Il senso di un progetto con le scuole dove a parlare sono prima di tutto le persone detenute di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 27 aprile 2018 Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, nel proporre qualche tempo fa una ricognizione sui progetti di conoscenza del carcere destinati agli studenti delle scuole secondarie superiori, così descrive i risultati di un progetto realizzato dall’Amministrazione stessa nel Lazio: “Gli studenti hanno dimostrato di avere acquisito una maggiore sensibilità verso i problemi sociali e verso la condizione detentiva, avendo compreso che il carcere, luogo di sofferenza e di revisione critica del passato deviante, offre, a chi vi è rinchiuso, possibilità di recupero e di reinserimento sociale”. Anche noi a Padova, quindici anni fa, quando abbiamo avviato un confronto tra il mondo della scuola e il carcere, immaginavamo che fosse importante raccontare la vita detentiva, i percorsi di reinserimento, la rieducazione. E lo è, anche noi non trascuriamo questi aspetti, che affrontiamo spesso con i magistrati di Sorveglianza, con vittime di reati, con operatori, ma oggi, pur rispettando i progetti diversi dal nostro, non torneremmo mai indietro, a questa idea cara a tanti, del progetto in cui si passano in rassegna i punti di vista della polizia, degli educatori, del direttore, dei magistrati sulle pene e sul carcere. Perché parlare del carcere ai ragazzi significa parlargli di qualcosa, che loro ritengono estraneo alle loro vite, e noi invece vogliamo “attrezzarli” a pensare che può capitare a chiunque di sbagliare, di compiere un gesto violento, di “scivolare” dalla trasgressione all’illegalità. Il nostro, quindi, è un faticosissimo viaggio dentro al Male, un viaggio che nessuno di noi, persone “perbene”, riuscirebbe mai a fare se non ci accompagnassero in questo percorso quelli che il male lo conoscono, lo hanno fatto, ne sanno spiegare i meccanismi più complessi, gli ambienti in cui si è più a rischio. Il racconto, la testimonianza di come si può arrivare a commettere un reato portano con sé conseguenze forse inattese: da una parte, le persone detenute imparano a dialogare con l’Altro da sé, rappresentato prima di tutto dagli studenti, spesso inizialmente diffidenti o magari pieni di pregiudizi che poi piano piano “si sciolgono”. Ma, stranamente, il dialogo inizia anche con se stessi, perché spesso, per fare il male, bisogna mettere a tacere dubbi, ansie, paure e fingere una sicurezza che non si ha. Ho sentito tanti detenuti raccontare che proprio dal confronto con gli studenti “si è riaperto un dialogo” dentro loro stessi, con le proprie voci interiori. E ho sentito pronunciare parole “antiche” come coscienza, coscienza della propria responsabilità, coscienza del male fatto, coscienza di un limite, che non si è saputo rispettare. E restituzione. Una parola apparentemente insignificante, che invece, quando parliamo di dare un senso alla pena, assume un valore fondamentale: quello di combattere la pena inutile, il male per il male, e di portare al centro l’idea che anche il colpevole del reato più grave può restituire qualcosa, può prendere la sua storia, ripensare ai passaggi più significativi, e metterli a disposizione dei “buoni”, di chi il male non l’ha fatto, ma non per questo deve sentirsi tranquillo. Al dialogo poi si accompagna l’ascolto: ascoltano gli studenti, rispettando il patto del silenzio che si stabilisce all’inizio dell’incontro, ascoltano i detenuti, perché gli studenti non sono passivi. Le loro domande, severe, pungenti, ma anche profonde, qualche volta provocatorie, sono “il sale” del progetto, e tanto più lo sono se si pensa che tanti detenuti al processo hanno negato, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, e poi qui, di fronte a dei ragazzi, si sentono in dovere di parlare, di scandagliare il loro passato, di ricostruire l’origine delle loro scelte devianti a partire dall’adolescenza, perché è lì che nascono i comportamenti più pericolosi. Per finire, questo progetto compie un altro piccolo miracolo: fa parlare i ragazzi, senza astio o pregiudizi, di un tema drammatico come l’ergastolo. E lo fa grazie a quei detenuti di Alta Sicurezza, che hanno deciso di abbandonare la strada di un silenzio irresponsabile per percorrere quella, oltremodo stretta e poco gratificante, dell’assunzione di responsabilità. È bello, e lo dico senza il timore di apparire ingenua, sentire queste persone non solo riconoscere i propri reati, ma anche e soprattutto farlo in un luogo, la redazione di Ristretti, di fronte a tanti ragazzi, senza trarne nessun vantaggio particolare. È strano, ma durante questi incontri si ha come la sensazione che non è fuori moda credere nelle Istituzioni. E però anche le Istituzioni devono dimostrare che il cambiamento è possibile, e che in carcere non viene ostacolato, ma promosso, discusso, valorizzato. Carceri, è ancora tira e molla. Orlando: subito la riforma Avvenire, 27 aprile 2018 Sulla riforma del sistema penitenziario, da settimane in attesa, il ministro della Giustizia Andrea Orlando chiede un’accelerata e chiama in causa il governo, invitando il Consiglio dei ministri a deliberare sul provvedimento in caso di ostruzionismo del Parlamento. Anche perché il rischio che il sovraffollamento delle carceri torni a crescere è concreto e con esso anche quello di un aumento del radicalismo. Il braccio di ferro sul testo, un decreto legislativo che estende la possibilità di accesso alle misure alternative, va avanti da prima delle elezioni e si è trascinato con il nuovo Parlamento. Tra dicembre e febbraio il provvedimento è passato due volte in Consiglio dei ministri per le modifiche chieste dalle commissioni giustizia: pareri non vincolanti, che il governo ha accolto solo in parte. Poi a metà marzo, il terzo passaggio in Cdm e l’invio alle nuove Camere, con Orlando che puntava alla commissione speciale, quella istituita per gli affari urgenti, Def in testa. Da quel momento in poi è iniziato un tira e molla. Lega e Fratelli d’Italia contrari alla norma, la bollano come “salva-ladri”, contrari a qualsiasi accelerazione; anche tra alcuni sindacati di polizia penitenziaria circolano dubbi. Sul fronte opposto Pd, Garante dei detenuti e penalisti chiedono di varare una riforma giudicata prioritaria e di sistema. Dai Cinque Stelle, che per settimane hanno polemizzato parlando di “regalo ai criminali” e smantellamento del 41 bis, è poi arrivata un’apertura di massima a esaminare il decreto in commissione speciale. Lo stesso presidente della Camera, Roberto Fico, a cui Orlando aveva scritto - così come alla presidente del Senato, Casellati - ha chiesto ai gruppi parlamentari una riflessione. La riforma, di per sé, non smantella il 41 bis ne prevede automatismi nei benefici ai detenuti: semmai ne elimina. Ma è chiaro che incide su un terreno, quello della sicurezza, che è campo aperto di scontro politico. Orlando, a questo punto, ha voluto ricordare che se il Parlamento fa melina, i termini di legge rispetto alla trasmissione del decreto sono decorsi e se vuole il governo può fare da solo. Nel contempo ha chiesto responsabilità al Parlamento, perché da poco l’Italia è uscita dal faro di osservazione del Consiglio d’Europa per le carceri sovraffollate, ma se i numeri tornano a salire, cresceranno anche le tensioni in cui prolifera la radicalizzazione. “Se il Parlamento fa ostruzionismo il Consiglio dei ministri deliberi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2018 La proposta del Ministro della Giustizia Orlando per portare in salvo la riforma del carcere. Il ministro della giustizia Orlando ha chiesto al Consiglio dei ministri di rompere gli indugi e di deliberare sulla riforma del sistema penitenziario, nel caso in cui si verificasse ostruzionismo da parte del Parlamento. Oramai il tempo è scaduto. La legge n. 103 del 2017 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) aveva delegato il governo (art. 1, comma 82) ad adottare decreti legislativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Il comma 83 ha delineato chiaramente i tempi e il procedimento per l’attuazione della delega. Quanto ai termini, la disposizione prevede che tale delega debba essere esercitata entro un anno dall’entrata in vigore della stessa legge 103 e dunque entro il 3 agosto 2018. Quanto al procedimento per l’attuazione della delega, la legge dice che gli schemi di decreto legislativo devono essere trasmessi alle competenti commissioni parlamentari per il parere, da rendere entro 45 giorni, decorsi i quali i decreti potranno essere comunque adottati. Qualora detto termine venga a scadere nei trenta giorni antecedenti lo spirare del termine di delega, o successivamente, quest’ultimo termine è prorogato di sessanta giorni. Se il governo non intende conformarsi ai pareri parlamentari, la legge stabilisce che dovrà trasmettere nuovamente gli schemi alle Camere con i necessari elementi informativi e le motivazioni delle scelte legislative. La Commissioni dovranno esprimersi nei successivi 10 giorni. Decorso questo termine, i pareri potranno comunque essere adottati. Tutti passaggi, tranne il via libera definitivo, già effettuati. Infatti il guardasigilli ha ricordato che la trasmissione dello schema di decreto sull’ordinamento penitenziario alle Camere è avvenuta prima del loro insediamento, lo scorso 20 marzo, e ora sono decorsi 10 giorni dall’insediamento delle Commissioni speciali. Quindi il Consiglio dei ministri ha tutto il diritto di dare il via libero definitivo a quella parte dei decreti attuativi che hanno effettuato già tutto l’iter previsto dalla legge delega. D’altronde, lo stesso ministro Orlando, aveva inviato ben due lettere ai presidenti delle Camere per chiedere che le commissioni si occupassero del decreto attuativo della riforma. Il ministro ricorda che ora il tempo è scaduto e il Consiglio dei ministri, se vuole, può legittimamente dare il via libera al decreto. D’altro canto il ministro Orlando ha richiamato la necessità che il Parlamento sia responsabile visto che solo da poco l’Italia è uscita dalla supervisione del Consiglio d’Europa a seguito dell’esecuzione della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: una sentenza che ha invitato l’Italia a implementare l’utilizzo delle misure alternative al carcere. Ha anche sottolineato di come il problema del sovraffollamento stia riemergendo, con il rischio che il peggioramento delle condizioni detentive favorisca possibili situazioni di tensione nella quale, peraltro, possono svilupparsi fenomeni di radicalizzazione sino ad oggi adeguatamente tenuti sotto controllo. Il Pd è in campo con l’avvocatura per sbloccare la riforma del carcere di Marcello Iantorno* Il Dubbio, 27 aprile 2018 Da un lato il pressing dei capigruppo perché le commissioni esaminino i decreti, dall’altra l’adesione all’iniziativa dell’Ucpi, votata anche a livello locale, com’è successo in Lombardia. Il prezioso e puntuale lavoro di contro-informazione che sta facendo Il Dubbio e la mobilitazione che si sta portando avanti da parte di numerose, autorevoli figure e, in modo convinto, da parte dell’avvocatura hanno ulteriormente sensibilizzato alcune forze politiche, e tra queste il Pd, da tempo impegnate sul tema della riforma dell’ordinamento penitenziario. L’obiettivo, evidente, è evitare che tutto il lavoro compiuto finora vada nel dimenticatoio. Nei giorni scorsi questo giornale ha riferito dell’adesione della Assemblea regionale lombarda del Pd votata nella riunione dello scorso 14 aprile - alla presenza, tra gli altri, del ministro Martina, degli onorevoli Guerini, Fiano e di numerosi altri parlamentari e amministratori locali - all’iniziativa assunta dallo stesso partito in Parlamento: proporre ai presidenti delle Camere di inserire all’ordine del giorno delle commissioni speciali l’esame dei decreti sulla riforma del carcere, uno dei quali già adottato due volte in via preliminare dal governo, in modo che le stesse commissioni esprimano i necessari parei. La stessa Assemblea lombarda ha approvato la proposta di adesione e condivisione, da parte del Partito democratico, alle giornate di astensione indette dall’Unione Camere penali per il 2 e il 3 maggio. Oltre che sul piano formale, l’organo di rappresentanza regionale riunitosi due settimane fa a Milano ha contribuito in senso più generale, alla presentazione della richiesta da parte dei capigruppo del Pd Francesco Boccia e Gianni Pittella, avvenuta lo scorso 23 aprile, affinché le commissioni speciali di Camera e Senato procedano in modo da evitare che i decreti attuativi vadano in scadenza ad agosto. E anche in conseguenza di tali sollecitazioni, il presidente della Camera Roberto Fico ha chiesto alle forze politiche rappresentate in Parlamento una riflessione sulla opportunità di inserire i due decreti sul carcere nel calendario dei lavori. Non si può sottovalutare dunque l’impegno messo in atto dal Pd nel suo insieme. Vale la pena di richiamare qui le dichiarazioni rilasciate dalla deputata Chiara Braga, eletta proprio in Lombardia e chiamata a rappresentare il partito nella commissione speciale di Montecitorio: “Chiediamo che le altre forze politiche abbandonino la demagogia e consentano di arrivare in fondo a un provvedimento atteso da anni. Quella del sistema penitenziario è una riforma equilibrata, costruita in modo condiviso e apprezzata da tutti i soggetti coinvolti. Chi parla di provvedimento svuota-carceri non conosce i contenuti della riforma ed è palesemente in malafede. Penso che il Parlamento possa dare su questo tema un segnale importante e di responsabilità”. A loro volta i capigruppo Pittella e Boccia, nella conferenza stampa tenutasi alla Camera il 23 aprile, hanno ricordato che il Pd “è impegnato nell’ottenere lo sblocco dei decreti attuativi 17 e 18, senza i quali la riforma dell’ordinamento è destinata a morire”, a fronte del “tentativo della Lega di insabbiare questi provvedimenti. Impedire alle commissioni speciali di esaminarli vuol dire affossare il grande tentativo di riforma fatto dal ministro Orlando”. E hanno appunto invitato i presidenti di tutti gli altri gruppi parlamentari a “calendarizzare quanto prima la discussione sui due decreti”. È importante che gli operatori e i soggetti interessati alla riforma sostengano con manifestazioni pubbliche queste iniziative parlamentari, e che non si perda l’occasione storica di condurre a termine un lavoro di anni, che costituisce una conquista di civiltà. *Membro del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Como - Componente dell’assemblea regionale del Pd in Lombardia Consulta: giustizia lenta, ok agli indennizzi per i processi in corso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 aprile 2018 Censurato l’articolo 4 della “Legge Pinto”, nata per prevenire l’eccessiva durata dei procedimenti. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la “legge Pinto”, nata per prevenire e indennizzare i ritardi causati dalla lentezza della giustizia, quando non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento in cui è maturato l’irragionevole ritardo. “Dopo il forte monito contenuto nella sentenza n. 30 del 2014 - si legge nella nota della Consulta - la Corte costituzionale ha censurato l’articolo 4 della legge n. 89 del 2011 con riferimento ai principi di ragionevolezza e di ragionevole durata del processo (articoli 3 e 111 della Costituzione) nonché ai principi sanciti negli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La disposizione censurata con la sentenza n. 88, non offre infatti alcuna tutela proprio nei casi più gravi, nei quali non vi è neppure certezza che la sentenza, ancorché in ritardo, possa comunque arrivare”. Continua la nota della Consulta: “Posta di fronte a una grave lesione di un diritto fondamentale, la Corte è stata costretta a porvi rimedio, rinviando alla prudenza interpretativa dei giudici di merito la possibilità di applicare in modo costituzionalmente corretto la legge Pinto, come modificata dalla pronuncia di incostituzionalità”. Fermo restando l’auspicata opportunità che il legislatore provveda a integrare il testo così modificato, in modo da rendere maggiormente funzionale la tutela del diritto alla ragionevole durata del processo, in proposito, la sentenza afferma: “Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione”. Plaude Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale: “La sentenza della Corte Costituzionale sull’irragionevole durata dei processi è di fondamentale importanza perché afferma un principio basilare in democrazia: si nega giustizia al cittadino quando la giustizia è così irragionevolmente lenta da sconvolgere o fortemente condizionare il corso della vita degli individui. La violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo è ed è stata centrale nell’azione politica del Partito Radicale e di Marco Pannella”. Rita Bernardini poi aggiunge: “Nel penale, per esempio, chiedere l’amnistia per ridurre il contenzioso di milioni di procedimenti penali pendenti significa far ripartire una macchina oggi pressoché paralizzata, tanto più che decine di migliaia di procedimenti cadono in prescrizione ogni anno con conseguenze devastanti per le vittime dei reati; così come, anche per il colpevole, dover andare in carcere dopo molti anni dal fatto reato costituisce un danno irreparabile se nel frattempo si è ricostruito una vita, riabilitandosi senza l’intervento dello Stato”. Ma che cos’è la Legge Pinto che, secondo la Consulta, ha dei passaggi incostituzionali? È una legge che riconosce a coloro che hanno dovuto affrontare un processo di durata irragionevole, la possibilità di richiedere un’equa riparazione per il danno patrimoniale o non patrimoniale subito. Si tratta, chiaramente, di uno strumento processuale volto a combattere il fenomeno, assai diffuso in Italia, della lunghezza eccessiva dei processi. Ma cosa si intende per durata ragionevole di un processo? Per il primo grado di giudizio si reputano ragionevoli tre anni, per il secondo grado due anni e per il grado di legittimità un anno. Altri termini valgono per i procedimenti di esecuzione forzata, che si considerano di durata ragionevole se contenuti nel termine di tre anni, e per le procedure concorsuali, che si considerano di durata ragionevole se contenute nel termine di sei anni. Il termine ragionevole si ritiene in ogni caso rispettato se il giudizio definitivo e irrevocabile giunge nel termine massimo di sei anni. Processi lunghi, istanze anticipate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2018 Corte costituzionale, sentenza 26 aprile 2018, n. 88. L’indennizzo per l’eccessiva durata del processo, previsto dalla legge Pinto, può essere chiesto anche durante il giudizio. La Corte costituzionale (sentenza n. 88 depositata ieri) ha censurato l’articolo 4 della legge 89/2011 nella parte in cui non prevede la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione anche nel corso del procedimento in cui è maturato il ritardo irragionevole. Un verdetto che arriva come risposta a quattro ordinanze interlocutorie, con le quali la Cassazione ha sollevato la questione di costituzionalità. La norma censurata, nel significato divenuto ormai “diritto vivente”, condiziona, a pena di inammissibilità, la proponibilità della domanda, alla definizione del processo. La Consulta, analizzando una questione analoga (sentenza 30/2014) aveva sollecitato l’intervento del legislatore, considerando il differimento della domanda un pregiudizio all’effettività del rimedio: un monito al quale non ha fatto seguito un intervento risolutivo. Né il vulnus costituzionale, riscontrato, può dirsi superato dai rimedi preventivi introdotti dalla legge di Stabilità del 2016 (legge 208/2015), che ha modificato la Pinto. Disposizioni limitate ai processi che al 31 ottobre 2016 non avessero ancora “sforato” e non fossero stati decisi e dunque inapplicabili alle altre ipotesi. Le innovazioni, tarate sulle diverse tipologie processuali (civile, penale, amministrativo ecc.), consistono o nell’impiego di riti semplificati, già previsti dall’ordinamento o nella formulazione di istanze acceleratorie. Ma non risolvono il problema. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha chiarito che i rimedi preventivi, eventualmente associati agli indennitari, sarebbero anche preferibili, ma sono inadeguati nei paesi dove esistono già violazioni legate alla durata dei procedimenti. A questo la Consulta aggiunge che i rimedi non vincolano il giudice rispetto alla richiesta, restando tra l’altro “ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti” (articolo 1-ter, comma 7, della legge Pinto modificata). Rinviare alla conclusione della causa l’unico strumento “riparatorio” rende irragionevole una disciplina tesa a garantire un diritto. Appurata l’incostituzionalità, non sanabile in via interpretativa, tanto più quando sono in gioco diritti fondamentali, la Corte è comunque tenuta a porvi rimedio, a prescindere da quanto prevede o non prevede la norma. Ancora una volta tocca al giudice garantire la tutela e il legislatore dovrà celermente, se occorre, disciplinare. “Spetterà, infatti - si legge nella sentenza - da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione”. Inumana detenzione: niente indennizzo al detenuto se non ha pagato le pene pecuniarie di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 26 aprile 2018 n. 10130. Il ministero della Giustizia può compensare il credito vantato nei confronti del detenuto per il mancato pagamento delle pene pecuniarie, trattenendo il denaro destinato a risarcire la detenzione inumana. La pena pecuniaria rappresenta, infatti, un’entrata patrimoniale dello Stato, che può essere riscossa mediante ruolo. E l’ordinamento non contempla un divieto di compensazione per le entrate patrimoniali, neppure in riferimento alle tributarie vista la possibilità di pagare spontaneamente attraverso la compensazione volontaria del credito di imposta. La Corte di cassazione, con la sentenza 10130 respinge il ricorso contro il decreto con il quale il tribunale aveva dichiarato estinto il credito vantato da un detenuto per 4.144 euro, accertato per le condizioni inumane subite durante la carcerazione. L’ indennizzo, previsto dall’articolo 35-ter dell’ordinamento penitenziario, era “sfumato” perché destinato a compensare un maggior debito per le pene pecuniarie non pagate. Ad avviso della difesa però il risarcimento per i trattamenti inumani non poteva essere destinato a compensare un controcredito. Per la Cassazione invece si può. I giudici precisano, infatti, che la pena pecuniaria è una voce delle entrate dello Stato e può essere riscossa coattivamente mediante ruolo. I giudici ricordano che persino per le entrate tributarie è consentita la compensazione tra debiti e crediti “fatta salva in quel solo caso l’identità della natura dei crediti (tributari) da compensare”. Una relazione di identità, stabilita eccezionalmente, nel caso del tributo, in virtù del quale non può essere estesa oltre l’ambito per il quale è contemplata. Per tutte le altre entrate l’amministrazione può compensare a prescindere dalla fonte del credito, con il solo limite della certezza del diritto vantato. Concordato in appello, il ricorso è inammissibile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 26 aprile 2018 n. 18299. Col “concordato in appello”, introdotto l’estate scorsa per finalità deflative, con una novella al codice di procedura penale, la decisione diventa inoppugnabile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la decisione n. 18299 del 26 aprile 2018, dichiarando inammissibile il ricorso di due persone condannate alla “pena concordata con la pubblica accusa, previa rinuncia degli ulteriori motivi relativi, in particolare, all’affermazione della penale responsabilità”. Contro questa decisione, invece, entrambi gli imputati hanno proposto ricorso in Cassazione “denunciando genericamente una violazione di legge e una mancanza o illogicità della motivazione in ordine al mancato proscioglimento e alla mancata esclusione della contestata recidiva”. I giudici di legittimità ricordano che a seguito della novella - applicabile al caso in quanto i ricorsi sono stati proposti l’11 dicembre 2017, dunque, dopo l’entrata in vigore della legge 23 giugno 2017 n. 103 (2 agosto 2017) - “gli articoli 599 bis e 602 comma 1 bis c.p.p. hanno previsto il cd. concordato a seguito di rinuncia ai motivi di appello che ripropone, in sostanza, la situazione processuale e quindi l’applicabilità della vecchia giurisprudenza in tema di “cd. patteggiamento in appello”. Secondo questa giurisprudenza, prosegue la decisione, “il Giudice d’appello nell’accogliere la richiesta avanzata a norma dell’articolo 599 c.p.p., comma 4, non era tenuto a motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per taluna delle cause previste dall’articolo 129 c.p.p., né sull’insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità della prova, in quanto a causa dell’effetto devolutivo, una volta che l’imputato avesse rinunciato ai motivi d’impugnazione, la cognizione del Giudice doveva imitarsi ai motivi non rinunciati”. Pg Cassazione: avocazione senza automatismi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2018 Era una delle misure più temute, e contestate, dalla magistratura nell’ambito della recente riforma del processo penale. La versione che sta prendendo corpo sul campo potrebbe però essere assai meno dirompente. Si tratta dell’avocazione disposta dalla legge 103/2017, in vigore dall’agosto scorso, che prevede la sottrazione del fascicolo al Pm da parte del Procuratore generale quando entro 3 mesi (15 mesi per i casi più complessi o indagini contro la criminalità organizzata) dalla conclusione del termine previsto per le indagini preliminari non è presa una decisione sull’azione penale (richiesta di rinvio a giudizio o archiviazione). Una norma da subito contestata dall’Anm e, da ultimo, in audizione congiunta davanti al Csm dai capi delle principali procure (Francesco Greco, Milano; Giovanni Pignatone, Roma; Francesco Lo Voi, Palermo; Armando Spataro, Torino; Giovanni Melillo, Napoli). Tutti concordi nel mettere in evidenza il rischio di un rallentamento o di paralisi del lavoro delle Procure, nel caso di una rigida interpretazione della riforma, con il transito di migliaia di fascicoli alle Procure generali già alle prese con forti carenze di organico. Ora, le linee guida messe a punto dalla Procura generale della Cassazione e trasmesse ai procuratori generali presso le Corti d’appello sembrano attenuare, se non scongiurare, questo pericolo, evitando qualsiasi automatismo nell’applicazione. Si sposa così una lettura che lascia un margine di discrezionalità ai Pg nella lettura di quel “dispone l’avocazione” imposto dalla legge. Per il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio “l’indiscriminata avocazione di ogni procedimento penale che abbia visto scadere i termini senza una decisone del Pm, comprometterebbe la stessa organizzazione degli uffici. Un’avocazione di massa non potrebbe che scontrarsi con le limitatissime risorse umane e materiali” a disposizione delle Procure generali. E allora, per uno di quei paradossi non molto rari nell’amministrazione della giustizia, a venire messo in pericolo sarebbe proprio il principio della ragionevole durata del processo che la norma intendeva invece rafforzare evitando l’inerzia dei pm. I procedimenti passerebbero semplicemente dagli uffici di Procura alle Procure generali dove verosimilmente si arenerebbero. Nel mirino invece, puntualizzano le linee guida, dovranno essere i soli casi di “inerzia ingiustificata” del titolare del fascicolo; non viene fatto rientrare in questa ipotesi il caso del pm che non ha provveduto alla definizione perché ancora in attesa della decisione del giudice su un aspetto chiave per le indagini. E ancora, non dovrà essere oggetto di avocazione il procedimento che, sulla base dei criteri di priorità definiti dal capo procuratore, non è compreso tra quelli con trattazione preferenziale. Le linee guida saranno oggetto del plenum del Csm in programma il 9 maggio, insieme con una risoluzione che ne condivide le conclusioni dove si sottolinea la necessità di interventi dei Pg concordati con i capi delle Procure secondo criteri predeterminati, nella consapevolezza che le Procure generali sono “uffici pensati per altri compiti”. Toscana: suicidi in carcere, la Regione vara un piano di prevenzione di Lucia Zambelli toscana-notizie.it, 27 aprile 2018 Il suicidio è la seconda causa di morte in carcere. E le scelte suicidarie, e anche quelle autolesive, sono in molti casi conseguenza non necessariamente di condizioni di patologia, quanto delle condizioni di vita all’interno degli istituti di pena. Nel luglio 2017 il governo ha varato il “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti”. La Toscana, con una delibera approvata dalla giunta nel corso della sua ultima seduta, ha recepito il Piano nazionale, varando ora il proprio “Piano per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti della Toscana, e linee di indirizzo per i Piani locali”. Il Piano, che è stato sottoscritto dal Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, da rappresentanti dell’Agenzia regionale di sanità (Ars) della Toscana e dai referenti per la salute in carcere delle tre Asl toscane, comprende anche gli strumenti clinici utili per gli operatori sanitari al fine di individuare il livello di rischio suicidario dei detenuti negli istituti penitenziari della Toscana. Per essere attuato, il Piano necessita di un articolato e sistematico programma di informazione e formazione diretto a tutti gli operatori coinvolti, in particolare quelli più a diretto contatto con la quotidianità dei detenuti, per aumentare la consapevolezza e fornire elementi di conoscenza teorica e operativa, che consentano di adottare comportamenti e interventi adeguati ed efficaci, sia nel momento della prevenzione che nelle situazioni di emergenza. Il Piano, finanziato con 32.900 euro per attività di formazione e per un’indagine epidemiologica curata dall’Ars sullo stato di salute nelle carceri, impegna le Asl a redigere, entro tre mesi dall’approvazione del Piano, concordemente con l’amministrazione penitenziaria e avvalendosi dei propri referenti per la salute in carcere, il Piano locale per la prevenzione delle condotte suicidarie negli istituti penitenziari del proprio territorio. Nel Piano si individuano varie tipologie di fattori di rischio per il suicidio in carcere. Fattori organizzativi: capienza, organico del personale, livelli igienico-sanitari delle strutture, alcune procedure e abitudini come l’uso dei fornelli a gas, l’uso eccessivo di alcol, l’uso, in dose non terapeutica, di psicofarmaci prescritti. Fattori situazionali: ritenersi vittima di un giudizio iniquo e/o offensivo; collocazione in isolamento; notizie traumatiche che arrivano dall’esterno, spesso dalla famiglia; relazioni affettive e sessuali; contatti con la famiglia o le persone affettivamente importanti per il detenuto e difficoltà ad ottenere i permessi. Aspetti sociosanitari: necessità di aumentare la capacità di risposta ai bisogni socio-familiari delle persone detenute; aumentare l’assistenza psicologica negli istituti penitenziari. I dati sul suicidio in carcere in Europa e in Italia - Il 25% di tutti i decessi che avvengono negli istituti penitenziari europei sono dovuti a suicidio (che è la seconda causa di morte in carcere). Nel 2014 il tasso medio europeo di suicidio in carcere era di 7 ogni 10.000 detenuti, rispetto a 1,1 ogni 10.000 persone registrato nella popolazione generale europea. Sempre in Europa, i Paesi in cui si registra il più alto tasso di suicidio in ambito penitenziario (oltre 15 suicidi ogni 10.000 detenuti) sono Portogallo, Norvegia e Cipro. In Italia nel corso del 2016 (ultimo dato disponibile) si sono verificati 39 suicidi in ambito penitenziario. Considerando che in quell’anno il numero di detenuti mediamente presenti è stato di 53.984, il valore medio di suicidi è pari a 7,2 ogni 10.000 detenuti. Per valutare l’importanza del fenomeno, il tasso di suicidio registrato in Italia nella popolazione generale (anno 2015) è di 0,7 ogni 10.000 residenti. La rilevanza del fenomeno ha fatto sì che l’Organizzazione Mondiale della Sanità dedicasse alla prevenzione del suicidio nelle carceri uno specifico documento rivolto al personale sanitario e penitenziario responsabile della salute e della sicurezza dei detenuti. Nel documento si individuano numerosi fattori di rischio che, interagendo in varia misura tra di loro, conferiscono all’individuo un rischio elevato di suicidio: fattori socio-culturali, disturbi psichiatrici, substrato biologico, fattori genetici, stress. A questo proposito, uno studio austriaco ha indicato cinque fattori di rischio individuali e ambientali: storia di tentativo o comunicazione di intento suicidario; diagnosi psichiatrica; trattamento psicofarmacologico durante la detenzione; reato ad alto indice di violenza; sistemazione in cella singola. Il fenomeno in Toscana - La Toscana, con 16 istituti per adulti e 2 per minori, rappresenta una delle regioni con il maggior numero di strutture detentive presenti sul territorio italiano. Al 31 dicembre 2017 erano presenti 3.281 detenuti adulti, di cui 129 donne (3,7%) e 1.617 cittadini stranieri (49,6%). Complessivamente la percentuale di affollamento risulta inferiore al 5%, ma si registra una grande disomogeneità territoriale, con strutture (tra cui Sollicciano a Firenze), dove il valore è molto elevato. Da un punto di vista demografico, si tratta di una popolazione mediamente giovane (il 48,7% ha meno di 40 anni), con titolo di studio medio basso, celibe nel 33,4% dei casi. In linea con i dati internazionali, il principale gruppo di patologie è quello dei disturbi psichici (34,9% delle diagnosi), e in particolare il disturbo da dipendenza da sostanze. L’altro grande gruppo di patologie riguarda le malattie infettive e parassitarie (11,4% dei detenuti). Il terzo, i disturbi dell’apparato digerente (9,7% dei detenuti). Dal 2012 al 2017, nelle strutture detentive della Toscana sono avvenuti complessivamente 23 suicidi: 7 nel 2012, 1 nel 2013, 5 nel 2014, 3 nel 2015, 6 nel 2016, 1 nel 2017. Molto più numerosi i tentati suicidi: dal 2012 al 2017, sono stati 737: 211 nel 2012, 162 nel 2013, 112 nel 2014, 132 nel 2015, 125 nel 2016, 103 nel 2017. E davvero tanti gli atti di autolesionismo: dal 2012 al 2017, 6.520: 1.226 nel 2012, 1.191 nel 2013, 1.047 nel 2014, 1.105 nel 2015, 1.103 nel 2016, 848 nel 2017. La consistente riduzione degli atti autolesivi nell’ultimo anno è il risultato delle varie azioni adottate sia a livello regionale che a livello locale. Padova: suicida l’avvocato degli ultimi e dei vessati di Angela Tisbe Ciociola Corriere del Veneto, 27 aprile 2018 Da mesi non era più lo stesso, oppresso, sembra, dal dolore provocato dalla fine del suo matrimonio. Finché ieri mattina non ha deciso di mettere fine al male che lo tormentava, togliendosi la vita con un colpo di pistola. Se ne è andato così Fabio Greggio, avvocato di 62 anni, nella sua casa di Monselice. Una vita e una carriera, quelle dell’avvocato Greggio, costellate dall’attivismo, politico e ambientalista, e dall’impegno professionale - ma anche umano - a fianco degli imprenditori vessati dai debiti. Il ricordo di Flavia Schiavon e dei colleghi. Da mesi non era più lo stesso, oppresso, sembra, dal dolore provocato dalla fine del suo matrimonio. Finché ieri mattina non ha deciso di mettere fine al male che lo tormentava, togliendosi la vita con un colpo di pistola. Se ne è andato così Fabio Greggio, avvocato di 62 anni, nella sua casa di Monselice. A trovarlo, ieri mattina, sono stati i suoi collaboratori, preoccupati dal non vederlo al lavoro, nell’appartamento al piano di sopra lo studio, dove aveva anche lasciato anche un bigliettino in cui chiedeva scusa ai suoi cari per la decisione presa. Una vita, quella di Greggio, costellata dall’attivismo, politico e ambientalista, e dall’impegno a fianco degli imprenditori vessati dai debiti da quando, nel 2011, proprio con un suicidio drammaticamente simile al suo se ne era andato uno dei suoi migliori amici, Giovanni Schiavon, titolare di un’impresa di costruzione tra Padova e Vigonza, schiacciato dai debiti con le banche e dal senso di colpa per non poter più pagare i suoi dipendenti. Un senso di colpa ingiustificato, sembra, stando almeno a quanto scoperto da Greggio che non ha abbandonato per un momento la famiglia del suo amico e che con l’aiuto di un consulente ha lottato in sua vece fino a citare in giudizio proprio le due banche, convinto che in realtà erano i due istituti di credito a dovere dei soldi all’imprenditore. La vicenda di Schiavon lo aveva toccato al punto che, nel corso degli anni, aveva seguito diversi imprenditori veneti oberati dai debiti. Non era, però, l’unica causa che, nel corso della sua carriera, lo aveva appassionato. Attivo sul fronte politico di sinistra fin dagli anni Settanta, aveva gravitato attorno al mondo socialista. “Ci conoscevamo da quarant’anni, era sempre molto attento alle problematiche di carattere sociale - lo ricorda Francesco Miazzi, voce dei comitati ambientalisti della Bassa Padovana -. Era una delle figure più attive nella battaglia contro l’inquinamento prodotto dai cementifici, al punto da essere tra i fondatori del comitato “E noi” e di essere uno dei principali attori del “Lasciateci respirare”, contro la Italcementi. Era competente, sempre pronto a lottare per la salvezza del Parco dei Colli”. E proprio tra i prati e gli alberi dei Colli Euganei vuole ricordarlo una collega, l’avvocato Aurora D’Agostino. “Vorrei ricordarlo sotto il sole - dice, commossa -, durante una delle tante passeggiate sui Colli, l’ultima dove ci eravamo incrociati. D’altra parte lui portava il sole sia dal punto di vista fisico che umano. Era una persona estremamente sensibile, disponibile, in una parola bella”. Qualcosa, però, negli ultimi mesi, era cambiato in lui. La separazione dalla sua seconda moglie l’aveva provato, al punto da spingerlo all’isolamento. “Era sempre presente nelle nostre riunioni - continua Miazzi, ma negli ultimi mesi si era defilato per quei motivi personali che l’avevano provato dal punto di vista psicologico”. E questo nonostante i suoi tre figli, la maggiore, avuta dal primo matrimonio, e gli ultimi due, dalla seconda moglie, appena adolescenti, continuassero a stargli vicino. E oltre a loro, anche la “figlia acquisita” Flavia Schiavon, figlia di Giovanni. Difficile per lei parlare. “Era il mio secondo papà - spiega, la voce rotta dall’emozione -. Era cresciuto insieme a mio padre ed è stato sempre presente nella mia vita, fin da quando sono nata. Praticamente è il secondo genitore che perdo in questo modo. È devastante”. E se nella cittadina della Bassa la notizia si è diffusa subito, in tribunale a Padova è arrivata dopo alcune ore, lasciando sgomenti i colleghi. “Non è possibile - sussurrano con gli occhi lucidi -. Non era più lo stesso ultimamente, anche se in fondo era rimasto sensibile, sentimentale. Una persona davvero per bene”. Milano: tunisino pestato a San Vittore, undici agenti verso il giudizio La Repubblica, 27 aprile 2018 C’è anche il tentativo di influenzare un testimone in carcere tra gli addebiti a uno degli 11 agenti di San Vittore accusati di aver intimidito e picchiato un tunisino di 50 anni, detenuto per tentato omicidio, tra il 2016 e il 2017. È quanto emerge dall’avviso di chiusura delle indagini depositato dal pm Leonardo Lesti in vista della richiesta di rinvio a giudizio. Il tunisino sarebbe stato “punito” perché nel 2011, quando era in cella a Velletri, aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. Pestaggi che avrebbero avuto anche lo scopo di impedirgli di testimoniare in aula nel processo “bis”. Gli agenti sono accusati a vario titolo di intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. A sporgere denuncia era stato proprio il tunisino, Ismail Ltaief: aveva inviato alcune lettere relative al trattamento che, a suo dire, gli era stato riservato in carcere al gip Laura Marchiondelli che, allora, stava trattando il procedimento in cui rispondeva del tentato omicidio di un egiziano. Lettere girate alla procura con la conseguente apertura di una inchiesta. Nella documentazione del processo c’è anche il caso di un secondino arrestato poiché avrebbe intimidito, oltre a Ltaief, un suo compagno di cella, un sudamericano di 30 anni, chiamato a rendere testimonianza davanti al giudice e che adesso anche lui è parte offesa. Gli indagati non prestano più servizio a San Vittore ma in altri istituti. Roma: detenuti al servizio della città, questo il progetto dell’Amministrazione Raggi di Dario Caputo farodiroma.it, 27 aprile 2018 Pinuccia Montanari, assessore alla Sostenibilità Ambientale, è intervenuta con un comunicato stampa per sottolineare che “al Gianicolo il gruppo di detenuti che ci sta aiutando nella cura e manutenzione del verde ha eseguito una importante operazione di sfalcio dell’erba”. L’esponente della Giunta presieduta da Virginia Raggi ha ricordato che in una importante giornata di festa come quella del 25 aprile, anniversario della Liberazione, questo progetto di recupero e reinserimento di persone cui è stata privata la libertà personale assume un significato ancora più forte. “Vogliamo costruire anche insieme a loro una comunità basata sui valori della libertà, della partecipazione e del rispetto delle regole di uno Stato democratico”. La Montanari ha ribadito l’importanza del progetto e ha rilevato che, dopo un corso di formazione presso la Scuola di Giardinaggio di Roma Capitale, i volontari provenienti dal carcere di Rebibbia stanno operando sotto il coordinamento del personale del Servizio Giardini e con l’ausilio degli agenti di Polizia Penitenziaria. “Il progetto, avviato lo scorso 26 marzo, ha una durata di sei mesi e ha già portato i volontari ad operare in parchi e ville storiche per contribuire al mantenimento della bellezza dell’immenso patrimonio verde della Capitale”. Pescara: detenuto si barrica sul tetto e minaccia di buttarsi giù di Luca Pompei rete8.it, 27 aprile 2018 Clamorosa protesta di un collaboratore di giustizia al Carcere San Donato di Pescara. Si é barricato sul tetto e minaccia di buttarsi giù. L’episodio sarebbe avvenuto nell’ora della passeggiata esterna, al momento opportuno il detenuto si sarebbe arrampicato fin sopra il tetto minacciando di buttarsi giù. Sul posto il personale interno della Polizia Penitenziaria ed il direttore del carcere che stanno cercando di farlo desistere dall’insano proposito. Pare che l’uomo abbia ricevuto un parere negativo alla sua richiesta di trasferimento in un altro penitenziario. La zona dovrebbe essere nel lato ovest del carcere, anche se dall’esterno della struttura non si vede nulla. dagli ultimi aggiornamenti pare che il detenuto non abbia ancora deciso di scendere giù dal tetto, tanto da costringere la direzione del carcere a chiedere l’intervento di una squadra dei Vigili del Fuoco. Dopo diverse ore di trattative il detenuto ha deciso intorno alle 20.30 di scendere dal tetto grazie, in particolare, alla mediazione del direttore del carcere Franco Pettinelli e al comandante della Polizia Penitenziaria Nadia Marrone. Bollate (Mi): Annino Mele è libero, il bandito-scrittore lascia il carcere dopo 35 anni sardiniapost.it, 27 aprile 2018 Annino Mele, l’ex bandito dell’Anonima Sarda ora scrittore 67enne, ha ottenuto la libertà condizionale dopo 35 anni di carcere, di cui 28 senza soluzione di continuità. L’ex latitante di Mamoiada (Nuoro) nei giorni scorsi ha lasciato il carcere di Bollate (Milano) dove era detenuto, per essere ospitato nella comunità il Gabbiano di Piona di Colico, nel Lecchese. Mele è stato uno dei banditi di spicco dell’Anonima sarda, ma balzato di recente all’onore delle cronache perché in carcere ha studiato e scritto diversi libri, prendendo le distanze pubblicamente dal suo passato. Era stato condannato per vari omicidi e sequestri di persona ed era coinvolto direttamente nella faida che per un ventennio ha insanguinato il suo paese d’origine, Mamoiada, in Barbagia. La prima condanna arrivò nel 1976, quando gli era stato inflitto l’ergastolo per un duplice omicidio, poi 30 anni per la Superanonima della Gallura, altri 28 anni per il sequestro di un bambino, più altre pene per altri reati. Prima di arrivare alla libertà condizionale Mele ha ottenuto di poter uscire dal carcere per alcune ore ma faceva poi rientro in carcere Roma: gita a Rebibbia, andata e ritorno di Marica Fantauzzi* Il Manifesto, 27 aprile 2018 I figli delle detenute possono incontrare le madri per quattro ore nell’area minori del carcere. Ael quella mattina si è svegliata alle 7 in punto. La sera prima ha scelto i vestiti da indossare. Li ha scelti con cura e con cura li ha ripiegati sulla sedia. I fratelli uno dopo l’altro si svegliano, e uno dopo l’altro si mettono la maglietta, i pantaloni e, perché no, il cappellino. Al suo risveglio il padre trova i ragazzini in attesa, vestiti e sorridenti. A pochi metri da loro, altri tre bambini cercano di rimanere in equilibrio mentre il padre gli annoda i lacci delle scarpe. Al campo Rom di Castel Romano ancora si percepiscono i colori dell’alba. È sabato mattina, e Ael e i suoi fratelli sanno che qualcuno, il più delle volte Stefania, verrà a prenderli. Renato e Janko, i due papà, li accompagneranno. Percorreranno la Pontina, per costeggiare l’Eur, incrociare il raccordo anulare, sbucare sulla Tiburtina e infine arrivare in via Bartolo Longo 92, alla Casa circondariale femminile di Rebibbia. È il sabato in cui il carcere apre le porte ai figli delle detenute. È il sabato dell’Area minori. Per chi non mastica il vocabolario carcerario fatto di “domandine”, “spesine”, “spacci”, “pacchi” e permessi vari, il termine “Area minori” può voler dire qualunque cosa. Ma a Rebibbia ogni termine indica una cosa e una soltanto. L’Area minori, ricorda il sito del ministero della Giustizia, è un’area a cui hanno accesso solo i figli minori delle detenute. Si entra alle 10, si esce alle 14. Ma cosa significa per le donne avere accesso a quest’area? Giovanna Longo, una delle volontarie storiche di Rebibbia, ci tiene a precisare che non sia da considerarsi un “premio” per la detenuta, ma un diritto. “A prescindere dal tipo di condanna, a prescindere dalla condotta, la donna ha il diritto d’essere madre, anche in carcere. Si cerca di recuperare un po’ di normalità, tramite il contatto, il cibo e il gioco”. “Alcuni volontari - continua Giovanna - negli anni si sono offerti di andare a prendere i bambini, per esempio nei campi Rom, ma sono sempre troppo pochi. Se si riescono a portare tre, quattro, anche sei bambini, come scegli quale bambino ha più diritto di andare a trovare la madre? Non puoi scegliere”. Ripenso alle parole di Giovanna mentre intravedo Ael dare un pizzicotto al fratellino che le ruba il cappello. Il padre, Janko, guarda fuori dal finestrino. Questa mattina saranno i figli a dirgli come sta Zara, la moglie. Janko è un uomo alto e magro, capelli brizzolati gli incorniciano il viso. “Le mattine che so di poterla vedere - racconta timidamente Janko - mi sistemo tutto. Insomma, cerco di essere più bello!”. È un anno che Janko e i bambini fanno la spola tra il carcere e il campo. “Ti abitui anche alla tristezza. All’inizio era difficile fare sia da mamma che da papà, ma poi ti lasci andare, come il vento”. Sin da subito i figli sapevano dov’era la madre. La madre e il fratellino più piccolo. Per la legislazione italiana infatti le madri detenute possono tenere con sé il figlio, a patto che abbia meno di tre anni. Ael è il ritratto della madre e il padre, guardandola, si ricorda la prima volta che vide sua moglie. “Siamo scappati via insieme da piccoli ma, una volta avuto il consenso dalle famiglie, ci siamo fidanzati. Abbiamo fatto otto figli, la prima è nata nel 1991”. Mentre in lontananza si intravede il muro di Rebibbia, Janko abbassa la voce. Lì dentro c’è Zara, sua moglie. Non è l’unica. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio di Antigone, le donne in carcere rappresentano il 4% della popolazione reclusa su tutto il territorio nazionale. Rebibbia “ospita” gran parte di quel 4%: 350 donne. I papà accompagnano i figli al gabbiotto. A dividere il dentro dal fuori c’è una panchina arrugginita su cui i bambini si appallottolano in attesa di entrare. Lo spazio dedicato all’Area minori è una stanza di media grandezza, con quattro o cinque tavoli nel mezzo. Le pareti sono spoglie, l’unica cosa appesa è un poster sbiadito: “La Biblioteca vivente”, iniziativa di febbraio 2017. Fuori dal palazzone il grigio del cortile attende d’essere calpestato da una decina di ragazzini seguiti dall’agente penitenziario. Le madri si accalcano alla porta, i ragazzini vorrebbero volare. Ad accompagnare Giovanna nel mondo di Rebibbia c’è anche Stefania. Entrano ed escono dal carcere romano da quando nacque A Roma Insieme, un’associazione creata per sostenere le donne detenute, con l’obiettivo di eliminare il carcere quantomeno per i bambini. Stefania ripercorre le giornate dell’Area minori raccontando di mamme che passano giorni interi a cucinare per i figli, anche chi ha poco si ingegna. ““Voi ‘na banana? O voi er supplì? Magna che se fredda!”. E poi ancora patatine, teglie di cannelloni… e il tutto a me, qui nel carcere, fa venire in mente le giornate a Fiumicino, al mare. Quando si arrivava in spiaggia la mattina presto, portati da un pullman che dai quartieri di periferia scaricava tutti in spiaggia”. Ci sono i ragazzini più spavaldi che appena vedono le madri “le cazziano come fossero dei mariti stanchi e disillusi”, altri, specialmente le ragazze - continua Stefania - “restano tutto il tempo attaccate alle madri, stanno lì senza dire una parola, o almeno non a noi. Poi all’ora dell’uscita se ne vanno e scompaiono; le rivedremo il mese successivo, diversi vestiti ma identico modo di fare, già piccole donne che si portano dietro i fratellini”. Tra i tavoli una madre pettina la chioma della figlia con fare provocatorio, quasi a dire “se ce stavo io a casa col cavolo che te facevo usci’ conciata così!”. Un altro figlio sembra piangere, ma la madre si trattiene. “È la prima volta che viene a trovarmi, gli avevamo detto che stavo all’estero. Poi ho deciso che di cazzate ne avevo già dette tante, perciò eccoci qua”. Il figlio la guarda e mima un sorriso: “Va bè mà, non è l’estero, però pè esse un carcere te poteva andà peggio!”. Dopo tre ore la sala è un’esplosione di pennarelli senza tappo, fogli strappati, panini mozzicati e abbracci rubati. L’ultima ora è quella in cui le donne cercano di dire più cose possibili ai figli. “Dì a tu padre che lo amo, e se te lo chiede diglielo che sto bene, che c’ho i capelli più lunghi e che me so’ pure dimagrita!”. In fila per due, i figli si allontanano dalle mamme. Loro, le madri, lottano per un pezzo di finestra. I piccoli corrono verso l’uscita, i più grandi calibrano ogni passo, qualcuno rimane inchiodato davanti al portone. Al cancello i papà aspettano i figli come all’uscita di scuola. Al posto delle cartelle i bambini trascinano borse piene di lasagne e patatine. Entrati in macchina, Renato inonda di domande i figli: “Come sta? Le avete detto che sto sistemando le cose con l’avvocato?”. Sono sette mesi che Renato non vede Angelica, la moglie. “Non la posso vedere perché risulto ancora clandestino. Neanche la piccola che sta con lei ho più visto”. Mentre ripercorriamo la Tiburtina i ragazzini dietro si addormentano, e Renato scrutando il finestrino si lascia andare. “Mia moglie è preoccupata di come stanno i nostri figli. Voi gagè (non-zingari) avete una lavatrice, una doccia che funziona sempre. Io la mattina non posso lavarmi con l’acqua del campo, è marrone, puzza”. Sulla Pontina, poco prima dello “Shopping Village Castel Romano”, ci fermiamo. Il campo Rom di Castel Romano è il più grande di Roma, uno dei più grandi d’Europa con i suoi circa 1.000 abitanti, la maggior parte dei quali bambini. Ael chiude la portiera della macchina, ci guarda e corre via. *Questo è uno dei reportage realizzati dagli allievi del corso sul “reportage sociale” tenuto da Giuliano Battiston e Massimo Loche alla Scuola del sociale di Roma. Torino: “professionisti in carcere”, risponderanno alle richieste dei detenuti Ristretti Orizzonti, 27 aprile 2018 È stato presentato ieri mattina, nello spazio incontri della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, il progetto che permetterà ai detenuti di ottenere consulenze gratuite da parte di professionisti di alcune categorie professionali. Voluto dalla Garante dei diritti detenuti del Comune di Torino, in collaborazione con le Biblioteche della Città, il servizio sarà attivo dal 3 maggio prossimo. Una volta la settimana, nella biblioteca centrale e in quella femminile del penitenziario torinese, notaio, architetto, geometra, commercialista e ingegnere risponderanno a precise domande in ordine alle proprie competenze. I detenuti e le detenute avranno a disposizione venti minuti per avere un parere tecnico in risposta ai quesiti proposti. Spoleto (Pg): la Festa di scienza e filosofia entra nel carcere di Maiano umbria24.it, 27 aprile 2018 Dialogo intorno al testo “Bisogno di pensare” organizzato coi reclusi di alta sicurezza grazie a FulgineaMente. Entra anche nel carcere di Spoleto, la Festa di scienza e filosofia di Foligno che nella casa di reclusione porterà, sabato 28 aprile, il filosofo Vito Mancuso. L’incontro è previsto con i detenuti del gruppo di Alta sicurezza che, guidati da Luciana Speroni e Michela Mattiuzzo, parleranno con l’autore del libro Bisogno di pensare, che hanno scelto di leggere per approfondire la ricerca della propria identità, l’equilibrio da perseguire nella vita, perché viviamo, cosa chiediamo a noi stessi. Questione affrontate nel testo di Mancuso, che ha accettato l’incontro coi reclusi, che avverrà dopo la sua conferenza alla Festa di scienza e filosofia di Foligno, ma che in carcere hanno permesso un’analisi più profonda. Il dialogo col filosofo è stato organizzato dall’associazione FulgineaMente, nell’ambito del progetto Lib(e)ri dentro, che prevede attività di lettura ad alta voce in carcere ogni giovedì. Palermo: detenuti attori per un giorno per ricordare Pio La Torre Adnkronos, 27 aprile 2018 Oggi, alle ore 10, presso la Casa di reclusione “Calogero Di Bona” - Ucciardone si tiene la manifestazione di commemorazione del 36° anniversario dell’uccisione politico-mafiosa di Pio La Torre e Rosario Di Salvo, avvenuta il 30 aprile del 1982. I detenuti dell’Ucciardone metteranno in scena, sotto la regia di Lollo Franco, l’atto unico teatrale “Dalla parte giusta”, scritto da Gianfranco Perriera, e incentrato sui diciotto mesi di carcere che Pio La Torre subì ingiustamente proprio all’Ucciardone, per aver occupato, nel 1950, il feudo S. Maria del Bosco a Bisacquino. I detenuti attori saranno accompagnati nella realizzazione della scenografia dagli studenti del Liceo artistico Ragusa-Kyhoara di Palermo e preceduti dal coro della Rete delle scuole Bab al Gherib. Parteciperanno alla manifestazione, tra gli altri, anche il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, il vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca. Subito dopo la recita dell’atto unico, sarà intitolato a Pio La Torre il Polo didattico dell’Ucciardone. Sarà altresì inaugurato il pastificio del carcere e offerta una degustazione di pasta Ucciardone del laboratorio Gigliolab. I colleghi che vorranno presenziare all’evento sono pregati di inviare all’indirizzo info@piolatorre.it i propri dati anagrafici (nome, cognome, luogo e data di nascita) e la testata di appartenenza entro la giornata di oggi, al fine di consentire l’accesso alla struttura carceraria. Napoli: avvocati e magistrati in campo con i giovani detenuti di Viviana Lanza Il Mattino, 27 aprile 2018 Dare un calcio al passato, iniziando da un campo di calcio per proseguire nella vita di tutti i giorni. È questo il senso dell’iniziativa promossa dalla Camera penale minorile e dall’Unione giovani penalisti di Napoli a favore dei giovani detenuti per favorire progetti di recupero sociale. “Diamo un calcio al passato” è il titolo che dà il nome al torneo calcistico che giunge quest’anno alla seconda edizione e che vedrà scendere in campo avvocati, magistrati, agenti della polizia penitenziaria e sedici giovanissimi detenuti, otto provenienti dall’istituto minorile di Nisida e otto da quello di Airola. Le partite si giocheranno il 12 e il 26 maggio, alle 15, sul campo di calcio del carcere di Nisida. “L’integrazione passa anche da una partita di calcio - hanno dichiarato gli avvocati Mario Covelli e Gennaro Demetrio Paipais, rispettivamente presidente della Camera penale minorile e dell’Unione dei giovani penalisti - Con il supporto del giudice Baruffo e del direttore Guida abbiamo fortemente voluto scendere in campo con i ragazzi di Nisida e di Airola e abbiamo invitato ad assistere al torneo procuratori sportivi per proporre un percorso di inclusione sociale dei minori”. Il torneo sarà preceduto da una cerimonia di presentazione che si svolgerà il 9 maggio presso la sala convegni del Tribunale per i minorenni ai Colli Aminei. Interverranno i vertici degli uffici della giustizia minorile: il presidente del Tribunale Patrizia Esposito, il procuratore Maria De Luzenberger, il magistrato di Sorveglianza Ornella Riccio, la dirigente del Centro di giustizia minorile per la Campania Maria Gemmabella, il giudice Maurizio Baruffo, il direttore del carcere di Nisida Gianluca Guida, il direttore del carcere di Airola Dario Caggia. E inoltre: Sergio Moccia, ordinario di diritto penale alla Federico II e Armando Rossi, vicecoordinatore dell’Organismo congressuale forense e consigliere dell’Ordine degli avvocati di Napoli. L’avvocato Sergio Pisani donerà le maglie Shirthink con lo slogan “Diamo un calcio al passato”. E l’ex calciatore del Napoli Ciro Caruso sarà tra gli ospiti dell’evento. Turchia. Cumhuriyet contro i giudici: “La vergogna della giustizia” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 27 aprile 2018 La vergogna della giustizia è il titolo dello storico quotidiano di opposizione turco Cumhuriyet, fondato nel 1924, dopo che il 25 aprile 14 giornalisti e altri membri del personale sono stati condannati a diversi anni di prigione dalla corte di Silivri, dove sorge il supercarcere di Istanbul, con l’accusa di “sostegno ad organizzazione terroristica senza esserne membri” e cioè al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), all’organizzazione marxista-leninista Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo e a quella legata a Fetullah Gulen, il predicatore islamico accusato del fallito golpe del luglio 2016. Tra i condannati, che non devono andare in cella in attesa della sentenza di secondo grado, il direttore Murat Sabuncu, liberato lo scorso marzo dopo 434 giorni di carcere, che alla fine della lunghissima udienza ha dichiarato che “nessuna pena potrà fermare Cumhuriyet, che continuerà ad informare, anche da dentro una cella” per poi definire la condanna “una macchia per tutta la Turchia”. Sette anni e mezzo di carcere sono stati comminati al reporter d’inchiesta Ahmet Sik, già in carcere nel 2011 per un libro che svelava le infiltrazioni di Fetullah Gulen nel Paese nel 2011, e ora accusato di legami con i separatisti curdi del Pkk. Tre anni e mezzo, invece, è la pena che sconterà il vignettista Musa Kart, mentre Kadri Gursel, un veterano dell’informazione nel Paese, dovrà passare in cella due anni e mezzo. L’editore Akin Atalay, che è uscito dal carcere ieri notte dopo 541 giorni di detenzione, è stato condannato a sei anni e sei mesi di carcere: “Ci stanno ricattando per domare il giornale” ha detto abbracciando la moglie. Salvi dalle condanne di primo grado l’ex direttore Can Dundar, ora in Germania e condannato in un altro processo a cinque anni e 10 mesi, e i giornalisti Ilhan Tanir e Turhan Gunay. La responsabile di Amnesty International per la Turchia ha definito la sentenza “politica”, accusando il pubblico ministero di essere stato “incapace di mostrare uno straccio di prova” contro i giornalisti. La sentenza colpisce una delle pochissime voci indipendenti rimaste nel giornalismo turco, dopo che anche il più grande gruppo editoriale di opposizione è stato acquisito nelle scorse settimane da un magnate vicino a Erdogan. Le condanne sono giunte poche ore dopo che Rsf ha diffuso il suo annuale rapporto sulla libertà di stampa, dove la Turchia è scesa al 157/mo posto, dietro Bielorussia e Ruanda e appena sopra Iraq ed Egitto. Stati Uniti. Condannato per omicidio, ma non ha ucciso nessuno di Giovanni D’Agata* ditutto.it, 27 aprile 2018 Il caso emblematico di un furto con scasso in Alabama del 2015. A quel tempo, il 16enne ÀDonte Washington e il quindicenne Lake Smith Smith fecero irruzione in una casa a Millbrook, in Alabama. Quando uscirono, si trovarono faccia a faccia con una pattuglia della polizia. Fuggirono, ne conseguì una caccia all’uomo. Gli agenti sfoderarono le pistole e colpirono. ÀDonte venne mortalmente ferito al collo. Il suo complice arrestato. ÀDonte era stato ucciso da uno degli agenti di polizia. Nessun dubbio. La sua responsabilità era stata rapidamente confermata dalle immagini registrate tramite la sua fotocamera pedonale. La giuria, tuttavia, decide di assolverlo perché, secondo lui, l’uso dell’arma era giustificato in questo caso. Più sorprendentemente, Lake Smith Smith, tuttavia, è stato condannato la scorsa settimana per… l’omicidio del suo amico, il cui ufficiale di polizia è ancora l’autore, tecnicamente. Un verdetto piuttosto incoerente visto dall’Europa e dall’Italia dove il principio secondo cui la responsabilità penale è personale è un caposaldo dell’ordinamento. In Usa evidentemente non sempre è così. La vita del giovane Lake Smith Smith è incredibilmente compromessa: è stato condannato a 65 anni di carcere: 30 anni per omicidio, 15 anni per furto con scasso e due volte 10 anni per rapina. Il suo semplice coinvolgimento in furto con scasso sarebbe stato ritenuto sufficiente ad incolparlo per la morte del suo amico durante l’operazione di polizia. Il detenuto non ha nemmeno sparato in cambio, ma questo “dettaglio” non ha importanza nel diritto penale statunitense. Una legge supporta davvero questo strano e a dir poco ingiusto verdetto: “la responsabilità del complice”. La definizione di questo crimine rispetta questa logica: se Lake Smith non avesse partecipato al furto, ÀDonte non sarebbe morto, quindi è un assassino. Nel vicino stato della Georgia, nel 2017, un simile verdetto aveva già attirato l’attenzione. Un uomo era stato ucciso dal proprietario della casa in cui stava cercando di entrare. Il suo complice, arrestato vivo dalla polizia, era stato condannato per l’omicidio che non aveva commesso. Per gli stessi motivi. Lo sparatore era stato assolto per autodifesa. Ancora più incomprensibile è il caso di Ryan Holle. Il ventenne è stato condannato all’ergastolo per aver prestato la sua auto agli amici per i loro misfatti. Ma il furto era andato storto, una persona era stata uccisa e Ryan Holle accusato di omicidio: “Nessuna macchina, nessuna conseguenza, nessuna macchina, nessun omicidio”, ha detto il pubblico ministero, orgoglioso della sua implacabile logica. La sua condanna fu infine ridotta a 25 anni di carcere dal governatore della Florida. Gli americani lo chiamano “Correctional Business” perché anche l’amministrazione della pena è ormai diventata un affare. Il boom, del business carcerario in Usa, è un fenomeno relativamente recente. Nel corso degli ultimi vent’anni, sono state costruite più di mille nuove prigioni e negli ultimi trent’anni, il numero dei detenuti e più che raddoppiato. Lo sviluppo delle privatizzazioni ha favorito la nascita di una grande e articolata “industria delle carceri”. La potente lobby, esercita forti pressioni su politici e magistrati, per impedire che nuove procedure e norme sulla libertà provvisoria, o nuovi finanziamenti alle prigioni pubbliche, interferiscano con i suoi interessi, incoraggiando, di fatto, l’incremento delle carcerazioni. Appaltatori, fornitori delle forze dell’ordine e sindacato delle guardie carcerarie, hanno fatto approvare una legge che inasprisce i tempi di detenzione: le celle non rimangono mai vuote. Il giro d’affari che prospera intorno al business carcerario vale miliardi di dollari l’anno. Più di cento imprese specializzate operano esclusivamente nel campo dell’edilizia penitenziaria, ma l’indotto comprende, oltre ai costruttori di “prigioni Chiavi in mano”, anche fornitori di servizi per la gestione penitenziaria, produttori di bracciali elettronici, di armi speciali, di sistemi di controllo. Nell’industria del carcere il settore delle nuove tecnologie è quello che cresce più velocemente, per le alte tecnologie impiegate all’interno degli istituti di pena: la schedatura elettronica interessa ormai un terzo della popolazione maschile. D’altronde l’”industria delle sbarre” svolge paradossalmente anche un ruolo calmierante nei confronti dei tassi di disoccupazione, sottraendo al mercato del lavoro migliaia di persone, ma crea occupazione nel campo dei beni e dei servizi carcerari. È stato calcolato che negli ultimi dieci anni le carceri americane hanno contribuito a ridurre, di due punti, il tasso di disoccupazione “assorbendo le eccedenze”. Cifre da capogiro, insomma, che non giustificano in alcun un modo un sistema che non appare assolutamente in linea con la funzione rieducatrice della pena e con la necessità dello Stato di Diritto di favorire la riabilitazione del condannato e il suo reingresso nella società. Il pericolo che anche in Italia possa essere replicato un sistema analogo è del tutto reale se si pensa che il leghista Pagliarini ha già proposto di affidare ai privati la gestione delle carceri. Un progetto che ovviamente, da Stato civile dovrebbe essere prontamente messo nel cassetto per evitare che si possa prendere la stessa piega di quello americano. *Presidente dello “Sportello dei Diritti”