Pianosa e l’Asinara chiuse perché fatiscenti, non per favorire la mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 aprile 2018 Le due strutture dismesse dopo la stagione del terrorismo, furono riaperte dopo la strage di capaci. Perché le carceri dure dell’Asinara e Pianosa vennero chiuse? Ed è vero che il 41 bis fu attenuato dall’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso? Parliamo di due delle dodici richieste che la mafia avrebbe fatto allo Stato tramite un papello. Cominciamo con ordine. Secondo la tesi accusatoria relativa alla presunta trattativa Stato- mafia, di fronte ai successi nella lotta alla mafia della fine degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta - si pensi per esempio al “maxi processo” - l’ala più violenta di Cosa Nostra, guidata da Totò Riina, avrebbe deciso di intraprendere una strategia stragista per costringere lo Stato a trattare e moderare così il suo atteggiamento, tornando al precedente stato di “pacifica convivenza”. Le stragi portano alla morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i giudici più attivi nella lotta alla mafia, ma anche ad attacchi contro obiettivi civili e monumenti a Milano, Firenze e Roma. In questo periodo alcuni funzionari dello Stato avrebbero iniziato ad avvicinarsi alla mafia siciliana per trattare, esattamente come aveva previsto Riina. l principale protagonista di questa trattativa, secondo l’accusa, sarebbe stato il generale Mori che si mise in contatto con il sindaco di Palermo, legato alla mafia, Vito Ciancimino. I contatti tra quest’ultimo e i capi del Ros sono stati ammessi dallo stesso Mori e dai suoi colleghi, ma per reclutarlo come una specie di “agente provocatore” per arrivare a smantellare la mafia stragista. Quali che fossero queste ragioni, secondo Massimo, il figlio di Vito Ciancimino, nel corso di queste trattative sarebbe emerso un vero e proprio elenco di richieste da parte della mafia siciliana: parliamo del famoso “papello” che sarebbe stato poi portato a delle autorità governative che avrebbero dovuto scegliere tra l’accettarne le richieste oppure subire nuove stragi. In realtà non esiste una certezza assoluta che il papello sia esistito per davvero. Nessuna delle richieste presenti nell’eventuale “papello” però venne accettata. A questo punto i teorici della “trattativa” indicano due punti che secondo loro sarebbero la prova: il presunto alleggerimento del 41 bis da parte dell’ex ministro della Giustizia Conso e la chiusura delle due “supercarceri” di Pianosa e dell’Asinara. Il mancato rinnovo del 41 bis ai 334 detenuti eseguito da Conso riguarda in realtà una dozzina di mafiosi. Gli altri erano soggetti secondari, e in stragrande maggioranza del tutto alieni a Cosa Nostra, e tra l’altro ben oltre la metà di quei 334 non erano neppure siciliani. Persino la Commissione Antimafia ha appurato questa circostanza, e ne ha dato pubblicamente atto. Conso non era un politicante compromesso con ambienti oscuri, ma un giurista importante, ex vicepresidente del Csm e della Corte Costituzionale, ministro tecnico nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Da uomo di diritto, non poteva non tener presente del problema del 41 bis e ritendendo di non poter risolvere come ministro questo problema anticostituzionale, aveva optato per non prorogare quelle misure detentive. La motivazione della chiusura delle due “supercarceri” (precisamente nel 1998, quindi diversi anni dopo la presunta “trattativa”) è addirittura banale. In realtà queste due strutture erano state chiuse durante la stagione del terrorismo perché già fatiscenti e dove i detenuti erano sottoposti a condizioni ritenute disumane da numerose organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali. Furono riaperti per emergenza dopo la strage di Capaci e vi furono trasferiti in massa i detenuti mafiosi, nel giro di una sola notte, come misura di immediata rappresaglia alla strage. In quegli anni - esattamente nel 1993 - i famigliari dei detenuti inviarono una lettera di denuncia a tutte le istituzioni, compreso il Papa. La detenzione consisteva in frequenti pestaggi quotidiani, con le persone lasciate al freddo, col cibo “corretto” da sputi, urina, pezzi di vetro, tanto che molti dei detenuti manifestavano un importante calo fisico. Ma solo sei anni dopo furono chiuse e i detenuti trasferiti in altre carceri, sempre al 41 bis. Stato-mafia, il processo mediatico di Gaetano Insolera Il Mattino, 26 aprile 2018 Se si rivendica quell’abito deontologico non si può fare parte delle gazzarre che accolgono il dispositivo delle sentenze al grido di “vergogna” (“vogliamo il dolo”, urlò il pubblico saputo l’esito del processo Tyssen Krupp) quando le pene non corrispondono alle dosi auspicate dalle vittime. Mi limito, pertanto, ad alcune osservazioni sul contesto che ha portato alla decisione e sulle reazioni da essa suscitate. Il contesto è quello del discorso pubblico che ha accompagnato i cinque armi di dibattimento davanti alla Corte d’assise di Palermo. Si è assistito ad una vera e propria tifo seria politica a sostegno delle tesi accusatorie della Procura, con un organo di stampa quotidiana al loro servizio: lo stile quello del complottismo, c’è sempre qualcosa dietro ogni cosa: “È Stato la mafia”, intitola un pamphlet il direttore depositario dei “Fatti” per antonomasia. E nel processo di Palermo ci sono tutti gli ingredienti: politici e vertici dei carabinieri e delle forze di polizia della prima e della seconda Repubblica; ad un certo punto si sfiorò un presidente della Repubblica. Anche la decisione della Corte costituzionale, che ordinò la distruzione delle intercettazioni, venne interpretata da molti come l’ennesimo tassello del complotto dei poteri forti. Una tifoseria chiassosa, che trovava corrispondenze nei telegiornali, nelle fiction della Rai, nelle cittadinanze onorarie attribuite agli inquirenti in corso di processo, oltre che nelle continue manifestazioni per una memorialistica antimafia che doveva trovare nell’esito ineluttabile del processo la sua consacrazione. Una tifoseria tutta politica: esemplare l’avventura, seppure sfortunata, e non solo politicamente, del primo artefice del teorema accusatorio Antonino Ingroia. Ma è pronto chi lo ha sostituito da protagonista nel dibattimento, ministro della giustizia in pectore dei vincitori del 4 marzo: una consonanza tra settori della magistratura penale e il partito populista e giustizialista, che dileggia il ragionare giuridico e la metodologia storica, che era possibile cogliere da tempo; un partito. Un mesto sorriso desta a questo punto l’ennesima invettiva del dottor Di Matteo contro le intimidazioni e per la mancata difesa da parte di Anm e Csm (La Repubblica, 23 aprile 2018). Ora, in attesa delle motivazioni, le reazioni alla sentenza della tifoseria politica, fattasi partito, dalla accertata trattativa Stato-mafia fa conseguire la morte della seconda Repubblica e, si intende, con il governo grillino la nascita della terza, quella della purezza. Tutto questo “grazie ai magistrati di Palermo che hanno lavorato per la verità”, dice Di Maio. E Di Matteo: “Questa sentenza, dopo cinque anni, riconosce che parte dello Stato negli anni delle stragi trattava con la mafia e portava alle istituzioni le richieste di cosa nostra” e questo sarebbe avvenuto con tre governi diversi: quello di Andreotti, Ciampi e Berlusconi. Ma accanto alle reazioni trionfalistiche meritano di essere segnalatigli irridenti attacchi al penalista che più di tutti, con coraggio, ha manifestato le sue obiezioni al costrutto accusatorio. Parlo del professor Giovanni Fiandaca e degli attacchi nei sui confronti, sempre sui soliti media, corredati da commenti e “mi piace” che rivelano gli abissi in cui può cadere il populismo penale e il disprezzo per ogni forma di intelligenza Ma ciò spinge ad un’ altra considerazione. Giovanni Fiandaca è il penalista che più si è impegnato nella elaborazione di strumenti giuridici di contrasto alla criminalità mafiosa e non solo con il suo lavoro accademico. Con il pamphlet “La mafia non ha vinto” (scritto con lo storico Salvatore Lupo), prese le distanze dall’affermarsi di un’antimafia che vedrebbe all’opera “impostori della morale”: “Tratti inequivocabili di grande impostura sono, senz’altro rinvenibili nella cosiddetta antimafia di facciata e strumentale o di carriera”. E si è quasi obbligati a ricordare la questione dei “professionisti dell’ antimafia”, e Fiandaca lo fa, tornando a Sciascia che, per aver utilizzato quella espressione, fu condannato all’oblio e all’isolamento da parte della stragrande maggioranza dell’intellighenzia politicamente impegnata della “società civile”. Oggi assistiamo ad una sorta di sequel permanente: carte in regola, legittimazione e presentabilità di propri esponenti, impongono un articolo di fede, una “rinuncia a satana” che si condensa nella Antimafia. Quanto agli attori, il termine Antimafia non esprime così solo decisioni legislative in campo penale, amministrativo e di law enforcement: quelle decisioni sono infatti determinate da un circuito molto più vasto di protagonisti. Oggi, inoltre - e questo è il dato più rilevante - i nuovi attori, sempre più spesso, si propongono in termini di aperto antagonismo nei confronti della classe politica. Come dirò tra poco, tra gli argomenti forti della sua delegittimazione, accanto a corruzione, venalità, dissipazione di risorse pubbliche, possono stare anche incertezze o tentennamenti garantistici nei confronti di Antimafia. Un circuito vasto quello che determina quali siano le “carte in regola” dell’Antimafia, dicevo. Agli attori della “società civile” (in cui si inscrive l’ambigua fisionomia dei “movimenti”) che ritroviamo nelle continue liturgie memorialistiche e pedagogiche, si possono affiancare momenti istituzionali (commissione antimafia), alcuni politici che su Antimafia hanno costruito il loro profilo e quei media che, sulla “poetica” congiunta di Antimafia e Antipolitica hanno confezionato il loro abito, con sullo sfondo il fascino intramontabile delle teorie del complotto. E poi la Rete: ultimo travestimento del demone roussoiano, ahinoi risorto dalle macerie prodotte. Penso che l’astio nei confronti di Giovanni Fiandaca non sia solo prodotto dalla sua autorevolezza di studioso, ma da quella che viene considerata una apostasia: o sei con me per tutto o sei contro di me. Ci sono tutti gli elementi di un pensiero totalitario, settario. Che infine trapela anche da un altro rimprovero che gli viene mosso: dici che non rinneghi le tue sottigliezze giuridiche, facendo ricadere sulla giuria la loro incomprensione. Ma quei giudici sono il popolo! È facile replicare: l’istituto nasce in riferimento alla prova del fatto storico. Nella versione spuria nostra (giudici popolari e giudici togati insieme) la giuria popolare ha perso quel significato originario. Ma penso, in termini più generali, che anche ogni nostalgia per quella giustizia debba essere abbandonata: e non solo perché limitava le impugnazioni - il popolo non può sbagliare! - e quindi aveva in sé il virus dell’errore giudiziario. Torniamo a quello che, a mio parere, costituisce un punto di partenza obbligato di ogni discorso sulla giustizia penale e sul suo rapporto con consenso e politica. Mi riferisco alla pervasività dei media vecchi e nuovi, i veri protagonisti di ogni forma di populismo. Una malattia degenerativa della democrazia che non si connota affatto per la capacità di esprimere la volontà effettiva del popolo, ma per attribuire alle proprie élite unica vera voce del popolo. Nonostante una calda primavera sento anche gli stessi brividi di Giovanni Fiandaca per l’alleanza tra i populisti e il fondamentalismo antimafia. Una tutela penale on demand. Truffe, frodi & co: querela da presentare al 9 agosto di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 26 aprile 2018 Gli effetti del decreto legislativo 36/2018 sulle fattispecie non più procedibili d’ufficio. Scade il 9 agosto 2018 il termine per presentare querela per chi ha subito minacce, truffe o frodi informatiche e agli altri reati che, a causa del dlgs 36/2018 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24/4/2018), non sono più procedibili d’ufficio (a decorrere dal 9 maggio 2018). Il provvedimento si inserisce nella cornice più ampia della tutela penale ridotta ai minimi termini, in nome della deflazione dei procedimenti giudiziari (obiettivo economico) e delle soluzioni alternative (al processo e alla punizione). Il legislatore recente è, infatti, intervenuto con depenalizzazioni, abrogazioni, trasformazioni di reati in illeciti civili, riduzione dell’intervento carcerario (restrizioni in entrate e allargamenti in uscita). Coerente con questo impianto è l’aumento del numero dei reati in cui lo Stato, per muoversi, aspetta una richiesta della vittima. Il tema da approfondire è quanto il cambiamento dell’innesco del processo possa mantenere alto il livello della tutela della vittima. A questo soggetto lo Stato oggi si deve affiancare con un intervento d’ufficio. Con il sistema della querela, lo stato rimane fermo e il soggetto vulnerabile deve darsi il coraggio di mettersi contro l’aggressore. Peraltro questa è la legge e ora alle procure e ai tribunali non rimane che applicarla. Nell’immediato il decreto, dunque, impone alle vittime di segnarsi sul calendario la scadenza del termine per sporgere querela e alle procure e tribunali di mettersi al lavoro sui procedimenti pendenti, sui quali impatta la novità legislativa. Per i reati perseguibili a querela in base alle disposizioni del decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso (9 maggio 2018), il termine di tre mesi per la presentazione della querela decorre dalla medesima data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Chi ha subito una minaccia, una truffa o una frode informatica, o è vittima di una appropriazione indebita falsificazione di corrispondenza, ecc., dunque, salvo residuali eccezioni di ipotesi aggravate, non deve contare che su se stesso per dare l’avvio a una reazione nei confronti dell’aggressore, che altrimenti la fa franca. Il legislatore stima (e forse spera) che il passaggio alla querela di parte abbia l’effetto di ridurre i procedimenti (se la vittima non querela, nessuno si muove). Nell’immediato bisogna smaltire i procedimenti già iniziati d’ufficio per punire quei reati diventati procedibili a richiesta. Il decreto legislativo dice che se è pendente il procedimento, il pubblico ministero, nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, anche, se necessario, previa ricerca anagrafica, informa la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine decorre dal giorno in cui la persona offesa è stata informata. Traduciamo: le segreterie dei pubblici ministeri e le cancellerie dei giudici devono cercare la persona offesa, mandare l’avviso, aspettare tre mesi e, poi, se non arriva la querela, si procede, a seconda dello stato del procedimento, all’archiviazione o estinzione del procedimento medesimo. Procedimento e processo vanno, invece, avanti se la vittima chiede la punizione. In una bozza del provvedimento si escludeva da queste attività la cassazione, di fronte alla quale non operava la trasformazione della procedibilità. Vedremo che posizione prende la corte suprema, considerato che il testo definitivo non ha più l’esclusione e che i principi della legge delega (n. 103/2017, articolo 1, comma 16, lettera b) non distinguono tra giudizi pendenti nei diversi gradi del giudizio e paiono consentire sempre l’esercizio del diritto di querela in ogni procedimento pendente. L’Istat ha diffuso nel 2017 un volume in cui ha fornito i numeri di delitti, imputati e vittime dei reati. Prendiamo il reato di minaccia. È tra i delitti più diffusi, anche viene denunciato solo il 27,6% dei fatti. Gli episodi denunciato sono oltre 85 mila ad anno e rappresentato più dell’8% dei fascicoli aperti. Questi numeri possono certamente essere letti favorevolmente in un’ottica economica e di finanza pubblica. Il decreto si propone di alleggerire il bilancio statale con costi minori a fronte da ridotti carichi di indagine e processuali. C’è, però, da chiedersi se questo obiettivo possa di per sé giustificare l’arretramento dell’impegno dello Stato a tutela della vittime e se il risultato dei questo disimpegno sarà (come si legge nelle relazioni di accompagnamento al Dlgs in esame) l’agevolazione della conciliazione tra aggressore e aggredito o piuttosto la rinuncia rassegnata dell’aggredito che, per timore di ritorsioni, resterà inerte e presumibilmente non farà nemmeno causa civile per il risarcimento danni (con ovvia soddisfazione del doppiamente impunito). Va motivato il sequestro del corpo di reato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione unite penali - Informazione provvisoria n. 9. Motivazione rafforzata per il sequestro del corpo di reato. Le Sezioni unite penali della Cassazione hanno reso noto, per ora solo con informazione provvisoria, che, per le cose che costituiscono corpo del reato, il decreto di sequestro probatorio deve essere sorretto da una illustrazione puntuale dell’obiettivo da raggiungere, in concreto, per l’accertamento dei fatti. A sollecitare il rinvio alle Sezioni unite era stata la Terza sezione penale con ordinanza n. 3677 con la quale si metteva in evidenza la volontà di scostarsi dal principio di diritto che già in passato le Sezioni unite avevano affermato: nel 2004, infatti, con la sentenza n. 5876 si affermava la necessità di un’adeguata verifica delle finalità probatorie anche davanti al corpo del reato. Un altro orientamento, invece, sosteneva l’automatica assoggettabilità al sequestro del corpo del reato perché l’esigenza probatoria sarebbe, in questo caso, assolutamente ovvia. La tesi, poi fatta propria dalle Sezioni unite, metteva in evidenza che, anche per il sequestro probatorio del corpo del reato, come nel caso degli immobili oggetto di possibili reati edilizi, il provvedimento deve contenere espressa motivazione sulla rilevanza che la cosa assume per la ricostruzione dei fatti e l’indicazione delle ragioni che rendono necessario il sequestro. Se così non fosse, si sottolineava, si verrebbe a realizzare una sottrazione della cosa, priva della giustificazione dell’interesse pubblica che sola, può fare venire meno la tutela della proprietà privata assicurata dalla Costituzione. Tra l’altro, già le Sezioni unite avevano sottolineato come, in presenza di carenza di indicazioni da parte del pubblico ministero, il giudice del riesame non può intervenire per integrare la motivazione e indicare gli obiettivi del sequestro, visto che quest’ultimo è atto del Pm ed è a lui che spetta indicare l’importanza probatoria. Una conclusione che si riflette poi sull’atteggiamento della Cassazione che, quando l’assenza di motivazione è radicale deve pronunciare sentenza di annullamento senza rinvio; dovrà invece procedere a un annullamento con rinvio quando il provvedimento ha accertato l’esistenza delle esigenze probatorie ma ha trascurato di indicarle, specificando il rapporto tra la cosa oggetto della misura e i fatti da provare. Sfruttamento manodopera: controllo giudiziario dell’azienda revocato se illeciti eliminati di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 20 aprile 2018 n. 17939. Il rischio di reiterazione del reato di sfruttamento di manodopera non giustifica il mantenimento della misura cautelare del controllo giudiziario, se il datore ha regolarizzato i lavoratori e si è messo in linea con le norme antinfortunistiche. La Corte di Cassazione, con la sentenza 17939 del 20 aprile, conferma la condanna per il titolare di una azienda agricola per il reato di sfruttamento del lavoro, previsto dall’articolo 603-bis del codice del codice penale, ma accoglie il ricorso in merito alla richiesta di revocare la misura cautelare. Un’esigenza affermata dal Tribunale dopo la verifica delle condizioni di sfruttamento in cui venivano tenuti i lavoratori: dalla paga inadeguata ai mancati riposi. Nell’elenco delle contestazioni anche l’assenza dei requisiti minimi di sicurezza. Per i giudici c’era anche l’ulteriore elemento “dell’approfittamento dello stato di bisogno”, essendo gran parte dei braccianti clandestini e dunque disposti a lavorare in condizioni disagevoli. Il Tribunale aveva disposto il controllo giudiziario dell’azienda, una misura prevista anche dal nuovo codice antimafia che scatta quando c’è il rischio di infiltrazioni mafiose. Ma nel caso esaminato per la Cassazione la “precauzione” non è più necessaria. I giudici accolgono, infatti, la tesi del ricorrente secondo il quale non era più attuale l’esigenza della misura cautelare. Per la Suprema corte le argomentazioni del Tribunale, sul rischio di un aggravamento degli effetti del reato in conseguenza della libera disponibilità dell’azienda, non tenevano conto della documentazione prodotta dalla difesa sulla regolarizzazione dei lavoratori e l’adeguamento alle norme antinfortunistiche. Aspetti che avevano pesato nel disporre il controllo giudiziario per evitare il protrarsi della condotta incriminata. Trento: giustizia riparativa, oltre cento casi di Erica Ferro Corriere del Trentino, 26 aprile 2018 Colpevole e vittima, confronto libero. Dal meccanico-ladro alla tomba profanata. Ricostruire la relazione tra autore e vittima di un reato, con un dialogo libero e volontario. È l’approccio della giustizia riparativa che in Trentino Alto Adige dal 2004 viene gestita da un centro regionale, caso unico in Italia. Nel 2017 sono stati 120 i casi trattati, soprattutto per reati contro persone e patrimonio. Dal confronto, supportato da un operatore, si decide la forma di riparazione più opportuna. Condivisione e aiuto reciproco per curare le ferite. Il superamento dell’idea della sanzione come pena e l’obiettivo di ricostruire una relazione. Rimettere le persone al centro, nello specifico la vittima di un reato: è questo lo scopo della giustizia riparativa, “un approccio ancora nuovo- spiega Daniela Arieti del Centro di giustizia riparativa della Regione- sul quale occorre lavorare ancora molto dal punto di vista culturale affinché possa diventare una possibilità per tutti”. Quello del Trentino-Alto Adige, nato nel 2004, è l’unico centro in Italia a far parte di un’istituzione e nel 2017 ha trattato circa 120 casi. Il dialogo che ripara - Libertà e volontarietà: sono questi i presupposti necessari a intraprendere un percorso di giustizia riparativa. Cosa significa nel concreto? “Coinvolgere la vittima di un reato in un dialogo con chi l’ha commesso- chiosa Arieti- affinché insieme, con l’aiuto di un terzo imparziale e il coinvolgimento della comunità, possano trovare la propria personale soluzione a quanto accaduto e decidere quale forma di riparazione risulti più opportuna”. Non un modo per accorciare la durata di una pena, dunque, ma il tentativo di rimediare a un danno. Il crimine, in questo senso, viene visto anche come qualcosa che provoca la rottura di aspettative e legami sociali, e per questo ci si può attivare per tentare di ricomporre questa frattura. Reati e proposte - Reati contro la persona e il patrimonio: sono questi gli illeciti più comuni per i quali il Centro è ricorso a un procedimento di giustizia riparativa. “Furti, rapine, estorsioni, lesioni, lievi ma anche più gravi- elenca Arieti- per quanto riguarda i minori c’è stato anche qualche caso di cyberbullismo, violenza e numerose segnalazioni per spaccio di sostanze stupefacenti”. Anche se, potenzialmente, la giustizia riparativa è applicabile a qualsiasi tipo di reato, “a eccezione dei maltrattamenti in famiglia, per i quali la convenzione di Istanbul la sconsiglia”. All’atto pratico, sono i tribunali (nella fase di sospensione del procedimento o durante le indagini preliminari), i giudici di pace, i servizi sociali a segnalare i casi, pure minorili, al Centro. Anche l’istituto della messa alla prova si inscrive in questo percorso: ricorrere alla giustizia riparativa può essere considerato un plus, al di là delle decisioni processuali. Lo strumento della mediazione vittima-autore, dunque una forma di dialogo diretto fra le parti, è il modus operandi più diffuso: “Ci permette di contattare le persone che ci vengono indicate e proporre loro un incontro congiunto - chiarisce la mediatrice - non un processo in piccolo, tuttavia: non si tratta di un modo per trovare la verità o la ragione, ma per confrontarsi su come ognuno abbia vissuto il fatto e per trovare insieme una riparazione appropriata”. Insomma, con le aule dei tribunali questo tipo di mediazione ha ben poco a che fare: in gioco ci sono i desideri delle parti, la risposta a una domanda- non solo di giustizia- non esaurita. E all’autorità giudiziaria del contenuto degli incontri non viene riferito nulla, se non l’esito. Valore simbolico - La riparazione ha spesso contenuto e valore simbolici (ne riferiamo in pagina). È il caso in cui nel reato siano coinvolti minori, adulti impegnati in un percorso di messa alla prova (anche se in questo caso il valore è maggiormente relazionale, visto che i soggetti implicati già svolgono un servizio socialmente utile). “I giudici di pace, invece, spesso segnalano casi in cui le parti offese richiedano un risarcimento economico” sottolinea Arieti. Esistono, tuttavia, anche forme di “mediazione allargata” cui prendono parte più persone oppure vengano coinvolte nel caso in cui una parte offesa non sia del tutto identificabile (come nel reato di spaccio ad esempio o di resistenza a pubblico ufficiale).”Dal punto di vista culturale c’è da fare ancora tanto perché questo approccio possa diventare una possibilità per tutti- conclude Arieti- perché è di questo che stiamo parlando, di un’occasione che le persone che hanno dovuto superare una situazione difficile possono darsi”. Gorizia: detenuti meno soli grazie all’impegno del volontariato di Alex Pessotto Il Piccolo, 26 aprile 2018 Artigianato e sport per insegnare loro la cultura del lavoro Don Alberto: “È povera gente, di 15 nazionalità diverse”. “Rispetto a un tempo, i detenuti sono cambiati. Non abbiamo più, ad esempio, i contestatori, i brigatisti. Ormai, si tratta solo di povera gente di 14-15 nazionalità diverse a cui mancano cultura e attenzioni”. Parola di don Alberto De Nadai. Ex garante dei detenuti è da sempre vicino a chi vive sulla propria pelle l’esperienza del carcere. Con tanta pacatezza, ma anche con tanta tenacia, sta completando tre nuovi progetti rivolti ai detenuti: un corso di rilegatura, un lavoro di restauro e la creazione di un campo di pallavolo. “L’obiettivo non è quello di far passare il tempo, né di far ricavare qualche soldo. Con i volontari penitenziari della Casa circondariale di Gorizia desidero insegnare la cultura del lavoro: la puntualità, il senso di responsabilità, l’attenzione per gli strumenti che si utilizzano. Una volta usciti dal carcere i detenuti dovranno trovarsi un’occupazione”. Il lavoro di rilegatura condotto da un artigiano, riguarda registri di detenuti che, dopo aver provato a Gorizia l’esperienza del carcere, sono stati internati in campi di concentramento. Il progetto si propone di valorizzare un preciso momento culturale della città, favorendone la conoscenza: “I registri verranno poi esposti nell’ambito di è Storia, nel 2019 - racconta don Alberto. Si tratta di un’operazione di cesello, molto lunga, delicata”. L’intervento di restauro, sempre condotto da una professionista, riguarda invece alcune formelle in gesso di fine Ottocento/inizi Novecento rappresentanti la Via Crucis. “Non si tratta soltanto di un lavoro manuale: anche in questo caso, infatti, c’è la possibilità di imparare molto”. Inoltre, c’è la creazione di un campo di pallavolo con l’intervento degli appartenenti all’oratorio Pastor Angelicus del Duomo di Gorizia per consentire un salto di qualità al tempo libero dei detenuti: un tempo libero che oggi, spesso, è drammaticamente vuoto. “È un lavoro di squadra. Chi è in carcere apprende così a far attenzione non solo a se stesso. E un domani, quando otterremo tutti i permessi, delle squadre esterne potranno confrontarsi con quella dei detenuti. Vuol essere un modo per far aprire il carcere alla città e viceversa”, dice don Alberto che ha proposto questi tre progetti e li sta seguendo quotidianamente: non è un caso che il loro titolo sia “La città entra in carcere”. “Son progetti che stanno andando molto bene. In fondo, il carcere sta cambiando: anche da parte dell’amministrazione, non vuol essere più una pena, ma l’occasione per un reinserimento, per un lavoro su se stessi, per una rieducazione da compiersi non solo a parole ma con tutta una serie di attività”. Per più anni don Alberto è stato “garante provinciale delle persone private della libertà personale”. Cadendo la Province, è cessato anche il suo incarico. Ma nel penitenziario di Gorizia rimane assistente spirituale. “La figura di un garante, però, manca - sottolinea -. In sostanza, manca qualcuno che porti a Roma determinate istanze. Vediamo se il sindaco Ziberna nominerà qualcuno”. Chissà se avremo un De Nadai bis. “No di certo - risponde il sacerdote. Ormai io sono stanco e vecchio”. Ma la passione è quella di sempre, quella passione che lo porta, assieme ai volontari della Casa circondariale di Gorizia, a divulgare una cultura dell’accoglienza “secondo i principi della Costituzione” tiene a precisare. Peraltro, in questi anni, di progetti ha contribuito a farne concludere altri, ad esempio la sistemazione della biblioteca, oggi diventata punto di incontro per attività culturali nel carcere. Bologna: con la coop Quattro Castelli i detenuti fanno il bucato per gli anziani legacoop.coop, 26 aprile 2018 Una nuova impresa alla Dozza: due quintali e mezzo di biancheria al giorno lavati per le case protette dell’Asp. La cooperativa sociale: “Cerchiamo anche altri committenti”. Faranno il bucato per i 456 anziani delle case protette della città, ma da dietro le sbarre. Dopo l’officina meccanica e il caseificio al carcere di Bologna arriva una nuova impresa e un nuovo lavoro “vero” per sei detenuti. Ogni giorno laveranno, asciugheranno e stireranno uno ad uno maglioni, pantaloni, camice, pigiami poi li sistemeranno in pile diverse in base al proprietario, perché neanche un calzino vada perduto. Per ora lavano due quintali e mezzo di biancheria al giorno, ma l’impianto è può arrivare fino a dieci. Un’idea della cooperativa sociale “Quattro Castelli” che ha sostituito le vecchie macchine della vecchia lavanderia della Dozza con degli impianti nuovissimi, per un investimento complessivo di 450mila euro. “Noi tutti quei soldi non li avremmo avuti - spiega uno dei soci, Nicola Sandri - ci hanno aiutato le due fondazioni bancarie di Bologna con 35mila euro e abbiamo ottenuto un finanziamento da Banca Etica”. Per adesso hanno come unico committente Asp, che ha subappaltato una porzione del proprio appalto di lavaggio biancheria dalla cooperativa Servizi Ospedalieri alla Quattro Castelli (circa 160mila euro su un totale di 580mila). Ma sperano presto di trovarne altri, anzi lanciano un appello a “cooperative, enti pubblici, soggetti privati”. A regime, dentro alla lavanderia lavoreranno sei detenuti. Hanno scelto quelli con pene ancora abbastanza lunghe, per permettere loro di aver tempo di imparare il mestiere. Avranno un contratto part-time, dal lunedì al venerdì alle 8 alle 16, per un totale di circa 900 euro al mese. Con questa nuova azienda cha apre arrivano a 35 i detenuti che lavorano in imprese interne al carcere, ai quali vanno aggiunti i circa 190 che lavorano a rotazione per l’amministrazione penitenziaria per servizi interni alla struttura e altri 28 che hanno trovato un impiego fuori, in regime di semi-libertà. “Dieci anni fa qui dentro lavorava una sola persona”, ricorda il responsabile dei servizi educativi, Massimo Ziccone. Guadagnare, anche poco, oltre che aprire un ponte per un futuro fuori, permette anche ai detenuti di iniziare a ripagare il debito che accumulano con lo Stato negli anni di prigione, tra spese legali e costi di mantenimento. “C’è chi uscito di qui deve pagare 30-40mila euro”, spiegano dal carcere. Roma: appello alla Raggi “tenga aperto il Centro di accoglienza per i rifugiati” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 aprile 2018 Il 30 aprile porte sbarrate per i 170 che sono in Via Ramazzini. “Siamo senza lavoro e senza casa, ci aiuti a continuare questa esperienza, non vogliamo finire di nuovo per strada”, scrivono in un appello rivolto alla sindaca di Roma gli ospiti del centro di prima accoglienza Better Shelter. Si tratta di un centro destinato all’emergenza freddo gestito dalla Croce Rossa di Roma, ma che potrebbe chiudere il 30 aprile prossimo con la fine dell’emergenza. Gli ospiti sono 170 e una volta chiuso il centro, non gli rimane che la strada. A scrivere alla sindaca Raggi sono donne, padri, uomini licenziati per trascurato il lavoro perché si sono dedicati alle mogli ammalate, sono cittadini di Roma e del mondo (alcuni extracomunitari) che chiedono una mano, una mano legittima affinché le loro speranze non vengano “buttate” su un marciapiedi e lasciate in balìa degli eventi perché dal centro di via Ramazzini una speranza per loro è tornata ad esistere. “Nel corso di questi quattro mesi, da quando è stato aperto a gennaio, questo centro è diventato la nostra casa. Ci siamo ritrovati in tanti e possiamo dire che si è creata una comunità, anche tra persone diverse, nelle attività quotidiane, condividendo gli spazi in comune, le storie, i nostri vissuti e i nostri drammi. Diventando quasi una grande famiglia. Vorremmo farle capire a lei e a chi ci vorrà ascoltare nella città di Roma, l’utilità che ha avuto in questi mesi questa piccola realtà, attraverso alcune delle nostre tante storie”, si legge nell’incipit della lettere indirizzata a Raggi. Quello che chiedono è proseguire questa esperienza di accoglienza oppure trovare un’alternativa prima della chiusura del 30 aprile. Il Centro di via Ramazzini ha collocato diversi moduli abitativi per un totale di 150 posti più altri 30 aggiunti nei giorni dell’emergenza neve. La struttura ha preso il nome delle casette Ikea che Cri Roma ha acquistato grazie anche ad alcune donazioni quando ospitava l’Hub di prima accoglienza per persone migranti. Sì, perché Ikea Foundation è l’associazione no profit del gruppo che ha avviato un progetto per il sociale. Better Shelter, una società sempre fondata da Ikea Foundation, ha progettato degli ingegnosi rifugi per ospitare temporaneamente le persone in difficoltà. Sull’idea dei ripari offerti dall’Onu, Better Shelter ha costruito delle strutture più durevoli, più convenienti e più sicure rispetto a quelle fornite dalle Nazioni Unite. La struttura è composta da tre parti principali: una cornice, dei pannelli e un sistema ad energia solare. Molto resistente alle intemperie, si può montare in meno di quattro ore e sono necessarie solamente quattro persone, senza l’aiuto di attrezzi particolari. Può ospitare fino ad un massimo di cinque persone. Il centro di via Ramazzini ha accolto dal 17 gennaio scorso 411 persone senza dimora di cui 318 uomini e 93 donne, tra italiani (131) e stranieri (280 provenienti da paesi diversi tra cui prevalentemente Europa dell’Est, Nord Africa e Africa Occidentale, età media 45/ 50 anni (Africa Occidentale generalmente più giovani). Il Centro ha ospitato anche cani che accompagnavano le persone senza fissa dimora. Non solo: in questi mesi la Sala operativa Sociale del Comune di Roma ha inviato presso il centro di via Ramazzini anche alcune donne vittime di violenza domestica. Il risultato? La nascita di una comunità eterogenea dove tutti hanno trovato una risposta alla singole fragilità. Gli ospiti del centro invitano la sindaca Raggi ad incontrarli o ad andare a trovarli alla Croce Rossa. “Vedrà che insieme è stata creata una situazione che può funzionare per tutti. Non chiudiamola”, conclude l’appello. Vicenza: nelle stanze dei detenuti 400 televisori dal Villaggio Marzotto di Roberto Cervellin Il Gazzettino, 26 aprile 2018 Dal Villaggio Marzotto di Jesolo al carcere di Vicenza. Dalla struttura balneare sull’Adriatico alla casa circondariale berica. Quattrocento televisori - già installati nelle camere - sono stati donati all’istituto penitenziario di via Dalla Scola dalla Fondazione Marzotto di Valdagno. Un’operazione che rientra in un piano di dismissione degli apparecchi usati nel complesso turistico e portata a termine con la collaborazione del Comune e dello stesso carcere, che accoglie 230 detenuti. Soddisfatto il direttore Fabrizio Cacciabue: “Le attività che si svolgono all’interno della casa circondariale hanno una valenza pedagogica, secondo l’articolo 27 della Costituzione - spiega - La disponibilità della tv durante la detenzione è essenziale per consentire il contatto dei ristretti con la vita della comunità libera, ai fini del benessere psicofisico e del reinserimento post-detentivo”. Gli fa eco Roberto Volpe, amministratore delegato della Fondazione Marzotto: “L’iniziativa mantiene fede ai valori del nostro fondatore, Gaetano Marzotto. I televisori forse sarebbero finiti in discarica se non ci fosse stato un incontro fortuito tra me e l’assessore Isabella Sala”. “Siamo stati il tramite - conferma quest’ultima - di uno scambio nell’ottica ecologica di riuso delle risorse”. Le voci di Radio Rebibbia, qui sulla vita in carcere si riesce anche a scherzare di Francesco Merlo La Repubblica, 26 aprile 2018 Ho partecipato alla riunione di redazione di Radio Rebibbia, più sorprendente di quella di Repubblica, più ironica di quella del Corriere. Riusciamo a non impaginare il piagnisteo anche se discutiamo di “populismo e carcere” ma con il divieto di citare Voltaire, Brecht, Dostoevskij e persino i Radicali, Rita Bernardini e l’Associazione Antigone. Il tema non è infatti quello della riforma penitenziaria che purtroppo non si farà e dello Stato italiano che, secondo la corte Europea, non custodisce ma tortura. “Cominciamo invece, come appunto si conviene a un giornale del carcere nei tempi del populismo, dai detenuti famosi” dice con allegria Manolo Mazzoni che è dentro, spiega, “perché rapinavo banche”. Come al cinema? “Con la differenza che a Clint Eastwood hanno dato l’Oscar, a me venti anni”. Manolo vorrebbe raccontare di quand’era a San Vittore e Gabriele Cagliari si suicidò “lasciando a bocca aperta l’Italia-di-fuori, ma non l’Italia-di-dentro”. Lo interrompe però Massimo perché “qui c’è Schettino, che è il solo a non avere capito di essere Schettino”. E poi “c’è Dell’Utri che è tornato tre giorni fa dalle sue visite mediche all’Humanitas” taglia corto con il tono acceso di chi porta la notizia. Massimo, tanto per chiarire, è all’ergastolo per omicidio: “In un attimo di camera di consiglio mi hanno dato l’ergastolo. L’omicidio era durato di più”. Ora ha il raro privilegio di una cella singola dove “il gabinetto sta nel mezzo” e dunque, “a volte, quando si affacciano per controllare, io sto seduto sul water”: “Tu che stai facendo?”. “E tu che dici?”. Nelle “normali” celle per 6 invece c’è una porta, ma - si alzano in sei mimando la scena - “qui si mangia e qui...”, fanno un giro su se stessi, “e qui si c...”. Rebibbia può detenere un massimo di 800 persone, ma ne pigia 1.500. Tutti in un punto, che è un racconto di Italo Calvino: “In realtà non c’era spazio nemmeno per pigiarci. Ogni punto d’ognuno di noi coincideva con ogni punto di ognuno degli altri in un punto unico che era quello in cui stavamo tutti. Insomma, non ci davamo nemmeno fastidio”. Fastidio? “Quasi mai. Avevamo in cella un tipo con l’Aids, e noi abbiamo parenti, mogli, figli... Eppure non volevano spostarlo, fingevano di non capire”. E se uno ha la tosse o lo stomaco in disordine? “Su quello che fa bene e quello che fa male decide Goio, il venezuelano”. E tutti in coro testimoniano il caso di quel ragazzo che “aveva un fungo sulla guancia sinistra e il dermatologo...”. Goio si alza in piedi: “Altro che pomata! L’ho curato con bicarbonato e limone, gli ho strappato i peli incarniti. E ora sta benissimo”. Dove hai imparato? “In Amazzonia”. A Carmine, Goio ha messo a posto la spalla, a Carlo la gastrite, a Vincenzo l’artrosi. Esagerano? Si divertono, con un senso di comunità che potrebbe fare impazzire di invidia quelli che fuori si perdono, biliosi, nella solitudine della Rete. E le guardie carcerarie? “Meglio fidarsi dei brutti ceffi che dei santarellini”. Radio Rebibbia, che va in onda su Radio Popolare ed è associata ad Antigone, è la creatura di un vecchio signore che qui viene volontario due volte a settimana da 5 anni. Si chiama Giorgio Poidomani, ne ha compiuti 82, ed è un manager famoso perché ha amministrato giornali. Chiama “ragazzi” questi suoi giornalisti che tra loro sono “colleghi”. E si capisce che le parole e gli abbracci, la radio e lo stare insieme a celle aperte (8 ore al giorno) sono un’ottima terapia anche contro il farsi male. Qui la prima causa di morte è il suicidio per impiccagione, un tanto di suicidio al mese, istogrammi, astrazioni per i sociologi: “tengono sotto sorveglianza il fenomeno sociale, ma i suicidi non hanno scrittori e dunque non ci saranno poeti che racconteranno le loro verità di disperazione e di coraggio”: “Quando hanno aperto la cella,/ era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Miché”. E ci sono anche il tentato suicidio e l’autolesionismo. Giancarlo ha il corpo sgargiante di graffiti come i ponti e i muri d’Italia. Tira su la maglia e mostra lo stomaco: una Madonna e, a sinistra, Gesù: “Ma è il Gesù del Bernini”, precisa. Gli chiedo se è vero che “sono tutti sciocchi”. Mi guarda storto. Gli dico che lo ha esclamato il giudice Piercamillo Davigo: “In cella vanno solo gli sciocchi!”. Ecco, carcerato in quel punto esclamativo, c’è il dibattito che Mauro Armuzzi, fine pena nel 2023, riassume così: “Siamo sciocchi o siamo poveri?”. Giancarlo, che persino sul testone rapato ha tatuato (“certo che è stato doloroso”) le parole RIBELLE e MEA CULPA, vale a dire il peccato e il pentimento, pensa che “siamo sciocchi perché siamo poveri!”. E torniamo ai famosi. Qui sono stati Cuffaro, che ha lavorato anche a Radio Rebibbia, Ciarrapico... “E tutti scriviamo libri, ma solo a loro li pubblicano”. Qualcuno grida: “È così anche nell’Italia-di-fuori”. Dell’Utri “spesso riceve la visita di Confalonieri e ogni volta in carcere si diffonde la leggenda che è arrivato in elicottero direttamente da Arcore”. Raccontano di altri malati di cancro. Massimo ne conosce uno che resiste da 26 anni. “E però tutti abbiamo visto che Dell’Utri è una persona molto umile” lo corregge Luigi Preiti, “anche se ha sempre avuto la cella singola con la doccia”. Preiti, il 28 aprile 2013, il giorno del giuramento del governo Letta, impugnò una 7,65 e, con la cravatta ben stirata, versione calabrese dei balordi di Jannacci, sparò non sul potere, ma sui carabinieri, lasciando per sempre invalido il brigadiere Giuseppe Giangrande. È condannato a 16 anni. Dice che vorrebbe dare a quell’uomo la sua salute, della quale si vergogna. Mite e creativo, ha inventato un rudimentale sistema di areazione che alleggerisce gli odori di cucina che si diffondono nelle celle. La sua pena è educativa o espiativa? E in carcere ci si ritrova o ci si perde? “Io sono stato in cella con mio padre e posso dire che è qui che finalmente l’ho conosciuto e l’ho capito” mi racconta Manolo, quello che è dentro perché rapinava banche come Clint: “Sono contro lo Stato” mi mormora, con allegria, all’orecchio. Politicamente come sei messo?. “Berlusconiano”. Faccio un sondaggio per alzata di mano: su una cinquantina di detenuti qui c’è un grillino, c’è uno di sinistra, e ci sono 15 berlusconiani. Anche il figlio di Manolo è stato in cella con lui: “Si è diplomato qui dentro e ora frequenta l’università, Ingegneria Informatica, è bravissimo”. Due sedie più in la c’è Mauro Tavolacci, che è dentro per hackeraggio. Mi mormorano all’orecchio che “ha rubato 6,6 milioni alla Banca di Inghilterra senza muoversi da casa, e anche i giudici sono rimasti impressionati”. Vero? Falso? La malinconia del carcere è come l’aria rarefatta che si respira nelle alte quote, a volte la depressione spinge a minimizzare il delitto a volte a gonfiarlo. È per questo bilanciamento sbilanciato che in carcere c’è così tanta droga? Dell’antidoto chimico alla malinconia, della cocaina “che non mente mai” come canta Eric Clapton, potrebbe parlare Roberto Pecci che è “fascista e laziale” e per anni ha importato ogni settimana dalla Colombia un container di statuette imbottite di droga che le guardie (corrotte) non vedevano. Gli hanno sequestrato beni per trenta milioni e una collezione di moto d’epoca, ma ora spinge la sedia a rotelle di Giuseppe Di Bello, semiparalizzato da una pallottola. Di Bello rubava gasolio in una casa vicino a Cassino. I padroni, due fratelli armati, se ne accorsero e lui li uccise. Continua a sostenere che non voleva ammazzare. Gli diedero l’ergastolo. Ora la pena è stata ridotta a trent’anni. La sua donna, Federica, ha un profilo su Facebook: “Noi due sempre insieme”. Emanuele, che invece uscirà fra tre mesi, è stato appena lasciato dalla moglie. A ciascuno la sua croce. “La povertà- sostiene, tornando al punto, Saaoud Mohcine, marocchino- è non avere un buon avvocato”. Saaoud, in Calabria, è “cresciuto”, dice, “con Ruby”. Con chi? “Con la nipote di Mubarak” risponde e si mette a ridere dando uno scappellotto a Dina, che è egiziano. E comincia anche Saaoud a raccontare, dalla prima all’ultima rapina, perché Radio Rebibbia è una comunità di raccontatori che ho visto ridere, aiutarsi e pentirsi insieme con un ardente cameratismo che brucia l’autocommiserazione: “Qui tutto costa di più”, si lamenta Beppe Camilli, che è andato a ripulire Colle Oppio anche se “qualcuno non ci voleva: preferiscono che il parco rimanga sporco”. Dicono che “una confezione di caffè Lavazza fuori costa 3,39 euro mentre a Rebibbia è segnata 3,81. E persino sul Voltaren, scritta a mano, c’è una maggiorazione del prezzo”. Su un giornale che si rispetti ci vuole lo spettacolo. Mauro Armuzzi e Carlo Bna, condannati per narcotraffico sono gli artisti, barbuti e capelloni, che hanno fondato il laboratorio “Chi come noi”. Presto andranno in scena con la storia in musica di un terrorista che viaggia su un treno immaginando attentati, ma ad ogni stazione perde un po’ di se stesso e della sua identità criminale. A tutti questi “ragazzi”, ai colleghi di Radio Rebibbia piacerebbe moltissimo prendere il caffè di Don Raffaè che “pure in carcere ‘o sanno fa” con Roberto Saviano. “Abbiamo letto i suoi articoli su Repubblica, e ci hanno commosso proprio perché del carcere non parla più nessuno e l’Italia vuole buttare via tutte le chiavi”. Ecco: qui Saviano sta forse occupando un po’ del vuoto lasciato da Marco Pannella, che non solo digiunava per la giustizia e per l’amnistia, ma nell’ingiusto e nel disumano delle prigioni, nel bugliolo, nella puzza e nelle violenze dell’universo concentrazionario scopriva l’umanità dell’Italia. Migranti. Il racconto per immagini del “cimitero Mediterraneo” di Daniela Fassini Avvenire, 26 aprile 2018 Un nuovo libro a fumetti, realizzato dalla Croce Rossa Italiana, racconta una delle più grandi tragedie umanitarie degli ultimi anni. Si chiama “Mediterraneo”, la pubblicazione numero 100 per Round Robin Editrice, realizzata con il sostegno della Croce Rossa italiana, che racconta “la complessità e il dramma del fenomeno migratorio e di una guerra lunga e taciturna che ha mietuto migliaia di vittime negli ultimi 20 anni”. Mediterraneo è infatti la storia di un mare che, per vergogna e pudore, ha deciso di ritirare le sue acque, svelando tutto ciò che finora ha nascosto. È il racconto di un viaggio, come quello intrapreso da migliaia di persone migranti, della protagonista Amalia che, al posto del mare incontrerà una profondità arida di sabbia e corpi: ciò che resta di quella che una volta era la culla delle culture. Il più grande cimitero d’Europa si mostra dunque ai lettori nella sua semplice crudeltà. La narrazione per immagini non lascia spazio a interpretazioni, trasportando il lettore di fronte all’unica verità possibile, pagina dopo pagina. La scelta di non “scrivere” di non “dire” ciò che è evidente, è il modo in cui questa storia viene narrata. “Per anni -ha scritto nella prefazione al libro il Presidente della Croce Rossa Italiana Francesco Rocca- al Mediterraneo è stata attribuita la responsabilità e la colpa di uccidere esseri umani in fuga e in cerca di una salvezza. Ma non è il mare a ucciderli, non lo è mai stato. Piuttosto sono alcune politiche adottate negli anni, l’innalzamento di muri e la spregiudicatezza dei trafficanti di uomini. Il mare, per sua stessa natura, ha solo celato quella colpa, rendendosi inconsapevolmente complice di una delle più grandi tragedie umane. L’opera letteraria di Nazzaro e Ferrara ha il pregio, quindi, di svelare la verità e di ribaltare la narrazione fin qui diffusa: il mare diventa il mezzo, il viaggio è l’orizzonte. Per tutte queste ragioni, come Croce Rossa Italiana, abbiamo deciso di adottare questo libro. È anche questo il nostro compito: oltre a soccorrere persone in condizioni di vulnerabilità, dobbiamo lavorare affinché si creino comunità sempre più solidali e coese, capaci di mettere al centro l’essere umano”. Informazione. Shawkan e gli altri, la stampa a rischio di Francesca Caferri La Repubblica, 26 aprile 2018 Per la classifica di Reporter senza frontiere anche in Europa ora ci sono pericoli per la libertà dell’informazione. Da quasi cinque anni Mahmoud Abu Zeid langue in una prigione egiziana: il crimine che avrebbe commesso questo fotografo, 30 anni, conosciuto come Shawkan, è semplice. Aver immortalato con la sua macchina fotografica quello che fra il 13 e il 14 agosto del 2013 stava accadendo a Rabaa Al-Adawiya Square, la piazza del Cairo dove gli uomini dell’allora capo delle Forze armate Abdel Fatah Al Sisi sparavano contro i sostenitori del presidente Mohammed Morsi, esponente di punta dei Fratelli musulmani, arrestato poche ore prima in un drammatico rovesciamento dei risultati delle prime elezioni post Primavera araba. Morirono, secondo Human Rights Watch, più di 1000 persone. Per i suoi scatti, Shawkan rischia la pena di morte. Non è un caso dunque che proprio il fotografo egiziano sia stato scelto dall’Unesco - l’organizzazione Onu che si occupa della promozione e della tutela della cultura - come il vincitore del World Press Freedom Prize intitolato a Guillermo Cano, giornalista colombiano ucciso dai trafficanti di droga nel 1986. Il premio sarà attribuito nella conferenza organizzata dall’Unesco per il World Press Freedom day in programma a Dacca, in Ghana, il 2 e 3 maggio, culmine di una campagna per la libertà di stampa nel mondo di cui La Repubblica, assieme a altri media internazionali, è partner. Shawkan è stato selezionato anche da Reporter senza frontiere (Rsf) come uno dei simboli della mancanza di libertà di stampa nel mondo. Ieri l’organizzazione per la difesa dei giornalisti ha diffuso il suo annuale rapporto sullo stato della libertà di stampa nel mondo, puntando il dito, pur con le dovute differenze, contro gli Stati Uniti di Donald Trump, la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping per il costante tentativo di mettere il bavaglio ai giornalisti. Fanalino di coda dell’elenco dei Paesi dove i giornalisti possono svolgere con serenità il proprio mestiere è, come da molti anni, la Corea del Nord, al 180° posto sui 180 Paesi mappati da Rsf. Ma secondo il gruppo la situazione della libertà di stampa è grave in 21 nazioni, un livello mai toccato prima. Fra di esse uno dei casi peggiori è appunto quello dell’Egitto. In uno dei passaggi più interessanti del rapporto, Rsf lancia l’allarme anche per l’aumento delle violenze - verbali e non solo - contro i giornalisti in Europa: l’assassinio di due reporter nel giro di pochi mesi, il cèco Jan Kuciak e la maltese Daphne Caruana Galizia, getta una luce sinistra sulla situazione del continente. E se la Norvegia resta il Paese del mondo dove la libertà di stampa è più garantita, “c’è una forte inquietudine per le democrazie europee”, con particolare riferimento a quello che accade nei Paesi dell’Est, dove troppo speso i giornalisti sono additati come nemici. Un clima che non risparmia l’Italia: l’organizzazione nota come anche nel nostro Paese crescano le minacce contro i giornalisti, soprattutto nel Mezzogiorno, ma anche a Roma, come dimostra il caso di Federica Angeli di Repubblica, minacciata per le sue inchieste sulla criminalità a Ostia. Rsf torna inoltre a puntare il dito contro il Movimento 5 Stelle, dopo che l’anno scorso denunciò le invettive di Beppe Grillo contro i reporter. “Ha spesso condannato la stampa per il suo lavoro e non esita a comunicare pubblicamente l’identità dei giornalisti che lo disturbano”. Il bullismo rileva un fallimento educativo, culturale e politico di Giancarlo Visitilli* Il Manifesto, 26 aprile 2018 Da Lucca a Velletri. I bulli sono lo specchio di un’educazione che evidentemente genera solo frustrazioni e disistima, che hanno sfogo nella violenza. È in atto una crisi culturale, un problema non solo italiano ma che riguarda la specie. È in corso, da decenni, una crisi pedagogica, di grande consistenza, che genera, ormai quotidianamente, atti di bullismo, da Lucca, Milano a Bari, passando per Velletri. Si tratta di una toponomastica che rileva un fallimento educativo, culturale, politico. Abbiamo fallito tutti, perché ognuno, in qualche misura è educatore. E se fallisce la famiglia, avviene quel processo, quasi naturale, dello scarica barile, che si ripercuote sulla scuola. Questa, che dovrebbe essere l’agenzia principe in cui imparare, piuttosto che “cose” (competenze) comportamenti, sapere e processi che derivano dalla poesia, dalla letteratura, dalla storia, dalle leggi fisiche e matematiche, quelle che ancora reggono in un loro sistema, invece, è stata depauperata e resa sterile. Tutto sembra essere regolato dalle stesse leggi che Marchionne insegue per incrementare i suoi profitti. Siamo in un sistema scolastico funzionale, in cui anche io, docente, non sono altro che un perno che regge un sistema rotatorio con una sua funzione, utile a riprodurre un tot numero di diplomati, prodotti in serie. La scuola ha una sua funzione e di essa ci si serve sempre più per far funzionare il sistema, specie quando l’immissione in ruolo di migliaia di insegnanti ci si illude che possa servire ad oliare la macchina. Come fosse la mancanza di insegnanti il vero problema della scuola italiana. Nella scuola pubblica non crede più nessuno, tantomeno chi sale sullo scranno e, a seconda del titolo di studio, posseduto o meno, si inventa delle (non) riforme, utili a rendere la scuola industria con padroni, controllori e controllati, numeri, che a loro volta devono rispondere a test cifrati. E se prima, almeno, la scuola era il luogo della conoscenza (gli ultimi dati rilevano una consistente ignoranza degli studenti italiani in diverse discipline, dal Nord al Sud), figurarsi se si può parlare ancora della scuola come il luogo dell’educazione alla sapienza, quella per cui avvertire quel senso di stupore e di meraviglia, che solo a scuola si può insegnare. E i bambini non spalancano più le loro bocche, perché non gli si insegna più storie utili a provocargli quel senso di bellezza e meraviglia. Gli adolescenti si annoiano e gli universitari abbandonano. La vera riforma dovrebbe attuarsi cambiando i programmi, i contenuti, ponendo al centro dell’interesse più che come insegno, cosa offro. E non sono le Lim, le tante innovazioni tecnologiche, che hanno generato solo la “scuola dei senza…”, a garantire il buon rendimento della scuola, altrimenti non avremmo un atto di bullismo ogni quattro giorni. Se tornassimo ad insegnare ai nostri figli, sin dall’età più piccola, lo stupore, eviteremmo di insegnare anche a loro, dalla scuola elementare, a rispondere a dei test con le crocette, deprivati di colore, privi di qualsiasi forma e di immaginazione. Numeri. E così fino all’Università, dove si devono superare test, piuttosto che esami in cui confrontarsi con altre teste. Tutto questo genera un clima di ostilità, di diffidenza e di sfiducia, sia in chi avrebbe la pretesa di educare, ma soprattutto nei bambini, nelle bambine e negli adolescenti. I bulli sono lo specchio di un’educazione che evidentemente genera solo frustrazioni e disistima, che hanno sfogo nella violenza. se si lascia erodere la scuola, discreditandola, sia quando i nostri figli sono a casa ma soprattutto dando il cattivo esempio che proviene da qualsiasi politica in atto nel nostro paese, perché meravigliarsi del bullo di Lucca che minaccia il suo professore, intimandogli di mettere un sei sul registro? Dove sta l’arcano se un padre, in una scuola di Bari, prende a pugni l’insegnante di sua figlia per averle detto di rimanere al suo posto? Tutto ciò è normalità. fa parte dei comportamenti che i nostri figli guardano in tv, e non solo quando si tratta di uomini e donne fatti accomodare su troni per gente adirata, “per amore”. Si litiga a casa, si fa a botte in strada e ci si ammazza per niente. La somma di questi comportamenti avviene con consuetudine anche nel nostro parlamento. Il nostro paese è diventato bullo. E se mancano le regole a casa, se si è impossibilitati ad insegnarle a scuola, non si usano più nella prassi politica di un Paese, dove andare a recuperare il senso di un vivere civile e democratico se non a scuola (starei per coniare un hashtag, #senonascuoladove)? Affrontare in tal modo la questione è come “quando cerchiamo di arrivare a discutere delle questioni fondamentali, prima o poi ci ritroviamo seduti intorno al letticciuolo di Socrate, nella prigione di Atene”, come sosteneva un uomo, maestro, che nella scuola pubblica italiana ci credeva, Tullio De Mauro. *Presidente e fondatore Coop. soc. “i bambini di Truffaut” Medio Oriente. Perché la guerra contro i curdi riguarda anche noi di Ginevra Bompiani Il Manifesto, 26 aprile 2018 Lanciata la campagna SiAmo Afrin: ovunque vi sia da una parte un progetto di convivenza pacifica e dall’altra il desiderio di mistificare e annientare, è facile decidere da che parte stare. Martedì mattina, 23 aprile, ho trovato al risveglio sul mio cellulare le solite quattro notizie. Una di queste diceva che alle 9,30, alla Città dell’Altra Economia, una conferenza stampa avrebbe annunciato la campagna “SiAmo Afrin”. Una campagna per rompere il silenzio internazionale sull’invasione turca della città di Afrin e il disastro umanitario che sta causando. Che cosa ti fa scegliere fra tutte le notizie e decidere che una di loro ti riguarda? Pur sapendo assai poco di Afrin (perché le notizie sulla guerra in Siria mi sono divenute insopportabili), mi sono alzata e ci sono andata. La stessa cosa è successa 24 anni fa quando qualcuno ha detto che la Biblioteca di Sarajevo era stata bruciata. Quella guerra lontana, di cui capivo poco, si è improvvisamente avvicinata: l’incendio ha illuminato la scena. I libri hanno fatto la mia vita e sebbene molti dicessero: a che servono i libri dove mancano il pane, l’acqua, la luce, e i cecchini prendono di mira le donne al mercato? Sapevo di poter rispondere: danno senso alla vita, anche a questa. E così pure Afrin, città siriana del Rojava, che i curdi hanno liberato dalle forze jihadiste e che il 18 marzo 2018 è stata occupata e saccheggiata dai turchi, nel corso di un’operazione chiamata “Ramoscello d’ulivo” (forse perché l’ulivo è il simbolo di Afrin), anche questa città si stacca dalla grande e confusa tragedia siriana e diventa in qualche modo la nostra città. La Siria è una tragedia e una menzogna, alla quale non possiamo aggiungere né togliere niente. Possiamo solo guardare e piangere come nell’Apocalisse di Giovanni i mercanti piangono su Babilonia: “Guai, guai, immensa città, Babilonia, possente città; in un’ora sola è giunta la tua condanna!”. Ma Afrin è qualcosa di più: è il luogo dove la ferocia è più sfacciata (il 16 febbraio i turchi avrebbero effettuato un attacco con gas tossici; il 22 febbraio avrebbero bombardato un convoglio di aiuti umanitari; secondo l’Onu i fuggiaschi sono stati usati come scudi umani; secondo le milizie curde sono stati arruolati contro di loro ex-combattenti dell’Isis; e secondo un’inchiesta, l’Unione Europea ha dato alla Turchia 80 milioni di euro per acquistare mezzi blindati e armi); ed è il luogo dove la mistificazione è più impudente, visto che nel silenzio-consenso di Oriente e Occidente, il popolo che ha combattuto con successo la jihad, viene poi sgominato dai cosiddetti alleati. Ma è anche l’unico luogo sulla terra dove alla generale fame di guerra e aggressione, viene opposto l’esperimento di una convivenza pacifica, non solo interna, ma con i popoli siriani, iraniani, turchi e iracheni, con i quali i curdi coabitano da anni senza pretendere di spostare le frontiere o di ritagliarsi un proprio territorio (causa infinita di guerra fra Israele e Palestina); infine è il luogo dove è stato istituito, seguendo l’idea di Ocalan, un confederalismo democratico, che nel 2014 ha dato luogo al Contratto Sociale del Rojava, che “rifiuta il nazionalismo, e promuove una società egualitaria, paritaria, rispettosa dei diritti delle minoranze” (quella che verrà definita una “democrazia senza Stato”). È anche il primo tentativo di rovesciare il patriarcato a favore di una convivenza pacifica guidata dalle donne. E questa non è certo l’ultima ragione, per cui il mondo assiste in silenzio all’annientamento di un popolo e una cultura. Alla Città dell’Altra Economia, nella piccola “stanza dei convegni”, ascoltando le poche persone che parlavano (la giovane e bella Hawzhin Azeez, co-fondatrice della Fondazione Hêvî, responsabile del progetto di ricostruzione della città di Kobane; Paolo Bernabucci, presidente del Gruppo di Umana Solidarietà; Karim Franceschi, che ha combattuto al fianco del popolo Kurdo per liberare Raqqa - che dice che adesso che un paese membro della Nato ha invaso e occupato Afrin, le armi non servono più, ma è la società civile mondiale che deve agire e far sentire la sua voce - e altri coraggiosi rappresentanti di questa o quella associazione, invisibile fra loro, ma presente, Zero Calcare che ha disegnato il logo), mentre li ascoltavo, pensavo: qui non siamo condannati all’impotenza, qui possiamo fare qualcosa. Ed ecco alcuni suggerimenti: raccogliere fondi a favore degli sfollati di Afrin (circa 400mila, senza cibo né tende) a questo indirizzo www.l2l.it/siamoafrin. Prendere la parola, in qualsiasi forma o modo, per interrompere il silenzio della comunità internazionale, spingerla ad agire e a fornire aiuti umanitari, svegliare l’opinione pubblica, denunciare l’ipocrisia, sostenere le forze rivoluzionarie e democratiche del Rojava. Perché ovunque vi sia da una parte un progetto di convivenza pacifica (com’era un tempo la Jugoslavia), e dall’altra il desiderio di mistificare e annientare, è facile decidere da che parte stare e sapere che cosa fare, perché ne va del nostro presente e della sola idea di futuro che non coincida col deserto. Iraee in sciopero della fame da oltre 75 giorni è in coma in un carcere iraniano di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 26 aprile 2018 La scrittrice e attivista politica è stata condannata a sei anni di carcere per aver scritto un testo, non pubblicato, che critica la pratica della lapidazione. Golrokh Ebrahimi Iraee è una scrittrice e attivista politica iraniana condannata a sei anni di carcere per aver scritto un testo, non pubblicato, che critica la pratica della lapidazione in Iran. Iraee è in sciopero della fame dal 3 febbraio 2018, stiamo dunque parlando di 75 giorni di mancata assunzione di cibo che l’ha portata a perdere 25 chili e, da quanto rivelato da Simin Nouri, la Presidente delle donne iraniane in Francia in una intervista a Radio Radicale, è entrata in coma. In una lettera degli inizi di febbraio che Iraee ha scritto insieme ad un’altra donna, Atena Daemi, con lei detenuta nel reparto femminile della prigione di Evin ed anche lei in sciopero della fame ora però interrotto, si legge che le donne hanno avviato l’azione nonviolenta perché sono state picchiate e trasferite nella prigione di Gharchak, in violazione sia dell’art 513 del c. p. p. dell’Iran per il quale i detenuti hanno il diritto di scontare la pena in carceri del distretto giudiziario in cui sono state emesse le sentenze, o vicino alla loro città di residenza, sia dell’art 69 del regolamento penitenziario per cui i detenuti politici hanno il diritto a non stare in reparti di non politici. Ma c’è di più dietro la vicenda di Golrokh Ebrahimi Iraee, arrestata una prima volta il 6 settembre 2014, assieme al marito Arash Sadeghi, anch’egli attivista e più volte detenuto. Le autorità avevano messo a soqquadro la casa della coppia senza un mandato di perquisizione confiscando beni personali come computer, Cd e documenti. Tra questi c’era un taccuino che Iraee usava come diario personale dove aveva annotato una storia di fantasia, quella di una donna che guardando un film del 2008, “La Lapidazione di Soraya M”, su una lapidazione per adulterio realmente avvenuta, in un moto di rabbia, aveva bruciato il Corano. Iraee è stata interrogata sul contenuto del diario e della storia, in una stanza adiacente a dove era detenuto il marito, da cui sentiva le torture a cui era sottoposto. L’hanno poi messa in isolamento per tre giorni, e per venti giorni non ha potuto incontrare né i familiari, né un avvocato, né un giudice. La Sezione 15 della Corte Rivoluzionaria l’ha accusata di “insulto all’Islam” e di “diffusione di propaganda contro il sistema”. Il processo, che si è concluso con una condanna a sei anni e mezzo, è stato segnato da tutta una serie di violazioni procedurali: il processo si concentrava sulle attività del marito, Sadeghi, rispetto alle quali Iraee non aveva modo di difendersi; il primo avvocato di Iraee è stato costretto a ritirarsi, e un secondo avvocato, dopo poco tempo, le è stato revocato. È stata condotta in carcere nell’ottobre 2016 e rilasciata su cauzione il 3 gennaio 2017, grazie anche ad un lungo sciopero della fame - 71 giorni! - del marito, nel frattempo condannato a 15 anni di carcere per “propaganda contro il sistema”. Tuttavia, la libertà è stata di breve durata: Iraee è stata ricondotta in carcere il 22 gennaio 2017 mentre andava a trovare Sadeghi in ospedale. Dal carcere Iraee ha continuato a cercare di comunicare con l’esterno, scrivendo diverse lettere aperte, anche una in cui ha criticato una visita di facciata condotta da ambasciatori stranieri nel carcere di Evin nel luglio 2017. Nel gennaio 2018, ad Iraee sono state mosse altre accuse come quella di aver insultato il Leader Supremo Ali Khamenei. La durezza della lotta di questa donna ci parla della durezza di un regime, quello iraniano, con soprusi ed ingiustizie tali da non lasciare altra opzione che quella scelta da Iraee, da Sadeghi e da Athena. Le condizioni oggi di Iraee sono gravissime e non possono lasciarci indifferenti perché l’Iran continuerà a produrre morte fintantoché durerà il silenzio sul destino riservato al popolo iraniano, alle sue cittadine e cittadini che mai come in questi mesi, con le dimostrazioni di piazza che non accennano a smettere, ci stanno parlando di un bisogno di libertà di diritti civili e politici, e non solo di un malessere economico. *Tesoriera di Nessuno Tocchi Caino Turchia. Durissime condanne ai giornalisti di Cumhuriyet di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 26 aprile 2018 Sentenza di primo grado di un processo assurdo: tra i sei e i sette anni di carcere per sei dipendenti del quotidiano, tra cui il direttore Murat Sabuncu e il giornalista investigativo Ahmet Sik; dai tre ai quattro anni per altri sei, tra cui il vignettista Musa Kart. Solo in tre sono stati prosciolti. Giornalisti e management del quotidiano di opposizione turco Cumhuriyet sono stati condannati in primo grado per sostegno al terrorismo, al termine di un processo folle nell’epilogo quanto nel suo svolgimento. Le condanne più pesanti, tra i sei e i sette anni di carcere, per il direttore Murat Sabuncu, Orhan Erinc, Akin Atalay, Aydin Engin, Hikmet Cetinkaya e il giornalista investigativo Ahmet Sik, assurdamente colpevole di associazione con la setta dell’imam Fethullah Gulen (considerato dal governo la mente dietro il tentato golpe del luglio 2016), su cui le sue inchieste hanno per prime contribuito a far luce. Condanne tra i tre e i quattro anni invece per Onder Celik, il vignettista Musa Kart, Kadri Gursel, Hakan Kara, l’impiegato Emre Iper e Bulent Utku. Sono stati invece prosciolti Bulent Yener, Turhan Gunay e Gunseli Ozaltay. In attesa dell’appello, annunciato dagli avvocati difensori, i giornalisti resteranno a piede libero. Unica nota lieta della giornata è il rilascio di Akin Atalay, l’ultimo fino ad oggi ancora dietro le sbarre. Continuerà il processo a carico di Can Dundar, ex direttore in asilo politico in Germania, e a Ilhan Tanir. Condannato invece a dieci anni di permanenza in carcere Kemal Aydogdu, un appartenente a Cumhuriyet ma considerato il leader di una cellula di Gulen e il cui fascicolo, inspiegabilmente, è stato nei mesi scorsi accorpato al processo del quotidiano. Le sentenze giungono al termine delle amare arringhe della difesa e di un processo viziato da errori, abusi e costruito sul lavoro giornalistico della redazione. Un esito incomprensibile su cui le istituzioni europee, a cominciare dalla Corte dei diritti umani, devono cominciare ad agire. Stati Uniti. Boom di overdose, è allarme oppioidi di Danilo Taino Corriere della Sera, 26 aprile 2018 Dilagano le morti da oppioidi: l’anno scorso negli Stati Uniti circa 50mila vittime (come nel Canada). Si tratta della prima causa di decesso negli Usa tra chi ha meno di 50 anni. Nei giorni scorsi, la rivista americana Foreign Affairs ha lanciato un allarme che andrebbe preso sul serio. Siamo sull’orlo di un’epidemia da oppioidi che, partita dal Nord America, sta diventando globale. L’anno scorso, negli Stati Uniti sono morte quasi 50 mila persone per overdose di prodotti riconducibili all’oppio; pro capite, il livello dei decessi è circa lo stesso in Canada. Tra il 2006 e il 2016- sottolineano gli autori dell’analisi- sono morti più americani per overdose di quanti ne siano deceduti, sommati, nelle due guerre mondiali del Novecento. Si tratta della prima causa di decesso negli Usa tra chi ha meno di 50 anni: più degli incidenti stradali e delle armi da fuoco. Un costo che il Council of economic advisors della Casa Bianca ha stimato, per il 2015, in 504 miliardi di dollari, il 2,8% del Pil degli Stati Uniti. L’epidemia nordamericana ha avuto inizio a metà Anni Novanta, quando alcune industrie farmaceutiche hanno iniziato a commerciare su larga scala medicinali contro il dolore a base di oppioidi, aiutate da una continua operazione di lobbying. Le prescrizioni hanno presto dilagato: tra il 1999 e il 2014 le ricette di painkiller sono quadruplicate a 250 milioni l’anno. In parallelo si è sviluppato un mercato nero dove le sostanze costano poco. Di recente si è assistito al boom del Fentanyl, un oppioide sintetico potentissimo che può essere letale già in una dose inferiore ai due milligrammi. Il livello di allarme in Nord America è alto e lo scorso ottobre, Donald Trump ha firmato al proposito una dichiarazione di emergenza sanitaria pubblica: dunque, alcune compagnie farmaceutiche stanno diversificando geograficamente il loro commercio. “Di già, numerosi Paesi sembrano essere caduti nella trappola dell’uso di oppioidi”, scrive Foreign Affairs: i tassi di prescrizione in Germania si avvicinano a quelli canadesi, in Australia si è registrata una forte crescita di vendite di OxyContin (l’oppioide ricreativo più usato negli Stati Uniti) e in parecchi Paesi in via di sviluppo la situazione è anche peggiore. Il problema è drammatico socialmente e sta diventando una questione geopolitica seria, con rischi alti in Europa ma sopratutto in Cina, Russia, Iran, Pakistan: Paesi vicini ai due grandi produttori di oppiacei, Myanmar e Afghanistan. Stati Uniti. I cani randagi insegnano cos’è l’amore, anche in prigione di giulia merlo La Stampa, 26 aprile 2018 Una seconda possibilità. È quella che chiedono i tanti randagi ospitati nei rifugi della California, la stessa che aspettano anche i detenuti del carcere di massima sicurezza che scontano pene molto lunghe. Per questo, fare incontrare detenuti e cani, anche nel chiuso di una cella, è per entrambi un passo verso la libertà. A faro è il programma Pawsitive Change, che ha come obiettivo quello di riabilitare sia gli umani che gli animali, a partire dall’interno. “Gli diamo una possibilità e quello che ci hanno mostrato è incredibile: i detenuti hanno preso i cani più difficili e li hanno trasformati. Nel processo, hanno trasformato anche se stessi”, ha raccontato Zach Skow, uno dei promotori. I cani che partecipano al progetto, infatti, sono stati salvati dalle gabbie in Cina, Corea e Thailandia, dove vengono allevati per poi finire al macello, oppure dai canili della California dove aspettavano di venire soppressi. Per 14 settimane, questi animali dal passato difficile hanno vissuto insieme ai detenuti, che si sono occupati di loro 24 ore su 24. “La maggior parte dei detenuti ha commesso crimini violenti e ha passato in carcere la maggior parte della vita”, ha spiegato Zach. La cosa incredibile, però, è che questi uomini violenti sono tornati bambini e i cani maltrattati sono tornati cuccioli. In più, grazie ai video su Instagram condivisi da chi organizza il programma, i detenuti hanno un modo di comunicare con il mondo che ha allontanato lo sguardo da loro, comprese le loro famiglie. “Abbiamo riunito famiglie che non si parlavano da decenni. Alcuni parenti hanno finalmente umanizzato il detenuto e questo ha permesso di far loro rimangiare i pregiudizi”. Durante le 14 settimane, ogni cane è addestrato per ottenere il Canine Good Citizen Certification, un testo che certifica il fatto che l’animale sia adatto a stare nella comunità. In questo modo ognuno di loro ha più possibilità di venire adottato e molti di questi cani vengono poi portati a casa dagli stessi detenuti. Jason, un detenuto che partecipa al programma, ha già adottato il suo cane, Smokey e quando uscirà di prigione tra una settimana, dopo una pena di 13 anni, il suo cane sarà lì ad aspettarlo. Lo stesso vale per James, che ha già scontato 25 anni e uscirà tra un anno e mezzo, e troverà il suo cane. “Lo scopo del programma è di distruggere i muri emozionali sia nei cani che negli uomini, è un processo interno difficile”, ha spiegato Zach. Anche perché questi muri, in prigione, sono drammaticamente necessari, perché un luogo pericoloso in cui mostrare la propria vulnerabilità può voler dire mettersi in pericolo. Però la vita fuori dal carcere è diversa e questo insegnano i cani ai detenuti: un animale che si riprende da esperienze terribili e che comune accoglie gli esseri umani scodinzolando è la dimostrazione che tutto si può superare. Tutti i detenuti che partecipano al programma sono d’accordo: è la miglior esperienza della loro vita, è il periodo più felice passato in galera, quello in cui ridono di più e in cui si sentono amati. In fondo ad incontrarsi sono due solitudini, quella dei cani abbandonati e dei prigionieri, ma quando succede scatta qualcosa: entrambi imparano di nuovo ad amare.