura per mere ragioni elettorali - spiega la nota - con ciò solo rischiando di disperdere le preziose risorse scientifiche e culturali e le aspettative politiche ed umane create dal progetto di Riforma. Il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della Riforma Penitenziaria nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari si pone, allora, in netto contrasto con la proclamata centralità del Parlamento, dimostrando come leggi frutto di una faticosa e approfondita meditazione e di ampia condivisione politica, giuridica e culturale possano essere agevolmente accantonate e dimenticate”. “Ancora una volta non abbiamo potuto assistere inerti - ha dichiarato il Presidente della Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora”, Giuseppe Carvelli - e così abbiamo ritenuto di dover proclamare, nel rispetto del codice di autoregolamentazione, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria, sperando che possa sortire gli effetti sperati. L’Unione delle Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, da sempre è in prima linea per il riconoscimento e la tutela del rispetto della persona, sia essa colpevole o innocente, libera o detenuta, e ha in questi anni contribuito al progetto di Riforma con tutte le proprie forze, ritenendo urgente e non più differibile il richiesto cambiamento volto ad una più moderna e democratica attuazione dei principi costituzionali in materia di trattamento penitenziario e di esecuzione penale”. “Quello dell’astensione, al contrario di quanto potrebbe apparire, non è - ha proseguito il noto penalista catanzarese - uno strumento che adottiamo a cuor leggero perché ha riverberi, non già e non solo sulla nostra attività professionale, ma anche sulla vicenda umana dei nostri assistiti che si vedono costretti a tollerare un prolungamento delle loro sofferenze. Tuttavia, noi, quanto loro, riteniamo che mai come in questo caso sia una battaglia intrisa di fortissimi aneliti di civiltà cui non possiamo sottrarci. Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, scriveva Fëdor Dostoevskij - ha concluso l’avvocato Carvelli - e noi tutti abbiamo una responsabilità sociale che ci deve indurre a perseguire con forza l’affermazione dei diritti di chi quelle prigioni è costretto a viverle sulla propria pelle e anche più in profondità”. Benevento: Uil "nel carcere situazione sanitaria pericolosa, si intervenga" ottopagine.it, 30 aprile 2018 "Pochi infermieri, troppi detenuti: situazione molto pericolosa". È allarme par la situazione sanitaria del Carcere di Benevento, in particolare per la carenza di personale infermieristico. La denuncia arriva da Giovanni De Luca, sindacalista Uil: "La situazione sanitaria al Carcere di Benevento era e rimane allarmante. Le ultime iniziative del’Asl non hanno portato alcun beneficio né dal punto di vista della sicurezza sanitaria dei detenuti, né dal punto di vista della sicurezza dei lavoratori. Abbiamo letto che con l’acquisizione di cinque infermieri il problema era stato risolto, ma in realtà di queste persone, allo stato attuale, uno solo può essere operativo anche di notte". "Tra l’altro sono cinque operatori assorbiti tramite una graduatoria di persone ritenute in esubero in altre strutture Asl. Strutture che, a noi, in realtà risultano già sotto organico". Altri cinque operatori dovrebbero essere assunti tramite una mobilità infra-regionale deliberata lo scorso 24 aprile. "Questa scelta del direttore generale, Picker non ci convince - continua De Luca - La Legge Madia prevede che ci sia una corsia preferenziale per la stabilizzazione delle persone che già lavorano in partita iva al carcere da quindici anni. Stabilizzazione peraltro attivabile con una semplice delibera dirigenziale ma, allo stato attuale, al di là di alcune cose lette in giro non si trova alcun riscontro. Riteniamo quindi che assorbire operatori dalla mobilità senza stabilizzare prima gli altri già presenti sia una operazione non ossequiosa della normativa vigente. Mobilità, tra l’altro, compiuta dopo la realizzazione della graduatoria dei dipendenti in presunto esubero già menzionata prima. A questo punto ci pare evidente una certa confusione nelle iniziative intraprese dall’Asl". "Vorrei anche ricordare - prosegue De Luca - l’atteggiamento di una sigla sindacale autonoma la quale, prima delle elezioni Rsu ci ha tenuto ad informare i lavoratori di avere risolto tutto tramite un incontro personale con il Direttore Generale. Ad oggi, vediamo che non si è risolto nulla quindi probabilmente per alcuni sindacalisti è più importante rastrellare voti con false promesse che agire nel vero interesse dei dipendenti". De Luca poi torna sulla situazione molto preoccupante che si osserva nella struttura di contrada Capodimonte: "C’è un infermiere in turno che deve coprire le necessità assistenziali di 400 carcerati tra l’altro ubicati in tre strutture fisicamente separate. Può capitare che mentre l’operatore fa una flebo a un detenuto debba correre altrove, lasciandolo da solo, con un ago in vena. Voglio ricordare che molti carcerati sono anche in attesa di giudizio e quindi in condizioni psicologiche non ottimali e da questo è facile capire come si potrebbero verificare situazioni potenzialmente pericolose". Infine il segretario territoriale prova a sensibilizzare "il Magistrato di sorveglianza, il Prefetto, il Sindaco, la Responsabile della Sicurezza sul lavoro dell’Asl di Benevento, il Responsabile sanitario del carcere e la Direttrice del carcere che dovrebbero farsi carico della delicatezza della situazione prima che avvengano fatti incresciosi. Inoltre - conclude De Luca - vorrei rivolgermi al Direttore Generale Picker. Già da tempo abbiamo invocato un confronto sulla situazione senza avere alcun riscontro. Ormai diverse volte come Uil Fpl abbiamo chiesto incontri su situazioni serie e importanti senza essere mai convocati. A questo punto ci chiediamo perché ci sia questo atteggiamento nei nostri riguardi". Bari: il direttore dell’Ipm “qui lo zoccolo duro, ma nostro obiettivo è recupero dei ragazzi” di Samantha Dell’Edera borderline24.com, 30 aprile 2018 “Non siamo qui per buttare la chiave, ma per fare seguire un percorso volto al recupero del minore”. Nicola Petruzzelli è direttore del carcere minorile Fornelli di Bari dal 1995. Contattato da Borderline24 ha descritto qual è la situazione attuale delle carceri per minori in Italia. Direttore, in 23 anni come è cambiato il carcere di Bari? “Bisogna necessariamente fare una premessa di carattere giuridico. In Italia la riforma del 1989 del codice di procedura penale ha introdotto una serie di novità, coerenti con i principi di diritto internazionale e costituzionale che presiedono al trattamento dei minori autori di reato. In particolare devono essere considerati i principi costituzionali secondo i quali le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione dei condannati (art. 27 Cost.) e che i minori ed i giovani adulti sono oggetto da parte dello Stato Italiano di una speciale protezione per la tutela dei loro diritti, anche se hanno commesso dei reati (art. 31 Cost., anche in relazione agli artt. 29 e 30). In sostanza, il processo penale minorile deve avere comunque una finalità educativa e questo vale per qualsiasi reato, dalla rapina aggravata al furto, dall’omicidio allo spaccio di stupefacenti, dall’estorsione alla violenza sessuale. In quest’ottica di recupero e di reinserimento sociale, la riforma del 1989 ha considerato la carcerazione dei minori come l’estrema ratio, come una misura da applicare in casi di particolare gravità, per esigenze processuali o di tutela della collettività, quando non è possibile esperire percorsi alternativi alla detenzione”. Questo cosa ha comportato? “Ha comportato che oggi in Italia ci sono soltanto 17 istituti penali per i minorenni con una presenza media giornaliera di 400-450 minori e giovani adulti. Qui a Bari ci sono attualmente 28 ospiti. Come si vede da questi numeri contenuti in Italia il legislatore ha, di fatto, quasi abolito la carcerazione dei minori, rendendola comunque residuale. Quando sono arrivato qui al “Fornelli” negli anni 90 c’erano in media 60 ragazzi presenti al giorno, poi, al di là della riforma che ha introdotto il nuovo codice di procedura penale minorile ci sono stati i vari provvedimenti legislativi emergenziali - così dette “leggi svuota carceri” finalizzate a contrastare il fenomeno del sovraffollamento delle carceri per adulti - provvedimenti che hanno portato ad una ulteriore diminuzione dell’utenza penitenziaria minorile”. Chi sono i minori attualmente detenuti a Bari? “In generale, ormai la maggior parte degli ospiti dell’istituto non è più costituita da minorenni. Molti sono giovani adulti che hanno commesso il reato da minore ed hanno il diritto di rimanere in un istituto di pena minorile fino a 21 anni e da 21 a 25 anni, previa valutazione di alcune condizioni relative alla sicurezza ed alla continuità del percorso rieducativo. Il carcere, quindi, come detto, viene applicato - sia nella fase cautelare sia in quella dell’esecuzione della pena - come ultima possibilità, soprattutto quando non hanno funzionato le precedenti misure non detentive che si eseguono o presso il domicilio familiare oppure in apposite comunità educative o terapeutico-riabilitative ovvero quando si è in presenza di reati particolarmente gravi, reiterati ed in presenza di rischio di recidiva specifica. Normalmente noi qui trattiamo coloro che rappresentano “lo zoccolo duro” della criminalità minorile, coloro per i quali il percorso di recupero è stato più volte ipotizzato e realizzato ed è, per vari motivi, fallito”. La scelta del legislatore di considerare il carcere come misura cautelare intesa come ultima possibilità in caso di condanna ha però comportato un utilizzo maggiore dei minori nelle attività criminose. “Quando il legislatore ha introdotto una normativa penale, processuale penale e penitenziaria di speciale tutela del minore, ha messo in conto il rischio sociale che i minori potessero essere usati dalle mafie e dalla criminalità comune. Il legislatore ha agito, però, in piena coerenza con i principi di diritto internazionale e costituzionale vigenti ed ha valutato che era un rischio che si doveva correre comunque. D’altronde, come più volte ha ribadito la Corte Costituzionale nelle sue numerose pronunce in materia, l’interesse preminente della Repubblica nell’esercizio dell’azione penale nei confronti dei minori è la rieducazione ed il reinserimento dei minori che delinquono e non certo la loro emarginazione sociale”. Qualche ragazzo che è riuscito ad uscire dal tunnel della criminalità? “Tanti sono stati i ragazzi che si sono recuperati, nonostante la gravità del quadro processuale penale di partenza. Il nostro è un lavoro molto problematico, abbiamo a che fare con casi complessi e multiproblematici, con situazioni famigliari particolari e posizioni giuridiche gravi e di non facile soluzione. Ricordo ad esempio un ragazzo che aveva commesso una serie di rapine a banche ed uffici postali, che aveva raggiunto un cumulo di pene rilevante, che poi è diventato un attore, dopo aver seguito un percorso teatrale con il Teatro Kismet OperA di Bari che dal 1996 realizza un laboratorio in questo Istituto. Questo ragazzo ha recitato in prima serata al Kismet e ha portato alcuni suoi spettacoli in tournée in giro per la Puglia. C’erano tutte le promesse perché il suo percorso di recupero non avesse un buon esito - la recidiva, l’entità della condanna, una situazione familiare difficile alle spalle - ed invece studiando, frequentando il laboratori di formazione professionale, partecipando alle attività culturali, ricreative e sportive in Istituto, seguendo le indicazioni degli operatori minorili e dei volontari ce l’ha fatta. Oggi è un onesto cittadino che vive e lavora onestamente”. Qual è la giornata tipo al Fornelli? “I ragazzi si alzano alle 07.00, si occupano della pulizia delle stanze di pernottamento, poi fanno colazione verso le 08.00 ed alle 08.30 si incomincia la giornata con i laboratori di formazione professionale finanziati dall’Assessorato alla Formazione Regione Puglia - ceramista ed operatore della ristorazione - e del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca - lavorazione del legno. Abbiamo anche il corso di scuola primaria (elementare) per l’alfabetizzazione degli stranieri ed il corso di scuola secondaria di primo grado (scuola media inferiore) per coloro che non hanno ancora assolto l’obbligo scolastico. Ci sono poi, nel pomeriggio il Progetto teatrale del Kismet, l’educazione musicale, le attività ricreative e sportive gestite dal Comitato Provinciale della U.I.S.P. di Bari, grazie ad un finanziamento dell’Assessorato allo Sport della Regione Puglia. Noi abbiamo in dotazione un campo sportivo di calcio regolamentare in erba sintetica, un campo di calcetto, una palestra, un teatro, una cappella e sale ricreative per le attività di tempo libero. Queste ultime attività si si svolgono all’aperto, e. poi, dopo la cena alle 19.30 i ragazzi rientrano in camera dove hanno la possibilità si seguire la programmazione televisiva di loro gradimento, arricchita anche dall’offerta dei canali satellitari della piattaforma Sky. Per le attività di osservazione e trattamento rieducativo l’organico del personale prevede educatori professionali, agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria specialisti nel trattamento di detenuti minorenni, psicologi, un medico specialista in psicoterapia, un medico generico, due infermieri, operatori tutti che lavorano in equipe con un approccio integrato e multidisciplinare”. Di quanto è aumentata la presenza degli stranieri? “Qui a Bari gli stranieri sono quasi la metà dei presenti. Ma si tratta per lo più di ragazzi trasferiti da altri istituti del Centro-Nord dove si verificano talvolta situazioni di sovraffollamento causato dal fenomeno dei flussi migratori. La Puglia, com’è noto, per i migranti è una terra di approdo e di passaggio”. Cosa manca, secondo lei, alla società per il recupero di questi ragazzi? “Il problema della criminalità minorile non è un problema del carcere, è un problema nostro. della società civile. Il fratello di Aldo Moro, Alfredo Carlo Moro, grande giudice minorile, disse una cosa giustissima: dei principi della rivoluzione francese noi abbiamo realizzato forse il principio della libertà e dell’uguaglianza (formale) ma ci siamo dimenticati quello della fraternità, della solidarietà tra gli uomini. I giudici sono quelli che arrivano tardi, noi dobbiamo promuovere percorsi di recupero, di benessere, prima e precocemente, altrimenti rincorreremo sempre i casi disperati. I tecnici dei trattamenti quando finiscono il loro orario di lavoro tornano a casa, e al minore che succede? Ha bisogno di figure di riferimento, di adulti significativi, molto spesso questo nella famiglia di origine manca; c’è bisogno di persone che fraternamente, solidariamente, affiancano i ragazzi. La società civile se ne deve fare carico e accompagnarli. Alfredo Carlo Moro diceva: “è più importante per un minore avere un buon giudice o un buon padre?” Tirarsi fuori dai problemi, dalla devianza minorile è un atteggiamento ipocrita che non ci porta da nessuna parte. Se vogliamo migliorare le cose ci dobbiamo mettere un po’ del nostro tempo, della nostra attenzione. Altrimenti i minori saranno sempre abbandonati e saranno sempre sfruttati dalla criminalità”. Palermo: nasce la pasta Ucciardone, prodotta dentro il carcere di Alessia Rotolo meridionews.it, 30 aprile 2018 “Abbiamo bisogno di imprenditori ambiziosi come Giglio”. L’impianto, inaugurato durante l’anniversario dell’uccisione di Pio La Torre, è nuovo e moderno e potrà produrre 400 chili di pasta all’ora. Una linea medio alta che sarà commercializzata dal 1° maggio prima a Palermo e poi anche nel resto d’Italia. L’intento è anche quello di varcare i confini nazionali. Si chiama Ucciardone, è realizzata con farina Perciasacchi, un grano tipico siciliano, e sarà commercializzata dal primo maggio anche fuori dall’isola. Il pastificio GiglioLab Srl, nato in seno ad uno dei più antichi istituti penitenziari della città, produrrà una linea di pasta medio alta ed è stato inaugurato durante il 36esimo anniversario dell’uccisione di Pio La Torre e Rosario Di Salvo. Durante la cerimonia erano presenti, tra gli altri, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il sindaco Leoluca Orlando, l’arcivescovo di Palermo don Corrado Lorefice, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. L’impresa nasce dall’esperienza trentennale del Pastificio Giglio, azienda leader nel settore della pasta fresca: e che ha preso il nome di “GiglioLab” perché vuole configurarsi come un laboratorio di sperimentazione tecnica e di materiali, di sperimentazione sociale, di sperimentazione alimentare, culturale ed educativa. Amministratore della società è Giuseppe Giglio, figlio del noto imprenditore Mimmo Giglio, che ha fondato questa nuova realtà con l’obiettivo non solo di assumere i detenuti e contribuire al loro processo di rieducazione in carcere, ma anche di contribuire alla nascita di un nuovo marchio produttivo che potrebbe contemporaneamente diffondere la grande qualità del grano duro siciliano e un forte messaggio sociale. L’impegno e la scommessa degli imprenditori coinvolti, infine, è anche quello che tale progetto possa diventare un modello di buone prassi replicabile in altri istituti di pena. L’impianto è nuovo e moderno e potrà produrre 400 chili di pasta all’ora. Per il momento si producono formati corti, in seguito la gamma verrà estesa agli altri formati. Dal 1° maggio saranno commercializzate penne, sedani e casarecce. Il grano usato, tipicamente siciliano, è coltivato in un campo sperimentale di alcune decine di ettari. La pasta inizialmente verrà commercializzata nel punto vendita di Pastificio Giglio in via Cala 62/D e da Prezzemolo e Vitale, a partire dal 1° maggio. Inoltre verrà distribuita da FreedHome, uno store torinese dedicato alle eccellenze dell’economia carceraria italiana. La filiera è seguita dal Consorzio Ballatore, che certifica tutto il percorso del grano. Ma l’obiettivo è di entrare in quelle nicchie di mercato che ricercano questi valori, non raggiunti dalla grande distribuzione e dalle grandi industrie. “Il grano, l’impianto nuovo e moderno, l’essiccazione lunga e a una certa temperatura determinano l’altissima qualità del nostro prodotto che non potrà mai essere paragonabile a quello dell’industria - spiega il responsabile della filiera produttiva Mimmo Giglio -, dove la richiesta importante del mercato li obbliga, per esempio, ad abbassare i tempi di essiccazione del prodotto alzando la temperatura”. L’amministratore di Giglio Lab Srl è Giuseppe, figlio di Mimmo. Una tradizione che diventa eredità e si perpetua in questo modo. “La nostra è stata una scommessa - afferma Giglio junior - da quando la dottoressa Rita Barbera, direttrice dell’Ucciardone, ci ha coinvolto in questo ambizioso progetto è trascorso un anno. E abbiamo fatto grandi passi in avanti come organizzazione capillare del pastificio, di disbrigo pratiche e soprattutto di formazione dei nostri mastri pastai. Abbiamo formato i primi dieci detenuti, dei quali quattro sono già stati assunti dall’azienda a tempo indeterminato e lavorano a pieno regime nella produzione della pasta. Sono ragazzi che vengono da realtà abbastanza difficili, hanno vissuto momenti della loro vita particolari ma noi crediamo molto nel reinserimento. Questo è lo spirito che ci ha spinto dal primo momento ad abbracciare questa attività. Abbiamo, dal canto nostro, un’esperienza trentennale alle spalle ma sicuramente questa è una nuova attività che coinvolgerà soprattutto giovani L’augurio è quello di poter varcare i confini isolani e nazionali, a dimostrazione di un made in Italy nuovo”. Durante l’inaugurazione i detenuti, protagonisti della giornata, hanno per la prima volta assaggiato la loro pasta, cucinata per l’occasione dalla chef Leo Palma. “Il progetto GiglioLab è una realtà che deve essere conosciuta, - ha commentato il ministro di Grazia e Giustizia Andrea Orlando - un’eccellenza italiana che trova sede in un luogo particolare, nel carcere dell’Ucciardone. Questi imprenditori hanno capito le potenzialità e hanno fatto propri i concetti di reinserimento e rieducazione: il mio auspicio è che questo progetto diventi una buona prassi in tutte le carceri italiani. Abbiamo estremamente bisogno di imprenditori ambiziosi e coraggiosi come questi”. Larino (Cb): il giornale dei detenuti tra le 100 migliori redazioni scolastiche d’Italia primonumero.it, 30 aprile 2018 Il notiziario scolastico dei detenuti del carcere di Larino che frequentano l’istituto Alberghiero “Federico di Svevia” ha ottenuto il suo primo, importante, riconoscimento. L’associazione nazionale giornalismo scolastico lo ha inserito tra le cento migliori redazioni scolastiche italiane nell’ambito del concorso “Giornalista per un giorno”. La notizia è stata accolta con soddisfazione ed entusiasmo da parte degli studenti detenuti che hanno preso parte al progetto - che è stato selezionato su 1.856 giornali scolastici - e della referente, la professoressa Chiara Maraviglia. Si chiama “Stile libero”, è il giornale degli studenti del carcere dell’istituto alberghiero di Larino ed è stato premiato dall’associazione nazionale di giornalismo scolastico. Un racconto ironico sul “matrimonio napulitano”, in dialetto. Favole, con protagonisti l’orso e il riccio, la medusa e il pesciolino, Amore e Follia, lo scorpione e la tartaruga. Versi contro la violenza sulle donne, approfondimenti sulla storia del banchetto, sulla pizza e sul tatuaggio, tra arte e moda. Ricette abbinate alle regioni, dallo struffolo partenopeo alla pitta ‘mpigliata calabrese, dal casatiello campano allo sfincione siciliano. Pensieri, riflessioni, emozioni emergono tra una parola e l’altra, negli articoli scritti dagli studenti detenuti della sede carceraria di Larino dell’Ipseoa “Federico di Svevia”. Il notiziario scolastico “Stile libero”, esperienza cominciata nell’anno 2016/2017 con il progetto “Il giornale in carcere”, ha ottenuto il suo primo riconoscimento: lo scorso 19 aprile è stato premiato dall’associazione nazionale giornalismo scolastico Alboscuole - Targa d’Argento del Presidente della Repubblica -, nella quindicesima edizione del concorso “Giornalista per un giorno”, dopo essere stato valutato dalla giuria presieduta dal vicedirettore del Tg1 Rai e direttore della Scuola di Giornalismo dell’Università degli studi di Salerno Gennaro Sangiuliano. “Stile libero” è stato inserito tra le migliori 100 redazioni italiane “per aver superato le selezioni del monitoraggio effettuato su 1.856 giornali scolastici, di cui 587 delle scuole primarie, 628 delle scuole secondarie di I grado e 641 delle scuole secondarie di II grado, entrando di fatto nell’élite del giornalismo scolastico nazionale”. Così si legge sulla targa, consegnata sul palco del Palamontepaschi di Chianciano Terme alla professoressa Chiara Maraviglia, referente del progetto del giornale scolastico “Stile libero”, nel corso del festival affollato da centinaia di studenti, delegazioni di istituti didattici di tutta la penisola, da Bergamo a Savona, da Trapani a Sassari, da Roma a Bitonto, a cui è stato dato il benvenuto dal presidente di Alboscuole Ettore Cristiani. Il premio è stato accolto dagli alunni delle classi dell’istituto Alberghiero all’interno della casa circondariale con un caloroso applauso e sorrisi di entusiasmo. Gli allievi ce l’hanno messa tutta, fin dall’inizio, avvicinandosi alla scrittura giornalistica con curiosità e voglia di esprimersi. Hanno raccontato le attività di laboratorio svolte durante le ore di lezione, hanno messo nero su bianco interviste, recensioni, disegni, considerazioni sul valore dell’istruzione. La sfida, già in partenza, con il numero 0, ha lasciato il segno, con il premio nazionale “Giornalista per un giorno”. Il progetto continua: dopo la nuova edizione dedicata alle festività natalizie, lo scorso dicembre, la redazione di “Stile libero” sta producendo nuovi articoli, che compariranno sulle colonne del numero 2, a conclusione dell’anno scolastico 2017/2018. Napoli: il cinema per raccontare l’Italia ai detenuti del carcere di Poggioreale Il Mattino, 30 aprile 2018 Il cinema per raccontare l’Italia ai detenuti del carcere di Poggioreale. Da classici come “I soliti ignoti” e “Le mani sulla città” all’ironia surreale di Fantozzi fino alla Napoli scanzonata dei Manetti bros di “Song ‘e Napule”: parte il 4 maggio una serie di venti incontri con ospiti del mondo della cultura, dello spettacolo, del cinema e della televisione in occasione della rassegna “Il Cinema ci racconta: L’Italia tra ieri, oggi e domani”. L’iniziativa nasce dalla sinergia tra Arci Movie, che da anni lavora nelle carceri cittadine, e la scuola serale del Cipia2 di Napoli. “Oltre ad avere riaperto e difeso vecchie sale di città e aver insistito sul valore e la bellezza del cinema all’aperto nei parchi pubblici - dice Roberto D’Avascio, presidente di Arci Movie - negli ultimi anni la nostra associazione sta lavorando molto per portare la possibilità del cinema in luoghi ancora più difficili e lontani come le carceri. Sempre con l’obiettivo di riattivare forme di educazione e di socialità attraverso la cultura”. La rassegna è dedicata ad una serie di opere del cinema italiano dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, capaci di raccontare il nostro Paese, le sue crisi e i suoi malesseri sociali, anche con il tono leggero della commedia. L’attività di proiezione in carcere sarà sempre preceduta da una introduzione critica del film e del periodo storico in cui sono ambientati e sarà seguita da un dibattito con i detenuti ai quali sarà chiesto di scrivere dei testi sulla loro esperienza. Tra gli ospiti, Lucia Fortini assessore regionale all’Istruzione e alle Politiche sociali (che presenterà il progetto il 10 maggio), Titta Fiore presidente della Film Commission Regione Campania, l’attore Marzio Honorato, lo storico Guido D’Agostino, il cantautore Nelson, lo scrittore Gabriele Frasca, i docenti universitari Anna Masecchia e Gennaro Carillo, Rosaria Troisi, sorella di Massimo Troisi. Firenze: la Fiorentina Calcio dona la divisa ai giocatori-detenuti di Sollicciano stamptoscana.it, 30 aprile 2018 Promessa mantenuta: l’Acf Fiorentina ieri è tornata a varcare i cancelli di Sollicciano per donare la divisa del club viola ai giocatori della squadra del carcere. L’iniziativa rientra nell’ambito del progetto di Uisp Firenze “Sport in libertà” e si svolge in stretta collaborazione con la direzione della casa circondariale e con il coordinatore degli educatori della struttura penitenziaria Gianfranco Politi. Le maglie donate dal vice presidente Gino Salica hanno subito avuto il loro battesimo in campo visto che la squadra di Sollicciano ha affrontato gli “Anelli Mancanti”, formazione composta da rifugiati e richiedenti asilo e vincitrice del campionato di calcio a 5 Uisp. Per Salica il gesto compiuto “è un dovere morale e un contributo che la Fiorentina dà a ragazzi che vivono dei momenti di difficoltà e che attraverso lo sport possono trovare elementi di riscatto”. Dopo la simbolica cerimonia della consegna delle maglie il vice presidente Salica ha ricordato il gran finale, il 13 maggio, allo stadio Franchi quando una delegazione di giocatori-detenuti assisterà alla partita dei viola contro il Cagliari direttamente dalle tribune. Salica ha inoltre ribadito la volontà di organizzare nuove giornate di festa e sport in carcere. A proposito dell’atteso match con il Napoli, augurandosi di assistere a una grande partita ha aggiunto: “non mi sento di dire vinca il migliore, noi abbiamo delle chance e ce la giochiamo fino alla fine”. Il presidente di Uisp Firenze Marco Ceccantini ha ricordato l’impegno quasi giornaliero in carcere nel segno dello sport per tutti e il desiderio di ampliare sempre di più il tipo di attività sportive da far svolgere ai detenuti nella certezza della valenza educativa e sociale del progetto. Per la cronaca la partita tra la squadra di Sollicciano e Anelli Mancanti è terminata sull’1-1, con occasioni dall’una e dall’altra parte. Per i detenuti grande festa di sport nel nome del capitano viola Davide Astori a cui la gara è stata dedicata, per Anelli Mancanti l’occasione per festeggiare il trionfo in campionato. Psichiatria. Da Marco Cavallo a oggi: i 40 anni della legge Basaglia di Elena Tebano Corriere della Sera, 30 aprile 2018 Nel 1973 l’uscita della scultura dal manicomio di Trieste accompagnata da 600 “matti”. Che cosa è cambiato dalla riforma del 1978 nella cura del disagio mentale? Marco Cavallo uscì dal manicomio una bella domenica di marzo. Azzurro come il cielo di primavera, arrivò fino a Piazza Unità, il cuore di Trieste, accompagnato da almeno 600 “matti”. Era il 1973, Marco Cavallo, la pelle di cartapesta e nella pancia i sogni degli internati, era una scultura: doveva il suo nome a un altro cavallo, lui sì in carne ed ossa, che i pazienti dell’ospedale psichiatrico di Trieste l’anno prima avevano salvato dal macello. Alto tre metri, gli aveva fatto strada Franco Basaglia, psichiatra e direttore della struttura, che con una panchina di ghisa aveva sfondato il cancello di legno che ne bloccava l’uscita. Diventò il simbolo di quei “matti” decisi a non morire chiusi in manicomio. Fino ad allora ci finiva chiunque venisse ritenuto “pericoloso a sé e a gli altri e di pubblico scandalo” come sanciva la legge del 1904. “Fu una grande macchina teatrale per comunicare il cambiamento culturale portato avanti da Basaglia ed altri medici che denunciavano la violenza e l’esclusione dell’internamento”, dice oggi Franco Rotelli, psichiatra e presidente della Commissione Sanità del Friuli Venezia Giulia, che quel giorno era lì e nel 1980 succedette a Basaglia alla direzione dei servizi di salute mentale triestini. Una rivoluzione culturale sfociata il 13 maggio 1978 nella legge 180, che aboliva l’istituzione manicomiale e restituiva dignità e pieni diritti civili ai malati psichiatrici. Ma che oggi, a 40 anni dalla sua approvazione, ancora non può dirsi compiuta: “Siamo a metà del guado. Una volta fatta - spiega Rotelli - la legge 180 è stata subito dimenticata”. Non solo perché disponeva che non si potesse più entrare negli ospedali psichiatrici ma non quando uscissero i malati che erano già dentro (alcuni ci sono rimasti fino all’inizio degli anni 2000), ma perché andava costruita l’alternativa. “I servizi per la cura fuori dagli ospedali psichiatrici hanno tardato a nascere e per anni- avverte Rotelli - la loro qualità in giro per l’Italia è stata molto bassa, anche se ci sono luoghi, tra cui Trieste, in cui si è riusciti a costruirne di buoni. Va bene perché i manicomi erano una realtà pesante e nel resto d’Europa ce ne sono ancora tanti. Ma molto rimane da fare”. Intanto sono sempre di più le persone di cui farsi carico: l’Organizzazione mondiale della sanità stima che una persona su 4 nel corso della vita attraversi un problema di salute mentale. “E negli ultimi anni la domanda è cresciuta per impatto della crisi economica che ha aumentato il malessere psicologico” afferma il presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica Fabrizio Starace. Nel 2015, l’anno a cui si riferisce il primo e finora unico Rapporto sulla salute mentale in Italia (Rsm) del Ministero della salute, sono state 777.035 le persone seguite dai servizi di salute mentale. “Varie indagini condotte nel corso degli anni, però, indicano che in Italia ci sono circa 2 milioni di individui che presentano disturbi psichiatrici. A cui vanno aggiunti - prosegue Starace - gli individui a rischio di disturbi ansiosi e/o depressivi: altri 4 milioni e mezzo secondo un’indagine Istat del 2013”. Le risorse disponibili non bastano per assisterli: la rete dei servizi, costituita da Centri di Salute Mentale, centri diurni e strutture residenziali, conta 3.791 strutture in cui lavorano 29.260 dipendenti (57,7 ogni 100 mila abitanti). Un dato medio, che nasconde differenze enormi: si va dal minimo di 20,6 operatori ogni 100 mila abitanti in Molise al massimo di 109,3 in Valle D’Aosta, mentre lo standard individuato dal Progetto Obiettivo del 1999 prevedrebbe come minimo 66,6 operatori ogni 100 mila abitanti. “C’è una grave carenza anche di fondi: la Conferenza delle Regioni nel 2001 - aggiunge Starace - aveva stabilito che venisse destinato alla salute mentale il 5% della spesa sanitaria: solo Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna ci arrivano, mentre la media e del 3,5%. L’Italia è oggi il Paese occidentale avanzato che meno investe in questo settore”. “La conseguenza - spiega Gisella Trincas, presidente nazionale dell’Unasam (l’Unione nazionale delle associazioni salute mentale, che rappresentano i malati e i loro familiari) - è che la maggior parte dei malati non ha uno psicologo e viene curata solo con i farmaci”. E in assenza di personale adeguato succede che sia ancora diffusa una pratica ereditata dai manicomi, la “contenzione meccanica”: legare i pazienti. “Ricerche recenti - dice Giovanna Del Giudice, portavoce del Forum Salute Mentale - hanno dimostrato che nei reparti degli ospedali destinati al ricovero temporaneo dei pazienti in crisi acuta si contiene nell’80 % dei casi. E questo nonostante la Commissione parlamentare per i diritti umani abbia accertato che legare viola la costituzione oltre che la dignità dei pazienti”. Almeno due persone sono morte in Italia in anni recenti dopo essere state legate a un letto d’ospedale per giorni: Giuseppe Casu a Cagliari nel 2006 e Francesco Mastrogiovanni a Vallo della Lucania nel 2009. Eppure le alternative ci sarebbero. “La persona però - sottolinea Giselle Trincas -deve essere presa in carico nella sua interezza, da un’equipe di professionisti che collabori a un progetto personalizzato di cura, che includa anche la famiglia e la rete affettiva dei pazienti. Servono psichiatri, psicologi, operatori ed educatori che insieme costruiscano una relazione di fiducia col malato. Così guarire è possibile, ci sono persone che sono riuscite a uscire dalle diagnosi più feroci”. Quando le cose funzionano, i malati al Centro di salute mentale trovano lo psichiatra per la terapia farmacologica, gli psicologi per la psicoterapia, soluzioni abitative alternative se hanno problemi a vivere con la famiglia, l’accompagnamento dei tecnici della riabilitazione psichiatrica, laboratori con gli educatori, visite domiciliari degli operatori sociosanitari. E anche i ricoveri nelle fasi acute della malattia vengono decisi con il loro consenso. È un percorso lungo che comprende l’inserimento lavorativo e che spesso, quando le risorse pubbliche non ce la fanno, viene portato avanti dal volontariato: “Noi cerchiamo di costruire - dice Beatrice Bergamasco, presidente di Progetto Itaca, la più grande onlus italiana specializzata su questo tipo di assistenza - una rete di relazioni intorno alle persone di cui ci occupiamo: facciamo formazione con i familiari, organizziamo i fine settimana e attività diurne nel nostro centro e abbiamo anche una “job station”, un centro in cui le persone lavorano con il telelavoro per diverse aziende con cui collaboriamo”. Sono ancora pochi oggi invece i centri del servizio sanitario che riescono a seguire i malati fino in fondo nel reinserimento sociale. Ma le esperienze che funzionano, come quelle in Friuli Venezia Giulia eredi di Basaglia, o a Modena, in Emilia Romagna, dove centinaia di persone sono coinvolte in percorsi di inclusione sociale lavorativa, dimostrano che è possibile. Certo, servono risorse adeguate e una cultura che “non riduca la malattia mentale alla medicalizzazione - sintetizza Franco Rotelli - L’ultimo manicomio che ancora rimane in piedi è quello farmacologico”. Solo quando la salute mentale saprà curare tutti gli aspetti della vita dei malati potrà dirsi davvero compiuta la riforma di 40 anni fa. Gran Bretagna. Scandalo migranti, la ministra dell’Interno costretta a dimettersi di Ippolito Luigi Corriere della Sera, 30 aprile 2018 Rudd aveva attuato politiche che hanno negato a una generazione di immigrati dalle ex colonie caraibiche, la “generazione Windrush”, alcuni diritti fondamentali. A mettere in campo per prima quelle politiche era stata la attuale premier May. Amber Rudd, la ministra dell’Interno britannica, ha rassegnato ieri sera le dimissioni. È la prima vittima illustre del cosiddetto scandalo Windrush, che da settimane ha investito la politica del Regno Unito: migliaia di persone arrivate da bambini negli anni Cinquanta e Sessanta dai Paesi del Commonwealth, soprattutto caraibici, e che avevano trascorso tutta la vita in Gran Bretagna, sono state minacciate di deportazione perché non avevano i documenti necessari per provare di essere entrati legalmente. Non avevano infatti mai preso la cittadinanza e in Gran Bretagna non esistono né l’anagrafe né le carte d’identità, quindi può risultare difficile provare il proprio status. Le ragioni delle dimissioni - La situazione è stata imputata alla deliberata politica del governo di creare un “ambiente ostile” all’immigrazione, rendendo difficili le condizioni di vita a tutti gli irregolari in modo da costringerli ad andarsene. Ma ha finito per coinvolgere tantissime persone arrivate decine di anni fa sull’onda della decolonizzazione e che ormai erano britanniche di fatto. La vicenda ha causato indignazione, perché se è vero che la stretta sull’immigrazione incontra il favore popolare, la “generazione Windrush”, così chiamata dal nome di una nave arrivata nel 1948 dalla Giamaica, ha contribuito a costruire la Gran Bretagna moderna. May sacrifica la ministra - Lo scandalo è stato gestito in modo maldestro dal governo, soprattutto dalla ministra Rudd: che ha negato che ci fossero delle quote di immigrati da deportare, salvo poi essere sbugiardata pubblicamente. Di fronte alle polemiche crescenti, la premier Theresa May non ha avuto altra scelta che sacrificare la ministra dell’Interno, che ha finito per fare da parafulmine. Ma sostituirla in un momento così delicato non sarà facile. Il governo si regge infatti su un precario equilibrio tra fautori di una Brexit “morbida” e sostenitori di un distacco “puro”: la Rudd era una capofila delle “colombe” e al suo posto dovrebbe dunque andare qualcuno con orientamenti simili. A meno che la May non voglia rischiare un rimpasto più ampio. Comunque sia, la premier è chiamata a gestire un passaggio difficile. Siria. Nessuno parla delle carceri jihadiste della Ghouta di Patrizio Ricci ilsussidiario.net, 30 aprile 2018 La settimana scorsa si è svolta a L’Aja una conferenza che ha demolito le tesi del presunto attacco chimico di Douma. E colpevolmente si tace qualcos’altro. La settimana scorsa, per iniziativa della Russia, si è svolta a L’Aja presso la sede dell’Opcw una conferenza che ha demolito le tesi del presunto incidente chimico di Douma. 17 testimoni presenti nel luogo del preteso attacco chimico hanno chiarito che è stato frutto di una messinscena per provocare l’intervento occidentale. Tra gli interventi, di particolare rilievo è stato quello di Ahmad al Saur, il medico dell’ospedale della città di Douma che ha trattato le persone arrivate nel pronto soccorso. Egli ha confermato di aver esaminato i pazienti e di non aver trovato sintomi di avvelenamento da sostanze chimiche. Analoga testimonianza è stata rilasciata da Ahmad Kashoy, il direttore dell’ospedale e da tutti gli altri testimoni, compreso l’undicenne Assan Diab, usato dai White Helmets come "primo attore" per dimostrare il finto attacco chimico. Nonostante queste evidenze, Peter Wilson, il rappresentante inglese dell’Opcw ha giudicato la conferenza indetta dalla Russia come "l’ennesimo tentativo di minare il lavoro dell’Opcw, in particolare la missione di inchiesta di uso di armi chimiche in Siria". Tuttavia le riserve sollevate dal rappresentante inglese - come quelle dei media mainstream - non tengono conto che le dichiarazioni testimoniali raccolte dai russi non solo sono oggettive ma non sono neppure le uniche: infatti anche vari reportage di giornalisti stranieri che si sono recati a Douma confermano lo scenario che si va sempre meglio delineando. In particolare, il premio Pulitzer Robert Fisk, nella sua indagine giornalistica "La ricerca della verità tra le macerie di Duma" - tramite la testimonianza del dott. Assim Rahaibani - chiarisce che "i sintomi visti nei video sui pazienti trattati in realtà non erano altro che manifestazioni di stress respiratorio tra i rifugiati in un tunnel, polveroso e privo di ossigeno". Ad avvalorare ulteriormente questa versione è la stessa missione Opcw, che avendo fatto i propri rilievi nel Centro di ricerca di Barzeh di Damasco (uno degli obiettivi colpiti dai missili occidentali), non ha trovato alcuna traccia di componenti chimici proibiti. Alla luce di questi fatti, la posizione occidentale - benché si autodefinisca attivamente orientata alla ricerca della verità - sembra piuttosto rinchiusa in uno scetticismo di maniera, del tutto scollegato con ciò che accade. Insomma, tutte le evidenze disponibili dicono che un attacco chimico non è mai avvenuto, ma l’occidente si aggrappa sugli specchi e sta usando ogni mezzo per nascondere ancora la verità. Per far questo, Gran Bretagna e Usa hanno persino accusato Russia di aver scientemente fatto sparire le prove. In questo caso si gioca sull’ignoranza. Le tracce lasciate dagli agenti chimici letali non "spariscono" con una spruzzata di deodorante: essi vengono rilevati a livello molecolare con speciali procedure; di conseguenza, nascondere le loro tracce è praticamente impossibile. Si capirà allora da queste poche fosche "pennellate" le motivazioni che hanno indotto Mosca a organizzare la conferenza a L’Aja e nello stesso tempo, ciò che ha spinto i media e i rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e paesi dell’ Unione Europea a disertarla. È ormai chiaro che l’attenzione mediatica viene attivata solo per procurare nocumento al governo siriano. Altrimenti non si spiegherebbe la mancata copertura mediatica di fatti rilevanti, come la cruenta battaglia in corso dell’esercito siriano per liberare il quartiere Yarmuk (Damasco) dai terroristi dell’Isis o l’avvenuta liberazione della zona montuosa del Qalamoun Est dai jihadisti di Yaish al Islam. Silenzio mediatico anche sulla Ghouta liberata, mentre ora che i bisogni sarebbero davvero tanti, gioverebbe accendere le luci della ribalta e sentire finalmente i sentimenti della gente. Oblio anche sul rinvenimento di fosse comuni di soldati siriani e civili giustiziati a Raqqa ed a Ghouta, così pure di quelli morti di stenti e di torture nelle prigioni di Douma. Allo stesso modo, viene sottaciuto il tremendo sistema carcerario dei ribelli all’interno dell’enclave. La trattazione di questo argomento aprirebbe un altro capitolo. Basti solo sapere che nei luoghi di detenzione ci finivano le minoranze, i soldati catturati e i dissenzienti. Le prigioni avevano un duplice scopo. In primo luogo venivano usate per coercizzare all’indottrinamento religioso islamico radicale; in secondo luogo - tramite la tortura, gli stenti e le privazioni - veniva ottenuta l’assimilazione dei detenuti nei ranghi dei miliziani. I prigionieri avevano poche alternative tra il piegarsi e passare nelle file dei ribelli o la morte. Chi detenuto nel sistema carcerario principale - che si chiamava al-Tawba (Pentimento) - decideva di unirsi alle fila dei terroristi, veniva trasferito nella prigione di al-Kahf per ulteriore indottrinamento e addestramento militare. Per i soldati siriani catturati invece, la destinazione era il carcere di al-Batun, il più terribile di tutti gli altri. Dei tanti militari entrati in questa prigione pochi sono i superstiti. Tutti le migliaia di detenuti passati ad al Batun sono stati sottoposti a severe torture e molti sono stati giustiziati. Il posto per le donne era invece la prigione di al-Safinah e di al-Buq. È probabile che di tutto questo non sappiate nulla ma i giornali arabi sono anni che ne parlano ampiamente (vedi ad esempio qui e qui). Naturalmente l’assenza dei media occidentali a L’Aja, come pure la mancata rivelazione di cosa avveniva all’interno di Ghouta Est, è una colpevole negligenza. Ma è coerente con una precisa politica dell’informazione. Tutti i paesi occidentali sono contro la Siria e si agisce su due livelli: tramite il "soft power" di guerra e con le armi. Essendo in guerra è pericoloso far conoscere il parere dei siriani, i loro desideri e ciò che accade. Perciò buone le "prove" da set cinematografico caricate su Youtube dai White Helmet, come pure buone le testimonianze di tutte le varie Ong legate a doppio filo con i ribelli, destinate con la loro azione di propaganda ad aprire i paesi in crisi come noci mature: queste voci per l’occidente sono più importanti dei corpi dimenticati dei soldati e dei loro famigliari uccisi senza pietà e poi buttati nelle fosse comuni. Iraq. Processi farsa, a morte migliaia di miliziani Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 30 aprile 2018 È il momento della giustizia-vendetta contro i militanti di Isis e le loro famiglie catturati dall’esercito iracheno. A migliaia vengono processati e quasi tutti condannati dai tribunali del Paese, con un’attenzione particolare per gli stranieri (in maggioranza turchi, tunisini, russi, libici, algerini), che costituivano il nocciolo duro del Califfato. Non sono state diffuse statistiche ufficiali complete, mai detenuti con l’accusa di aver militato con Isis potrebbero essere circa 20 mila, compresi donne e bambini. Pare che oltre 1195 per cento dei processi termini con tre tipologie di sentenze: t5 anni di carcere, ergastolo e pena capitale per impiccagione. A chiedere sentenze rapide e soprattutto dure è anche il premier Haider al Abadi, che vede nella vittoria contro il Califfato uno degli argomenti destinati a facilitarlo alle elezioni del prossimo 12 maggio. A ben poco servono le denunce dell’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu, che parla di “aborto irreversibile della giustizia”, assieme alle condanne di Amnesty International e Human Rights Watch. Una politica però destinata a marginalizzare la popolazione sannita irachena, che spesso vede nella durezza delle condanne l’ennesimo atto ostile da parte del governo a maggioranza sciita. Fu proprio la repressione anti-sunnita preceduta dall’invasione americana del 2003 a generare le condizioni per la diffusione di Al Qaeda e poi Isis in Iraq e in seguito in Siria. Per molti aspetti c’era tuttavia da aspettarsi che i tribunali iracheni non avrebbero avuto alcuna pietà contro i seguaci di Abu Bakr al Bagdadi. Le immagini degli orrori commessi da Isis quattro anni fa con la presa di Mosul sono parte integrante della narrativa nazionale. AI Abadi sa bene che la notizia di ogni esecuzione gli porta consensi tra l’elettorato sciita e persino curdo. Così, l’inviato dell’Ap nel tribunale di Tel Keif, alla periferia di Mosul, testimonia di condanne a morte sentenziate dopo solo mezz’ora di processo, dove gli avvocati quasi non conoscono i loro clienti, con gli stessi imputati che parlano in aula di confessioni estratte con la tortura in celle al limite dell’umano. Undici donne sono appena state condannate all’ergastolo. Ai primi di aprile 12 donne turche e due azere sono state condannate a morte dal tribunale di Bagdad in meno di due ore. Corea del Nord. Non dimentichiamo i diritti fondamentali di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 30 aprile 2018 La Corea del Nord la fa franca. Nessun ispettore andrà a controllare le fosse comuni degli assassinati del regime. Nessuna diplomazia oserà chiedere conto della violazione sistematica dei diritti umani. Grande giubilo per i segnali di pace tra le due Coree (e qualche imbarazzo per chi era convinto che la presidenza Trump avrebbe provocato solo venti di guerra). Un incubo nucleare che si attenua, un dialogo insperato che si realizza, un inferno bellico che si allontana. Ma non uno, neanche uno dei commenti che cancellerie del mondo e le espressioni dell’opinione pubblica mondiale, sistema dei media in testa naturalmente, spende una parola per gli effetti che una sia pur relativa pacificazione può avere sui diritti umani scandalosamente oltraggiati in Corea del Nord. Ci interessa solo quello che ci tocca. Non ci interessa la sorte di chi vive in un gigantesco, orribile Gulag come è il regime nordcoreano gestito da dittatori da operetta, ma non per questo meno feroci. È l’ulteriore prova che nell’agenda internazionale il rispetto dei diritti fondamentali è totalmente sparito. L’universalità dei diritti, che tanto ha impegnato i cuori e il cervello di chi sognava un futuro migliore per le sorti della libertà nel mondo con l’impegno dell’Onu, è svanita. Le sevizie, le torture, le uccisioni di massa, le prigioni ridotte a luoghi di sopraffazione totale e senza limiti, tutto questo non entra nei negoziati. Viene cancellato dagli argomenti di interesse pubblico. I dissidenti e gli oppositori sono esposti al massacro senza che una sola voce si levi nel mondo. Un mondo ipersensibile alle minime violazioni della democrazia in casa nostra, ma del tutto indifferente al destino triste, disperato di chi vive in tirannie mostruose: come quella di Assad, il gasatore seriale del suo popolo che la fa franca perché garantisce stabilità e argine contro i nemici che potrebbero darci fastidio. Come il potere militare del Cairo, che riempie le cellule della tortura ma almeno allontana lo spettro dei Fratelli Musulmani, tiranni ancora peggiori. La Corea del Nord la fa franca. Nessun ispettore andrà a controllare le fosse comuni degli assassinati del regime. Nessuna diplomazia oserà chiedere conto della violazione sistematica dei diritti umani. Nessun comitato chiederà il rispetto delle garanzie che dovrebbero tutelare la libertà e la dignità di un popolo vessato e sfortunato. Sfortunato due volte, perché del suo destino non si occuperà nessuno nel mondo che ride di un dittatore grottesco, che sospira per la pace, ma non conosce più il rispetto dei diritti umani. I finti rimpatri dei Rohingya in Birmania di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 aprile 2018 Sarebbe falsa la notizia del rimpatrio dei primi cinque dei 7 mila rifugiati musulmani Rohingya, fuggiti dal Myanmar per sottrarsi dalle violenze perpetrate dai militari. Una nota del governo del Myanmar aveva riportato che cinque componenti di una famiglia erano rientrati nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh, nel villaggio di Maungdaw. Le autorità avrebbero fornito ai cinque un documento nazionale di accertamento, una sorta di carta d’identità senza l’indicazione di cittadinanza, fin dal 1982 negata ai Rohingya. Nella stessa nota non veniva specificato se altri rimpatri fossero stati programmati. Ma il Bangladesh smentisce su tutta la linea la versione birmana per bocca del ministro dell’Interno del Bangladesh Asaduzzaman Khan. La famiglia in questione non è mai stata nell’elenco dei profughi fuggiti dalla Birmania. “È una farsa del governo del Myanmar. Auspico fortemente che tutte le famiglie Rohingya possano tornare a casa il più presto possibile”, ha commentato il ministro al riguardo. Il Bangladesh ha fornito al Myanmar una lista contenente 8 mila nominativi per iniziare le operazioni di rimpatrio, soggette a ritardi per articolate procedure di verifica. Anche Abul Kalam, capo della Commissione rifugiati, soccorso e rimpatri, ha confermato come la famiglia non abbia mai attraversato il confine, motivo per il quale non si puo’ parlare di rimpatrio. “Nessun rimpatrio ha avuto luogo e il Bangladesh non è assolutamente coinvolto”, ha detto Kalam da Cox’s Bazar, teatro dell’accoglienza dei Rohingya in Bangladesh. A conferma delle parole dei rappresentati delle istituzioni del Bangladesh anche quelle di Asif Munier, esperto della crisi Rohingya per conto delle Nazioni Unite da diversi anni. “Si tratta di una continua messa in scena, il governo del Bangladesh e la comunità internazionale dovrebbero chiedere spiegazioni al Myanmar. Per via del processo bilaterale in corso e per il coinvolgimento delle Nazioni Unite questa mossa risulta assolutamente fuori luogo”, ha Munier. Le truppe militari birmane sono state accusate di stupri, uccisioni, torture e di bruciare i villaggi rohingya dopo i violenti scontri tra i ribelli e le forze di polizia dello scorso 25 agosto. Le Nazioni Unite e gli Stati Uniti hanno descritto quanto avvenuto come azioni di “pulizia etnica”. Dal 28 aprile una delegazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc) è in missione nei campi profughi Rohingya in Bangladesh. La squadra si recherà anche nello stato di Rakhine, in Myanmar, da cui circa 700.000 Rohingya sono fuggiti da una repressione militare lo scorso anno. Secondo l’Onu e numerose associazioni umanitarie, l’enclave Rohingya in Bangladesh sta diventando il più grande campo profughi al mondo. Dopo l’arrivo al Cox’s Bazar a sud del Paese, dove i Rohingya fuggiti vivono ora nei campi, i delegati visiteranno la capitale del Bangladesh, Dacca, e la capitale del Myanmar, Naypyitaw, per i colloqui con i funzionari del governo prima di recarsi a Rakhine martedì.