L’istituto del carcere è fallito, in attesa di una riforma che non arriverà forse mai di Valter Vecellio lindro.it, 28 aprile 2018 È stato presentato qualche giorno fa, il rapporto curato dall’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia; Rapporto terrificante, una fotografia dell’esistente che confligge in modo inaccettabile con i principi del diritto nazionale e internazionale, con i più elementari valori di umanità e di buon senso. Allora, e in sintesi: sovraffollamento cronico, celle senza doccia, ripetute condanne da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo; e tante “evasioni definitive”, vale a dire: suicidi. Dite che è sempre la solita “minestra”? Sì. È sempre la solita “minestra”. Questo è il guaio, questo è il problema: che si tratta sempre e ancora della solita “minestra”. “Minestra” variamente condita, ma di eguale, immangiabile, sapore. “Negli scorsi mesi abbiamo visitato 86 carceri, dalla Valle d’Aosta alla Romagna”, dicono i curatori del rapporto. “In dieci istituti, tra quelli che abbiamo visitato, c’erano celle in cui i detenuti non avevano a disposizione neppure 3 metri quadrati calpestabili. Nella metà dei penitenziari che abbiamo visto c’erano celle senza docce, o, peggio ancora, in quattro istituti abbiamo riscontrato la presenza del wc in un’ambiente non separato dal resto della cella. Abbiamo riscontrato in media la presenza di un educatore ogni 76 detenuti, il 43 per cento degli istituti visitati non aveva corsi di formazione professionale attivi, oltre che spazi per le eventuali lavorazioni”. Una delle maggiori preoccupazioni è costituita dal sovraffollamento. Esempi concreti: il carcere di Larino, in Molise, presentava fino al 31 marzo scorso il maggior tasso di affollamento. Con una capienza massima pari a 107 posti letto, infatti, ospitava 217 detenuti, con una percentuale di affollamento del 202,8 per cento. A livello regionale, le prigioni della Lombardia sono le più affollate. A Como, con un tasso del 200 per cento, si trova il carcere più affollato della regione, il secondo d’Italia. È un penitenziario, annota Antigone in cui “abbiamo trovato detenuti che non avevano 3 metri quadri di spazio a disposizione, dove le condizioni igienico-sanitarie erano critiche, e molte docce erano inutilizzabili a causa degli scarichi intasati”. In media, per tutti gli istituti considerati, il tasso di sovraffollamento è pari al 115,2 per cento. Mentre il tasso di detenzione - numero di detenuti per numero di residenti in Italia - è pari a circa un detenuto ogni mille abitanti. I suicidi: secondo gli ultimi dati raccolti da “Ristretti Orizzonti”, nei primi tre mesi del 2018 ci sono stati 11 suicidi nelle carceri italiane. I tentativi di suicidio sono stati oltre un migliaio. E 123 è il numero dei reclusi deceduti nel 2017 in seguito a cosiddetta “morte naturale”; che proprio “naturale” non è, visto che spesso celano profondi disagi legati alle condizioni di detenzione. Una situazione che al Garante dei detenuti della regione Campania Samuele Ciambriello fa dire che “purtroppo il carcere è fallito”. Fallito proprio come istituzione: L’80 per cento delle persone per una recidiva torna in carcere; questo significa che il carcere è fallito. Il restante 20 per cento non rientra perché ha fatto un cammino di risocializzazione e rieducazione”. Per quel che riguarda la Campania, dice Ciambriello, “in questo momento ci sono 7.321 detenuti in carcere e 7.100 sono fuori, nell’area penale esterna. Dobbiamo liberarci dalla necessità del carcere e vivere le pene in maniera alternativa. Siamo un po’ amareggiati che non sia passata l’attuazione dei decreti attuativi del Governo sulla riforma carceraria. Mi sono meravigliato che prima di Natale il Governo non abbia osato e chiuso su questa materia. Abbiamo una riforma ancora del 1975. È mai possibile che in tema di diritti, di giustizia l’Italia sia fanalino di coda in Europa?”. Già, la Riforma carceraria: i decreti delegati per la sua attuazione, voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, avrebbero consentito se approvati nel loro complesso, di porre in essere un modo più civile e rispettoso della Costituzione nell’espiazione della pena. L’impianto complessivo avrebbe significato un passo avanti verso il pieno diritto e per la civiltà giuridica. Non è accaduto e tutti noi dovremmo cercare di capire perché e per responsabilità di chi. Intanto proseguono le “evasioni definitive”, ovvero i suicidi di detenuti. Un 37enne dell’Aquila, M.S., si è tolto la vita nel bagno di una cella del carcere di Chieti, dove era detenuto dal 25 settembre 2017. È stato trovato ieri mattina dai compagni di cella. A breve avrebbe lasciato il carcere per raggiungere una comunità di recupero per tossicodipendenti. Si è tolto la vita legando una cintura alle sbarre. Un altro detenuto, questa volta un nord-africano, si è tolto la vita a Busto Arsizio. Ha approfittato dell’ora d’aria, e se ne è andato. Sui giornali neppure le due righe di rito. Un “nessuno” che ha tolto il disturbo senza che nessuno ci abbia fatto caso. Gli avvocati non cedono: il 3 la mobilitazione per la riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2018 Previsti dall’Ucpi anche due giorni di astensione dalle udienze. e orlando “chiama” le camere. Si mobilita l’avvocatura per difendere la riforma dell’ordinamento penitenziario. Per il 2 e 3 maggio l’Unione delle Camere Penali italiane ha indetto l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria. Inoltre, il 3 maggio, dalle ore 9: 30, si terrà a Roma presso la Residenza di Ripetta, la manifestazione nazionale, organizzata dall’Ucpi e dalla Camera Penale di Roma per sollecitare l’approvazione finale della riforma penitenziaria. Dopo i saluti del presidente della Camera penale di Roma, Cesare Placanica, interverranno: Rita Bernardini, coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale, Giovanni Fiandaca, ordinario di Diritto penale all’Università di Palermo, Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Andrea Mascherin, presidente del Consiglio Nazionale Forense, Mauro Palma, Garante delle persone detenute o private della libertà, Riccardo Polidoro, Responsabile dell’Osservatorio carceri dell’Ucpi e Piero Sansonetti. Concluderà la manifestazione Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando è ritornato sulla questione della riforma dell’ordina- mento penitenziario e lo fa ieri dal carcere palermitano dell’Ucciardone durante la commemorazione di Pio La Torre. “Ho lavorato in questi anni per dare una risposta al problema delle carceri in Italia - ha detto il Guardasigilli -. Un carcere che funziona male alle fine riproduce le gerarchie che ci sono fuori dal carcere, per questo confido ancora nel fatto che il Parlamento dia il parere definitivo sulla riforma penitenziaria”. Il ministro ha concluso dicendo che bisogna “riconoscere quello che dice la Costituzione: cioè che si può cambiare dentro il carcere”. L’iter di approvazione è stato decisamente lungo e tortuoso. Tra dicembre e febbraio il provvedimento è passato due volte in Consiglio dei ministri per le modifiche chieste dalle Commissioni giustizia: pareri non vincolanti, che il governo ha accolto solo in piccolissima parte. Poi a metà marzo, il terzo passaggio in Consiglio dei ministri e l’invio alle nuove Camere, con Orlando che puntava alla Commissione speciale, quella istituita per gli affari urgenti, Def in testa. Da quel momento in poi è iniziato il tira e molla. Lega e Fratelli d’Italia contrari alla norma, la bollano come “salva-ladri”, contrari a qualsiasi accelerazione; anche tra alcuni sindacati di polizia penitenziaria circolano critiche. Sul fronte opposto Pd, Garante dei detenuti, avvocatura e membri degli Stati generali dell’esecuzione penale chiedono di varare una riforma giudicata prioritaria e di sistema. Dai Cinque Stelle, che per settimane hanno polemizzato parlando di “regalo ai criminali” e smantellamento del 41bis, è poi arrivata un’apertura di massima a esaminare il decreto in Commissione speciale. Lo stesso presidente della Camera, Roberto Fico, a cui Orlando aveva scritto - così come alla presidente del Senato, Casellati - ha chiesto ai gruppi parlamentari una riflessione. Ma da allora questa riflessione ancora non si è aperta La giustizia ammalata e le riforme peggiorative di Giovanni Verde Il Mattino, 28 aprile 2018 “Abemus Pignatonem”, è il caso di dire. Ossia abbiamo qualcuno che ci ricorda che il diritto, per chi lo pratica e lo applica quotidianamente, è soprattutto esercizio di buonsenso. Parliamo della lettera di ieri del Procuratore di Roma, il dottor Pignatone, a “La Repubblica”, sul tema delle intercettazioni e della legge di riforma (un ennesimo conato di un legislatore che farebbe bene, quanto meno in materia processuale, ad osservare l’esercizio della modestia e del silenzio), che è prossima ad entrare in vigore. La legge, ad onta delle proclamazioni, non riguarda la possibilità di intercettare, che oggi aumenta a dismisura perché le tecniche in base alle quali si può penetrare nella sfera di riservatezza degli individui sono sempre più sofisticate ed invasive. Siamo un popolo di rassegnati. Poiché siamo o ci fanno credere che siamo un po’ tutti delinquenti abituali o che, se non lo siamo di fatto, quanto meno abbiamo una innata predisposizione a delinquere, e poiché lo strumento di indagine principale (se non esclusivo) è l’uso incontrollato ed incontrollabile dell’auricolare, ci siamo abituati all’idea del controllo invasivo delle nostre vite private. E ciò ai limiti del paradosso. Nell’atmosfera giustizialista nella quale siamo sommersi, molti pensano che questo controllo sia non solo necessario, ma addirittura doveroso. E di conseguenza, resta inascoltato (ove non sia apostrofato come delinquente o come colluso) chi si ostina a ritenere che il problema sta, come si è soliti dire, a monte, ossia nell’uso distorto dello strumento (delle intercettazioni), che non dovrebbe servire ad acquisire prove, ma a corroborare prove già acquisite e relative non a fenomeni, ma a specifici fatti criminosi. La legge prossima ad entrare in vigore ha una finalità più limitata, ossia quella di aumentare la tutela della riservatezza. Lasciamo la parola al Procuratore Pignatone: “La difficoltà sta nel trovare un punto di equilibrio tra la tutela della riservatezza, le esigenze delle indagini (...), il diritto di difesa (anche delle parti offese) e la libertà di espressione del pensiero e della informazione”; beni tutti costituzionalmente tutelati, tra cui è difficile, come sottolinea il Procuratore, stabilire una scala di priorità. Il legislatore ha ritenuto di trovare il punto di equilibrio (quando leggo che il legislatore cerca punti di equilibrio, mi si drizzano le orecchie), stabilendo: 1) che solo quando debbano essere emanate misure cautelari, gli atti siano messi a disposizione delle difese (che però possono soltanto consultarli, ma non estrarne copia: il che è grave) e che, comunque, la loro pubblicazione è vietata (ma la violazione del divieto è sanzionata con una pena risibile); 2) che gli atti non devono contenere le notizie “non rilevanti”; 3) che non devono comparire “virgolettati” e che possono essere riprodotti solo i brani considerati “essenziali”. Il Procuratore ci spiega con semplicità e con chiarezza che questi meccanismi non servono allo scopo, possono addirittura peggiorare la situazione attuale e comunque comportano un dispendio di energie e di risorse incalcolabili, aggravando ulteriormente la già insopportabile durata dei nostri processi. Credo che possiamo fidarci della sua capacità e della sua esperienza. Lascio da parte l’ovvia considerazione che, nel momento in cui il contenuto delle intercettazioni viene (e non può non essere) conosciuto da molte persone, è illusorio pensare che la riservatezza possa essere rispettata. A maggior ragione è illusorio nel nostro Paese nel quale c’è un antico costume per il quale le notizie, quando si vuole che viaggino, comunque sono diffuse. Mi soffermo su due punti. Primo punto: la polizia giudiziaria non può trascrivere le conversazioni non rilevanti, ma deve informare il Pm “con annotazioni sui contenuti delle conversazioni” (art. 267, co. 4 cpp), così che se questi le ritiene rilevanti, ne ordina la trascrizione con decreto motivato (art. 268, co. 2 ter). In disparte i problemi applicativi (provate ad immaginare un malcapitato ufficiale di Pg che “annota” i contenuti delle migliaia e migliaia di conversazioni non trascritte e un altrettanto malcapitato Pm, che è tenuto a “motivare” per quali ragioni le conversazioni debbono essere o non essere trascritte), ciò che il legislatore non ha considerato è che è difficile e molte volte impossibile stabilire che cosa è rilevante e che il concetto di rilevanza è variabile ed inevitabilmente soggettivo: ciò che sembra o non sembra rilevante all’inizio o in un successivo momento dell’indagine può apparire diversamente rilevante nel momento del rinvio a giudizio o, addirittura, nel momento della decisione; ciò che è irrilevante per la pubblica accusa, può essere rilevante per la difesa dell’imputato o di uno degli imputati o della parte offesa o di una delle parti offese; e viceversa; ciò che irrilevante in relazione ad un determinato reato, può esserlo in relazione ad un reato diverso. Secondo punto: la legge vuole che siano riprodotti soltanto i brani “essenziali”. Come si stabilisce e chi stabilisce che cosa è essenziale? Anche qui ci troviamo di fronte a valutazioni soggettive e che variano o possono variare sia in relazione ai soggetti che devono farle sia in relazione ai momenti e alle circostanze concrete in cui sono fatte. Non basta. Se sono in discussione beni tutti costituzionalmente protetti e tutti di pari grado, è da chiedersi se il legislatore non operi una scelta in favore del diritto punitivo dello Stato, allorquando affida al solo Pm il potere-dovere di valutare la rilevanza della intercettazione e l’essenzialità della trascrizione, al fine di disporne l’acquisizione al fascicolo processuale, aggravando lo squilibrio tra le parti del processo penale che dovrebbe essere basato sul principio della parità. Né va dimenticato, infine, che le intercettazioni vanno, tutte e comunque, conservate in un archivio, la cui gestione sarà onerosa e carica di insidie. La riforma, insomma, aumenterà a dismisura i costi e i tempi dei processi penali, senza prevedibili vantaggi, perché sono da condividere il timore del Procuratore che “fuori dai processi continueremo a leggere molti contenuti di intercettazioni virgolettati o meno” e la Sua preoccupazione che “molti processi salteranno” per soluzioni che saranno ritenute in futuro non plausibili “o addirittura giudicate incostituzionali”. Sono, come ho detto all’inizio, osservazioni di buon senso destinate, purtroppo, a cadere su di un terreno dove da tempo il buon senso ha smesso di attecchire. I pm vogliono bloccare la legge sulle intercettazioni di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 28 aprile 2018 Polemiche tra Orlando e i magistrati che non condividono la riforma e attendono il nuovo governo. Minisci (Anm): “Il testo peggiora le cose”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando non ha alcuna intenzione di rinviare l’entrata in vigore della sua riforma sulle intercettazioni, prevista a luglio. Poco importa se sia riuscito a mettersi contro magistrati e avvocati, per la prima volta uniti. Certo, se da qui ad allora ci sarà un altro governo, per inquirenti e difensori potrebbe aprirsi un nuovo scenario. Tanto che l’Anm (Associazione Nazionale Magistrati), dice al Fatto il presidente Francesco Minisci, “tra le priorità che sottoporrà” al nuovo (eventuale) Guardasigilli prima di luglio “ci sarà quella di chiedere non solo che la riforma non entri in vigore ma che venga ripensata nel merito”. Per Minisci questa riforma “renderà le intercettazioni una scatola vuota, non migliorerà nulla, anzi peggiorerà le cose”. Il presidente dell’Anm ritiene che abbia fallito pure l’obiettivo di tutelare la riservatezza: “Si devono fare riforme che devono migliorare il sistema. Con questa, invece, perderemo la maggioranza delle conversazioni che confluiranno in un archivio riservato, perché considerate irrilevanti, senza poter avere un brogliaccio (una sorta di riassunto, ndr) che ne indichi il contenuto. Molte di quelle conversazioni non trascritte potrebbero, però, essere preziose con l’avanzare delle inchieste non solo come elemento di prova importante per l’accusa ma anche come alibi per la difesa. Invece, saranno, di fatto, disperse”. Secondo il ministro Orlando questa riforma non intacca lo strumento investigativo e introduce più garanzie per la privacy. Per Minisci, invece, avrà come risultato quello di “svuotare le intercettazioni. Non saranno più così utili per le indagini di mafia o di corruzione. Come si sa, nessuno denuncia fatti corruttivi, pertanto le intercettazioni sono fondamentali per scoprirli”. E ribadisce: “L’Anm auspica un ripensamento dell’intero assetto della riforma”. In questi mesi ci sono stati una serie di interventi sulla stessa lunghezza d’onda di pm e procuratori, da Roberto Scarpinato, Pg di Palermo a Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze a Giovanni Melillo, procuratore di Napoli, per citarne alcuni. Ieri, è intervenuto pure il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, con una lettera a Repubblica: “Il legislatore si è mosso in una logica non sistematica, ma dall’esclusivo punto di vista della tutela della riservatezza. Così facendo ha messo a serio rischio il diritto di difesa e, per quanto riguarda l’attività dei magistrati, (...) ha creato una ennesima serie di difficoltà operative e di adempimenti che rallenteranno ancora i tempi dei processi e assorbiranno risorse a danno delle indagini... Non posso fare a meno di chiedermi quanti processi salteranno perché le soluzioni che oggi sembrano logiche o almeno plausibili non saranno ritenute tali nei passaggi successivi. O addirittura giudicate incostituzionali”. Fra politica e giustizia di Lorenzo Erroi la Regione, 28 aprile 2018 Discutendo di democrazia, si dimentica spesso di osservarne un elemento fondamentale: il potere giudiziario. Errore fatale, come dimostra quanto accade nella “vicina penisola”. Dove il garantismo è stato sacrificato a uno Zeitgeist sempre più forcaiolo, e dove una parte della politica e della società civile ha creduto che potesse essere la magistratura a rimediare alle storture del Paese. Dopo l’arroccamento forzato del Pci nella bolla della questione morale, con Tangentopoli e l’ascesa del berlusconismo, fu anzitutto la sinistra a montare sulla sella di una magistratura ‘da combattimento’. Segue dalla Prima Ma fu presto il cavallo a condurre il fantino, inaugurando una stagione di avvisi di garanzia scriteriati e inchieste bislacche, e sbilanciando sempre di più gli equilibri costituzionali a favore dello strapotere giudiziario. Trattative e complotti - La stessa dinamica si è ripetuta con la presunta ‘trattativa Stato-mafià, pessimo esempio di feuilleton mediatico-giudiziario. La tesi: Cosa nostra avrebbe piegato i governi alle sue richieste per concludere la stagione delle stragi, che costarono la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza menzionare le bombe a Firenze, Milano e Roma. Ora i complottari hanno finalmente una loro sentenza, emessa la settimana scorsa dalla Corte d’Assise di Palermo. Secondo i giudici - togati e popolari - alcuni carabinieri dei Reparti operativi speciali fecero in effetti da ponte fra la mafia siciliana e il governo: il comandante Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donno e il generale Antonio Subranni, condannati a 12 anni. 12 anni anche a un uomo di Berlusconi, Marcello dell’Utri. 28 anni al boss Leoluca Bagarella, 8 a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Per tutti tranne che per Ciancimino, condannato per calunnia, la condanna è per “violenza a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato”, reato contestato solo un’altra volta nell’intera storia repubblicana. Spiegato brutalmente: aiutando la mafia a ottenere quel che voleva (in particolare l’attenuazione del regime di carcere duro, il cosiddetto 41bis), Mori e i suoi referenti avrebbero ‘stuprato’ lo Stato. Giustizia! Giustizia! E consueto giro di champagne fra i manettari: Marco Travaglio parla di “processo di Norimberga allo Stato italiano”, l’aspirante primo ministro Luigi Di Maio annuncia che “con le condanne di oggi muore definitivamente la Seconda Repubblica” (chi si ricordi cosa successe alla morte della Prima, si abbandoni pure agli scongiuri di rito). Accuse zoppicanti - A questo trionfo della giustizia sul malaffare politico (vergogna! vergogna!) manca solo una cosa: la giustizia. Anzitutto perché le prove sono alquanto esili. L’impianto accusatorio poggia su testimonianze giudicate false da altri tribunali e sulle dichiarazioni di alcuni mafiosi. Tant’è che tutti gli altri processi sono finiti con un’assoluzione. E non si sa bene quali siano stati il contenuto e gli effetti delle presunte trattative, dato che l’accusatore chiave - Ciancimino, già condannato per associazione mafiosa e ora per calunnia: uno credibilissimo - non ha mai presentato il presunto “papello” con le richieste di Totò Riina allo Stato. A buonsenso poi prima di comminare misure punitive così gravi la trattativa non deve solo esserci: deve ledere in modo grave il bene dello Stato. Difficile imputare un tale vulnus al mancato rinnovamento del 41bis per circa trecento detenuti: erano tutti pesci piccoli, la scelta di attenuare una detenzione altrove ritenuta tortura è perfettamente comprensibile, e non è provato che la scelta dell’allora guardasigilli Giovanni Conso sia in alcun modo legata alla presunta trattativa. Nel frattempo l’arresto di Riina segnava una sconfitta gravissima per il sistema mafioso. Ma a finire dietro le sbarre è proprio quel Mario Mori che arrestò Riina. Al “militare che ha catturato più mafiosi dai giorni dell’Unità d’Italia”, per dirla con Piero Sansonetti, si rinfaccia di avere ritardato la perquisizione del covo di Totò Riina e impedito l’arresto di Bernardo Provenzano, il successore. Accuse per le quali Mori era già stato assolto in via definitiva, ma che a una giuria popolare come quella d’Assise - più avvezza ai processi mediatici che a quelli in aula - bastano per indicarlo come ambasciatore della trattativa (si ricordi poi che la trattativa, di per sé, non è un reato: gli Stati trattano spessissimo, per esempio, con terroristi e sequestratori, a maggior ragione quando tutt’attorno esplodono bombe e magistrati; la pretesa che boss e Carabinieri non entrino mai in contatto va bene al massimo alle verginelle grilline). Manca un pezzo - Quanto agli interlocutori politici coinvolti - e parliamo di ben tre governi: Amato, Ciampi, Berlusconi - semplicemente non li hanno trovati. Nonostante le manie di protagonismo di una Procura che voleva perfino accedere alle intercettazioni del presidente Giorgio Napolitano. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falso per aver detto che degli incontri fra i Carabinieri e Ciancimino non sapeva nulla, è stato assolto. Certo, dopo il processo il pubblico ministero Nicola Di Matteo ha dichiarato al ‘Corrierè che “Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi”. Peccato che un’altra sentenza abbia già escluso per Dell’Utri ogni “accordo politico-mafioso” per “gli anni successivi al 1992”, e che Berlusconi fosse addirittura parte lesa al processo, tanto che alla presidenza del Consiglio è andato un risarcimento plurimilionario. Insomma: non si capisce bene quale Stato sia stato coinvolto nella trattativa. Che però per i giudici c’è stata. E quindi tutti dentro. In un Paese nel quale gli atti della giustizia non sembrassero scritti da Dürrenmatt, condanne così gravi in assenza di un quadro più chiaro sarebbero impensabili. Non in Italia, dove le aspirazioni poli- tiche di una parte della magistratura concorrono da decenni a sfornare sentenze mostruose. E dove la sfiducia nello Stato ha dato luogo a una miriade di leggende nere (anche perché lo Stato, in quanto entità astratta, non può difendersi). Toghe e poltrone - Il pm Di Matteo è già entrato in modalità dio-in-terra, come molti suoi predecessori. Prima come povero crocifisso, quando ha accusato l’Associazione nazionale magistrati di non averlo sostenuto (gli hanno dovuto far presente che il ‘sindacato’ dei giudici non è mai entrato nel merito specifico di un procedimento; e ci mancherebbe pure questa). Poi come messia, infilandosi in una fitta trattativa, questa sì sotto gli occhi di tutti, col Movimento 5 Stelle. Tanto che si è candidato a diventarne ministro e ha presentato a nome loro un programma di riforma della giustizia. Morale: la Terza Repubblica invocata dai grillini segue un solco tracciato ai tempi di Mani Pulite. Una conquista del potere attraverso i repulisti e le forche. Demonizzando lo Stato e politicizzando la giustizia, o meglio: giustiziando la politica, sistematicamente subordinata ai capricci delle corti. Naturalmente a furor di popolo, perché come diceva Georg Büchner - la cui “Morte di Danton” andrebbe mandata a memoria da ogni garantista - “il popolo è un Minotauro che deve avere ogni settimana i suoi cadaveri”. Una lezione da ricordare, non solo in Italia. Fu la Consulta a suggerire al ministro la revoca del 41bis per 334 mafiosi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2018 Stato-mafia, si opposero solo i Ros di Subranni, De Donno e Mori. I Ros e il generale Subranni (condannati una settimana fa a 12 anni di galera per aver trattato con la mafia), si opposero fieramente - alla revoca del 41bis (carcere duro) a 334 detenuti per mafia, che fu invece unilateralmente decisa dal ministro Giovanni Conso, Guardasigilli nel governo Ciampi. Poi c’è un’altra novità, accennata l’altro giorno da Luciano Violante, che ha deposto come teste al processo contro l’ex ministro Mannino: la decisione di Conso era motivata da una sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1993, la quale dichiarava illegittimi tutti i 41bis decisi “in blocco”. L’alta Corte spiegava, in questa sentenza, che il 41bis è una misura che può essere assegnata solo individualmente, e motivata in modo articolato caso per caso. Dunque quei trecento quarantanove 41bis, dei quali si occupò Conso, erano illegali. Ma allora, se l’unica misura considerata un beneficio per i mafiosi fu decisa sulla base di una sentenza della Consulta, forse il processo Stato- mafia doveva essere un processo Consulta-mafia? Esiste la sentenza della Corte costituzionale citata da Luciano Violante, ovvero quella che avrebbe influenzato l’ex ministro della giustizia Giovanni Conso riguardante la decisione di non prorogare il 41bis a 334 detenuti. L’altro ieri, durante la deposizione al processo d’appello all’ex ministro Calogero Mannino, assolto in primo grado dall’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato, Violante ha detto le testuali parole: “Le revoche dei 41bis ai mafiosi disposte dal ministro Conso nel ‘ 93, furono conseguenza di una sentenza della Corte costituzionale che impose valutazioni individuali per ciascun provvedimento di carcere duro a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi”. Ricordiamo che, secondo l’impianto accusatorio (al processo Stato-mafia), le revoche di diversi provvedimenti di 41bis decise da Conso sarebbero state uno dei segnali mandati dallo Stato alla mafia a dimostrazione della linea soft scelta nel contrasto ai clan in ossequio alla cosiddetta trattativa e in cambio della fine delle stragi. La sentenza della Consulta c’è stata e Il Dubbio l’ha potuta visionare. È la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 Luglio del 1993. Ricordiamo che il 29 ottobre - quindi 3 mesi dopo la sentenza - lo stesso Dipartimento di amministrazione penitenziaria inviò un documento in cui si chiedeva a diverse autorità - dalla magistratura alle forze dell’ordine - un parere sull’eventuale proroga del provvedimento a oltre trecento persone detenute. A questo si aggiunge un altro particolare. il 30 Luglio del 1993 - quindi due giorni dopo la sentenza della Consulta - l’ufficio dei carabinieri relativo al coordinamento servizi sicurezza degli istituti di prevenzione e pena ha chiesto un parere sull’eventuale proroga dei detenuti al 41bis direttamente ai Ros. A rispondere fu l’allora generale di brigata comandante Antonio Subranni - condannato assieme a Mori in primo grado per avere partecipato alla presunta trattativa - che ripose di essere favorevole all’applicazione del 41bis “per ottenere la recisione dei detenuti interessati dalle loro organizzazioni criminale, nonché la collaborazione di giustizia in favore dell’attività investigativa”. Quindi anche questo dettaglio - non di poco conto perché mette in discussione l’accusa nei confronti dei Ros che avrebbero trattato con la mafia - conferma le parole di Conso quando disse di aver agito in solitudine e secondo coscienza. I Ros erano contrari a concedere questo beneficio (se di beneficio si può parlare) ai detenuti. Conso, giurista, ex vicepresidente del Csm e della Corte Costituzionale, ministro tecnico nel governo di Carlo Azeglio Ciampi, non poteva disattendere ad alcune indicazioni tratte dalla sentenza della Consulta. Da dove aveva attinto l’imposizione di valutazioni individuali? Il passaggio è a pagina 9 del dispositivo: “Misure di tal genere - è bene sottolinearlo - devono uniformarsi anche ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, cui l’esecuzione deve essere improntata; principi, questi ultimi, che a loro volta discendono dagli artt. 27, primo e terzo comma, e 3 della Costituzione (cfr. sent. n. 50 del 1980 e n. 203 del 1991) nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (cfr. sent. n. 299 del 1992 e n. 306 del 1993) - ed implicano anch’essi l’esercizio di una funzione esclusivamente propria dell’ordine giudiziario”. Altro passaggio cruciale della sentenza è a pagina 11: “Deve ritenersi implicito - anche in assenza di una previsione espressa nella norma, ma sulla base dei principi generali dell’ordinamento - che i provvedimenti ministeriali debbano comunque recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono rivolti (in modo da consentire poi all’interessato un’effettiva tutela giurisdizionale), che non possano disporre trattamenti contrari al senso di umanità, e, infine, che debbano dar conto dei motivi di un’eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalità rieducative della pena”. La Corte, pur riconoscendo la costituzionalità dell’applicazione del regime duro, aveva indicato che la modalità di esecuzione del regime rispettasse il diritto di libertà senza reprimerlo in modo assoluto. Fu proprio per garantire, tra gli altri, il rispetto dell’art. 27 della costituzione che la stessa Consulta, con le osservazioni sopra riportate, impose di personalizzare la valutazione nel caso di applicazione del regime del carcere duro, anche in ragione dell’obbligatorietà della motivazione, che avrebbe cosi reso effettivo il diritto del detenuto di richiedere una valutazione dell’autorità giudiziaria. La finalità riabilitativa della detenzione non può essere derogata, soppressa o sospesa nemmeno per esigenze di ordine e sicurezza. L’allora ministro e uomo di diritto come Conso, non poteva quindi disattendere le indicazioni della consulta. I Ros dissero no, la Consulta disse sì. La storia messa alla rovescia di Piero Sansonetti Il Dubbio, 28 aprile 2018 E allora perché non processano i giuristi, tutti celeberrimi, che emisero la sentenza nel 1993? Forse perché sanno già cosa risponderebbero: “questo è il diritto, vostro onore”. Damiano Aliprandi spiega come andò la decisione di revocare il 41bis (carcere duro) a 334 detenuti, presa nell’autunno del 1993 dal ministro Giovanni Conso. Quella fu l’unica misura che potesse essere considerata un beneficio ai mafiosi. Quindi se bisogna parlare di trattativa tra Stato e mafia (come ha fatto la sentenza di Palermo) bisogna riferirsi prima di tutto a quella decisione di Conso. Prima però bisogna chiarire chi era Giovanni Conso. Non era un ministro prodotto dai “berluscones” o dai “partiti corrotti”. I “berluscones” ancora non si vedevano all’orizzonte. I “partiti corrotti” boccheggiavano sotto i colpi di Di Pietro. Conso era un giurista di primissimo ordine, e come tecnico era stato chiamato a far parte del governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi. Il quale a sua volta era uno tra gli economisti più prestigiosi di Europa. Conso in realtà era entrato anche nel precedente governo, quello di Giuliano Amato, il 2 febbraio del 1993 per sostituire Claudio Martelli, affondato da un avviso di garanzia del pool di Milano. Conso era stato chiamato proprio per il valore della sua figura, sia sul piano culturale che su quello morale, in un momento di crisi politica devastante, nella quale i partiti, come dicevamo, erano stati rasi al suolo dalla magistratura e dalla stampa. Benissimo: Conso si è sempre assunto la responsabilità di quella decisione. Non ha mai scaricato le responsabilità. Perché la prese? Ci fu una trattativa? No - spiega nel suo articolo Aliprandi, e ha accennato due giorni fa Violante - la decisione fu presa sulla base di una sentenza della Corte Costituzionale depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993. Questa sentenza stabiliva che il 41bis può essere applicato solo caso per caso, e deve essere motivato adeguatamente. Non può essere deciso in blocco per una categorie di detenuti. Per esempio quelli accusati di mafia. E siccome il 41bis era stato invece assegnato a quei 334 in blocco, non era valido e non poteva essere rinnovato. Giovanni Conso, in novembre, quando prese la decisione, non poteva fare altro che rispettare la sentenza della Corte. Poi, se volete divertirvi, potete giocare al gioco delle coincidenze con le date. La sentenza dell’alta Corte fu depositata in cancelleria la mattina dopo l’attentato di via Palestro, a Milano (5 morti), esattamente due mesi dopo l’attentato a Firenze (cinque morti). E la decisione di Conso fu operativa qualche giorno dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma (che, se fosse riuscito, avrebbe provocato decine e decine di morti) che è del 31 ottobre. Ma i processi non si fanno con il gioco delle coincidenze. Poi però ci sono delle cose che non sono coincidenze ma fatti reali. Per esempio è un fatto che i carabinieri del Ros, che oggi sono stati condannati per aver favorito (o addirittura realizzato) la trattativa, furono consultati prima della revoca del 41bis. Fu chiesto loro: “Siete d’accordo su questa revoca?”. Sapete cosa risposero, con una nota firmata dal generale Subranni in persona? Risposero secco: “No”. Personalmente nutro moltissimi dubbi sulla legittimità della risposta di Subranni. Il quale disse: niente revoca perché il 41bis serve per favorire dissociazioni e pentimenti. A me pare che una misura cautelare (come mi dicono sempre sia il 41bis) non possa essere usata come strumento di pressione sul detenuto, per farlo parlare, confessare, pentire o altro. Ma oggi non è questa polemica che ci interessa. Ci interessano i fatti. Risulta che il governo Berlusconi non fece nulla per favorire i detenuti, risulta che non fece nulla il governo Amato, e risulta che il governo Ciampi prese una misura che era imposta da una sentenza della Corte Costituzionale. Risulta che a questa sentenza si opposero quasi solo i Ros, e cioè i carabinieri che poi sono stati condannati. Capite bene che c’è qualcosa che non va. Se davvero i magistrati di Palermo sono convinti che la trattativa ci fu, dovrebbero forse interrogare i giudici dell’Alta Corte che presero quella decisione. Chi erano? Erano il gotha del diritto italiano. Giuristi del calibro di Francesco Paolo Casavola (che era il Presidente), Ugo Spagnoli, Vincenzo Caianiello, Mauro Ferri, Enzo Cheli, Renato Granata, Cesare Mirabelli, Francesco Greco, Gabriele Pescatore, Fernando Santosuosso. I magistrati dovrebbero, col piglio che ha contrassegnato tutti gli interrogatori a questo processo, chiedere loro: “chi vi spinse a emettere una sentenza che portava benefici ai detenuti sospettati o condannati per mafia”. Loro risponderebbero, all’unisono: “Il diritto, signor Pubblico Ministero. Il diritto che in uno stato di diritto vale più di ogni altra cosa”. No Tav, il maxiprocesso è da rifare di Mauro Ravarino Il Manifesto, 28 aprile 2018 La Cassazione annulla la condanna di 28 imputati per gli incidenti del 2011. Per altri chiede la rideterminazione della pena. Agli imputati furono inflitti pene pesantissime per complessivi 130 anni di reclusione. L’inizio estate del 2011 in Val di Susa fu bollente. Prima lo sgombero del “fortino”, la cosiddetta Libera repubblica della Maddalena, il 27 giugno, poi l’assedio al cantiere Tav di Chiomonte, il 3 luglio. Furono giornate di scontri a cui seguì un maxi-processo con una sentenza in appello, nel 2016, di condanna nei confronti di 38 attivisti con pene sino a 4 anni e 6 mesi di carcere. In tutto 130 anni di reclusione. Ieri, colpo di scena, la Cassazione ha annullato il tutto: dovrà essere, infatti, rifatto il processo di appello a carico dei militanti No Tav coinvolti nei tafferugli che si verificarono in Valle tra il giugno e il luglio di sette anni fa. Nello specifico l’appello bis riguarderà 27 imputati, per altri sette i giudici della Suprema Corte hanno confermato le responsabilità ma eliminando alcuni capi di imputazione, anche per loro ci sarà un nuovo giudizio per la determinazione delle pene che saranno, ovviamente, ridotte. Un imputato, Fabrizio Perottino, difeso da Roberto Lamacchia, è stato assolto per non aver commesso il fatto. Per un altro imputato la Cassazione ha confermato la condanna, ma annullato le “statuizioni civili”. “La Cassazione - ha sottolineato Gianluca Vitale, legale di alcuni No Tav - per quanto riguarda i fatti del 27 giugno 2011 ha messo in discussione il reato di lesioni e ha disposto che venga rivista la pena per gli imputati mentre per i fatti del 3 luglio ha rinviato a un nuovo processo. Non sappiamo al momento quali siano le motivazioni ma sicuramente quella che era l’ipotesi della procura torinese non ha retto”. Insomma, il verdetto, emesso il 17 novembre 2016 dalla Corte d’appello di Torino, è stato bocciato. Sono stati rimodulati anche i risarcimenti: come richiesto nella requisitoria dal procuratore generale, Roberto Aniello, sono stati annullati quelli in favore dei sindacati di polizia (“il sindacato non esplica a tutto campo la tutela dei lavoratori rispetto a fatti commessi da terzi. In nessun processo per resistenza ho mai visto i sindacati parte civile”), confermati, invece, nei confronti dei ministeri della Difesa, dell’Economia e dell’Interno. Esprimono soddisfazione i No Tav: “La sentenza della Cassazione annulla buona parte dell’impianto accusatorio della procura di Torino. Ci sono diverse assoluzioni per capi d’imputazione e risarcimenti non confermati. È la dimostrazione di quanto i due gradi di giudizio si basassero sulla vendetta politica”, hanno scritto sul sito notav.info. “La Corte d’appello - spiega il movimento No Tav - aveva assolto alcuni imputati per alcune contestazioni e dichiarato la prescrizione per reati minori. Aveva inoltre ridimensionato diverse pene inflitte, concedendo agli incensurati, per le pene inferiori ai due anni, la sospensione condizionale. Era però rimasto in piedi l’impianto accusatorio della Procura che il tribunale di Torino aveva fatto proprio respingendo ogni tesi difensiva. La Cassazione ha accolto diverse tesi dei difensori (per verificare in che termini è necessario attendere le motivazioni) con la conseguenza che per tutti gli imputati sono stati accolti in tutto o in parte i motivi di ricorso, tant’è che nessuno si vede confermare la stessa sentenza di condanna”. “Sicuramente sono molto soddisfatto, credo che l’impianto accusatorio contenuto nella sentenza sia stato fortemente intaccato”, ha dichiarato Claudio Novaro, avvocato di nove attivisti. “Adesso occorrerà attendere le motivazioni - spiega Novaro - ma sul piano processuale per le difese è un’ottima notizia”. Francesca Frediani, capogruppo M5s in Regione Piemonte ha affermato: “Finalmente buone notizie dai tribunali. Una ventata d’aria fresca, una vera rivincita per il movimento No Tav. Il processo a Torino si era svolto in aula bunker, il luogo dei maxiprocessi alla mafia. Le udienze erano state sempre molto partecipate. La solidarietà agli imputati è stata grande dall’inizio fino alla durissima sentenza. Oggi (ieri, ndr) si ristabilisce l’ordine in quello che più volte ho definito il mondo alla rovescia”. Dopo il deposito delle motivazioni, la Cassazione invierà gli atti a Torino, dove si svolgerà il processo d’appello bis. La messa alla prova regge alla Consulta, respinte le questioni di legittimità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2018 La messa alla prova regge al test di costituzionalità. Per la sentenza della Corte costituzionale n. 91, scritta dal presidente Giorgio Lattanzi, depositata ieri, infatti, devono essere respinte le questioni sollevate dal tribunale di Grosseto, tra le quali il fatto che, con la messa alla prova, si prevede l’applicazione di sanzioni penali non determinabili e poi che l’applicazione delle medesime sanzioni non rappresenta conseguenza di una condanna. La messa alla prova esiste dal 1988 per i minorenni e nel 2014 è stata estesa ai maggiorenni, tuttavia con limiti: il reato commesso non deve prevedere una condanna superiore a 4 anni e se ne può far richiesta una sola volta nella vita. Secondo gli ultimi dati disponibili, aggiornati a fine marzo, sono 12.278 le persone interessate dall’applicazione. La messa alla prova, osserva la pronuncia, anche se può essere assimilata al patteggiamento per il consenso che deve essere prestato a procedimento e conseguente trattamento, presenta aspetti peculiari, al punto da non consentire un riferimento nei termini tradizionali alle categorie costituzionali penali e processuali, perché il carattere innovativo della messa alla prova “segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio” (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 31 marzo 2016, n. 36272). Come hanno riconosciuto le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, questa nuova figura, di ispirazione anglosassone, realizza una rinuncia dello Stato alla potestà punitiva, condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita e si caratterizza per una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell’ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio Da un lato così prende corpo un rito speciale in cui l’imputato che rinuncia al processo ottiene il vantaggio di un trattamento sanzionatorio che esclude la detenzione; dall’altro l’istituto ha come obiettivo una forma di risocializzazione che scavalca la sequenza tradizionale cognizione- esecuzione della pena. Ed è in questo che si misura la differenza rispetto al patteggiamento, dove, in quest’ultimo, la sentenza concordata è allineata a quella di condanna sia pure con una riduzione di un terzo della pena; mentre l’esito favorevole della messa alla prova conduce a una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato. Tuttavia non è vero, precisa la Consulta, che la messa alla prova ignora qualsiasi giudizio di colpevolezza: una considerazione infatti, sia pure in via incidentale, non manca, visto che il giudice deve verificare che non ricorrano le condizioni per il proscioglimento. Nessuna contestazione, poi, sul fronte dell’indeterminatezza delle misure del programma di prova e sulla valorizzazione del consenso della persona interessata nell’accesso all’istituto e nel cambiamento del programma di prova stesso. Così la Consulta ha dichiarato che la messa alla prova non viola, tra gli altri, gli articoli 27 e 25 della Costituzione, sotto il profilo, rispettivamente, della presunzione di non colpevolezza e della determinatezza del trattamento sanzionatorio. La Consulta “promuove” la messa alla prova di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2018 Ieri i giudici hanno stabilito che non viola gli articoli 27 e 25 della costituzione. La Corte costituzionale “promuove” l’istituto della messa alla prova introdotto nel 2014, che ha passato indenne il vaglio di legittimità costituzionale. Con la sentenza n. 91 depositata ieri (relatore è il presidente della Corte Giorgio Lattanzi), la Consulta ha ritenuto che l’istituto in esame presenti aspetti che non sono riconducibili alle ordinarie categorie costituzionali penali e processuali, in quanto il suo carattere innovativo “segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio”, come già rilevato dalle sezioni unite della Cassazione con una sentenza del marzo 2016. Nel procedimento di messa alla prova manca infatti una condanna e, osservano i giudici costituzionali, “correlativamente manca un’attribuzione di colpevolezza dell’imputato”, il quale viene sottoposto, su sua richiesta, a un trattamento alternativo alla pena applicabile nel caso di un’eventuale condanna. Inoltre, anche l’esecuzione del trattamento è rimessa alla volontà dell’imputato, che può farla cessare in qualsiasi momento, facendo così riprendere il procedimento penale. Alla luce di ciò, la Corte costituzionale ha dichiarato che la messa alla prova non viola gli articoli 27 e 25 della Costituzione, sotto il profilo della presunzione di non colpevolezza e della determinatezza del trattamento sanzionatorio. Quindi la consulta non solo promuove la messa alla prova, ma dice molto di più. Non viola l’art 27 della Costituzione perché non c’è una condanna: infatti la messa alla prova sospende il procedimento su richiesta dell’imputato che aderisce ad un programma di risocializzazione e al termine, se la relazione dei servizi risulta positiva, il giudice dichiara estinto il reato, cioè come mai esistito. Quindi parliamo di un passo che prescinde dal giudizio di responsabilità dove uno può aderire anche se in teoria è stato colto in flagranza di reato purché incensurato e con una pena sotto i 4 anni. Non viola l’art 25 sulla presunzione di innocenza perché sulla valutazione della responsabilità non si addentra, si ferma prima, e comunque in qualsiasi momento chi sceglie di aderirvi può chiedere di rinunciare e scegliere di riaprire il processo per avere una valutazione sulla sua responsabilità penale. La sospensione del processo con messa alla prova è una modalità alter- nativa di definizione del processo. Si tratta di un istituto che ha natura consensuale e funzione di riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato. Conosciuto già dall’ordinamento processuale italiano, in ambito minorile e in fase di esecuzione nel procedimento per adulti, l’istituto in questione è stato esteso con la legge del 2014 al rito nei confronti delle persone maggiori di età per ovviare alle criticità del sistema penale, riconducibili sostanzialmente all’inflazione procedimentale e al sovraffollamento carcerario. La riforma dell’ordinamento penitenziario, se mai venisse approvata, la implementa e la estende per una fetta importante della popolazione detenuta. Cagliari: 48 ore in un carcere minorile di Stefania Chiale Corriere della Sera, 28 aprile 2018 Com’è la vita quotidiana per un ragazzo dietro le sbarre? Siamo entrati nell’Istituto penale di Quartucciu, Cagliari, dove le ore in cella sono poche, le attività molte, le storie drammatiche: c’è anche un giovane condannato per terrorismo internazionale. Con l’aiuto di agenti ed educatori, i reclusi cercano di ritrovare una difficile normalità Entro per la prima volta in un carcere. Lo faccio lontano dalle grandi città, su un’isola, a Cagliari. Ma dall’Istituto penale minorile (Ipm) di Quartucciu il mare è lontano, non se ne sente il rumore, non si vede l’orizzonte giallo e verde della Sardegna. Si sente solo il vento, fortissimo, che colpisce le finestre sbarrate e le fa tremare. Passo due giorni con i ragazzi che vivono dietro le due alte mura di cinta dell’Istituto, costruito nei primi Anni Ottanta come carcere di massima sicurezza (non lo sarà mai). Nei giorni in cui il governo approva la riforma delle carceri estendendo l’accesso a misure alternative alla detenzione, provo a scoprire sul campo com’è la vita quotidiana dei giovani detenuti. Le 17 carceri minorili d’Italia raccolgono in totale meno di 500 ragazzi. Pochi: la pena detentiva, per i minorenni, rappresenta già l’extrema ratio. Si tentano sempre altre vie, come l’affidamento in comunità. Prima di incontrarli so, quindi, che i ragazzi di Quartucciu hanno commesso un reato grave, sono pluricondannati o recidivi. Oppure sono in attesa di processo in misura cautelare detentiva. Sono 15 al mio ingresso, 17 quando esco. Minorenni e giovani adulti: i condannati under 18 possono restare negli istituti minorili fino a 25 anni. I reati: spaccio, furto, violenza sessuale, omicidio, terrorismo internazionale. Dovrei essere preoccupata? No, sono consapevole che sarà un’esperienza forte. Non potevo immaginare quanto forte, però. Venerdì, ore 6.30 - Mi sveglio a casa, a Milano. Prendo il primo aereo del mattino, attraverso la pianura padana, intravvedo qualche Appennino, il mare, poi la Sardegna. Viene a prendermi in aeroporto la direttrice del carcere, Giovanna Allegri. “Si preannuncia una giornata complicata: stanotte ci sono stati due arresti in flagranza di reato”. I due minori sono nel centro di prima accoglienza, di fianco al carcere, in attesa che il gip fissi un’udienza. Sono due quindicenni sardi rom, “ovviamente inconsapevoli di quanto sia successo”, commenta scoraggiata Gabriella, una dei sei educatori che lavorano a Quartucciu, passando con me e la direttrice attraverso il primo e il secondo cancello dell’Istituto. Ore 10.30 - Posso entrare nell’area detentiva solo con penna e taccuino. Niente telefono. Busso e aspetto che un agente di polizia penitenziaria giri la prima delle molte chiavi che vedrò usare in questi due giorni. Mi accolgono il comandante Alessandro Caria e l’agente Rosario Brienza. Con loro entro in cucina: quattro ragazzi vestiti da cuochi stanno facendo l’impasto per la pizza. Il corso di cucina è una delle attività che i detenuti svolgono durante la settimana. Gli altri, intanto, sono fuori per giardinaggio. Angelo, un pizzaiolo di Cagliari, sta insegnando come fare 50 panetti da 250 grammi ciascuno. “Dovete accarezzarla la pasta, deve avere la pelle vellutata, immaginate che sia la pelle della vostra ragazza”, dice ai quattro. Ahmed ha 17 anni, è arrivato in Italia dall’Algeria un anno e quattro mesi fa. È in carcere da due mesi (“credo”, dice, “non conto, altrimenti non mi passa più”). Domani qualcuno tornerà in cucina per fare i dolci al cioccolato. Si propongono tutti. Margherita Casula, educatrice, spiega che dovranno alternarsi. Gennaro ironizza con accento napoletano: “Margherì, ma se ci sono persone qui che fanno tutto! Manca solo che facciano pure gli agenti!”. Ridono. Gennaro ha 17 anni, è a Quartucciu da gennaio, prima era nel carcere di Napoli. Qui dice di stare bene, “ma a Napoli c’è la mia famiglia. Da quando sono qui l’ho vista solo una volta”. Stasera il vicedirettore Enrico Zucca mi farà immaginare il reato violento per cui Gennaro è dietro le sbarre: “È di Secondigliano. L’ambiente è quello della camorra”. Inizio ad avere una domanda fissa in testa: sarebbe qui Gennaro se non fosse nato e cresciuto a Secondigliano? E così per altri detenuti: stanno scontando una pena giusta per i reati commessi, alcuni gravissimi. Ma come ci sono arrivati? Che ruolo ha avuto il contesto che li ha formati? Ore 11 - Non ho bisogno di rivolgermi ad Arjan, 19 anni: attacca lui bottone. È loquace e gentile. “Io sono del Kosovo. Sai dov’è il Kosovo? È così piccolo che non esiste sulla cartina”, dice scherzando. Arjan è quell’Arjan Morina arrestato a 17 anni a Venezia con l’accusa di essere il componente di una cellula jihadista, insieme ad altri tre maggiorenni. Sta scontando una pena di 4 anni e 8 mesi per associazione con finalità di terrorismo internazionale. Di fronte a lui c’è Nabil. Ha 21 anni, origini marocchine, ma è nato in Sicilia e vive a Bologna. È a Quartuccio da un anno, dopo essere stato agli Ipm di Bologna, Caltanissetta, Torino e Palermo: “In tutto sono quattro anni che sto in carcere”. È dentro per spaccio. “Sei di Torino?”, indovina dal mio accento. “È bella? Ci sono stato, ma non l’ho vista. E la Sardegna? Com’è la Sardegna?”. A chi di voi piacerebbe fare il pizzaiolo come Angelo una volta fuori da qui?, chiedo. “Io no: voglio finire gli studi. Stavo facendo informatica”, dice Nabil. “Io magari sì”, dice Arjan, “ma anche il presidente”. Scusa? “Il presidente del Kosovo! Sognare non costa niente”, risponde sorridendo. Ore 12 - A mezzogiorno si mangia. C’è una mensa nella sezione sotto e una in quella sopra. Oggi mangio con i ragazzi sotto. C’è un incaricato al vitto, che prepara la tavola, e uno alla pulizia. Come per altre attività, le due mansioni corrispondono a qualche soldo, che i ragazzi possono usare per fare la spesa - “sigarette, Coca Cola, merendine, quello che vogliono gli adolescenti”, mi dice un agente - o per accumularli. Arjan ha appena inviato ai suoi genitori in Kosovo 500 euro. Al tavolo con noi c’è Karim, 18 anni, della Guinea. E Mahmoud, 19 anni, di Milano, con origini tunisine, in carcere dal 2015: prima di Milano, Torino e Quartucciu, è stato in galera in Tunisia. Il 5 maggio uscirà per andare in comunità. Anche Rachid, algerino, 17 anni, andrà in comunità. Ma è arrabbiato. Quando educatore e agente escono, mi mostra la pancia: ha due grandi cicatrici, probabile autolesionismo, e dice: “In carcere fa tutto schifo!”. Ore 14 - Dopo il pasto i ragazzi tornano nelle celle e riposano fino alle 15. Tranne Marco, 16 anni, sardo. Fa un tirocinio in lavanderia, è contento di lavorare. Salendo le scale per l’amministrazione, si ferma e fissa la finestra. “Il ragazzo non ha più visto il paesaggio”, commenta Zucca. “La cosa più difficile è dire dei “no” a questi giovani”, racconta Pietro Frau, ispettore capo e vicecomandante. “L’adulto ci pensa due volte prima di reagire male, loro no”. Gli agenti a Quartucciu - tutti in borghese, per legge - sono 30. “Il rapporto dovrebbe essere di 40 ogni nove detenuti”, spiega il comandante Caria. “Dobbiamo coprire sette giorni su sette, 24 ore su 24, accompagnare i ragazzi per qualsiasi cosa abbiano bisogno di fare o vogliano fare. Siamo decisamente sottorganico”. Ore 15 - Al piano di sopra c’è una sala musica, con batterie, tastiere e chitarre. Poco più in là, una biblioteca. Se vogliono salire e prendersi un libro? “Un agente dev’essere libero per accompagnarli”, mi spiega Margherita. A Quartucciu ci sono corsi per ottenere la licenza media o quella del biennio delle superiori, e un corso di alfabetizzazione. Franca Angioni insegna italiano agli stranieri, oggi aspetta Rachid, Ahmed e Karim. L’aula scolastica è a tutti gli effetti un’aula scolastica. Solo le sbarre alle finestre indicano che siamo in carcere. Entra Rachid, è ancora arrabbiato. “Qui sono tutti razzisti!”, urla, mostrando di nuovo la pancia. Dice che i compagni lo prendono in giro e gli dicono delle parolacce. Se ne va e rientra mezz’ora più tardi. Ha in mano il modulo da compilare per richiedere una telefonata straordinaria. “Chi devi chiamare Rachid?”, gli chiede dolcemente Franca. “Mamma”. La scuola può iniziare. Ore 16.30 - Arjan, Nabil, Mahmoud e Amadou - senegalese, 16 anni (ma qui pensano tutti che ne abbia almeno 24) - sono al corso di teatro. L’attrice Elena Pau e un gruppo di ragazzi del liceo Euclide di Cagliari sono arrivati per ascoltare le storie dei detenuti e scrivere con loro delle sceneggiature. Nabil scrive musica rap, racconta. Arjan parla del Kosovo e della montagna: “È bella, è buona da vedere, è fatta per meditare”. Quando il corso finisce, Arjan e Nabil interrogano i liceali sulle capitali del mondo. E scoprono di conoscerne molte di più loro. Ore 18 - A Quartucciu le celle sono da due o da tre. Ma ce ne sono anche di singole, come quella di Arjan. Un letto, un armadio, una scrivania con la televisione e il bagno. Mi mostra subito il tappeto su cui prega Allah, cinque volte al giorno. “La fede mi ha insegnato a rispettare le persone, adesso anche se sono solo mi sento felice”. Oggi si è svegliato alle 5 per la prima preghiera. Sull’armadio ha scritto: “La vita è difficile, ma devi lottare per quello che sei e che vuoi essere”. “Mi aiuta leggerlo ogni giorno. Devo vivere come io voglio. Se devo pagare, pago. Voglio tornare in Kosovo quando esco, mi voglio sposare e avere dei figli. Vorrei due bambine. Poi posso anche morire. Prima muoio, meglio è”. Arjan ha lasciato il Kosovo a 15 anni, si è trasferito da suo zio in Veneto. Dopo qualche mese ha litigato con lui ed è andato a Venezia. A 16 anni, mi racconta, è diventato “molto religioso. A 17 mi hanno arrestato”. Perché? “Perché facevo il bravo!”, esclama ridendo. “Non ho ammazzato nessuno, non ho mai fatto male a nessuno!”. Non gli dico subito che conosco la sua storia, voglio che ci arrivi lui. Ci arriva: racconta della differenza che corre tra una frase e un’azione, di come lui quella bomba sul ponte di Rialto non l’avrebbe mai messa - nelle intercettazioni lo si sente dire: “A Venezia guadagni subito il paradiso per quanti miscredenti ci sono qua. Metti una bomba a Rialto” - di come la sua religione gli “proibisca di uccidere”, della paura dell’Italia per l’estremismo religioso, che sfocia in “razzismo di Stato”. Ore 20 - Esco dall’Istituto. Non ho l’autorizzazione per restare la notte. Motivi di sicurezza: gli agenti diminuiscono e se mai ci fosse una rivolta potrebbe essere pericoloso. Sabato, ore 8.30 - Rientro in carcere. La sveglia per i detenuti suona alle 7.30. Alle 8 passa la colazione in stanza. Poi ci sono le visite mediche. Alle 9 i ragazzi escono dalle celle. In cucina con suor Silvia, responsabile della comunità Emmaus di Elmas, Arjan, Nabil, Gennaro e Ahmed fanno dolci al cioccolato. C’è anche Lucio Marzo, il ragazzo di Montesardo, oggi 18enne, accusato (e inizialmente reo confesso) dell’omicidio della fidanzata. Ha lo sguardo perso nel vuoto, completamente perso. In uno scatto d’iniziativa si avvicina ad Arjan: “Tu sei bravo in matematica, no? Ho 12 uova. Devo mettere due cucchiai di zucchero per ogni uovo. Quanto zucchero devo mettere?”. “24 cucchiai, Lucio”, risponde svelto Arjan. Ore 11 - La musica del rapper Ghali riempie la cucina: hanno collegato un lettore mp3 alle piccole casse. Arjan e Nabil fanno a gara a chi sa cucinare meglio le crêpes. I detenuti che hanno conosciuto anche altri istituti penali concordano nel dire che Quartucciu sia un carcere dall’approccio “soft”, come lo definisce l’agente Carmelo Atzeni. “Chiaro: c’è la limitazione della libertà. Ma cerchiamo di offrire una dimensione umana a questi ragazzi”, spiega il vicedirettore Zucca, qui dal 1993. “È fondamentale sospendere il giudizio rispetto al reato compiuto e concentrarsi sulla persona. In questo modo abbassi il suo livello di paura e tensione. Solo allora puoi affrontare il reato e fargli avere un atteggiamento critico su ciò che ha fatto”. Ore 12 - Mangio in mensa nella sezione di sopra. Gennaro e Nabil preparano i tavoli. Mi chiedono su quale giornale scriverò tutte le cose che sto annotando. Così ci mettiamo a parlare di informazione: “Abbiamo solo i tg. Se vogliamo un giornale dobbiamo richiederlo extra a nostre spese. E tanto poi portano L’Unione Sarda. Ma io vorrei un quotidiano più… nazionale, oppure quelli che leggo a Secondigliano!”, dice Gennaro. Mentre mangiamo, in carcere entrano i due ragazzi rom arrestati ieri: il gip ha deciso. Ore 15.30 - Arriva Simone, l’allenatore di calcio. I ragazzi sono già in palestra a giocare. Hanno tutti la divisa rossa e blu, dono del Cagliari. Si spostano all’esterno con Simone e inizia l’allenamento nel campetto da calcio: esercizio singoli, di gruppo e partita. Dopo due minuti il risultato è di 2-0 per la squadra di Amadou. Ore 17 - Zucca mi porta a vedere gli altri spazi per le attività e i laboratori, come la falegnameria, amatissima dai ragazzi. Nella stanza per i colloqui con i famigliari - il lunedì e il sabato - ci sono dei murales colorati. Come quello del pugile Muhammad Ali, poco più in là. Un mito di tanti ragazzi qua, soprattutto dei musulmani, “per i quali non si riesce a trovare un imam”, si lamenta Zucca. “Per i cattolici viene padre Gabriele”. Ore 20.30 - L’attività sportiva è terminata. I detenuti rientrano, accaldati. Qualcuno si accende una sigaretta nel “quartino”, il cortiletto interno. Amadou è seduto, per la prima volta in due giorni lo vedo sorridere. Ha righe bianche di sudore sul viso nerissimo. “Finalmente sono bianco!”, dice ridendo, e con lui i suoi compagni. Li saluto, mi domandano se tornerò a trovarli e mi chiedono di mandargli 7 all’uscita del reportage. Gli prometto che faremo entrare il Corriere a Quartucciu. Brindisi: bando di gara per demolizione e costruzione padiglione detentivo brindisireport.it, 28 aprile 2018 Valore stimato pari a tre milione di euro, 550 giorni per la realizzazione: fondi del Ministero Infrastrutture. Padiglione detentivo da abbattere e costruire nel carcere di Brindisi, con angoli dedicati allo svolgimento di diverse attività per i detenuti. Appalto del valore di almeno tre milioni di euro, finanziato con fondi messi a disposizione dal Ministero delle Infrastrutture. Il bando - La notizia attesa da tempo è arrivata oggi, direttamente dalla sede coordinata di Bari del provveditorato interregionale alle Opere Pubbliche per la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata, in coincidenza con la pubblicazione del bando di gara per l’affidamento dei lavori. La casa circondariale di via Appia avrà un nuovo “braccio”, un padiglione destinato all’accoglienza dei detenuti, da realizzare al posto di quello esistente “con annessi spazi per attività trattamentali”. Si tratta di lavori di “ristrutturazione ed adeguamento al Drp 230/2000” che, stando a quanto si legge nel bando, dovranno essere ultimati in un anno e mezzo, più esattamente nel termine di 550 giorni. In caso di ritardo è prevista l’applicazione di una penale pari all’uno per mille dell’importo contrattuale. L’importo - L’importo stimato ammonta a 3.062.354 euro e 53 centesimi, di cui 36.588,89 non soggetti a ribasso, mentre l’incidenza percentuale della manodopera è pari a un milione e 275.847,82 euro. Il bando, con procedura aperta, sarà aggiudicato scegliendo l’offerta economicamente più vantaggiosa. Il termine ultimo per la presentazione delle domande di partecipazione è il prossimo 7 giugno (alle ore 13). L’apertura delle buste è prevista per l’11 giugno in seduta pubblica, con inizio alle 10. Le offerte devono essere spedite al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Provveditorato interregionale alle Opere pubbliche, sede coordinata di Bari, in corso Antonio De Tullio, 1, 70122 Bari. Per avere ulteriori informazioni è possibile telefonare ai numeri: 080-5207277 080-5207257. Busto Arsizio: la Fp-Cgil denuncia “situazione drammatica nel carcere” imprese-lavoro.com, 28 aprile 2018 Questa volta i lavoratori ce l’hanno fatta a salvare da morte per auto-impiccagione un detenuto nel carcere di Busto Arsizio. Diversamente da ciò che è accaduto lo scorso 23 aprile, quando il corpo privo di vita di un detenuto diciannovenne è stato ritrovato col cappio al collo. “A poche ore da un nostro comunicato stampa di denuncia delle condizioni di detenuti, lavoratori e dello stesso carcere bustese - spiega la Fp Cgil in una nota - dobbiamo rincalzare il nostro appello: l’Amministrazione Penitenziaria, a livello locale e regionale, deve intervenire da subito per risolvere i pesanti problemi. Partendo dal sovraffollamento carcerario (oltre 430 detenuti a fronte dei regolamentari 298) che causa enormi disagi alle persone detenute, oltre a quelli dovuti al mix di diverse culture e ai soggetti più fragili, con problemi di salute mentale. Per arrivare all’organizzazione del lavoro degli agenti penitenziari. In particolare, preoccupa la nuova proposta del Direttore del carcere di diminuire i controlli delle sezioni attraverso turni di 8 ore, aumentando l’intensità lavorativa per operatori già provati. Come preoccupa l’idea di lasciare un solo agente per 2 sezioni detentive, un agente che, da solo, dovrebbe occuparsi di 120 detenuti. In queste condizioni, sarà possibile riuscire a salvare vite? Come Fp Cgil Lombardia e di Varese ringraziamo il lavoratore che oggi con spirito di abnegazione è riuscito a intervenire salvando il detenuto. E gli facciamo i nostri migliori auguri di pronta guarigione per l’infortunio che questo intervento gli ha causato”. Prato: interrogazione di Silli (Fi) sulla situazione del carcere Il Tirreno, 28 aprile 2018 Il parlamentare pratese di Forza Italia Giorgio Silli ha depositato, come anticipato nei giorni scorsi, l’interrogazione scritta al ministro della Giustizia per fare luce sulle complesse condizioni del carcere della Dogaia. Silli è primo firmatario di una serie di quesiti che in calce racano anche la firma di Erica Mazzetti (FI) e Giovanni Donzelli (FdI) e Guglielmo Picchi (Lega) Nel documento si fa menzione dell’ultimo grave episodio di aggressione avvenuto da parte di un detenuto nei giorni scorsi ai danni di un’agente della polizia penitenziaria. In ordine alla vicenda Silli domanda al ministro “se sia a conoscenza dell’episodio”, “se e quali interventi intenda attuare per poter verificare la situazione esistente” e “quali iniziative abbia assunto e intenda assumere per garantire adeguati standard di sicurezza nelle strutture afferenti alla gestione del Ministero della giustizia”. Stati Uniti. Uomini in carcere studiano di femminismo e mascolinità tossica di Serena Stefani* abbattoimuri.wordpress.com, 28 aprile 2018 “The Feminist on Cellblock Y”: un programma carcerario che sollecita gli uomini a studiare il femminismo, e prende in causa il problema della mascolinità tossica. “Può essere pericoloso essere femminista in prigione”, ha detto Richard Reseda. Richard Edmond Vargas, noto anche come “Richie Reseda”, è un criminale condannato per rapina a mano armata, che ha trascorso un po’ di tempo (da quando era un adolescente) in una prigione per soli uomini a Soledad, in California. “The Feminist on Cellblock Y”, è un documentario prodotto dalla regista Contessa Gayles, la quale segue la vita dell’ormai venticinquenne Reseda e dei suoi compagni di prigione durante la partecipazione a un programma di riabilitazione per detenuti, incentrato sulla letteratura femminista. Nel documentario viene riportato che “molti di loro escono ancora peggio di quando sono entrati”, in riferimento ai detenuti. Per contrastare questo particolare sintomo, questi uomini passano le loro giornate imparando a riconoscere il patriarcato, scoprendo il potere della vulnerabilità e combattendo personalmente la mascolinità tossica. Inoltre, il programma incoraggia gli uomini a confrontarsi con tutte le aree in cui questi ideali tossici di mascolinità hanno prevalso nelle loro vite. “Non possiamo combattere il nostro comportamento dannoso senza abbattere il patriarcato”, dice Reseda nel film. Reseda è il discepolo del co-fondatore e attivista di Black Live Matter, Patrisse Cullors. Le strade dei due amici si sono incrociate durante gli anni in cui Richie Reseda era alle scuole superiori e Cullors era suo professore e consigliere scolastico. Quest’ultimo ha continuato a sostenere Reseda e il suo programma da quando fu incarcerato. Lo ha anche menzionato nel suo libro “When they Call You A Terrorist”. “Questo documentario parla di un essere umano che non è stato abbandonato a se stesso. Ecco come dovrebbe essere la trasformazione attraverso la giustizia “, ha scritto di recente Cullors in un pungente post su Facebook parlando del documentario. “Questo è il motivo per cui credo non solo nella politica dell’abolizione (della repressione carceraria - ndb), ma anche nella sua pratica: il lavoro sull’abolizione può essere incasinato e a volte deludente, ma viene sempre ricompensato”. *Traduzione dell’articolo di Maya J. Boddie su Blavity Nicaragua. 63 civili morti per la repressione, critico l’ex presidente Bolanos di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 28 aprile 2018 Il bilancio della repressione delle proteste antigovernative iniziate la settimana scorsa in Nicaragua contro la riforma della sicurezza sociale è di 63 morti e almeno 15 dispersi, secondo i conteggi separati di tre organizzazioni locali di difesa dei diritti umani. La Commissione Permanente dei Diritti Umani (Cpdh) ha registrato 39 morti solo nella capitale Managua, che aggiunti a quelli a livello nazionale raccolti dal Centro Nicaraguense per i Diritti Umani (Cndh) e l’Associazione per i Diritti Umani (Anpdh) sommano 63 morti, informa su Twitter la giornalista Elizabeth Romero, del quotidiano oppositore La Prensa. Marcos Carmona, responsabile del Cpdh, ha aggiunto che almeno 160 dei feriti accuditi nelle strutture sanitarie presentano lesioni per armi da fuoco, fra i quali nove che hanno perso un occhio. Molto critico il giudizio dell’ex presidente del Nicaragua Enrique Bolanos, in carica dal 2002 al 2007, che ha pubblicato un messaggio sul quotidiano La Prensa. “A causa di questa cupidigia del leader, al popolo è toccato pagare con i morti, al Paese le conseguenze, e i signori della guerra alla fine si sono tenuti il bottino, che era quello che volevano. Da presidente a presidente, oggi faccio un richiamo al comandante Ortega per il suo gravissimo errore di permettere alla polizia un uso eccessivo della forza”, ha detto l’ex capo di Stato. Secondo l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani molte delle morti che si sono prodotte in Nicaragua durante le proteste antigovernative potrebbero essere “uccisioni ingiustificate”. “È essenziale che tutte le accuse di uso eccessivo della forza da parte della polizia e di altre forze di sicurezza siano investigate in modo efficace e che tutti i responsabili si assumano le proprie responsabilità” ha detto la portavoce dell’ufficio Onu Elizabeth Throssell. Ora la mediazione è affidata ai vescovi nicaraguensi dopo che l’esecutivo aveva ritirato la sua proposta di riforma. Ma i passi avanti sono pochi. Monsignor Rolando Alvarez, vescovo di Matagalpa, diocesi suffraganea della capitale Managua, ha indicato alla stampa che non è stata ancora fissata una data per l’inizio del dialogo né un’agenda precisa per le conversazioni, sottolineando che se la Chiesa “non vede buona volontà nelle parti, allora ci ritireremo come mediatori”. Guatemala. Almeno otto morti per scontri tra bande rivali in un carcere Nova, 28 aprile 2018 Almeno otto persone sono morte in Guatemala a seguito di una insurrezione scoppiata nel “Granja Penal Canadà”, carcere nella cittadina meridionale di Escuintla. Lo riferisce la Direzione generale del sistema penitenziario (Dgps) in una nota. Gli incidenti sono scoppiati nel tardo pomeriggio di giovedì, ha segnalato il direttore della Dgsp Juvell de Leon: “A quanto pare gruppi che lottano per il potere o per affari illeciti hanno scatenato una rissa degenerata in scontri a fuoco”, ha spiegato il direttore citato da “Prensa Libre”. Le morti, e i circa 25 feriti di cui parlano le autorità locali, sono state quasi tutte causate da colpi d’arma da fuoco. Almeno una delle vittime, secondo quanto riferisce la testata “Telesur” sarebbe morta con la scossa ricevuta dal filo ad alta tensione toccato nel tentativo di scavalcare la recinzione. (Mec) © Agenzia Nova - Riproduzione riservata