Carceri: se i dati smentiscono l’enfasi populista di Anna Toro unimondo.org, 29 aprile 2018 Sovraffollamento, spazi angusti, una sanità carente e disomogenea, criticità nel settore lavoro e formazione, ma anche diminuzione dei reati così come dei detenuti stranieri, nonostante l’isteria mediatica pre e post elettorale. Di questa e altre questioni si parla nel XIV rapporto sulle condizioni di detenzione curato da Antigone, associazione che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere. Un grande lavoro di elaborazione di dati, ma anche empirico (2 mila le visite in carcere effettuate negli ultimi vent’anni), con oltre 70 osservatori che negli ultimi mesi hanno visitato 86 carceri: 36 nel nord, dalla Valle d’Aosta alla Romagna, 20 in centro Italia e 30 tra il sud e le isole. Un punto della situazione, in attesa della legge che dopo oltre quarant’anni dovrebbe riformare l’ordinamento penitenziario, ma che giace ancora nei banchi del Parlamento. Definita “timida” ma pur sempre un passo avanti, la legge contiene secondo Antigone alcune innovazioni significative, tra cui: “L’equiparazione ai fini del trattamento medico e giuridico della malattia psichica a quella fisica, il miglioramento e la modernizzazione di alcuni aspetti della vita interna, il richiamo alle Regole Penitenziarie Europee, l’allargamento delle misure alternative, di gran lunga meno costose del carcere e più capaci di ridurre la recidiva e garantire la sicurezza della società”. Diminuiscono i detenuti stranieri. Il ritorno del sovraffollamento è una delle criticità segnalate da quest’ultima edizione del rapporto: tra il 31 dicembre 2015 e oggi, infatti, i detenuti sono cresciuti di 6.059 unità e oggi il tasso di sovraffollamento, che tiene conto della capienza ufficiale, è pari al 115,2%.Certo non siamo ai livelli del passato: sono trascorsi sei anni dalla storica sentenza Torreggiani, con cui la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per i trattamenti inumani o degradanti subiti dai detenuti in carcere. Allora erano oltre 65 mila i detenuti nelle carceri italiane, calate a poco più di 52 mila unità dopo la sentenza (anche e soprattutto per timore delle sanzioni). Passata l’emergenza, però, il dato ha ripreso a salire, arrivando a superare le 58 mila presenze al 31 marzo 2018, con una crescita di 6 mila unità in poco più di due anni. “Si tratta di una crescita difforme - spiega il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella - ma che in ogni caso non riguarda, come certa rappresentazione politica e mediatica vorrebbe farci credere, i detenuti stranieri”. È quello che Gonnella chiama “il grande bluff populista”: i numeri, infatti, rimarcano l’assenza di correlazione tra la grande crescita degli stranieri residenti in Italia - triplicati dal 2003 - e i detenuti stranieri, che al contrario negli ultimi dieci anni sarebbero diminuiti di 2 mila unità. “Che se lo mettano in testa tutti quelli che lanciano la caccia allo straniero criminale” continua Gonnella. Porta l’esempio della comunità rumena dove negli ultimi cinque anni i detenuti rumeni sono diminuiti di un terzo, grazie anche a un rafforzamento del patto d’inclusione. “Si volevano addirittura creare leggi ad hoc, come se essere romeni fosse di per sé una circostanza aggravante” commenta. Da segnalare anche l’esiguo numero delle persone detenute provenienti da Siria e Afghanistan, ovvero coloro che vengono in Italia perché scappano dalla guerra: “Significa che dove c’è un messaggio di attenzione alla persona, anche solo tramite la presa in esame della domanda di asilo, il patto di fiducia è in qualche modo ricambiato”. Allarme suicidi. Altra peculiarità, che di nuovo controbilancia l’enfasi populista, è l’andamento divergente tra il già citato aumento del numero dei detenuti e il numero dei reati denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria, che nel 2016 risulta essere il più basso degli ultimi 10 anni. Prendiamo ad esempio gli omicidi: tra il 2016 e il 2017 sono passati da 389 a 343, con una diminuzione dell’11,8 per cento. “Di questi 46 attribuibili alla criminalità e ben 128 consumati in ambito familiare/affettivo” si legge. Per quanto riguarda la custodia cautelare, il dato è in leggero calo rispetto all’anno scorso: la percentuale dei detenuti in attesa di una sentenza definitiva è del 34%. Di questi, i detenuti stranieri costituiscono il 37,7%, segno del permanere di alcune discriminazioni: disponendo di minori risorse economiche, linguistiche e sociali, hanno infatti minori possibilità di beneficiare di misure alternative. Senza contare che i mediatori culturali sono solo 223, ossia pari all’1,13%, ogni cento detenuti stranieri. Così come interpreti e traduttori sarebbero anch’essi in numero non sufficiente. Un dato positivo riguarda invece la messa alla prova, una delle riforme sperimentate per evitare il sovraffollamento: Antigone registra un aumento delle persone che ne usufruiscono, arrivate attualmente a 12.278. “Ci vorrebbe ora un grande investimento in risorse umane e sociali per far sì che i progetti vadano a buon fine” si legge nel report. Mentre continua a preoccupare il dato sui suicidi. Secondo le statistiche di Ristretti Orizzonti, nel 2017 sono morte in carcere 123 persone: di queste, 52 sono stati i suicidi, (48 secondo i dati dell’Amministrazione Penitenziaria), 7 in più rispetto al 2016. Sempre nel 2017, 1.135 sono stati i tentativi di suicidio e 9.510 atti di autolesionismo. “Abbiamo potuto verificare che nel carcere di Bollate, un istituto caratterizzato da un regime a “celle aperte”, i gli eventi critici sono marginali” commenta Antigone. È la cosiddetta sorveglianza dinamica, che insieme all’istruzione, alle attività scolastiche, culturali e di intrattenimento, può aiutare a rendere più tollerabile la vita delle persone ristrette, a volte anche in condizioni di sovraffollamento (con contestuale riduzione della recidiva). Certo, stato e gestione cambiano pesantemente da struttura a struttura, così come i servizi erogati, sanità compresa. Senza contare i più basilari diritti: in 10 istituti tra quelli visitati gli osservatori hanno trovato celle in cui i detenuti non avevano a disposizione la soglia minima di 3mq calpestabili, in 50 le celle erano prive di doccia, in quattro vi erano celle in cui il wc non era in un ambiente separato. Lavoro e istruzione. Per quanto riguarda l’istruzione, il report segnala che solo 1 detenuto su 5 va scuola in carcere. Il tasso di occupazione in carcere è del 30% (tra i liberi è il doppio, il 58%). Appena l’1,7% dei detenuti lavora dentro gli istituti per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. Gli altri (l’82%) sono impegnati nei servizi di istituto: pulizia delle sezioni, distribuzione del vitto, alcune mansioni di segreteria, scrittura di reclami e documenti per altri detenuti. “Si tratta di lavori svolti a turnazione e senza alcuna spendibilità nel mondo del lavoro esterno. Più che lavori dunque, occupazioni del tempo scarsamente retribuite”. Antigone, però, tiene anche a segnalare tre buone pratiche di sistema: il dialogo crescente tra le università e il carcere, con circa 300 detenuti iscritti; il teatro, attività molto presente e in genere ben vista dall’amministrazione penitenziaria, definita “un’esperienza di liberazione ed emancipazione, ma anche culturale”; l’informazione: dalla rassegna stampa di Ristretti Orizzonti, attraverso cui il mondo esterno conosce quello che accade nelle carceri, al programma radio Jailhouse Rock, fino alle varie riviste prodotte all’interno dei penitenziari. “Carceri, riforma urgente”, gli avvocati penalisti tornano in scioperano di Benedetta Centin Corriere del Veneto, 29 aprile 2018 Mercoledì e giovedì si asterranno dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale “per sollecitare una rapida e integrale approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario”, e costruiranno, anche attraverso la visione di un film, l’occasione per riflettere e confrontarsi sull’ergastolo, e in particolare sull’ergastolo ostativo, quello senza benefici. L’iniziativa è quella della Camera penale Vicentina che aderisce allo sciopero proclamato dalla giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, e che ha organizzato un interessante evento per il giorno 2, dalle 15, nella sala Lampertico dell’Odeon. Un incontro che si aprirà con il film “Spes contra Spem - Liberi Dentro” prodotto in collaborazione con “Nessuno Tocchi Caino”, presentato alla 73° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e alla Festa del cinema di Roma su impulso del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Una pellicola che raccoglie le voci di nove detenuti del carcere di Opera (Milano) condannati all’ergastolo ostativo, che hanno riconosciuto le loro terribili colpe, e pure le interviste del direttore della struttura e della polizia penitenziaria. Testimonianze dalle quali emerge che l’istituzione-carcere può rendere possibile il cambiamento e la riconversione di detenuti in persone autenticamente libere. Un tema che verrà affrontato nella tavola rotonda a seguire, moderata dall’avvocato Rachele Nicolin, presidente della Camera penale Vicentina. Ad intervenire, oltre al regista del film, Ambrogio Crespi, Sergio d’Elia, presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, Elisabetta Zamparutti, componente italiana del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, l’avvocato Annamaria Marin, presidente della Camera penale Veneziana e Daniela Zanferrari dell’Ordine degli assistenti sociali del Veneto. “L’evento mira a sensibilizzare anche l’opinione pubblica sull’ergastolo ostativo che è incompatibile con la costituzione che prevede espressamente che la pena, ogni pena, debba avere una funzione rieducativa” fa sapere Nicolin. Avvocati, sciopero il 2 e il 3 maggio dopo le mancate riforme ecostampa.it, 29 aprile 2018 Mobilitazione nazionale per riaffermare la necessità di rivedere le disposizioni sui detenuti. Non soltanto gli insegnanti ma anche gli avvocati incrociano le braccia. La giunta dell’Unione della Camere penali ha infatti deliberato l’astensione dalle udienze e da qualsiasi attività giudiziaria penale, secondo le modalità previste dalla normativa di settore, per i giorni 2 e 3 maggio. Proprio come gli insegnanti, secondo quanto disposto dal sindacato autonomo Anief. “Il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della Riforma penitenziaria nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari rende necessaria una ulteriore e immediata presa di posizione dell’Avvocatura penale, che unifichi e coordini gli sforzi di tutti coloro che si sono impegnati per l’attuazione della riforma spiega il presidente della Camera penale di Como e Lecco, avvocato Paolo Camporini. E di dover quindi porre in essere una mobilitazione nazionale, alla quale vorranno certamente aderire tutte le rappresentanze dell’avvocatura, per riaffermare, assieme a tutti coloro che in questi mesi si sono espressi a favore di una sollecita e integrale approvazione dei decreti, il forte dissenso dell’Avvocatura penale nei confronti di una politica che calpesta i diritti fondamentali dei detenuti, negando i principi propri della Costituzione e dei trattati internazionali da tempo sottoscritti dall’Italia”. Quindi, il rischio è che non ci saranno udienze penali almeno fino al 4 maggio. Resta ovviamente garantita l’assistenza agli imputati detenuti e ai processi con il rito direttissimo e alle udienze di convalida degli arresti. Il sistema di giudizi in flagranza e udienze di convalida di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 29 aprile 2018 Arresti, direttissime e rinvii: ecco come si può tornare in libertà dopo pochi giorni di carcere. La prima linea della Giustizia. Il supermarket dei delitti e delle pene. La fotografia del diritto “un tanto al chilo”. Piano terra di Palazzo di Giustizia, i corridoi hanno i nomi di donne dell’antichità: Aspasia, Lisistrata, Antigone. Chiamatela come volete, ma la legge passa soprattutto da queste stanze. A sostenere l’accusa nei processi per direttissima non ci sono pubblici ministeri ma “Vpo”, vice procuratori onorari: avvocati “prestati” alla Procura che rappresentano lo Stato. Ma è tutto in regola, e anzi, il codice penale viene applicato con aritmetica spietatezza, perché la legge nei casi più semplici, giuridicamente parlando, non lascia margini. È aritmetica del diritto. Uno dei due killer di Milano era stato arrestato sabato scorso per tentato furto. E già era libero. Ma come è stato possibile? La riposta è scritta nel Codice di procedura penale agli articoli 449 e 391, sull’arresto e il giudizio in flagranza e sull’udienza di convalida. Si possono aggiungere anche gli articoli 273 e 274 sulle misure cautelari, ossia sulla possibilità di tenere in cella in attesa di giudizio la persona arrestata. Per capire in cosa si traduca tutto questo è meglio partire dalla pratica. Dalla storia di un cingalese di 29 anni fermato 22 volte negli ultimi 12 mesi sempre per lo stesso reato: furto in supermercato. In due casi c’erano i presupposti per l’arresto, negli altri 20 se l’è cavata con una denuncia a piede libero, che evita le manette ma non estingue il reato che inizia il suo iter giudiziario. Il 4 settembre scorso il cingalese è stato arrestato dalla polizia: aveva rubato 8 confezioni di tonno Rio mare, totale 79,92 euro. Gli agenti lo hanno portato in Questura, foto-segnalato e chiuso in una camera di sicurezza. La mattina successiva è comparso in direttissima. Il giudice ha ascoltato la relazione del “Vpo”, ha interrogato gli agenti che lo hanno fermato e ha convalidato l’arresto. L’avvocato difensore ha chiesto “i termini a difesa”, un rinvio per preparare appunto la difesa e chiesto un “rito alternativo”. Dal 5 settembre, l’udienza è stata rinviata al 24 novembre. Nel mentre il giudice ha disposto la scarcerazione immediata e la misura cautelare del divieto di dimora a Milano. Il reato è stato derubricato da “furto aggravato” a tentato furto: pena massima sotto i 5 anni, quindi come previsto dal Codice niente carcere preventivo come aveva chiesto il “Vpo”. Il 7 ottobre, il 29enne viene di nuovo arrestato dai carabinieri del Radiomobile: furto di due confezioni di caffè Lavazza, 10,20 euro. L’indomani dopo una notte in camera di sicurezza, è di nuovo davanti al giudice: arresto convalidato, udienza rinviata. Nel frattempo, il 24 novembre, viene condannato per il primo furto: 2 mesi, 20 giorni e 200 euro di multa. Pena sospesa perché sotto ai due anni. Poi arriveranno le altre condanne, ma senza la possibilità di applicare misure cautelari l’imputato resterà libero. Almeno fino al cumulo di tutte le “piccole pene”, ossia quando verranno sommate tutte le condanne. A quel punto, magari a distanza di anni dai fatti e quando potrebbe aver ormai smesso di delinquere, l’uomo potrebbe tornare in cella per pagare ogni debito con la giustizia. Nuove mafie, il convegno del Lapec di Barbara Alessandrini L’Opinione, 29 aprile 2018 Tutto è ormai da considerare mafia? La tentazione della giurisprudenza, salvo alcune voci autorevoli di esperti e accademici di Diritto penale oltre che dell’avvocatura penale, e nemmeno tutta, oltre che dell’opinione pubblica e dell’informazione, si muove in questa direzione. Un’indicazione confermata anche dalla recente pubblicazione del terzo rapporto regionale sulle mafie nel Lazio. Ormai si parla di mafie al plurale come gemmazioni di ciò che i cittadini e la norma penale hanno finora declinato al singolare, in una monolitica categoria concettuale e comportamentale in cui rientrano anche la ‘ndrangheta e la camorra. Mafie, dunque. Più “contenute” per numero di presunti affiliati e delocalizzate. Questione di lana caprina? Non proprio, in questo dettaglio grammaticale si annidano le nuove sfide, le difficoltà interpretative e le frizioni tra la prassi della giurisprudenza e la legge, nell’identificazione dei requisiti necessari per riconoscere e piegare condotte criminali cui si attribuisce una fluida delocalizzazione e variabilità di dimensioni rispetto all’associazione mafiosa prevista nell’articolo 416 bis del Codice penale. Nella cui fattispecie però sono fatte rientrare. Anche se alcune sentenze della Cassazione, come anche il primo parere del tribunale di Roma nel processo romano “Mafia Capitale”, hanno mandato in fibrillazione le certezze di chi punta sulle evoluzioni interpretative. Importanti indicazioni su quanto possa rivelarsi fallace considerare condotte lontane dalla casa madre e diverse per numero di “partecipanti” solo una variazione di colore del conosciuto fenomeno dell’associazione mafiosa e su come l’estensività del termine “Mafia” e del reato 416 bis rischi di avere ricadute negative sulla società e su altri temi cruciali del diritto penale determinanti per lo sviluppo della società, però, ci sono arrivati dal convegno (il quinto in quattro anni) organizzato la scorsa settimana dal Laboratorio permanente per l’esame incrociato e per il giusto processo (Lapec, fondato dall’avvocato Ettore Randazzo e ora guidato dall’avvocato Valerio Spigarelli e di cui gli avvocati Cataldo Intrieri e Sabrina Lucantoni sono la preziosa anima organizzatrice) e intitolato: “Tra legislazione e giurisdizione: nuove prospettive del diritto penale”, in collaborazione con il dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Roma “La Sapienza”. Un’occasione di confronto/scontro dialettico sull’interpretazione della norma in relazione ad alcuni degli aspetti più critici e importanti del diritto penale moderno. E l’idea, più che il sospetto, emersa dal confronto tra in partecipanti: Parlare di mafie al plurale come tendere a far confluire il più ampio spettro di condotte criminali nell’imbuto dell’associazione mafiosa con il conseguente innalzamento del carico penale è una risposta rassicurante per l’opinione pubblica e anche un tentativo di contrastare in modo esemplare i più disparati fenomeni di delinquenza anche contro la Pubblica amministrazione, con gli strumenti investigativi e sanzionatori del 416 bis. Per ora, però, il tentativo di collocare “Mafia Capitale” nei binari dell’esemplarità meritevole della legislazione antimafia si è al momento inceppato. Per il futuro, chissà. Certo è che buona parte della partita si gioca sui punti di contrasto e frizione tra norma e interpretazioni della giurisprudenza e che l’approccio dovrà presto affrancarsi da facili semplificazioni. Come quella di cui ha dato prova il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, che in occasione del terzo rapporto sulla mafia nel Lazio con quel suo “Bisogna aver paura solo dell’omertà” pronunciato mentre la prefettura esprimeva il timore che il cambiamento del codice antimafia possa annacquare le attività di contrasto. La politica è ovviamente solo una faccia del più vasto problema legato a quello spostamento del principio di legalità prodotto da certa giurisprudenza che con interpretazione estensiva dell’associazione mafiosa esprime la volontà diffusa di far evolvere i modelli sulle mafie. L’opinione pubblica preme e le forze politiche più populiste lucrano dalla prassi di saldare le pene al consenso popolare e non invece alla Costituzione e ai codici. Non resta che cercare di capire su quali punti si consumano le frizioni tra legge e giurisprudenza e quanto possa rivelarsi dannoso diluire il significato di Mafia rendendola ravvisabile in qualsiasi condotta delinquenziale. Evoluzione, è bene ripeterlo, di cui la mafia stessa si gioverà poiché se tutto è mafia ne sarà progressivamente attenuata proprio la fattispecie nociva. Il confronto è appena iniziato, come spiegato dal professor Cesare Pinelli e “il conflitto tra giudice e legge è sempre aperto, soprattutto in rapporto alle garanzie costituzionali dei diritti”. Il ventaglio degli argomenti delicati se si parla di nuove mafie, è ampio e significa interrogarsi sulla scelta di considerarle reato di pericolo o di danno, sul valore e il grado da assegnare a requisiti come la capacità di sprigionare forza intimidatrice e l’offensività, e a formule come quel “si avvalgono” per delineare la partecipazione mafiosa, sulla necessità che la percezione del fenomeno sia diffusa e culturalmente percepita, sul peso più o meno prioritario e discriminante delle massime di esperienza, della sulla tipicità nella configurazione del reato 416 bis e quando mettere in discussione il principio di offensività. Quesiti su cui, come spiegato da Spigarelli, “dovrà concentrarsi lo sforzo di tutte le componenti della giurisdizione per trovare in questo momento storico parole comuni per confrontarsi con una legislazione priva della necessaria attitudine tecnica e sia dei rudimenti base per affrontare problemi di carattere penalistico posti dalla realtà contemporanea”. Tanto più se si affrontano i fenomeni mafiosi dato che “usando sempre più spesso mafie e non più mafia si declina questa parola in diversi significati a cui la giurisprudenza ha avuto un ruolo trasformando l’interpretazione dell’articolo 416 bis e ampliandone il ventaglio rispetto a fenomeni criminali e socio criminali prima non compresi nel campo di applicazione della norma”. Sull’applicazione della norma è la dottoressa Sandra Recchione che dalla Cassazione fa l’inquietante premessa che vede nella mafia la manifestazione criminale più tipica degli esseri umani tanto forme mafiose sono diffuse in moltissimi Paesi, ritenendo sufficienti e imprescindibili elementi di prova del 416 bis le cosiddette massime di esperienza e un preesistente capitale criminale tipico del consorzio criminale che, insomma, alla fine nemmeno deve esser provato, quindi non c’è necessità di evidenze di forme di intimidazione nel nuovo territorio colonizzato. Ma siccome il diavolo ci mette sempre lo zampino, diversamente, per alcune sentenze di Cassazione, ogni volta che la mafia si trasferisce in nuovi territori è nuova e quindi si impone la prova della effettiva intimidazione. Più restrittivo il professor Piero Gaeta sul principio di legalità convinto che la gradazione di “offensività del fenomeno”, a suo avviso l’unico piano su cui si gioca la partita, solo in parte venga dal legislatore e che alle nuove mafie e mafie delocalizzate si debba applicare lo stesso approccio giurisprudenziale accolto con l’associazione per terrorismo 270 bis: “Nessuno mai - ha detto Gaeta - rifiuta l’assunto che non esistano concentrazioni stabili su territorio nazionale; è la cellula, mobile, territoriale e liquida l’unica con cui ci si confronta. E anche una sola azione di supporto ad azioni terroristiche di una cellula configura l’associazione per terrorismo”. Non ci sta proprio, invece, il professor Costantino Visconti. L’offensività, “maneggiata dalla giurisprudenza come una sorta di intimidazione autoreggente e aggravante del vincolo associativo, invocata ovunque per aumentare il carico sanzionatorio va intesa come requisito per restringere, non per allargare la fattispecie”. È pensabile dare l’aggravante senza che vi sia minaccia? Traducendo, è, ad esempio, da condannare qualcuno soltanto perché costretto al rituale di affiliazione se nella vita si dedica ad attività assolutamente lecite? Scontato quale sia il pensiero di Visconti a cui si unisce l’avvocato Giuliano Dominici che, parlando di piccole e nuove mafie, di fronte a un pubblico studentesco, ha pensato di ricorrere a un efficace linguaggio fiabesco per rilevare un altro elemento decisivo: “In che termini funziona l’esportazione del modello in realtà autoctone in cui viene contestato? Perché il vestito del 416 bis è stretto, fatica ad adattarsi ai fenomeni e condotte poliedriche e se la forza di intimidazione non deve necessariamente tradursi nel controllo di un’area per delineare quel reato, se il 416 bis può riguardare piccole mafie con basso numero di appartenenti e una sola condotta può esprimere il vincolo associativo che si può manifestare con mezzi semplici come minacce a soggetti non in grado di difesa, che non è necessaria la presenza di omertà permanente ma sufficiente che la forza del sodalizio possa ingenerare l’omertà, c’è un’evidente forzatura nel trasformare un’associazione semplice in associazione mafiosa”. Ma anche, avverte Dominici, “l’Europa già una volta, di fronte al reato di creazione giurisprudenziale del ‘concorso esterno in associazione mafiosà ci ha mostrato che il re era nudo”. E se “il principio di legalità subisce uno spostamento con questa interpretazione estensiva che fa evolvere i modelli sulle mafie e ne diluisce il significato”, di fronte a un legislatore che crea fattispecie e giurisprudenza che ne crea altre modificando la legge, c’è da domandarsi se “l’Europa non punterà presto nuovamente il dito sulla incongruità tra norma e giurisprudenza delle sentenze dicendoci un’altra volta che il re è nudo”. Mentre sullo sfondo, nel frattempo, si staglierà lo sgomento di qualche ex “reuccio” dell’associazione a delinquere che, con sentenza definitiva alla mano, si ritroverà invece “promosso” al 416 bis. Le prospettive in cui il diritto penale si approccerà al fenomeno delle nuove mafie e i suoi sviluppi sulla nostra società sono in buona parte affidate alle parole del vice presidente della Camera penale di Roma, Vincenzo Comi: “È importante che tutti i soggetti coinvolti nell’attività giurisdizionale e nello svolgimento del processo seguitino a confrontarsi per rafforzare la qualità professionale”. Anche quella di una politica e di un’informazione più competente e capace di ammansire, non di cavalcare, le aspettative della pancia dell’opinione pubblica. Ne abbiamo tutti bisogno. Record di Comuni sciolti per mafia, sono già 12 da inizio anno di Andrea Fioravanti La Stampa, 29 aprile 2018 A questo ritmo il 2018 sarà l’anno peggiore da quando esiste la legge. Nove su dieci sono in Campania, Calabria e Sicilia. I sindaci: “la norma del 1991 è troppo severa”. La mafia uccide solo d’estate ma si infiltra nei piccoli Comuni italiani tutto l’anno. L’allarme l’ha lanciato Avviso pubblico, associazione di enti locali per la formazione civile contro le mafie. Solo nei primi quattro mesi del 2018 il Consiglio dei ministri ne ha già sciolti dodici. Gli ultimi cinque, il 26 aprile, tutti nel Sud Italia. Tra questi ci sono anche Platì, in provincia di Reggio Calabria, già sciolto quattro volte per infiltrazione mafiosa e Limbadi, nel vibonese, dove lo scorso 9 aprile un’autobomba piazzata su una Ford Fiesta uccise Matteo Vinci che aveva denunciato la sorella di un boss dopo una lite per questioni di vicinato. Dal 1991 a oggi sono stati 308 gli enti locali commissariati per infiltrazioni mafiose. Più di un terzo negli ultimi sei anni (101). Solo l’anno scorso sono stati 21, ovvero una media di due scioglimenti al mese. E se il buongiorno si vede dal mattino, a questo ritmo il 2018 rischia di superare il record storico di Comuni sciolti: 34 nel 1993. In quell’anno ci furono sette attentati mafiosi, tra cui uno agli Uffizi di Firenze che provocò cinque morti. Oggi la situazione è diversa ma rimane l’emergenza. E la legge, nata in un momento storico particolare, rischia di non essere più efficace così com’è. Il governo Andreotti VII la approvò nel maggio del ‘91 per sciogliere il Comune di Taurianova (Rc) dove era in corso una faida tra bande mafiose che aveva portato alla morte del salumiere Giuseppe Grimaldi, la cui testa era stata lanciata più volte dai suoi killer nella piazza del paese. Una scena che aveva fatto rabbrividire l’opinione pubblica italiana. La procedura di scioglimento è stata una misura adatta per l’emergenza delle bombe di Cosa Nostra tra il ‘92 o ‘93, ma oggi rischia di essere troppo drastica per affrontare un problema diventato costante. “Servono altre misure intermedie e graduali per reintrodurre il Comune sciolto alla democrazia. Lo scioglimento deve essere solo un atto estremo per risolvere una situazione irrimediabile perché crea sempre un trauma finanziario e operativo per l’ente che lo subisce. Il rischio è che poi il Comune ci ricaschi, come è successo a Platì”, dice Roberto Montà, sindaco di Grugliasco (To) e presidente di Avviso Pubblico. “A volte è meglio usare un cartellino giallo invece di uno rosso per cambiare un comportamento. Il prossimo governo dovrebbe riformare quella legge approvata in pochi giorni perché scioglie il consiglio comunale ma rimane intatta la struttura amministrativa. La vera gestione degli appalti e dei bandi non le fanno i politici, ma i dirigenti amministrativi”. Il 92% degli scioglimenti di questi 27 anni è avvenuto in Campania, Calabria e Sicilia, ovvero le tre regioni delle principali organizzazioni criminali operanti in Italia. Ma dal 2011 sono stati commissariati anche otto enti locali nel centro e nord Italia tra Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna e Lazio. Da decenni ormai la mafia è un fenomeno nazionale, ma nell’immaginario comune pensiamo che le cosche agiscano solo nelle grandi città. Le serie tv ci fanno vedere le bande mafiose mentre si contendono le periferie di Napoli e Roma o si uccidono a colpi di mitra nel centro di Palermo. “Ma ormai le organizzazioni criminali scelgono sempre più i comuni medio piccoli per i loro affari. Perché queste amministrazioni gestiscono allo stesso modo delle grandi città gli appalti, i bandi e i finanziamenti ma hanno strutture più fragili perché hanno bacini elettorali minori e più influenzabili” conclude Montà. Caso Cucchi, chiesta nuova maxi perizia nel processo d’appello per i medici di Elisabetta Francinella velvetnews.it, 29 aprile 2018 È stata chiesta una nuova perizia per accertare il nesso tra le condotte colpose, già accertate, e la morte di Stefano Cucchi. La richiesta è stata formulata dall’accusa nel terzo processo d’appello ai cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini. Una nuova perizia è stata richiesta per accertare il nesso tra le condotte colpose, già verificare, e la morte di Stefano Cucchi, il geometra romano deceduto il 22 ottobre del 2009 durante la custodia cautelare dopo essere stato arrestato per droga. La richiesta è stata avanzata dal pg Arcibaldo Miller nel terzo processo d’appello ai cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, in cui fu ricoverato il giovane detenuto. Ad essere imputati sono il primario Aldo Fierro, i dottori Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. I giudici della II Corte d’Assise d’Appello, presieduta da Tommaso Picazio, come riporta Il Fatto Quotidiano, dopo aver ascoltato gli interventi delle parti civili, tra cui il Comune di Roma e Cittadinanzattiva - Tribunale per i diritti del malato, e dei difensori degli imputati, ha aggiornato l’udienza a metà maggio per ascoltare gli ultimi avvocati. Nella stessa data è prevista, al termine dell’udienza, il ritiro della Corte in camera di consiglio così da poter stabilire se riaprire l’istruttoria dibattimentale e eventualmente con quali modalità. Gli avvocati difensori si sono detti contrari all’ipotesi di una nuova perizia, mentre Cittadinanzattiva, come riporta Il Fatto Quotidiano, l’ha considerata una subordinazione alla richiesta formale di sentire alcuni periti o medici. Attesa è dunque la decisione in merito della Corte. Cresce la tensione per questa complessa vicenda che vide i medici inizialmente portati a processo per l’accusa di abbandono d’incapace. I dottori vennero condannati in primo grado, nel giugno del 2013, per omicidio colposo. In appello vennero assolti. La Cassazione intervenne e rimandò indietro il processo e i nuovi giudici confermarono l’assoluzione. Successivamente la Cassazione intervenne nuovamente, rinviando a un altro processo. Napoli: Poggioreale, detenuto in coma. I familiari: “vogliamo la verità” di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 29 aprile 2018 L’uomo è ricoverato nella terapia intensiva dell’ospedale San Paolo. È giallo per un detenuto del carcere di Poggioreale che da ieri si trova in coma nella terapia intensiva dell’ospedale San Paolo di Fuorigrotta. L’altro giorno le sorelle del detenuto si sono rivolte a Pietro Ioia (ex detenuto e attualmente presidente di Detenuti Organizzati Napoletani) denunciando di aver visto il loro fratello ricoverato in ospedale in condizioni precarie con la frattura del setto nasale e varie ecchimosi sul corpo. Racconta loia: “Le due donne mi sono apparse molto disperate, perché andando in visita dal fratello nel carcere di Poggioreale stato loro riferito che il detenuto era ricoverato al padiglione Palermo del ospedale Cardarelli. Sono andate di corsa all’ospedale per avere notizie del fratello ma ovviamente hanno dovuto chiedere il permesso agli agenti penitenziari. I familiari del detenuto - racconta ancora Ioia - con molta insistenza hanno chiesto di parlare con un medico del reparto, ricevuti dal medico, viene loro riferito che il fratello è stato ricoverato per una frattura del setto nasale e vari ematomi su tutto il corpo. Alla domanda dei familiari, se il loro parente fosse stato picchiato, il medico risponde di non saperlo”. A quel punto Ioia si attiva: “Ho chiamato al telefono la nuova direttrice del carcere di Poggioreale, Maria Luisa Palma che molto gentilmente, si è attivata per avere notizie del detenuto, che da pochi giorni entrato nel carcere di Poggioreale al padiglione Roma”. Il detenuto - incarcerato per un residuo di pena di otto mesi - sarebbe stato subito “assalito da forti malesseri e da crisi epilettiche procurandosi la rottura del setto nasale ed ematomi su tutto il corpo”. loia ha chiesto urgentemente un permesso di colloquio per i familiari per andarlo a trovare ed accettarsi delle sue condizioni di salute. L’altra mattina le sorelle e i figli del detenuto sono andati a trovarlo nel padiglione Palermo del Cardarelli e lì l’avrebbero visto in forte sofferenza. Ieri mattina infine l’epilogo drammatico: “il detenuto viene trasferito di nuovo in carcere - continua Ioia - e poi riportato d’urgenza in ospedale questa volta al San Paolo di Fuorigrotta in stato di coma e ricoverato in terapia intensiva”. Cosa è accaduto? Se lo chiedono le sorelle e i figli dell’uomo che vogliono vederci chiaro. Hanno contattato l’avvocato Raffaele Minieri al quale conferiranno mandato per esperire tutte le azioni legali e capire cosa sia accaduto al loro congiunto. “Speriamo innanzitutto che possa uscire dal coma e riprendersi - commenta Pietro Ioia - su questa vicenda occorre fare chiarezza e chiedo a tutti gli organi dello Stato di fare fino in fondo il proprio dovere per accertarsi cosa abbia provocato il primo ricovero del detenuto e il secondo in stato di coma”. Della vicenda verrà messo a parte anche il Garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello. Va detto che con le due ultime direzioni nel carcere di Poggioreale sono stati fatti importanti passi in avanti dal punto di vista della trasparenza. Sia l’attuale direttrice che il precedente direttore hanno inoltre agevolato le visite delle associazioni che si occupano di diritti umani e di diritti dei detenuti. Napoli: in morte di Emanuele, 19 anni, “dimenticato” di Ponticelli di Maurizio Patriciello Avvenire, 29 aprile 2018 “Pisellino” è morto. È stato ucciso. A Napoli, al quartiere “Conocal” di Ponticelli. Uno di quei quartieri dove la vita la strappi con le unghie sottraendola agli altri. Aveva 19 anni, Emanuele Errico, bambino diventato adulto senza mai essere stato giovane. Per lui non ci saranno manifestazioni, non sarà proclamato il lutto cittadino. Si, perché Emanuele, agli arresti domiciliari, girava attorno al mondo della malavita. Quel mondo, cioè, che in questi quartieri permette la sopravvivenza di tante famiglie. Quartieri tirati su e poi lasciati a se stessi. Volutamente. Lo sanno anche i bambini che dove il gatto non c’è iniziano a danzare i topi. E in questi orribili quartieri lo Stato ha deciso di abdicare ben sapendo che il vuoto sarebbe stato riempito presto. e non da persone qualsiasi ma dai nemici dello stesso Stato, della civiltà, del buonsenso. Della legalità, della normalità, della serenità. E vivere diventa un incubo. Un mondo sottosopra dove ben presto prende il sopravvento una logica altrove assurda. Come negli antichi ghetti, nelle carceri, nelle comunità isolate, si creano mentalità, linguaggi, valori e comportamenti particolari. Una sorta di mondo nel mondo. Occorre iniziare dalle piccole cose; ciò che non è permesso altrove non deve essere tollerato in questi quartieri. È importante. I bambini, i ragazzi, i giovani, nemmeno per un attimo, debbono illudersi di essere al di sopra della legge. Aiutiamoli. Oggi. Andiamo incontro a questa nuova e bella umanità, offriamole qualche possibilità, strappiamola dalle grinfie degli sfruttatori senza scrupoli e senza pietà. “Pisellino” aveva solo pochi anni in più di Alfie, il bambino che sta commuovendo il mondo. Chiedo la carità di una lacrima e di una preghiera anche per lui. E per tutti i piccoli sparsi nelle nostre periferie. Senza futuro, senza un traguardo. Sfruttati, ingannati, strumentalizzati. Lanciati come esche per le strade a fare gli interessi di altri. Sono loro a pagare il prezzo più alto, sono loro ad essere acciuffati, sono loro a finire facilmente in carcere. Sono sempre loro a finire molto presto al camposanto. Quante notizie dolorose in questi giorni. Nel quartiere dove sono parroco, insieme ai narcotrafficanti è stato tratto in arresto un carabiniere che da anni lavorava sul territorio, Lazzaro Cioffi, detto Marcolino. La gente è rimasta sgomenta. Marcolino faceva affari con i malviventi? E come ha fatto a rimanere per decenni al suo posto? Caivano, il comune in cui sono parroco, è stato sciolto in questi giorni per infiltrazioni mafiose. Mafia nelle istituzioni. Istituzioni corrotte. Politica incapace. Città allo sbaraglio. Ma chi deve farsi carico di questa umanità emergente che ha il diritto a vivere e ad essere felice? Chi andrà incontro a queste folte schiere di ragazzi prima di cadere prigionieri della malavita? Lo abbiamo detto e ripetuto, le leggi debbono essere osservate fin da bambini. Ciò che vale altrove deve valere anche al Parco Verde, a Scampia, al Conocal di Ponticelli. Nessuna zona franca. Stessi diritti per tutti, ma un occhio particolare e benevole per chi parte svantaggiato. Non lasciamo sola la mamma di Emanuele a piangere suo figlio. In qualche modo questa morte ci interpella, ci chiama in causa. Per la verità, ci accusa. “Liberiamo” i bambini di questi quartieri a rischio. Facciamolo insieme, prima che la mentalità del ghetto venga da loro assimilata. Facciamoli sentire cittadini italiani, cittadini del mondo. Attrezziamoli per affrontare la vita senza essere costretti a bussare alla porta del boss, tante volte, unica “istituzione” presente sul territorio capace di rispondere ai loro immediati bisogni. Si può digiunare un giorno, due, forse tre, poi bisogna mangiare. E quando il pane onesto non si trova, tanti ricorrono ai forni della malavita. E inizia la discesa verso gli inferi. Perché quel pane sarà sempre pane avvelenato. Pane che non sazia, pane velenoso. Pistoia: giustizia lumaca, l’avvocata protesta con lo sciopero della fame Il Tirreno, 29 aprile 2018 Elena Baldi ha iniziato il 19 aprile il digiuno: “Tempi infiniti, abbiamo il dovere di reagire a un sistema che rischia di degenerare”. Presentare un ricorso per una separazione o per lo scioglimento del matrimonio nei primi giorni di quest’anno e vedersi fissare l’udienza di comparizione a luglio 2019. Oppure presentarlo a febbraio 2018 e dover comparire davanti ai giudici il prossimo anno. Al tribunale di Pistoia la realtà è questa. E anche in quello di Prato. Eppure quelli richiesti si chiamano provvedimenti d’urgenza. Un appellativo giustificato dalla delicatezza della materia e dalla fragilità dei soggetti coinvolti. “Dovrebbero essere fissati e tenuti in tempi strettissimi (giorni, al massimo qualche settimana) - spiega l’avvocata Elena Baldi, del foro di Pistoia - ed invece dobbiamo attendere oltre un anno, a discapito degli interessi primari delle persone e della dignità ed onorabilità della Giustizia”. Ed è nel nome della Giustizia che l’avvocata Baldi ha iniziato ormai da una settimana uno sciopero della fame, che giunge oggi al suo settimo ed ultimo giorno. Una protesta non violenta, non certo contro i giudici del tribunale di Pistoia, vittime anche loro delle decisioni che vengono prese a livello romano, ma, appunto, “contro il disinteresse o l’incapacità del nostro sistema - spiega - a fornire mezzi, uomini e risorse che permettano agli operatori (avvocati, magistrati, impiegati, consulenti) di contribuire in modo effettivo al perseguimento della Giustizia che oggi, purtroppo, è sempre più spesso un vuoto contenitore”. Da una settimana, solo acqua e tè, spinta dalla determinazione che, nell’avvocata Baldi, specializzata nelle cause di diritto di famiglia, nasce dalla consapevolezza che in una materia così delicata la rapidità della giustizia coincide spesso con la possibilità di evitare che certe situazioni di conflitto finiscano in tragedia. “Quando assisti una parte in una separazione o un divorzio - spiega - non sempre riesci a trovare un accordo con la controparte e a depositare un ricorso congiunto, consensuale. Spesso ti trovi casi cosiddetti al limite, con bambini piccoli da tutelare, madri senza lavoro, violenze psicologiche che si ripercuotono sui figli, padri che non riescono a vedere la prole, convivenze tese che rischiano di degenerare in reati gravi. Lo strumento che abbiamo a disposizione è il ricorso giudiziale che permette (o meglio dovrebbe permettere) di avere un’udienza a breve davanti al presidente del tribunale, il quale, sentite le parti, adotta provvedimenti d’urgenza nell’interesse dei figli e dei soggetti cosiddetti deboli: assegnazione della casa coniugale, assegno di mantenimento, regolamentazione dei tempi e modi di visita tra genitori e figli...”. Questi provvedimenti, secondo la legale pistoiese, spesso non piacciono a nessuna delle parti ma segnano il confine dal quale partire per evitare il peggio: “L’assegno non è alto? Ma almeno è stabilito. I figli stanno poco con uno dei genitori? Ma almeno ci sono le regole da seguire e si evita lo scontro tra le parti. I provvedimenti presidenziali aprono la strada ad una causa lunga ma debbono intervenire subito, immediatamente, velocemente, senza perdite di tempo. Oggi purtroppo per ottenere un’udienza presidenziale occorrono dai 12 ai 16 mesi. E nel frattempo? Non ci sono garanzie per il mantenimento della prole, la convivenza diventa forzata, nessuno molla e in questa Babilonia volano schiaffi, offese ma anche reati più pesanti. In questo caos le parti deboli non hanno tutela né regole e tutti ne fanno le spese, in particolar modo i figli. Tutti possono fare tutto, senza rispetto e molte volte con un solo fine: colpire l’altro, che va annientato se ti ha tradito, distrutto o semplicemente fatto soffrire”. Una situazione in cui gli avvocati hanno, secondo Elena Baldi, il dovere di alzare la voce, hanno l’obbligo di farsi ascoltare, pretendendo udienze (quanto meno la prima) e provvedimenti emessi celermente: “In questa situazione i legali, che traghettano queste anime nei difficili meandri “del separare con il codice ciò che si è unito con l’amore”, devono pretendere il rispetto delle parti che assistono. Ma sento tanto silenzio, troppo silenzio, un assordante silenzio che porta spesso a fatti criminali. Noi avvocati abbiamo il compito ed il dovere di reagire ad un sistema che rischia di degenerare, altrimenti siamo complici di ciò che accade”. E lei ha reagito. Con il suo sciopero della fame. Che è servito a riportare l’attenzione (lo testimonia anche l’intervista in diretta di due giorni fa a Radio Radicale) sul problema, che non è solo del tribunale di Pistoia e di quello di Prato ma è comune a quasi tutti quegli italiani. “È dimostrato - conclude - che le riforme, le leggi, i codici senza un adeguato supporto materiale non possono funzionare. Io spero di poter dare un piccolo segno che potrebbe diventare un segnale se altri operatori aderissero all’iniziativa”. E in questi giorni sono stati centinaia i messaggi di solidarietà arrivati da colleghi di tutta Italia. Padova: falsi certificati in carcere, un altro medico nei guai di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 29 aprile 2018 A processo il dottor Antonio Morea di Villafranca e due secondini del Due Palazzi Ma nell’inchiesta sono coinvolti in tutto quattro sanitari e 16 agenti del carcere. Sedici agenti di polizia penitenziaria in servizio nella casa di reclusione Due Palazzi (il grattacielo riservato ai condannati in via definitiva) e quattro medici di base: sono i “numeri” dell’inchiesta che sta svelando come, dietro a certificati di assenza dal lavoro firmati dai sanitari, non c’erano le malattie dichiarate ufficialmente. Anzi, non c’era nessuna malattia: quei documenti servivano solo per trovare tempo da occupare in altre attività (di lavoro o dedicate al tempo libero). E altri tre sono finiti a processo. Il Gup padovano Domenica Gambardella ha rinviato a giudizio il dottor Antonio Morea, 60 anni di Villafranca (difensore il penalista Piero Longo) e gli agenti Giovanni Genova, 39enne di origine siciliana (avvocato Fabio Targa), e il collega Felice Mangini (avvocato Eleonora Danieletto). I reati contestati? Concorso nella violazione dell’articolo 55 quinquies della legge Brunetta sul Pubblico impiego per avere presentato certificati medici che attestavano false malattie (in quanto inesistenti). E in truffa aggravata ai danni dello Stato avendo indotto in errore l’amministrazione penitenziaria e incassato gli stipendi non dovuti. In particolare l’articolo 55 quienquies punisce il lavoratore dipendente di una Pubblica amministrazione che giustifica l’assenza dal servizio con una certificazione medica falsa. Falsa perché attesta una condizione patologica che, in realtà, non esiste. La norma punisce pure il medico “complice” che, in caso di condanna, rischia come sanzione disciplinare la radiazione dall’Albo e, se convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, il licenziamento per giusta causa o la decadenza dalla convenzione. Per gli stessi reati nel giugno dell’anno scorso è già stato condannato a di 1 anno e 2 mesi il medico del carcere Guido Carpené di Selvazzano. Lombosciatalgia, emicrania, mal di gola, gastrite le malattie diffuse come un’epidemia tra il personale di custodia del Due Palazzi nel periodo 2012-2015 (ci sono casi precedenti non punibili per l’intervento della prescrizione). Peccato che quelle patologie si manifestassero sempre d’estate, tra Natale e Capodanno, nei fine settimana o durante qualche “ponte”. C’è chi ha accumulato fra i 70 e i 100 giorni di assenza nell’arco di un anno. Durante quei giorni di “salute precaria”, almeno sulla carta, un agente pugliese colpito da lombosciatalgia è stato sorpreso (e fotografato) dai carabinieri nel paese natìo mentre faceva il meccanico steso sotto un’auto a lavorare in una posizione da acrobata. Un altro collega 40enne, lo scorso marzo, è stato sorpreso mentre lavorava nella pizzeria da asporto “Dall’imperatore” situata all’Arcella in via Giovanni D’Alemagna 16. Un altro ancora ha avuto la faccia tosta di presentarsi in carcere per disputare una partita di calcio: chissà, forse il medico gli aveva prescritto, come terapia, di fare ginnastica. L’inchiesta sulle false malattie certificate, coordinata dal pubblico ministero Sergio Dini, è nata dalla precedente indagine sul “carcere colabrodo” dove entrava di tutto, dalla droga ai cellulari, culminata con una serie di arresti anche tra gli agenti nel giugno 2014. Napoli: 20 detenuti di Poggioreale diventeranno allenatori di calcio gazzettadinapoli.it, 29 aprile 2018 È iniziato in questi giorni, dopo l’annuncio dato in occasione della scorsa edizione di Football Leader, il corso dell’Associazione Italiana Allenatori Calcio (A.I.A.C.) presso la Casa Circondariale di Poggioreale. In un’area dedicata del Padiglione Genova (la zona del carcere dove si fanno più “attività trattamentali” votate al reinserimento in società), 20 detenuti prescelti perché meritevoli, hanno partecipato alla prima delle 23 lezioni, in programma sino al 21 luglio, organizzate dall’AIAC con i docenti Nino Scarfato (presidente AIAC Campania), Raffaele Ciccarelli (segretario AIAC Campania), Aldo Matano e Vincenzo Potenza. Tutti i corsisti hanno ricevuto il kit tecnico ufficiale dell’Assoallenatori. La prima lezione è stata tenuta dal presidente nazionale AIAC Renzo Ulivieri, molto gratificato dall’incontro: “Ringraziamo l’ex direttore Fullone e l’attuale direttrice Palma per questa opportunità. Ho trovato persone molto entusiaste dal corso e dalla possibilità di riscattarsi attraverso lo sport. Ho detto loro che devono studiare seriamente nelle ore a loro disposizione, diventare istruttori significa educare e rispettare le regole. E avere e concedere sempre una seconda possibilità”. Di rimando il Direttore della Casa Circondariale di Poggioreale, la dott.ssa Maria Luisa Palma: “Il nostro compito è proprio quello di concedere opportunità ai detenuti una volta tornati in società. Questo corso, e lo sport in generale, educa al rispetto delle regole. Provare a diventare allenatori significa formarsi e imparare dall’interno la disciplina sportiva. Siamo felici di ospitare un’iniziativa così votata all’inclusione futura”. Nel corso di Football Leader 2018, a margine del convegno dell’Assoallenatori (in programma il 26 maggio), sarà fatto anche un bilancio ulteriore sull’andamento del corso Aiac a Poggioreale. Football Leader 2018 coming soon, con i media partner Sportnetwork (Corriere dello Sport, Tuttosport e Guerin Sportivo) e Radio Marte sempre al proprio fianco. Padova: oggi all’Oasi dei Padri Mercedari apre una Porta santa La Difesa del Popolo, 29 aprile 2018 La famiglia religiosa Mercedaria compie 800 anni dalla fondazione e per celebrare questo anniversario è stato indetto un Giubileo con l’apertura di più porte sante nelle varie realtà presenti non solo nel territorio italiano. A Padova i Padri Mercedari operano in via Righi dove ospitano ex detenuti, detenuti in permesso premio o in misura alternativa alla detenzione. La cerimonia dell’apertura della porta santa è domenica 29 alle ore 10, presieduta dal Vescovo Claudio. Il 2018 è un anno importante per la famiglia religiosa dei Mercedari: compie infatti 800 anni dalla fondazione e per celebrare questo anniversario è stato indetto un giubileo che si è aperto a Roma, nella basilica di San Pietro, il 17 gennaio e si concluderà a Lima, in Perù, il 17 gennaio 2019. Per i padri Mercedari di via Righi 46, a Padova, questo vuol dire anche l’apertura di una porta santa. Nella chiesa dell’Oasi, Opera assistenza scarcerati italiani, domenica 29 alle 10, il vescovo Claudio celebra l’eucarestia preceduta da una riflessione e una preghiera e da una breve processione che coinvolge non solo gli ospiti dell’Oasi, ma anche la comunità di Chiesanuova. “Queste evento - precisa padre Dino Lai, tornato da tre anni all’Oasi, dove 1988 al 1991 è stato il direttore - significa per noi vivere in modo dogmatico la nostra fede. Il papa ci dà la possibilità di vivere il giubileo: questo ci fa capire che i nostri 800 anni sono importanti per lui. L’apertura della porta santa è uno sguardo particolare delle Chiese gerarchiche nei nostri confronti. Ma siamo anche convinti che questo momento sia necessario viverlo, condividerlo, maturarlo anche con chi ci sta attorno, con la comunità parrocchiale, gli abitanti di via Righi, i nostri ospiti”. L’ordine di Santa Maria della Mercede viene fondato da Pietro Nolasco il 10 agosto 1218 a Barcellona. A Padova è presente con l’Oasi, sorta nel 1965, un’opera che accoglie ex-detenuti, detenuti in permesso premio o in misura alternativa alla detenzione, favorendone il recupero, il riadattamento e l’integrazione sociale. “L’ordine fu fondato per la redenzione degli schiavi - precisa padre Dino - oggi i nostri schiavi sono proprio i detenuti, persone che hanno commesso gravi errori e che spesso non trovano accoglienza nemmeno nelle loro famiglie di origine. E anche per loro questo momento diventa importante: hanno bisogno del perdono di Dio e devono capire che c’è da volere bene in modo diverso, pregare di più perché questo farà fruttificare l’amore del Signore”. Attualmente la struttura ospita 25 persone: 18 sono fisse (vivono giorno e notte), un paio provengono da una collaborazione attiva con i servizi sociali del comune di Padova, altri sono in semilibertà e la sera rientrano in carcere. Sono seguiti da due educatori, oltre che dai due religiosi presenti nella comunità, padre Dino e padre Giovanni Fabiano, a Padova da nove anni e attuale direttore. Lavorano al mantenimento della casa e nella cooperativa interna che si occupa per lo più di lavori di assemblaggio per conto terzi o all’esterno. “Sarà un momento di festa - continua il religioso - per tutta via Righi, per la comunità parrocchiale di Chiesanuova che ci conosce e ci vuole bene e nella quale siamo ben integrati. E naturalmente per le persone che sono qui, con le quali ci siamo più volte confrontati in semplici chiacchierate per condividere le emozioni, la curiosità e le aspettative di questo momento. Il giubileo ci invita a vivere santamente tutto l’anno, non solo il giorno dell’apertura della porta santa. E proprio per mantenere viva e ravvivare continuamente questa luce nei prossimi mesi proporremo altri momenti per rinnovare lo spirito del giubileo. La porta santa dovrebbe aprire una finestra per far entrare una luce nuova, è impegno a far sì che gli ospiti e le persone esterne vedano questa luce, che è una luce di semplicità, umiltà, amore”. Ventimiglia (Im): le testimonianze di giovani stranieri detenuti in un libro ventimiglianews.it, 29 aprile 2018 La Biblioteca Aprosiana di Ventimiglia (piazza Bassi 1) venerdì 4 maggio alle 17.15 sarà teatro della presentazione di “Ringrazio che siamo vivi - Giovani stranieri in carcere”, scritto da Doriano Saracino. Un appuntamento liberamente aperto al pubblico promosso da Associazione Culturale XXV aprile - Arci, Jaca Book editore e Libreria Casella di Ventimiglia, al quale parteciperanno anche Alessandro Bergamaschi (docente all’università di Nizza), la giornalista Donatella Alfonso (La Repubblica), Giuseppe Famà (Associazione Culturale XXV aprile) e Kalid Rawash, medico presso la Casa circondariale di Imperia. Il testo di Saracino raccoglie le testimonianze di diversi giovani stranieri reclusi in prigioni italiane partendo da una considerazione: come vivono la loro situazione in Italia loro che arrivano da altre culture ma soprattutto altre religioni, come possono professarle in carcere, quali sono e se esistono i rapporti diretti tra la criminalità e l’immigrazione. Ma anche il fatto che diversi di loro sono arrivati in Italia ancora quando erano minori, senza i genitori o qualche altro parente prossimo. Alcuni comunque si sono integrati, altri no e quindi si affronta anche il problema dei loro rapporti con il nostro Paese. Uno spaccato di vita realizzato in dieci diverse carceri italiane quanto mai attuale in una città come Ventimiglia che non da oggi rappresenta un crocevia essenziale per il fenomeno dell’immigrazione, come ultimo avamposto prima di passare in Francia. I giovani carcerati intervistati parlano del problema relativo all’immigrazione ma anche all’attrazione fatale per i soldi facili, i rapporti con la criminalità organizzata, ma anche la loro vita precedente nei Paesi d’origine (mancata scolarizzazione, redditi bassi, caratteristiche sociologiche e culturali) che potrebbe aver acuito il loro senso di disagio. E poi la vita attuale in carcere, che per loro può diventare comunque un’occasione di riscatto e per dare una svolta definitiva alla vita grazie alla possibilità di una vera formazione scolastica, di praticare sport, di affrontare temi di vita insieme e volontari e psicologi preparati. Saracino ha intervistato un centinaio di stranieri reclusi sotto i trent’anni, detenuti in Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Toscana, non limitandosi a fare una semplice ricerca ma anche per dare voce alle loro esperienze ed esigenze. Ecco perché come spiega nella prefazione Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio ma anche Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione del Governo Monti, “questo libro ha un pregio fondamentale: dà voce alla vita delle persone e alle loro storie, spesso dure e difficili, che normalmente non parlano, anzi sono silenziate. Le fa uscire dalle mura del carcere”. “Ringrazio che siamo vivi - Giovani stranieri in carcere” il 4 maggio prossimo sarà anche presentato ai detenuti della Casa Circondariale di Sanremo, l’istituto penitenziario nel quale è partita la ricerca del suo autore. Reddito di base e diritto d’asilo, una battaglia comune e universale di Marco Bascetta Il Manifesto, 29 aprile 2018 Una nuova politica. La sinistra è infettata dall’ostilità nei confronti di questi diritti perché ha fatto della “stanzialità” del lavoro un valore da contrapporre al nomadismo del capitale e coltiva un’idea di “popolo” che il fenomeno delle migrazioni mette in questione. Così si è preclusa la possibilità di costruire una risposta alle contraddizioni del presente che passa invece per il reddito di base incondizionato e la battaglia anti-razzista per il diritto d’asilo universale. Sembrava essere il pomo della discordia, il segno di visioni radicalmente divergenti della realtà sociale e delle sue prospettive future e invece, nella sostanza, sul famigerato “reddito di cittadinanza” tutti si mostrano concilianti e inclini all’accordo. Altrove si è spostato il centro del conflitto tra forze politiche che, tra accuse e avversioni, vanno scoprendo di giorno in giorno sempre più punti di sovrapposizione nei rispettivi programmi. La ragione è semplice: le proposte in campo, riunite sotto la bandiera della “lotta alla povertà”, non hanno nulla in comune con i caratteri di universalità e incondizionalità del reddito di base garantito. Si tratta, infatti, di politiche di “inclusione”, di avviamento al lavoro o di tamponatura a termine della povertà più estrema. L’ inclusione è, del resto, tra i concetti più insidiosi che vi siano. Anche la riduzione in schiavitù può essere annoverata tra le sue forme storiche. È anzi il primo passo, quello che succede immediatamente allo sterminio puro e semplice del nemico sconfitto, verso la “civiltà”. Sulla base di questa idea di inclusione lo scrittore messicano Octavio Paz illustrò in un celebre saggio del 1950 la differenza tra la colonizzazione cattolica dell’America meridionale fondata sull’assoggettamento delle popolazioni indigene e quella protestante dell’America del nord, più propensa all’annientamento degli autoctoni che al loro asservimento. Il richiamo genealogico, sia pure remoto ed estremo, può servire a sottolineare l’elemento di coazione, condizionalità e disciplinamento che generalmente regola (e infelicità) la vita dei disoccupati di lungo corso presi in carico dalle politiche di inclusione. Tra queste sono senz’altro da annoverare quei sussidi temporanei condizionati, nel migliore dei casi dall’accettazione di una offerta di lavoro ritenuta idonea e “dignitosa” (altra definizione tra le più equivoche) dalle burocrazie incaricate del controllo sui programmi di inclusione. Nel peggiore dall’imposizione di un lavoro comunque sia. In buona sostanza l’intero arco delle forze politiche condivide quella stessa idea di workfare che attribuisce al lavoro, riconosciuto e certificato come tale, aldilà dalla sua razionalità produttiva o effettiva utilità sociale, la condizione dalla quale ogni diritto e legittimità sociale prendono origine. La polemica riguarda semmai la platea dei beneficiari e l’entità di questa forma modernizzata ed estesa del sussidio di disoccupazione. Qui si combatte a colpi di propaganda e di calcoli ispirati a pura fantasia. Si può certamente ritenere che anche una forma così condizionata di reddito minimo sia meglio dell’attuale nulla, ma certo è che queste tamponature non prendono in alcun modo in considerazione il problema sostanziale e cioè il ripensamento dell’intero sistema di welfare in un assetto produttivo che prevede ineluttabilmente la rarefazione, l’intermittenza del lavoro e la sua precarietà sotto perenne ricatto. Le cosiddette politiche di inclusione rappresentano una razionalizzazione statuale di questa ricattabilità e un contenimento autoritario della libertà di scelta. O, per dirla altrimenti, una stanzializzazione temporanea di quella condizione nomade della vita e del lavoro scaturita dalla crisi della società industriale. Il nomadismo, già sconfitto nella più remota antichità, seppur tornato prepotentemente in forme nuove sulla scena contemporanea, continua a subire la sua cattiva fama: predatorio, imprevedibile, incontrollabile, consumatore improduttivo di energie e risorse. Tanto che è generalmente il capitale finanziario ad essere assimilato a questa figura negativa mentre la cosiddetta “società civile” è immaginata come comunità stanziale e radicata. Fatto sta che nel lavoro e nella vita reale sono individui sempre più numerosi a sperimentare il nomadismo nelle sue diverse forme. Quest’ultimo possiede una doppia connotazione: da una parte la necessità di sottrarsi a situazioni avverse di ordine naturale o sociale, dall’altra la scelta di migliorare la propria condizione rendendosi autonomo dai dispositivi di controllo e di oppressione. Un intreccio, insomma, di libertà e imposizione, di espulsione e di fuga. Il reddito universale, nella sua versione più propria, altro non è che la tutela di questo nomadismo, imposto o scelto che sia, e il riconoscimento del suo valore sociale e produttivo aldilà da ogni certificazione normativa. In buona sostanza si tratta di una scelta politica contro la tirannia del mercato. Il passo è breve, a questo punto, nel riconoscere la parentela del reddito di base con un altro diritto di natura universalistica: quello di asilo. Anche in questo caso si tratta di consentire e proteggere un nomadismo che racchiude in sé la costrizione a fuggire e la libertà di inseguire, attraverso gli spazi geografici del pianeta, nuove opportunità. Il migrante non è più da un pezzo una deviazione dalla norma della società stanziale, ma una figura permanente, decisiva, inarginabile del tessuto globale. Un movimento storico che si pretende di fronteggiare riconducendolo a una stanzialità imposta brutalmente e accompagnata da una insopportabile retorica del “ritorno”. La menzogna dell’”aiutiamoli a casa loro” (questa “casa” non è che un’astrazione andata in fumo) è pari a quella della “piena occupazione”, del tutto immaginaria, se non in quella forma di generale precarietà e lavoro non retribuito in cui si è già concretizzata. Ciò verso cui le forze politiche convergono, in Italia e in gran parte d’Europa, è la riduzione di questi diritti di natura universalistica. Ricorrendo in entrambi i casi all’accusa, ampiamente diffusa a livello popolare, di parassitismo: che si tratti di un reddito svincolato dal lavoro o dell’accesso degli stranieri alle opportunità offerte dai “laboriosi ed evoluti” paesi europei è sempre una “appropriazione indebita” a venir messa all’indice. Nel caso del reddito di base questa riduzione passa attraverso i requisiti sempre più stringenti richiesti ai potenziali beneficiari. In quello del diritto d’asilo attraverso una improbabile tassonomia dei motivi di fuga (bellico, persecutorio, climatico, economico), distinti tra legittimi e illegittimi e l’esclusione di un gran numero di paesi incredibilmente ritenuti “sicuri”, sorvolando sulla persecuzione selettiva (minoranze, oppositori, omosessuali) che vi viene ferocemente esercitata. La gestione restrittiva e arbitraria di questi diritti implica la crescita di un pleonastico e costoso sistema di controllo e l’assuefazione a ricorrenti episodi di ordinaria disumanità. La sinistra, anche quella che esprime tratti più radicali, è sempre più gravemente infettata dall’ostilità nei confronti di questi diritti. Avendo fatto della “stanzialità” del lavoro un valore da contrapporre al nomadismo del capitale e coltivando un’idea di “popolo” che il fenomeno delle migrazioni mette continuamente in questione, si è preclusa la possibilità di costruire una propria risposta alle contraddizioni del presente e riprendere quel tema della libertà e del suo esercizio effettivo che è stato generalmente escluso dall’orizzonte stesso del discorso politico. Siria. Una vittima, un volto: l’uomo che conta i morti della guerra di Marta Serafini Corriere della Sera, 29 aprile 2018 “Non voglio che vengano dimenticati”. Tamer Turkmane è un fotografo siriano, un oppositore del regime di Assad, che vive e lavora in Turchia. Da quattro anni tenta di identificare le vittime del conflitto in Siria. Così mentre nel 2014 le Nazioni Unite hanno smesso di contare i civili caduti sul campo e mentre l’unico a dare cifre è l’Osservatorio per i diritti umani con sede a Londra, lui dà un nome e un volto a sette anni di morti. Il primo contatto con Turkmane è su Twitter, nella chat privata. “Fino ad oggi ho raccolto 185 mila nominativi, di 99 mila sono riuscito a recuperare anche una foto”, spiega al Corriere. Gli chiediamo di condividere le sue informazioni con noi, accetta subito, senza pretendere nulla in cambio. “Ma non date troppe informazioni sul mio conto perché il regime mi dà la caccia”, ci spiega in un’altra conversazione. Turkmane non ha a disposizione un team. Lavora da solo, sostiene di non far parte di alcuna associazione o partito anche se ammette senza problemi di essere un oppositore. Il suo metodo è semplice, il passaparola. “Sono le famiglie a mandarmi le generalità dei loro cari scomparsi”. Per comunicare Turkmane usa le sue pagine Facebook, su cui riceve di continuo notifiche su notifiche. “Ogni giorno mi arrivano almeno 100 messaggi. E sono in contatto anche con personale sanitario e i volontari della guardia civile siriana”. Il passo successivo è verificare la veridicità delle informazioni con un parente o con un dottore. A volte ci riesce, altre volte no. “Lavoro 15 ore al giorno. Spesso vado avanti fino a notte fonda e tutto il mio tempo libero è assorbito da questo progetto. Ma non posso fermarmi”, racconta. Poi, ogni settimana tira le somme e aggiorna le statistiche. Questo è il numero delle vittime identificate fino ad oggi Tutte le informazioni di Turkmane sono state raccolte in un database creato in formato Excel differenziato per età, sesso, luogo dell’uccisione, modo in cui sono morti e da chi sono stati uccisi. “Credo che queste persone siano martiri, cui ho deciso di rendere omaggio, perché il loro sacrificio non sia vano”. Chiaramente i dati di questo attivista sono parziali e di parte, siamo lontani dall’avere una cifra verificata e definitiva. Nel suo elenco poi non appaiono i civili uccisi dalle milizie dell’opposizione. Ma fino ad oggi nessun’altro ha trovato il modo o il tempo di identificare le vittime. “Sogno di creare un grande muro su cui mettere tutte le immagini delle vittime. Solo così forse il mondo si renderà conto di cosa sta facendo Assad al suo popolo”. L’obiettivo di Tamer dunque non è solo quello di documentare. “Sono un attivista. Voglio fermare la guerra, e se in questo modo posso riuscirci, sono disposto a smettere di dormire e mangiare”. Ogni giorno sul suo account Twitter Tamer Turkmane ricorda quanti sono stati i morti negli anni precedenti. Riposta i collage con le immagini di chi non c’è più, donne e bambini compresi. Diffonde i filmati che provano gli abusi e le torture dei militari. E soprattutto rende pubblici i link al suo database messo in rete grazie a strumenti gratuiti come Google drive. “Non sono necessari strumenti particolarmente sofisticati per fare questo lavoro. Basta la volontà”. Ogni due o tre mesi però l’uomo che conta i morti si prende una pausa. “A volte mi pare di stare fallendo e abbandono tutto. Penso che non riuscirò mai a rendere giustizia a tutti”. Poi però Tamer ricomincia. Nome dopo nome. Foto dopo foto. Coree. L’amara verità dietro i sorrisi di Bill Emmott* La Stampa, 29 aprile 2018 È stato molto mediatico, anche per il luogo dov’è avvenuto, ieri l’incontro tra i leader del Nord e del Sud Corea, nella zona smilitarizzata al confine tra i due Paesi, molto militarizzata, abbastanza spettrale e davvero minacciosa. In un posto del genere tutti i discorsi di pace di Kim Jong-un non possono essere che benvenuti. Se poi abbiano un significato è tutt’altro discorso. Al di là dei sorrisi e del cameratismo nuovo di zecca, bisogna tener presente alcuni punti. Uno è che solo nel 2017, il Nord Corea ha effettuato 18 test di missili balistici, l’ultimo il 28 novembre, e un test nucleare, il 3 settembre dell’anno scorso. Un altro punto è che l’anno scorso gli agenti nordcoreani hanno assassinato con il gas nervino Kim Jong-nam, fratellastro di Kim Jong-un, in uno spazio pubblico molto affollato, l’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malesia. E nel novembre scorso un soldato nordcoreano che aveva cercato di disertare attraversando la zona smilitarizzata è stato ucciso dai commilitoni. Il regime nordcoreano può anche mostrarsi bravo a sorridere in favore di telecamera e a parlare di pace ma è ben lontano dall’essere gentile o pacifico. Intanto la vera controparte della trattativa per Kim è il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, con cui è previsto per la fine di maggio o per giugno un incontro, che si annuncia ancora più storico. Il presidente Trump ha parlato di scatenare una tempesta di fuoco sul Nord Corea, e da poco ha nominato Consigliere per la sicurezza nazionale un duro come John Bolton. Non viene data risposta alla questione fondamentale: gli attori principali della penisola coreana cosa sono disposti a offrire in cambio della pace? Quando finì la guerra di Corea tra il Nord, il Sud, la Cina e gli Stati Uniti nel 1953, non fu firmato alcun trattato di pace. Da allora vige solo un difficile cessate il fuoco saltuariamente interrotto da omicidi da ambo le parti. Tutti proclamano che l’obiettivo è la denuclearizzazione. I presidenti del Nord e del Sud Corea, Kim Jong-un e Moon Jae-in, durante il vertice hanno concordato di mettersi al lavoro per ripulire la penisola dagli ordigni nucleari e di provare a firmare un trattato di pace entro la fine dell’anno. Questo soddisfa il desiderio della Cina di stabilizzare la penisola (e quindi il suo confine orientale), e premia la ferma fiducia del presidente Moon nella diplomazia rispetto a ogni opzione militare. Ne consegue che questo vertice in Asia è accolto con favore. Ma suscita ancora scetticismo, anche tra le grandi potenze della regione, Cina e Giappone. Non è credibile che il Nord Corea accetti a buon mercato di rinunciare ai suoi armamenti nucleari. Dopotutto ha passato gli ultimi cinquant’anni a metterli a punto e lo scorso dicembre è riuscito a dimostrare la sua capacità di colpire gli Stati Uniti con una testata atomica. È soggetto a sanzioni economiche internazionali ma non c’è evidenza che questo stia provocando un inedito livello di sofferenza per il regime nordcoreano o per la popolazione. Le vere richieste di Kim Jong-un emergeranno solo al momento dell’incontro con Donald Trump. Probabilmente includeranno un programma di denuclearizzazione di entrambi i Paesi e un piano per il ritiro delle truppe statunitensi. L’America ha sempre mantenuto una studiata ambiguità sulla presenza o meno di armi nucleari in dotazione alle sue forze di stanza in Sud Corea o Giappone. E la pregressa esperienza di colloqui con i predecessori di Kim negli Anni 90 e 2000 ha insegnato a valutare con molto scetticismo le promesse nordcoreane riguardo a una moratoria sui test o alla sospensione nella produzione di materiali fissili. La situazione è perfetta perché il presidente Trump chieda un processo di verifica della denuclearizzazione che difficilmente Kim accetterà, e Kim faccia a Trump la richiesta irricevibile del ritiro degli Usa dal Sud Corea. Questo non significa necessariamente che il summit tra i due leader coreani o quello tra Kim e Trump si rivelino uno spreco di tempo. Potrebbero portare a un accordo quadro per i colloqui futuri e a un allentamento delle tensioni che potrebbe aiutare a stabilizzare la situazione. Questi processi, però, equivarrebbero al riconoscimento da parte americana che il Nord Corea ha raggiunto lo status di potenza nucleare e quindi a lungo termine l’unica possibile risposta sarà un’azione di deterrenza e contenimento proprio come tra Usa e Urss al tempo della Guerra fredda. Questa eventualità sarebbe gradita alla Cina perché gli Stati Uniti sarebbero costretti ad accettare la realtà e a smettere di minacciare di scatenare una guerra in cui la Cina finirebbe inevitabilmente coinvolta. Per questo motivo è importante riconoscere che c’è un altro possibile e più pericoloso esito. Se il presidente Trump e i suoi consiglieri arrivano alla conclusione che Kim Jong-un si sta semplicemente mostrando intransigente o, peggio, sta fingendo di volere la pace, gli Stati Uniti potrebbero decidere un attacco preventivo ai depositi nucleari nordcoreani per spingere Kim a un vero negoziato. Se andasse così potrebbero esserci conseguenze imprevedibili. Quindi il resto del mondo e tutti i vicini delle due Coree devono sperare e pregare che ciò non accada. Pakistan. I pashtun in piazza contro giustizia tribale e desaparecidos di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 29 aprile 2018 Scenderanno in piazza oggi per chiedere giustizia per i loro desaparecidos e mandare in soffitta la legge che permette a una jirga (consiglio) di anziani di emettere verdetti senza possibilità di appello nei territori tribali. Sono i pakistani di etnia pashtun, un quarto della popolazione, che rivendicano il diritto ad essere trattati come tutti gli altri cittadini. La protesta è stata indetta a Mingora, centro del distretto dello Swat nella provincia nord-occidentale di Khyber Pakhtunkhwa, dal Pashtun Tahafuz Movement (Ptm), organizzazione sociale fondata nel 1994 per difendere i diritti umani della popolazione di etnia pashtun in Pakistan. Gli organizzatori assicurano numeri “impressionanti” e di certo la manifestazione non è stata incoraggiata dal governo centrale che ha fatto di tutto per impedirla. Per la prima volta in piazza ci saranno anche le donne, coperte dal tradizionale burqa, e molti famigliari di desaparecidos e di persone uccise in forma extragiudiziaria in falsi scontri con le forze dell’ordine. Finora il Ptm, guidato da Manzoor Pashteen, veterinario laureatosi nell’università del Waziristan meridionale, ha organizzato con successo manifestazioni a Quetta, Peshawar e Lahore, e dopo quella di domani nello Swat, sfilerà a Karachi il 12 maggio.