I Garanti locali a Roma per la riforma del carcere di Stefano Anastasia* Il Manifesto, 25 aprile 2018 Rispondendo alla sollecitazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, il Presidente della Camera ha aperto uno spiraglio all’approvazione definitiva del decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, e giustamente il Ministro Orlando lo ha seguito a ruota, rivendicando il diritto-dovere del Governo in carica di portare a compimento un percorso di riforma iniziato ormai tre anni fa e maturato attraverso la consultazione più ampia che la storia delle politiche penitenziarie ricordi. Siamo dunque a un passaggio decisivo e speriamo che il decreto sia adottato quanto prima in via definitiva. In questo passaggio finale, i Garanti regionali e locali delle persone private della libertà sollecitano le istituzioni locali e i parlamentari eletti nei loro territori a far sentire la loro voce affinché la riforma arrivi a compimento. E in effetti il ruolo delle istituzioni e delle comunità locali è fondamentale per l’efficacia della riforma, così come le comunità locali possono essere le prime beneficiarie di una nuova cultura della pena. Si pensi, per esempio, al beneficio di una politica orientata alla riduzione della recidiva attraverso l’integrazione della marginalità sociale che pendola tra carcere e territorio. O si pensi, d’altro canto, alle rilevanti responsabilità che le Regioni e gli enti locali hanno in materia di esecuzione penale e di privazione della libertà. Alle Regioni, infatti, spetta l’assistenza sanitaria nelle carceri (e giustamente il decreto in via di approvazione aggiorna l’ordinamento penitenziario al trasferimento di competenze dalla Giustizia al Servizio sanitario nazionale avvenuto ormai dieci anni fa), ma anche la programmazione dell’intervento sociale territoriale, la formazione professionale e le politiche attive del lavoro, il dimensionamento scolastico e il diritto allo studio universitario: insomma, gran parte delle politiche necessarie al reinserimento sociale prescritto dall’articolo 27 della Costituzione. D’altro canto, ai Comuni spetta l’organizzazione dei servizi anagrafici (essenziali per l’accesso a qualsiasi prestazione sociale) e la continuità dell’intervento sociale tra carcere e territorio. E anche qui il decreto chiama in causa gli enti locali, sollecitando l’attivazione di luoghi di dimora sociale per consentire a chi non abbia alloggio di accedere alle alternative alla detenzione. Insomma, le comunità e le loro istituzioni hanno tanto da dare e hanno tanto da ricevere da una buona riforma del carcere. Anche per questo, i prossimi 3 e 4 maggio, a Roma, presso la Regione Lazio, dedicheremo due giornate di confronto alle azioni concretamente messe in atto dalle Regioni e dagli Enti locali nell’esecuzione penale e nella privazione della libertà, convinti che ne possa venire un contributo decisivo alla efficacia della riforma. D’altro canto, sarà l’occasione anche per ridefinire il ruolo dei Garanti regionali e il loro rapporto con la rappresentanza nazionale dei Consigli regionali all’indomani della istituzione del Garante nazionale. Fino alla nomina di Mauro Palma come Garante nazionale, infatti, i garanti regionali e locali svolgevano anche un importante ruolo di rappresentanza nel dibattito pubblico degli interessi e delle aspettative delle persone private della libertà. Ora, come si è visto in occasione del pronunciamento del Presidente Fico, questo ruolo è efficacemente svolto dal Garante nazionale. Ma ciò non toglie che dei garanti territoriali ci sia un enorme bisogno, sia come articolazioni di prossimità della funzione di tutela dei diritti condivisa con il Garante nazionale, sia come organi di monitoraggio dell’azione propria degli enti territoriali in materia. *Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio Luci e ombre di una riforma a rischio flop Il Roma, 25 aprile 2018 Misure alternative, maggiore socialità e attenzione agli aspetti sanitari: ma gli addetti ai lavori si mostrano più che mai scettici. Dopo il recente via libera del Consiglio dei ministri al decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario è già conto alla rovescia. Lo aveva annunciato il 16 marzo il guardasigilli Andrea Orlando. Ma cosa prevede questa riforma? Innanzitutto rafforzare le misure alternative al carcere, ponendo al centro il percorso riabilitativo del detenuto - tranne per chi si è macchiato di delitti di mafia e terrorismo - con il vaglio, caso per caso, della magistratura di sorveglianza, con l’obiettivo di abbattere il tasso di recidiva. E quello che possiamo considerare il punto centrale della riforma dell’ordinamento penitenziario, basata sui lavori degli Stati generali per l’esecuzione penale voluti dal Guardasigilli Andrea Orlando e conclusi nell’aprile 2016. Il testo del decreto, che attua una delega contenuta nella riforma del processo penale approvata la scorsa estate, era già stato varato dal Consiglio dei ministri a dicembre e poi sottoposto all’esame delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato. I pareri giunti dal Parlamento, in particolare quello del Senato, contenevano alcune osservazioni critiche, che il Governo non ha accolto, modificando solo in dettagli non di rilievo lo schema di decreto già predisposto. Rafforzamento e ampliamento delle misure alternative al carcere, superando automatismi e preclusioni, tranne che per i condannati per delitti di mafia e terrorismo. Una previsione importante riguarda poi il regime di semilibertà, con la possibilità di accedere a tale istituto da parte dei condannati all’ergastolo (tranne che per mafia e terrorismo), dopo che abbiano correttamente fruito di permessi premio per almeno 5 anni consecutivi, nuovo presupposto alternativo a quello dell’espiazione di almeno 20 anni di pena. Possibile sospensione della pena, anche residua, fino a 4 anni, per accedere all’affidamento in prova, come avallato anche da una recente pronuncia della Corte Costituzionale. Attenzione particolare viene data alla socialità del detenuto, con attività comuni, studio, lavoro e anche lo svago, nonché all’alimentazione per i reclusi, estendendo i requisiti del vitto, rispetto a quanto attualmente previsto, in modo da soddisfare le esigenze delle diverse "culture" e "abitudini" alimentari. I detenuti vengono tutelati anche da discriminazioni legate all’identità di genere e all’orientamento sessuale. In linea con le regole europee, si pone in risalto il diritto del detenuto a essere assegnato a un istituto prossimo alla residenza della famiglia. Quasi 500 in attesa della Rems e oltre 100 sono internati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2018 A quarant’anni dalla Legge Basaglia e a un anno dalla chiusura di tutti gli Opg. A maggio ricorre il 40esimo anniversario della promulgazione della legge che abolì i manicomi. Prende il nome da Franco Basaglia, colui che si è tanto battuto per ottenere questa legge. Proprio nel 1978, infatti, è stata sancita la “Legge 180” che stabiliva la chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici, con la restituzione dei diritti civili e politici e il riconoscimento della dignità ai malati mentali precedentemente condannati alla segregazione e a trattamenti disumani. La chiusura dei manicomi non era da considerare solo come lo scopo finale dell’operazione di Basaglia, ma come il mezzo attraverso cui la società poteva fare i conti con quella figura da sempre inquietante che è il diverso, come il folle, il tossicodipendente o l’emarginato. La legge Basaglia e la chiusura del manicomio civile è stato un passo fondamentale, ma era rimasto scoperto ancora il buco nero degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), aboliti ufficialmente con la legge 81 del 2014 e definitivamente chiusi a febbraio dello scorso anno. Nel dicembre 2011, in concomitanza con l’inizio dell’avventura della legge 81, approvata poi nel 2014, le persone internate nei sei Opg d’Italia erano 1300. Alla vigilia del 31 marzo 2015, data indicata dalla legge n. 81 del 2014 per il superamento definitivo degli ospedali, nei sei Opg erano rimaste 708 persone, di cui una buona metà immediatamente dimissibili. Quasi un anno dopo, nel febbraio 2016, ancora sopravvivevano 4 Opg - Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto - con un centinaio di persone internate illegalmente e sei regioni inadempienti rispetto all’attuazione dei programmi per il superamento degli Opg, la presa in carico delle persone e l’apertura delle Rems, le residenze per l’esecu- zione delle misure di sicurezza detentive indicate dalla legge. Nel 2017 finalmente la chiusura definitiva. Ma come è stato - e per certi versi lo è ancora - per la “Legge Basaglia”, ancora manca la piena attuazione dello spirito riformatore. Rimane il problema dei detenuti psichiatrici al quale il personale della polizia penitenziaria, da sola, non può far fronte. Il carcere è, di fatto, un amplificatore dei disturbi mentali e può alimentare una sorta di circolo vizioso della sofferenza psichica: l’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico che può essere già diagnosticato o ancora latente. La patologia psichiatrica riguarda 1 detenuto su 7, l’abuso di sostanze interessa il 1050% dei detenuti, il suicidio resta una delle prime cause di morte in carcere. I numeri, diffusi l’anno scorso dalla Società Italiana di Psichiatria, dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze e dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, si riferiscono ad un contesto internazionale. Purtroppo l’Italia manca di dati epidemiologici propri, ma come specificano gli esperti si ritengono validi anche per il nostro Paese. Alcuni istituti penitenziari dotati di articolazioni psichiatriche risultano ancora inidonei a supportare i detenuti psichiatrici. A questo si aggiunge un altro problema. Quello degli internati psichiatrici reclusi in carcere. La legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici individuali. Però le Rems sono piene - questo è anche dovuto dal fatto che i giudici, con grande facilità, emettono troppi ordinanze di misure di sicurezza - e si creano le liste d’attesa. Alcuni internati attendono in libertà e altri, invece, sono reclusi anche se non sono ufficialmente dei detenuti. Un questione di profonda illegalità dove non di rado finisce in tragedia come il caso di Valerio Guerrieri, un 22enne che si uccise nel carcere romano di Regina Coeli. Doveva essere ospite di una Rems e invece era trattenuto illegalmente in carcere. Attualmente 441 persone sono in attesa di un posto, un centinaio di loro lo attendono dietro le sbarre. La custodia cautelare da extrema ratio a strumento di una cultura inquisitoria di Renato Borzone* e Lodovica Giorgi** Il Dubbio, 25 aprile 2018 Dopo tre anni dalla approvazione della Legge n. 47 del 2015 il numero dei detenuti in custodia cautelare torna a crescere. “Liberi tutti” titolava Marco Travaglio dalle pagine del Fatto Quotidiano, nel mentre in Parlamento si dibatteva circa le modalità con le quali contenere l’utilizzo della custodia cautelare in carcere. “La difesa sociale è a rischio” affermava l’Associazione Nazionale Magistrati per bocca del suo Presidente. E il Procuratore Pignatone metteva in allarme la politica: “Il legislatore deve sapere che così non si potrà arrestare nemmeno chi compie delitti di strada come lo scippo, il furto, fino alla rapina, a meno che uno non entri in una banca impugnando il kalashnikov”. Eppure la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo già aveva condannato l’Italia per il sovraffollamento carcerario e per le conseguenti condizioni di vita incompatibili con la dignità umana, raccomandando che la custodia cautelare e la sua durata venissero ridotte al minimo compatibile con gli interessi della Giustizia. E le carceri scoppiavano. Ma tant’è: le grida d’allarme si levavano per ogni dove. A distanza di tre anni dagli interventi normativi tesi ad allineare la legislazione italiana ai requisiti minimi previsti dalla normativa europea, sappiamo con certezza che Travaglio, Cascini e Pignatone non sono stati purtroppo buoni profeti. Avremmo voluto che le riforme conseguissero l’obiettivo auspicato, ma non è andata così. Secondo gli ultimi dati raccolti dal ministero della Giustizia, dall’anno 2015 il numeri dei detenuti in custodia cautelare continua a crescere, tanto che il Consiglio d’Europa è nuovamente intervenuto, già un anno fa, raccomandando che, “data la sua natura invasiva e tenendo a mente il principio della presunzione d’innocenza, la norma di base deve essere che la custodia cautelare deve essere utilizzata solo come ultima misura ed imposta per il tempo più breve possibile”. Dopo un 2014 che presentava un deciso segno meno, i numeri sono continuati a crescere, tanto che, secondo il rapporto Antigone il sovraffollamento carcerario raggiunge oggi il + 115%. Se dal 2013 si era passati da 11.108 detenuti in attesa di primo giudizio a 9.549 nel 2014 e a 8.523 nel 2015 e da 11.723 condannati non definitivi a 8.926 nell’anno 2014 e 9.262 nell’anno 2015, gli anni 2016 e 2017 hanno segnato una decisa ripresa dell’uso della detenzione prima della condanna. Il Dap ha infatti indicato il numero dei detenuti in attesa di primo giudizio, nel 2016, in 9.337 persone e nell’anno 2017 in 9.634; quanto ai condannati non definitivi, l’incremento riscontrato nel 2015 rispetto al 2014 ha avuto una decisa conferma negli anni successivi, raggiungendo il numero di 9.586 persone nel 2016 e di 10.181 nel 2017. Da una percentuale del 33,8% sul totale della popolazione detenuta al 30 giugno 2015, al 30 giugno 2017 la percentuale dei detenuti in attesa di sentenza definitiva era già passata al 34,6%. Non vi è dubbio che siamo ancora lontani da quei dati che, prima delle riforme tanto contrastate dalla magistratura e dal giornalismo militante, inducevano l’avvocatura penale a denunciare con forza "l’abuso” della limitazione della libertà prima del giudizio, ma la stessa avvocatura aveva ben colto nel segno quando, nel corso della approvazione delle riforme, affermava trattarsi di “aspirina” laddove “servirebbero farmaci a dosi da cavallo”. I dati più recenti confermano infatti come quella “aspirina” abbia prodotto effetti di breve durata e la sua efficacia si è, come previsto, esaurita nel breve volgere di qualche anno. Il rapporto conclusivo del progetto europeo “The practice of pre-trial detention: monitoring alternatives and sudicia decision-making”, curato da Fair Trial International e finanziato dalla Dg Giustizia dell’Unione Europea, ed al quale per l’Italia ha partecipato l’Associazione Antigone, all’esito di una ricerca effettuata sul campo mediante l’esame di fascicoli processuali e l’uso di questionari rivolti ad avvocati, giudici e pubblici ministeri, evidenzia come l’Italia sia ancora oggi uno dei paesi, fra quelli ad economia avanzata, che fa maggior uso della custodia cautelare. Nel mettere a confronto la percentuale di persone private della libertà prima della condanna con il numero di detenuti definitivi in nove nazioni europee, l’Italia vanta infatti il primato di detenuti in attesa di giudizio, con una percentuale del 34,3% al 31 marzo 2017, laddove la Grecia si attesta su una percentuale del 29,6, la Francia del 28,5, la Norvegia del 25,7, la Svezia del 23,8, la Germania del 20,7, la Spagna del 13,8, il Regno Unito del 10,9, la Polonia dell’ 8%. Al di la della somma spesa dallo Stato Italiano dal 1992 ad oggi per le ingiuste detenzioni pari a 648 milioni di euro, ciò che allarma è l’assoluta inefficacia degli interventi normativi che a più riprese si sono succeduti per contenere l’utilizzo della carcerazione prima della condanna. Quali sono le ragioni per le quali l’Italia continua a detenere in Europa questo primato? E quali i rimedi perché il nostro paese garantisca effettività alla presunzione di innocenza? Si dirà che in Italia la criminalità è maggiormente diffusa o più sanguinaria, ma al contrario i dati più recenti ci dicono che in Italia gli omicidi e in generale i delitti sono in continua diminuzione, a differenza di Germania e Spagna ove invece si registra un aumento della criminalità e pur tuttavia l’utilizzo della custodia cautelare è assolutamente inferiore. Quale dunque le motivazioni? Va detto in primo luogo che la magistratura italiana è restia alla applicazione delle misure cautelari di minore afflittività, in quanto interprete di una forte cultura inquisitoria, che nega il principio di non colpevolezza e forza quello di legalità. Trattasi di cultura che, nonostante i profondi mutamenti normativi degli ultimi decenni, permane immutata da generazioni e permea di sé anche la magistratura più giovane, vittima di una educazione e formazione professionale fortemente autoritaria. L’assetto normativo è oggi, vieppiù dopo le modifiche apportate negli anni 2014- 2015, estremamente chiaro e stringente nel definire i confini di applicabilità della custodia cautelare in carcere quale extrema ratio: è dunque la sua concreta applicazione da parte della magistratura che, forzando le pur limpide regole, giunge ad attribuire alle misure meno afflittive valore residuale rispetto alla misura carceraria, trasformandola da extrema ratio a prima scelta. Va in questo senso anche la crisi del sistema giustizia, non in grado di garantire all’imputato una decisione celere: la custodia cautelare diviene così, per la magistratura, lo strumento per far scontare al presunto innocente una pena ancora in forse e comunque lontana dal giungere. Favoriscono inoltre l’abuso della custodia cautelare in carcere le limitate garanzie difensive e lo scarso patrimonio conoscitivo del giudice al momento della decisione: la difesa è estranea al procedimento di applicazione della misura od al più, in sede di udienza di convalida, gode di 10/ 15 minuti per leggere le carte; la conoscenza del giudice è circoscritta agli atti offerti dal pubblico ministero e manca completamente il contributo dialettico della controparte. Non è un caso che nelle passate legislature si sia ipotizzato di anticipare il contraddittorio fra le parti al momento della applicazione della misura cautelare. La pratica impossibilità, anche in sede di udienza di convalida, di offrire al Giudice materiale utile alla adozione di misure meno afflittive e persino di condividere con il proprio assistito, in maniera informata, la più utile strategia di difesa, fanno sì che il ruolo del difensore sia comunque, anche laddove previsto, di fatto insussistente e che il Giudice decida sulla misura cautelare da eventualmente adottare in forza di una narrazione assolutamente unilaterale. Il progetto europeo sopra richiamato ha raccomandato all’Italia di estendere le garanzie difensive in sede di udienza di convalida, introducendo il diritto del difensore di ricevere la notifica del fascicolo dell’accusa, via fax o per posta elettronica, unitamente alla data della udienza di convalida ed il coinvolgimento dei servizi sociali sin da detta prima udienza: ciò al fine, da un lato, di consentire alla difesa un adeguato studio degli atti di indagine, dall’altro di recepire nella immediatezza la eventuale disponibilità di strutture pubbliche o private ad accogliere l’indagato, laddove esso sia sprovvisto di stabile domicilio. Noi riteniamo che, al di là di interventi normativi senz’altro utili, ciò che va profondamente riformato sia lo stesso statuto della Magistratura: senza la separazione delle carriere fra chi accusa e chi giudica, fra chi chiede l’applicazione delle misure custodiali e chi le decide, fra il giudice, finalmente terzo, e le parti in posizioni di parità, mai riforma legislativa riuscirà ad ottenere il risultato sperato. Il Giudice continuerà ad essere educato e formato alla stregua dell’accusatore, intriso della medesima cultura autoritaria che fa strame della presunzione di innocenza e del principio di legalità. *Avvocato del Foro di Roma **Avvocato del Foro di Lucca Truffe e minacce, estesa la querela di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2018 Dalle minacce alla frode informatica, dalla truffa all’appropriazione indebita, cambia, dal prossimo 9 maggio, la condizione di procedibilità per una serie di reati. Entra infatti in vigore il decreto legislativo n. 36 del 10 aprile 2018, con il quale, in esecuzione della delega contenuta nella riforma del processo penale, si estende l’area della procedibilità a querela. Si chiarisce, a questo punto, anche la scansione della fase transitoria: per i reati commessi prima del 9 maggio, il termine per la presentazione della querela inizia a decorrere dalla medesima data, se la persona offesa ha già avuto in precedenza notizia del fatto che costituisce il reato. Se il procedimento è in corso, il pubblico ministero, nella fase delle indagini preliminari, o il giudice, dopo l’esercizio dell’azione penale, dovranno provvedere a informare la persona offesa della facoltà di esercitare il diritto di querela e il termine inizia a decorrere dal giorno in cui la persona offesa è stata informata. Se, però, il giudizio è in corso davanti alla Corte di cassazione, l’informazione alla persona offesa potrebbe essere complicata, non potendo attribuire ai consiglieri, per la specificità del ruolo, il compito di informare la parte o le parti interessate. La trasformazione del regime di procedibilità non scatterà allora per il grado di legittimità. La necessità dell’informazione è comunque chiara, visto l’obiettivo è di evitare che l’intervento legislativo si risolva, di fatto, in una depenalizzazione, tutte le volte che non è possibile garantire che la persona offesa venga messa nelle condizioni per decidere consapevolmente circa l’esercizio del diritto di querela. In termini generali, il decreto punta a migliorare l’efficienza del processo penale, da leggere in parallelo all’introduzione da qualche mese, dall’agosto scorso, di una nuova causa di estinzione del reato per effetto di condotte riparatorie che interessa appunto i reati perseguibili a querela, soggetta a rimessione. La procedibilità a querela, oltretutto abbinata alla causa di estinzione del reato, rappresenta un punto di equilibrio, per il legislatore, fra due esigenze opposte: da una parte quella di evitare meccanismi punitivi automatici per fatti che non hanno particolare gravità, rischiando di compromettere l’efficienza della risposta penale rispetto a fatti più gravi; dall’altra, quella di fare emergere e valorizzare l’interesse privato alla punizione del colpevole in un contesto caratterizzato dall’offesa a beni spiccatamente individuali. Tocca quindi alla persona offesa la valutazione della gravità dell’offesa ricevuta, favorendo la riduzione dei carichi processuale e permettendo, nello stesso tempo di attivare meccanismi di conciliazione tra privati nelle fasi iniziali del giudizio. Il decreto estende la procedibilità a querela ad alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio, per il carattere essenzialmente privato e modesto dell’offesa. Per reati invece che già prevedono la procedibilità a querela nella ipotesi-base, si è proceduto a ridurre l’effetto delle circostanze aggravanti che possono fare scattare la procedibilità d’ufficio. Nel dettaglio, il provvedimento dovrebbe avere un impatto rilevante soprattutto sul versante del reato di minaccia (stando almeno ai dati disponibili sulle condanne definitive da casellario), pur tenendo presente che l’estensione della procedibilità a querela riguarda il caso della minaccia grave, mentre resta la procedibilità d’ufficio in tutti i casi in cui invece la minaccia è stata realizzata con le aggravanti previste dal Codice penale all’articolo 338 (uso delle armi, per esempio, oppure da persona mascherata). Ma nella lista dei reati trovano posto anche truffa, appropriazione indebita, frode informatica, violazione di domicilio da parte di pubblico ufficiale, violazioni varie in materia di corrispondenza, uccisione o danneggiamenti di animali. Il ministero della Giustizia promette un attento monitoraggio dell’operazione, verificando in particolare il numero dei procedimenti penali instaurati per i reati resi procedibili a querela e il numero di procedimenti penali definiti attraverso una procedura conciliativa, per remissione di querela o per effetto delle condotte riparatorie. Corruzione, imprese sicure “Il reato resta nell’ombra” di Tommaso Di Giannantonio Corriere del Trentino, 25 aprile 2018 La ricerca pilota di eCrime. Il conflitto d’interessi e il familismo tra i nodi percepiti. Corruzione, le paure delle imprese: per il 60 per cento il reato non viene scoperto. Il conflitto d’interessi e il familismo tra i nodi percepiti. Sono alcuni dei dati emersi dalla ricerca pilota di eCrime. Sono duemila gli imprenditori trentini intervistati per uno studio sulla corruzione nel settore privato condotto dal gruppo eCrime dell’università di Trento. I risultati mostrano come il fenomeno sia un problema reale e percepito tra le imprese: il 12% degli imprenditori ritiene che i responsabili acquisti delle imprese realizzino spesso o molto spesso acquisti presso amici o parenti; per il 10% spesso o molto spesso le imprese offrono denaro, favori e regali ad altri imprenditori finalizzati ad un ritorno futuro; per un altro 10% sono frequenti i casi in cui un responsabile degli acquisti di un’impresa riceva denaro, regali o favori da un’altra impresa per la realizzazione di un acquisto o di un ordine. “La partecipazione delle imprese trentine all’indagine statistica è stata superiore ai livelli standard. Questo vuol dire che il tema della corruzione è un problema molto sentito dagli imprenditori” commenta Andrea Di Nicola, coordinatore di eCrime. Il gruppo di ricerca dell’università di Trento ha guidato il progetto di ricerca, il primo applicato in Europa per la misurazione della corruzione tra privati - “Private Corruption Barometer” il nome - e finanziato direttamente dalla Commissione europea con 500.000 euro (il Trentino è stato l’unico riferimento dell’Italia per una ricerca che ha riguardato anche Bulgaria, Germania e Spagna). Lo studio ha permesso di misurare fattori come l’incidenza di episodi di corruzione e il rischio che questi avvengano in futuro, valutando la presenza e l’efficacia delle misure anticorruzione implementate dalle stesse imprese. I risultati sono stati presentati ieri mattina in occasione di un seminario organizzato ad hoc per il tema della corruzione alla facoltà di Giurisprudenza. Un altro problema che è stato al centro dell’indagine riguarda il conflitto di interessi, visto dagli imprenditori come un grande ostacolo al libero mercato: il 26% delle imprese trentine appartenente ai servizi ritiene che il conflitto di interessi incida in maniera negativa sulla libera concorrenza; dello stesso parere sono anche il 33% del settore ristorazione/alberghiero e il 20% dell’industria e del commercio al dettaglio/ingrosso. “Il fenomeno del familismo è una realtà percepita nel mondo dell’imprenditoria trentina. Spesso non viene neppure percepito come un reato quello di arrecare favori a familiari o amici. Fa parte di un’etica da rendere meno grigia anche attraverso l’educazione - continua il ricercatore Andrea Di Nicola. Il Trentino è stato un laboratorio per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema. Lo scopo dell’indagine è stato quello di puntare il riflettore su un problema che riguarda tutta l’Europa e cercare di orientare la riflessione per una soluzione”. La corruzione tra privati, inoltre, appare agli occhi degli imprenditori trentini un fenomeno che generalmente sfugge alla giustizia, compromettendo così i meccanismi di mercato: per il 42% degli intervistati è raro che il coinvolgimento di un dipendente di un’impresa implichi un danno di immagine all’impresa stessa; per il 60% è raro che chi chiede o riceve una tangente sia effettivamente scoperto; il 43% invece ritiene che raramente il coinvolgimento di un dipendente di un’impresa in un caso di corruzione abbia ripercussioni sulla carriera dello stesso. Il coordinatore di eCrime spiega come “la corruzione tra privati è possibile intercettarla a livello giudiziario soltanto con il reato a querela di parte, il che rende ancora più difficile sradicare il fenomeno. In Spagna addirittura non è contemplato alcun reato per i casi di corruzione nel settore privato. Inoltre questa è una delle prime analisi che vengono fatte in Europa e in Italia. Per la prima volta abbiamo elaborato uno strumento capace di intercettare il fenomeno in maniera univoca nei diversi Paesi europei coinvolti. In questo momento stiamo cercando di costruire un nuovo metodo in grado di comparare i dati sulla corruzione emersi tra i vari Paesi”. Il processo (infinito) allo Stato di Paolo Mieli Corriere della Sera, 25 aprile 2018 La sentenza sulla trattativa con la mafia ripropone il problema della reputazione dello “Stato” medesimo e di un senso comune genericamente ostile. Oggi, 25 Aprile, festa della Liberazione, è il giorno giusto per fermarci a riflettere sulla salute dello Stato italiano. Che non è buona per colpa dei molti che da decenni attentano con noncuranza al suo buon nome o alla sua stessa integrità e per il fatto che sono pochi, troppo pochi, quelli che danno prova - non a chiacchiere - di averne a cuore le sorti. Ma c’è poi anche una questione che attiene alla reputazione dello Stato medesimo. Reputazione danneggiata dal progressivo formarsi di un senso comune genericamente ad esso ostile al quale rischiano di contribuire talvolta anche coloro che se ne ergono a difensori. Di cosa parliamo? Prendiamo il caso della sentenza del processo sulla “trattativa Stato-mafia” nel cui merito qui non entriamo in attesa del secondo e terzo grado di giudizio (oltreché di poterla leggere per esteso). Già adesso, però, non possono sfuggirci le ripercussioni che in tema di Stato tale sentenza avrà nel discorso pubblico e sui libri di storia. In che senso? Ecco in che termini ne ha riferito un giornale che - oltreché del direttore Gian Maria Vian e dei suoi giornalisti - è la voce, per così dire, di papa Francesco, L’Osservatore Romano: la sentenza della Corte d’assise di Palermo avrebbe “stabilito in primo grado che la trattativa tra l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra e gli uomini delle istituzioni non solo c’è stata ma ha anche toccato i massimi vertici dello Stato italiano”. Proprio così, secondo il quotidiano della Santa Sede (o meglio: secondo la sentenza), “i massimi vertici dello Stato” avrebbero interloquito con l’organizzazione criminale, per giunta “proprio mentre venivano assassinati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e le loro scorte, nonché cittadini inermi, vigili del fuoco e agenti di polizia, nelle stragi di Firenze e Milano e venivano fatte esplodere bombe nel cuore di Roma”. Più o meno quello che, con maggiore o minore enfasi, hanno riportato quasi tutti gli organi di stampa. Ed è questa, ad ogni evidenza, una percezione destinata a restare. Anche se, come qualcuno ha notato, nella sentenza compaiono sì i nomi dei capi mafiosi e degli ufficiali del Ros responsabili di aver “avvicinato” i boss, ma neanche uno di un qualche appartenente ai suddetti “massimi vertici dello Stato italiano”. L’unico, Nicola Mancino - per il quale Nino Di Matteo e gli altri pm avevano chiesto una condanna (sia pure per un reato minore: falsa testimonianza) - è stato assolto. Per il resto, niente nomi né cognomi. Non è una storia nuova. L’anno prossimo, il 12 dicembre, saranno cinquant’anni dalla bomba di piazza Fontana. E saranno poco meno di cinquant’anni da quando, per spiegare l’accaduto, la casa editrice Samonà e Savelli diede alle stampe un libro, “La strage di Stato”, il cui titolo è rimasto a definire quell’orribile fatto di sangue. Strage o stragi “di Stato”. Sempre, dal 1969 in poi, si è creduto di individuare lo zampino dello “Stato” dietro qualche colpa di questo o quel funzionario o appartenente alle forze dell’ordine. Ma nomi riconducibili ai “massimi vertici” non ne sono venuti fuori. Mai. Nonostante ciò, “lo Stato” a poco a poco, nei nostri manuali di storia (non tutti, per fortuna), è andato prendendo le forme del possibile mandante di questa o quell’impresa delittuosa. Sempre beninteso come un’entità impersonale (e in qualche caso, nelle ricostruzioni, assumeva proprio la denominazione di “entità”). Nemmeno una volta che si sia riusciti ad arrivare all’identificazione di qualcuno che ben più di più di un ufficiale infedele ci avvicinasse a quei “massimi vertici”. Eppure si moltiplicavano pentiti, dissociati, imputati che vuotavano il sacco e raccontavano, raccontavano. Ma al momento di indicare nominativamente qualche appartenente alle vette statuali di cui ha correttamente riferito L’Osservatore Romano, niente. E anche in questa occasione... Qualcuno ha provato a individuarli quei nomi. Marco Travaglio, persona più di qualsiasi altra capace di decrittare quel che scrivono i giudici, ha riassunto sul Fatto ciò che si potrebbe desumere dal dispositivo dell’attuale sentenza: “i tre carabinieri (Mori, Subranni e De Donno) sono stati condannati insieme a Bagarella e Cinà per avere trasmesso ai governi Amato e Ciampi il messaggio ricattatorio di Cosa Nostra (il “papello” con le richieste di Riina in cambio della fine delle stragi) perché lo Stato si piegasse ai mafiosi”. E lo Stato, ha scritto ancora il direttore del Fatto, “si piegò”. Se ne dovrebbe dedurre che la sentenza punta il dito accusatore contro Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, i quali, appunto, “si piegarono”. O contro qualche innominato di pari livello che lo fece al posto loro. Innominato a cui sarebbe riconducibile anche la “rimozione degli uomini della linea dura” (il ministro Enzo Scotti e il direttore del Dap Niccolò Amato) “per rimpiazzarli con quelli della linea molle” (il Guardasigilli Giovanni Conso, il nuovo capo del Dap Capriotti) che nel ‘93 “revocarono il 41 bis a ben 330 mafiosi detenuti”. “Fu quello”, ha scritto ancora Travaglio continuando a riassumere il dispositivo della sentenza, “il primo di una lunga serie di regali a Cosa Nostra, proseguiti per vent’anni sotto i governi di centrodestra e centrosinistra, ma purtroppo non punibili penalmente”. E così anche Silvio Berlusconi (esplicitamente chiamato in causa per via della condanna a Marcello dell’Utri) e Romano Prodi sono sistemati. Davvero non si capisce perché i nomi degli esponenti dei “massimi vertici” del Paese al momento decisivo siano scomparsi dalle carte giudiziarie e al loro posto sia rimasto solo soletto “lo Stato”. Abbiamo scritto che un tal modo di attribuire allo Stato ogni genere di male ebbe una data d’inizio ai tempi della strage di piazza Fontana (1969). In realtà - in termini meno espliciti e diretti - qualcuno aveva cominciato molto prima, nel 1947, in occasione dell’eccidio di Portella della Ginestra; successivamente avevamo avuto un obliquo rinvio al presidente della Repubblica Antonio Segni per il piano Solo (1964): sempre si alludeva a ordini “partiti dall’alto, da molto in alto”, salvo poi sfumare il tutto al momento in cui sarebbe stato necessario circostanziare le accuse nelle aule di giustizia. Negli anni Settanta e Ottanta ci si accorse di questo inconveniente e dagli studiosi furono introdotte nuove categorie a giustificare il perché la mancata identificazione degli statisti responsabili di misfatti: “Stato nello Stato”, “Stato parallelo”, “Doppio Stato”. Ma nomi e cognomi degli appartenenti ai “massimi vertici” dello Stato - parallelo o doppio che fosse - non furono mai identificati. Così - eccezion fatta per Giulio Andreotti e la mafia, con la stravagante condanna/assoluzione double face - i grandi accusati evaporavano nel nulla e nelle reti giudiziarie restavano impigliati imputati medi e piccoli che, diciamolo, sarebbe davvero ingiusto qualificare ancora come “lo Stato”. Anche perché, così facendo, è accaduto che lo “Stato” abbia dovuto farsi carico di una serie mostruosa di capi di imputazione ed entrare, aggravato da questo non lieve fardello, in tv, manuali di storia, libri, film (e, per via subliminale, nella coscienza di moltissimi italiani) come “mandante occulto” di orribili delitti. Restando in tema di mandanti, il 14 novembre del 1974 Pier Paolo Pasolini pubblicò su queste colonne un celeberrimo scritto in cui, parlando delle stragi di quegli anni, sosteneva di conoscere i nomi di chi le aveva commissionate, ma di non poterli mettere nero su bianco dal momento che non ne aveva le prove. Fu, quell’articolo, una scossa salutare. Ma forse non immaginava, Pasolini, che nei successivi quarantaquattro anni la magistratura italiana avrebbe annoverato una gran quantità di “pasoliniani” i quali, senza neanche disporre della sua ispirazione poetica, non avrebbero esitato a puntare l’indice contro non meglio identificati “alti vertici dello Stato”, senza poi sentirsi in obbligo di circostanziare le accuse. Povero “Stato” che nella sua immaterialità, a differenza dei singoli individui, non può difendersi, né nei tribunali, né nei talk show, né nelle piazze. Dopo che per 50 o 70 anni lo si è indicato all’origine di più di un misfatto, non potrà certo essere “assolto” in appello. Né essere risarcito. Dovrà restarsene nei libri di storia sempre più afflitto nella reputazione a pagare per chi sa essere efficace nelle invettive ma non ritiene di doversi presentare all’appuntamento decisivo: quello dell’addebito delle colpe a un essere in carne e ossa. Eventualmente provvisto di identità. “Protezione sussidiaria” per il torturato solo se in Patria non riceverebbe cure adeguate Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2018 Cgue - Grande sezione - Sentenza 24 aprile 2018 causa C-353/16. Chi è stato vittima in passato di atti di tortura nel suo Paese di origine può beneficiare della “protezione sussidiaria” se corre il rischio effettivo di essere privato intenzionalmente in tale Paese di cure adeguate al suo stato di salute fisica e mentale. Lo ha precisato la Corte di Giustizia Europea con la sentenza 24 aprile 2018 nella causa C-353/16. Inoltre un rinvio verso il Paese di origine può altresì essere contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il caso esaminato - MP, cittadino dello Sri Lanka, è giunto nel Regno Unito nel gennaio del 2005 come studente. Nel 2009 ha presentato domanda di asilo, nella quale dichiarava di essere stato membro dell’organizzazione delle “Tigri per la liberazione della patria Tamil” (Ltte), di essere stato arrestato e torturato dalle forze di sicurezza dello Sri Lanka e di rischiare di subire nuovamente maltrattamenti in caso di ritorno nello Sri Lanka. Le autorità del Regno Unito hanno respinto la domanda di asilo di MP e hanno deciso altresì di non concedergli la protezione sussidiaria con la motivazione che non era dimostrato che egli sarebbe stato nuovamente minacciato in caso di ritorno nel suo Paese di origine. Adita in appello, la Supreme Court of the United Kingdom (Corte Suprema del Regno Unito) chiede alla Corte di giustizia se un cittadino extra UE, che presenta i postumi di torture inflitte nel suo Paese di origine ma che non rischia più di subirvi tali trattamenti in caso di ritorno, possa beneficiare della protezione sussidiaria per il motivo che le sue patologie psicologiche non potranno essere adeguatamente trattate dal sistema sanitario di tale Paese. La posizione della Cgue - Nella sentenza, la Corte di giustizia considera in primo luogo che, secondo il diritto dell’Unione, una persona che abbia subito in passato atti di tortura perpetrati dalle autorità del suo Paese di origine ma che non corre più un rischio siffatto in caso di ritorno in detto Paese, non beneficia, per tale solo motivo, della protezione sussidiaria. Il regime della protezione sussidiaria mira a proteggere il singolo individuo contro un rischio effettivo di subire un danno grave in caso di ritorno nel suo Paese di origine, il che implica che sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse in tale Paese, correrebbe un rischio del genere. Ciò non avviene quando vi siano fondati motivi di ritenere che i danni subiti in passato non si ripeteranno o non proseguiranno. Tuttavia, la Corte rileva che il procedimento di cui trattasi riguarda un cittadino extra UE che non solo ha subito, in passato, atti di tortura da parte delle autorità del suo Paese di origine, ma che, nonostante non corra più il rischio di subire nuovamente tali atti in caso di ritorno nel suo Paese, soffre a tutt’oggi di gravi problemi psicologici, conseguenti agli atti di tortura di cui è stato oggetto in passato, tenuto presente che detti postumi, secondo constatazioni mediche debitamente dimostrate, potrebbero accentuarsi in modo sostanziale, con il serio rischio che, se ritornasse in detto Paese, tale cittadino commetterebbe suicidio. La Corte sottolinea che la direttiva relativa al regime della protezione sussidiaria deve essere interpretata e applicata nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la “Carta”). Quest’ultima prevede espressamente che, laddove i diritti garantiti dalla Carta corrispondono a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi sono uguali. L’insolvenza fraudolenta non é assorbita dalla bancarotta impropria se i fatti sono diversi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 24 aprile 2018 n. 18089. Nessuna possibilità di assorbire il reato di insolvenza fraudolenta in quello di bancarotta impropria se i fatti sono alla base delle imputazioni sono diversi. La cassazione, con la sentenza 18089, respinge il ricorso contro la sentenza della corte d’appello che aveva negato la possibilità di assorbire il reato di insolvenza fraudolenta in quello di bancarotta impropria. Il ricorrente, amministratore unico di una Srl, pur essendo consapevole che i due reati possono concorrere, sosteneva che, nel caso specifico il concorso doveva considerarsi escluso perché la condotta rilevante per l’insolvenza fraudolente (articolo 641 del Codice penale) era parte integrante della bancarotta. La cassazione chiarisce che basta confrontare le due imputazioni per verificare che non è così. Il nucleo centrale delle azioni alla base del delitto di insolvenza fraudolenta è costituito infatti dall’acquisto di materiale dalle due società fornitrici con il proposito di non pagare, mentre quello della bancarotta impropria è basato su una serie di operazioni fraudolente, messe in atto attraverso un complesso meccanismo di cessioni di un ramo d’azienda senza contratto, nell’ambito del quale l’assunzione di obbligazioni non adempiute è solo un antefatto. Per i giudici non c’è dunque quell’identità tra le due condotte che scatta quando c’è una corrispondenza “storico naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo di luogo e di persona”. La Suprema corte ricorda un precedente verdetto (47683 del 2016) con il quale la cassazione, affrontando un caso di ne bis in idem tra processi che avevano ad oggetto il reato di truffa aggravata e di bancarotta fraudolenta ha affermato che l’identità del fatto deve essere valutata in relazione al concreto oggetto delle imputazioni, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato. Un principio in linea con la giurisprudenza dettata da Strasburgo, in particolare con la sentenza Grande Stevens contro Italia del 2014, secondo la quale il principio del ne bis in idem impone una valutazione ancorata ai fatti e non alla loro qualificazione giuridica, troppo restrittiva rispetto alla tutela dei diritti della persona. Bancarotta fraudolenta degli amministratori privi di delega quando il dissesto è prevedibile Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2018 Fallimento - Società di capitali - Operazioni dolose - Delitto di bancarotta fraudolenta impropria - Configurazione - Dissesto societario - Prevedibilità. Nel caso di fallimento di società di capitali derivato anche da operazioni dolose, protrattesi nel tempo, in danno di soggetto diverso da una pubblica amministrazione o da un ente pubblico, determinanti nel breve periodo un arricchimento del patrimonio sociale, il delitto di bancarotta fraudolenta impropria è configurabile, sotto il profilo soggettivo, quando il dissesto della società come effetto di tali condotte illecite divenga astrattamente prevedibile da parte degli amministratori per effetto della loro concreta previsione dell’accertamento delle pregresse attività illecite da parte del soggetto immediatamente danneggiato da tali attività. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 3 aprile 2018 n. 14783. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Bancarotta fraudolenta impropria - Fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società - Elemento psicologico - Previsione del dissesto come effetto della condotta anti-doverosa - Necessità. In tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta anti-doverosa. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 17 novembre 2015 n. 45672. Reati fallimentari - Reati di persone diverse dal fallito - In genere - Bancarotta fraudolenta patrimoniale - Amministratori privi di delega - Responsabilità - Condizioni. In tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, ai fini della configurabilità del concorso per omesso impedimento dell’amministratore privo di delega è necessaria la prova della concreta conoscenza - e non della mera conoscibilità - da parte di quest’ultimo dei dati da cui poteva desumersi quantomeno il rischio del verificarsi di un evento pregiudizievole per la società, nonché della volontaria omissione da parte dello stesso di attivarsi per scongiurarlo. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 2 novembre 2012, n. 42519. Persona giuridica - Società - Reati societari - Sindaci e amministratori senza delega - Criteri di responsabilità a seguito della riforma societaria introdotta con il d.lgs. n. 6 del 2003. In tema di reati fallimentari e societari, ai fini della affermazione della responsabilità penale degli amministratori senza delega e dei sindaci è necessaria la prova che gli stessi siano stati debitamente informati oppure che vi sia stata la presenza di segnali peculiari in relazione all’evento illecito, nonché l’accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, giacché solo la prova della conoscenza del fatto illecito o della concreta conoscibilità dello stesso mediante l’attivazione del potere informativo in presenza di segnali inequivocabili comporta l’obbligo giuridico degli amministratori non operativi e dei sindaci di intervenire per impedire il verificarsi dell’evento illecito mentre la mancata attivazione di detti soggetti in presenza di tali circostanze determina l’affermazione della penale responsabilità avendo la loro omissione cagionato, o contribuito a cagionare, l’evento di danno. (In applicazione di questo principio la S.C. ha censurato la decisione del giudice di appello per difetto di motivazione in punto di esistenza di chiari indici rivelatori del possibile compimento di illeciti che avrebbero dovuto imporre agli amministratori senza delega di intervenire e ai sindaci di avvalersi del c.d. potere informativo). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 22 settembre 2009, n. 36595. Persona giuridica - Società - Reati societari - Qualifica di presidente della società, in presenza di amministratori con delega - Criteri di responsabilità a seguito della riforma societaria introdotta con il d.lgs n. 6 del 2003. In tema di reati societari, la previsione di cui all’art. 2381 cod. civ. - introdotta con il D.Lgs. n. 6 del 2003 che ha modificato l’art. 2392 cod. civ.- riduce gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di delega; tuttavia, l’amministratore (con o senza delega) è penalmente responsabile, ex art. 40, comma secondo, cod. pen., per la commissione dell’evento che viene a conoscere (anche al di fuori dei prestabiliti mezzi informativi) e che, pur potendo, non provvede ad impedire. Pertanto, la responsabilità può derivare dalla dimostrazione della presenza di segnali significativi in relazione all’evento illecito nonché del grado di anormalità di questi sintomi, non in linea assoluta ma per l’amministratore privo di delega. (In applicazione di questo principio la S.C. ha censurato la decisione di non luogo a procedere - un giudizio che deve essere di natura eminentemente prognostica - con cui il G.u.p. ha escluso la responsabilità del presidente di una S.p.A. - in ordine ai reati di bancarotta fraudolenta per distrazione e documentale - sulla base del rilevo dell’attività svolta dai titolari delle deleghe e del dato meramente cronologico della cessazione dalla carica di presidente della società, senza peraltro motivare su diverse emergenza processuali evidenzianti detti segnali di anormalità indicate dal P.M. a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio). • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 25 maggio 2009 n. 21581. Campania: carceri come vicoli ciechi, l’80 per cento torna dentro Il Roma, 25 aprile 2018 Il Garante regionale dei detenuti: “fermare la fabbrica della paura”. Come se non bastasse già l’emergenza sovraffollamento. Sul sistema carcerario di Napoli e provincia piomba un nuovo caso. A lanciare l’allarme è il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello: “l’80 per cento di chi esce di prigione torna in breve tempo dietro le sbarre. Gli investimenti per l’inserimento professionale degli ex detenuti sono ancora ridotti ai minimi termini”. Come in un vicolo cieco. Chi mette piede in carcere dopo aver commesso un reato, in Campania ha otto possibilità su dieci di ricadere nel baratro. Una statistica impietosa, quella diffusa dal garante dei detenuti della Regione Samuele Ciambriello, che finisce per tratteggiare un quadro dalle tinte quanto mai fosche. Sotto accusa finisce così ancora una volta la rete assistenziale, sempre più incapace di offrire agli ex detenuti una possibilità di riscatto. Sul punto il professore sannita appare però inflessibile: “Questa "fabbrica della paura" non è più sostenibile. Serve al più presto un deciso cambio di passo”. Statistica choc. Sul punto, Ciambriello non ha dubbi: “Purtroppo il carcere ha fallito la propria missione. L’80 per cento delle persone per una recidiva torna in carcere, il restante 20 per cento non rientra perché ha fatto un cammino di risocializzazione e rieducazione”. Queste le inedite cifre che il Garante dei detenuti della Regione Campania ha diffuso alla presentazione del libro "Passami a prendere in carcere oggi", di Angiolo Marroni, già garante dei detenuti del Lazio, che si è tenuta ieri mattina nella Sala Schermo della sede del consiglio regionale della Campania, al Centro direzionale. In Campania, ha spiegato Ciambriello, “i dati indicano che ci sono 7.321 detenuti in carcere e 7.100 sono fuori nell’area penale esterna (in regime di misure alternative, ndr). E giunto il momento di liberarci dalla necessità del carcere e vivere le pe ne in maniera alternativa”. Ciambriello si è poi detto “amareggiato che non sia passata l’attuazione dei decreti attuativi del Governo sulla riforma carceraria. Mi sono meravigliato - ha aggiunto - che prima di Natale l’Esecutivo non abbia osato e chiuso su questa materia. Abbiamo una riforma del 1975 e non è possibile che in tema di diritti e di giustizia un Paese come l’Italia sia ancora il fanalino di coda dell’Europa”. Meglio le donne. A fare da contraltare a quell’inquietante 80 per cento di recidività tra i detenuti campani ci pensa però l’universo femminile. Stando infatti a quanto appreso dal garante, soltanto il 2 per cento delle donne finite in carcere una volta ricade in seguito nell’"errore": “È la dimostrazione - ragiona Ciambriello - che almeno nel loro caso la detenzione ha effettivamente avuto una funzione rieducativa. Le donne, a differenza degli uomini, sono molto più legate al proprio nucleo familiare. Questo vuoi dire che in caso di distacco forzato la sofferenza è tale da spingerle, nella quasi totalità dei casi, a non commettere più altri reati”. Il Garante dei detenuti campani non disdegna però una decisa stoccata all’indirizzo delle istituzioni locali: “Sul fronte dell’inserimento professionale il gap con le altre regioni è ancora importante. Ad oggi la Regione Campania ha impegnato fondi per un ammontare di appena 4 milioni di euro, due per i detenuti adulti e due per i minori. La "fabbrica della paura" deve essere fermata. Una persona che entra in carcere non può subire un reato anche da parte dello Stato”. Nuoro: il Centro di accoglienza dei detenuti chiude per un errore burocratico di Stefania Vatieri La Nuova Sardegna, 25 aprile 2018 Dopo dieci anni di attività la struttura della parrocchia Beata Maria Gabriella resta senza fondi Don Borrotzu: “Dopo le vane richieste di aiuto alla Regione siamo costretti a cessare tutte le attività”. Esiste dal 2009, ma adesso rischia di chiudere. È il Centro di accoglienza sociale per il recupero dei detenuti “Ut unum sint” gestito dalla cooperativa della parrocchia di Beata Maria Gabriella, unico centro dell’isola ad occuparsi anche delle famiglie e prima struttura della provincia che svolge azioni di recupero dei detenuti. Ancora oggi questa isola felice, nata quasi dieci anni fa nel cuore di via Biasi e accreditata con la Regione e la magistratura, è la sola istituzione sociale del territorio che riveste un ruolo di supporto e recupero per i detenuti delle carceri isolane e per le loro famiglie. Eppure rischia di chiudere a causa di problemi burocratici che hanno portato a mancati finanziamenti e quindi al tracollo della struttura che non riesce più a reggersi dalle sole offerte dei fedeli della parrocchia. Ma quel luogo simbolo a rischio è anche qualcosa di più. “È l’emblema di una crisi che si scarica ancora sui più deboli tra tagli di risorse e finanziamenti mai arrivati - sottolinea don Pietro Borrotzu, parroco della chiesa Beata Maria Gabriella e presidente della cooperativa sociale a sostegno dei detenuti. È con la morte nel cuore che dopo un anno di appelli e richieste di aiuto alla Regione siamo costretti a cessare tutte le attività del centro a causa della totale mancanza di soldi - annuncia. Una decisione presa dopo essere stati esclusi da un bando regionale, del 2016, a causa di un banale errore, che avrebbe garantito la sopravvivenza del centro ancora per qualche tempo - spiega. Ci siamo appellati più volte all’assessore Luigi Arru e tante altre siamo andati in Regione affinché la vicenda venisse risolta, ma a distanza di due anni sembra complicarsi. Questa per noi è la politica delle dichiarazioni e sono convinto che l’assessore non sappia neanche a che punto sia la nostra pratica”. Un centro di eccellenza costato oltre due milioni di euro e costruito grazie a un finanziamento della Comunità europea, che negli anni ha accolto oltre seicento detenuti in regime di semi libertà o con misure alternative al carcere. Una struttura convenzionata con Badu e Carros e Mamone e riconosciuta dall’Autorità giudiziaria per gli incontri protetti con i minori, oltre 600 accolti, fuori dalle mura carcerarie. Ma che tra problemi legati ai finanziamenti e pieghe burocratiche dei nuovi bandi, oggi rischia la chiusura definitiva. Lavorare con i detenuti e le loro famiglie è un impegno complesso, cresciuto nel tempo mentre le risorse diminuivano. “Abbiamo visto aumentare le richieste di aiuto e crollare del 50 per cento i fondi pubblici - sottolinea don Pietro -. Da quando siamo nati abbiamo ricevuto due finanziamenti regionali che ci hanno consentito di lavorare a intermittenza a causa delle risorse sempre più esigue”. Fino ad arrivare al bando del 2016 dove veniva finanziato un milione e duecento mila euro da distribuire tra i sei centri dell’isola che offrono Programmi per l’accoglienza di giovani adulti e adulti sottoposti a misure restrittive della libertà personale. La nostra cooperativa sociale ha partecipato con il progetto “Riannodare i fili 3”, ma purtroppo abbiamo scoperto di essere stati esclusi dal finanziamento a causa di un banale errore sulla data che indicava il 2017 anziché 2016 - rimarca -. Un maledetto numero che ha bloccato l’intero meccanismo burocratico, non permettendoci dunque di essere beneficiari dei preziosi fondi. In questi ultimi mesi non abbiamo potuto rinnovare sei borse lavoro, ciò vuol dire che i progetti di reinserimento lavorativo di questi sei detenuti sono falliti miseramente a causa della carenza di fondi, e loro sono dovuti ritornare in carcere senza la possibilità di poter svolgere alcuna mansione”. Perché se è vero che nell’ultimo avviso pubblico, risalente al dicembre scorso e messo in campo dalla Regione per far sì che anche la cooperativa di don Pietro Borrotzu potesse ricevere una boccata d’ossigeno, e un relativo rimborso spese per le associazioni e cooperative sociali che gestiscono comunità di accoglienza per detenuti, è altrettanto vero che di tutti i soldi chiesti dalla cooperativa nuorese meno della metà sono quelli finanziati e che ancora oggi non sono arrivati. Sassari: la strana estate in cui l’Asinara fece meno paura di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 25 aprile 2018 I risvolti della trattativa Stato-mafia: la percezione che qualcosa sarebbe cambiato nel super carcere arrivò ben prima che chiudesse la temuta sezione di massima sicurezza di Fornelli. Nel 1995, all’Asinara, c’erano oltre cento detenuti nella diramazione di massima sicurezza di Fornelli. Divisi in due grandi bracci per categorie di criminali: mafia da una parte (e per mafia si intendeva anche ‘ndrangheta e stiddari) e camorra dall’altra. Tutti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. L’aria che si respirava era chiaramente pesante: per i detenuti e per i poliziotti che dovevano stare sempre molto attenti a far rispettare le regole di uno Stato ferito, annichilito, ma che non poteva essere sconfitto dalla criminalità organizzata. Nel 1995, all’Asinara, molti detenuti non ritenevano di meritare quel regime restrittivo dove non era previsto il lavoro, dove la giornata trascorreva quasi totalmente in cella e dove si potevano incontrare i propri familiari una sola volta al mese, attraverso dei vetri divisori. Tutta la corrispondenza era sottoposta al filtro della censura. Ci furono diverse impugnazioni al regime di carcere "duro" e a dover decidere era il Tribunale di Sorveglianza di Sassari. Gli avvocati difensori le provarono lecitamente tutte: dalla malattia che non permetteva al loro assistito di poter reggere quel regime, alla lontananza con i familiari costretti a viaggiare con dispendio di energie e di denari dalla Campania e dalla Sicilia verso la Sardegna e affrontare, inoltre, un nuovo viaggio in un’isola che consideravano "maledetta". Era d’estate. Di quelle estati gialle e assolate che solo la Sardegna sa dipingere e dentro quel silenzio ovattato all’Asinara c’era come una percezione, come una piccola convinzione. Era stato appena arrestato Leoluca Bagarella e quasi sicuramente sarebbe arrivato sull’isola come suo cognato Totò Riina. Un altro colpo durissimo alla mafia, un altro colpo fortissimo che tentava di lenire le ferite di uno Stato che provava a ripartire dopo una stagione politica variegata e complessa. Nel giugno del 1993 Nicolò Amato era stato sostituito e al vertice dell’amministrazione penitenziaria si era insediato un nuovo direttore generale. Era d’estate. Di quelle estati che te le senti addosso non per il rumore delle cicale ma per quel mare che all’Asinara avvolgeva il silenzio e il caldo quasi asfissiante. Anche a Fornelli. Soprattutto a Fornelli, dove il cortile per i passeggi era un trapezio in cemento. Camminavano parole in quel recinto, camminavano lente. Le lettere raccontavano le solite cose: la lontananza, l’amore per i figli, l’innocenza, l’ingiustizia per quel regime maledetto e la speranza che l’avvocato potesse, in qualche modo, riuscire a saltare l’asticella del 41 bis. Il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, come quello di Ancona, concesse piccole cose e tra tutte la possibilità di poter avere il fornellino in camera per scaldarsi alcuni cibi. Un passo. L’unico. Gli avvocati prospettavano l’incostituzionalità dell’articolo 41 bis, ma tutto restava fermo, almeno da quelle parti. Eppure quell’estate la percezione camminava come su una mulattiera sconosciuta, tra rupi e valli, tra i silenzi e parole non dette, frasi non scritte. La percezione era nell’aria. Si respirava tra chi dentro quel carcere ci lavorava per dimostrare che lo Stato non si era arreso, non era arretrato. Era d’estate quando cominciarono ad arrivare le prime deroghe, quando alcuni provvedimenti non furono reiterati, quando qualche detenuto ritornò nella penisola in un carcere di alta sicurezza ma non più nel regime vigente a Fornelli. Il Ministro non firmò alcuni decreti e molte celle cominciarono a svuotarsi. Quella percezione continuò a camminare nei mesi, sino a giungere al 1996 quando, in maniera quasi repentina, si chiuse la sezione di massima sicurezza di Fornelli e i detenuti furono trasferiti, sempre in regime di 41 bis, in altri istituti penitenziari. Chiudere la sezione dell’Asinara era una delle richieste contenute in un foglietto. Il carcere dell’Asinara, come quello di Pianosa, faceva molta paura. Troppa paura. Io me la ricordo molto bene quell’estate e quelle strane percezioni. Genova: Euroflora, ai Parchi di Nervi ecco l’orto dei detenuti di Marassi primocanale.it, 25 aprile 2018 La cura di un orto e di un giardino diventano un percorso di recupero per alcuni detenuti del carcere genovese di Marassi che hanno potuto allestire il loro lavoro nei parchi di Nervi, in occasione di Euroflora 2018. Il progetto, denominato Case rosse fiorite, è portato avanti dall’associazione il Biscione, che da anni lavora assieme ai detenuti. All’interno del carcere di Marassi, i detenuti in custodia attenuata hanno recuperato uno spazio verde realizzando un orto e un giardino. I prodotti dell’orto sono poi utilizzati nella cucina d della stessa sezione. Nell’ambito di Euroflora, i detenuti hanno potuto portare fuori dalle mura del carcere il loro lavoro, un percorso educativo e terapeutico, rivolto agli ospiti della sezione per lo più con problemi legati alla tossicodipendenza. Il progetto ha come obiettivo quello di dare nuove prospettive, ma soprattutto un senso di utilità nel coltivare pomodori, melanzane, zucchine ma anche fiori per abbellire il giardino. Padova: Coro Due Palazzi e Teatrocarcere al Festival Biblico Il Gazzettino, 25 aprile 2018 Le persone detenute di Teatrocarcere e il Coro Due Palazzi di Padova saranno tra i protagonisti del Festival Biblico edizione padovana, con due appuntamenti: uno nei giorni e nei luoghi aperti al pubblico del Festival (11-13 maggio) e uno nell’auditorium Due Palazzi, quasi come evento anteprima del festival, che si terrà giovedì 10 maggio, con inizio alle 13.30, nella Casa di reclusione. Proprio per la particolare “collocazione” di questo appuntamento e per il numero “chiuso” dei posti è necessario un accreditamento entro domani. Per il pubblico la prenotazione va fatta inoltrando la richiesta a teatrocarcere2palazzi@gmail.com. Lo spettacolo avrà poi una “replica adattata” domenica 13 maggio, alle 18.30 nel giardino del Centro universitario in via Zabarella. Lo spettacolo “Alla ricerca del tempo presente” per la regia di Maria Cinzia Zanellato, con aiuto regia Adele Trocino e direzione del coro Giulia Prete, nasce all’interno del progetto artistico e culturale “Papillon-Operatori di Relianza” dedicato alla popolazione detenuta nella Casa di Reclusione Due Palazzi. Il progetto si articola in un’attività di mediazione culturale, laboratori di teatro, coro e video, realizzazione di appuntamenti culturali, orientati a favorire la relazione e il percorso di inclusione tra carcere e città. Parola chiave del progetto è il concetto di “relianza”, neologismo creato dal filosofo e sociologo Edgar Morin; è un’unione di due parole francesi: relier (unione) e alliance (alleanza), come sintesi di una dimensione solidaristica in opposizione alla frammentarietà, indicando tutto ciò che unisce e rende solidali, contro la divisione. Lo spettacolo si articola tra dialoghi e monologhi in parte tratti da scritti autobiografici di persone detenute presentati al Premio Castelli e in parte realizzate nei laboratori. Padova: il nuovo polo sportivo del Due Palazzi, casa della Polisportiva Pallalpiede padovaoggi.it, 25 aprile 2018 Inaugurato l’11 aprile, il nuovo polo sportivo del carcere Due Palazzi, siamo andati a visitarlo nel giorno della partita tra la squadra dei detenuti e Medoacus di Selvazzano. Lara Mottarlini è la ideatrice e la vice presidente del progetto Pallalpiede, la squadra di calcio dei detenuti del carcere Due Palazzi. Siamo andati a intervistarla nel carcere nel giorno della partita della compagine formata dai detenuti contro la Medoacus di Selvazzano. Il progetto Pallalpiede - "È un percorso trattamentale positivo - racconta la Mottarlini - una delle attività più richieste e ai quali i detenuti vogliono partecipare, questa della squadra di calcio. Unici limiti che abbiamo posto per poter entrare a far parte della quadra sono l’età, i 40 anni al massimo e il buon comportamento all’interno del carcere. Ci siamo poi dotati di un codice etico che ci siamo dati e che i ragazzi seguono. Ci tengono molto sia a vincere le partite, come è ovvio che sia, ma anche a vincere la coppa disciplina. Sarebbe il quarto anno consecutivo!" Il presidente è Paolo Mario Piva, il vice presidente appunto Lara Mottarlini, dirigente Andrea Zangirolami e il mister Fernando Badon, con il suo vice Walter Ballarin. Il supporto della direzione e della Figc - "Il direttore Claudio Mazzeo - spiega la vice presidente di Pallalpiede - che ha ereditato questa attività, si è dimostrato subito entusiasta e disponibile, come d’altronde le precedenti direzioni. Il polo sportivo, gli spogliatoi e i campi di basket e pallavolo sono una grande opportunità per chi è costretto qui. Noi crediamo moltissimo allo sport non solo come pratica per il benessere fisico ma anche come attività sociale. Dello stesso avviso è la direzione. Un grande grazie va anche al presidente Figc regionale Ruzza che ci ha sempre sostenuto, fin dal primo momento". Fossano (Cn): fioriere e arredo urbano progettati da detenuti e studenti di Alberto Prieri La Stampa, 25 aprile 2018 Il Comune ha affidato al carcere Santa Caterina e al corso di Carrozzeria del Cnos-Fap salesiano la realizzazione dei portavasi e la decorazione dei cestini portarifiuti. “Fare di Fossano una città più bella, generando opportunità di lavoro”. Così il sindaco Davide Sordella ha sintetizzato la sua “scommessa”: il Comune ha affidato al carcere Santa Caterina e al corso di Carrozzeria del Cnos-Fap salesiano la realizzazione di fioriere e la decorazione dei cestini portarifiuti con il logo rinnovato della città. Le prime (una ventina, altre ottanta sono state acquistate), sono state realizzate partendo dal prototipo ideato nel penitenziario, poi modificato dall’ufficio tecnico comunale, quindi costruito dal corso di Carpenteria interno con una dozzina di detenuti coordinati da Enrico Borello. I cestini (124) sono stati decorati da una quarantina di ragazzi, sotto la guida di Paolo Mellano. “Si tratta del primo passo del restyling dell’asse tra piazza Castello, via Cavour, via Garibaldi e piazzetta delle Uova - ha precisato Sordella -. Il cantiere partirà a giugno: lungo la linea rossa che unirà le piazze ci saranno queste fioriere e cestini, che poi troveranno posto in tutta Fossano”. Davanti ai monumenti - “Davanti ai principali monumenti, inizialmente le chiese, riporteranno anche il nome degli edifici antichi, così da raccontare la storia fossanese - ha aggiunto il vicesindaco Vincenzo Paglialonga. Vogliamo completare la riqualificazione entro il 2019”. Spesa di 200 mila euro - Nessuno ha lavorato gratis, non è stato volontariato: l’Amministrazione ha investito nella realizzazione delle fiorire e dei cestini 200 mila euro. “Ovviamente non potevamo pagare gli studenti, ma copriremo una parte delle spese per il loro viaggio di studio a settembre” ha chiarito l’assessore al Lavoro Cristina Ballario. Amministratori, insegnanti, educatori carcerari, volontari Caritas coinvolti nell’iniziativa, hanno sottolineato la qualità dei manufatti. E visto che si tratta di pezzi unici “made in jail” (fatti in prigione) o “made in Cnos-Fap”, il primo cittadino ha rilanciato con due nuove scommesse. Esposizione - “Stavolta ordineremo le panchine, e già ci sono i primi prototipi - ha confermato -. Il secondo progetto è ancora più ambizioso: fare di Fossano un’esposizione a cielo aperto di arredi urbani costruiti con questo modello sociale di affidamento delle commesse e creare, nella vecchia chiesa del Salice adiacente al carcere, un’esposizione di arte moderna e un laboratorio in cui ideare oggetti che siano realizzati da detenuti e studenti, quindi venduti, creando un circolo virtuoso che unisca il bello al buono e generi competenze e lavoro”. Fermo (Ap): dal carcere una chiave diversa per parlare ai ragazzi di legalità cronachefermane.it, 25 aprile 2018 “Prima di venire qui ero preoccupato, mi aspettavo persone diverse. Ho trovato ragazzi, giovani o meno giovani, normali, molto vicini a noi”. Sono le parole di un ragazzo di diciotto anni, le frasi migliori per spiegare l’incontro all’interno della casa di reclusione di Fermo, una ventina gli studenti scelti tra i maggiorenni, alunni delle quinte classi dell’Itet Carducci Galilei. Di fronte cinque detenuti che si sono raccontati, hanno parlato di esperienze di vita difficili, della scuola che non ha lasciato in loro un bel ricordo, del dolore delle famiglie e degli anni trascorsi dietro le sbarre, contati uno sull’altro, un giorno dopo l’altro. Uno scambio di domande e di risposte efficaci, per parlare di legalità a partire dalla storie delle persone. La direttrice del carcere, Eleonora Consoli, crede molto nell’incontro tra la casa di reclusione e il mondo della scuola, ci sono contatti con l’Ipsia Ricci e con il Liceo delle Scienze Umane “Annibal Caro”, con l’Itet “Carducci Galilei” la collaborazione dura ormai da cinque anni grazie all’impegno del docente Roberto Cifani, che ha trovato una chiave diversa per parlare ai ragazzi di legalità: “Siamo qui per capire, non per giudicare, ha sottolineato il docente, anzi, per avere noi consigli su come ci possiamo muovere per accogliere il disagio che qualche ragazzo manifesta, per capire come possiamo evitare che si arrivi a fare gli errori da cui non si torna più indietro”. I ragazzi hanno chiesto della quotidianità in carcere, del rapporto con gli agenti di Polizia penitenziaria, presente anche il comandante Loredana Napoli e alcuni agenti in servizio che pure hanno raccontato il loro lavoro, sorveglianza sì ma anche comprensione, ascolto, qualche volta punizione ma sempre rapporto umano per provare a mandar fuori nel più breve tempo possibile ragazzi giovani che potrebbero trovare altre strade. E proprio su una strada diversa hanno puntato la loro attenzione i detenuti coinvolti, Francesco ha dato la sua testimonianza da Articolo 21, lavorante all’esterno delle mura del carcere, per cominciare a ricostruire il dopo, il difficile ritorno alla vita normale. Un percorso costruito con l’area trattamentale, coordinata da Nicola Arbusti, per non sprecare il tempo che si trascorre nel limbo della carcerazione. C’è chi ha ricordato gli anni della scuola, quando i problemi già venivano fuori ma la società non ha trovato altra strada che emarginare, escludere, condannare, una volta e per sempre. Colpiti e attenti i ragazzi, hanno promesso di scrivere pensieri e sensazioni di un incontro che vale più di mille lezioni, per capire che le scelte che si compiono hanno una conseguenza, sempre, e vanno ponderate e costruite con cura. Torino: un ambulatorio per i 250 gatti che vivono in carcere di Antonella Mariotti La Stampa, 25 aprile 2018 Al Lorusso e Cutugno, i detenuti faranno da assistenti ai veterinari. Nascerà un ambulatorio veterinario dentro al carcere Lorusso e Cutugno. Sarà inaugurato prima dell’estate negli spazi della casa circondariale, e diventerà il luogo in cui i felini che oggi vivono “dietro alle sbarre” verranno sterilizzati. Da circa sedici anni, infatti, nel carcere torinese abita una colonia felina, che oggi è composta da circa 250 esemplari. In passato sono arrivati a essere oltre 400. E nel tempo l’Enpa si è occupata di loro facendo centinaia di interventi di sterilizzazione, spostandoli ogni volta per più giorni in altre cliniche del territorio. “Il progetto nasce per contenere le nascite e per tutelare la salute degli animali - dice Roberto Testi, direttore del dipartimento di prevenzione unico delle Asl Torino 1 e 2. Coinvolgerà anche i detenuti, perché una decina di loro sarà formata alla cura e all’assistenza dei gatti”. Alcuni detenuti si prendono già cura dei mici, ma la loro attività non è inserita in un programma strutturato in questo modo. Si tratta di un’iniziativa nata in sinergia tra il Comune, l’Asl, l’Ordine dei veterinari e la casa circondariale, e “l’ambulatorio diventerà così un osservatorio in cui i gatti saranno curati, se necessario, e visitati”, spiega Thomas Bottello, presidente dell’ordine dei veterinari di Torino. “Qui inizierà un censimento completo dei felini del carcere - dice Alberto Colzani, responsabile del servizio veterinario di sanità animale, area A - e sterilizzarli dopo la cattura, si applicherà il microchip”. Una pratica molto meno invasiva, che durerà senza dubbio parecchi mesi. La colonia continuerà poi a essere monitorata in futuro, quando il gruppo dei quattro zampe non potrà più riprodursi. Nei prossimi mesi prenderà così forma un’iniziativa unica in città e forse in Italia, “che sarà un beneficio anche per la salute dei detenuti e dei lavoratori del Lorusso e Cutugno”, aggiunge Colzani. Ma soprattutto “un progetto pilota - dice l’assessore all’ambiente Alberto Unia - che potrà diventare un modello da esportare in altre regioni, nell’idea di unire un percorso di inclusione sociale a un’attività di sensibilizzazione nei confronti degli animali”. Napoli: #GuerradiParole 2018, detenuti contro studenti universitari napolitoday.it, 25 aprile 2018 Il 4 maggio 2018 si terrà a Napoli, nel carcere di Poggioreale (Via Nuova Poggioreale, 167), un duello di retorica tra detenuti e studenti dell’Università Federico II sul tema del reddito di cittadinanza. L’iniziativa, giunta alla terza edizione, è sostenuta per il secondo anno consecutivo da Toyota Motor Italia ed è organizzata da PerLaRe, Associazione Per La Retorica. Insieme a Toyota, sono partner del progetto la Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, la Casa Circondariale Napoli Poggioreale e l’Università Federico II, insieme all’Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere UCPI e Carcere Possibile Onlus. Toyota si posiziona come Mobility brand che lavora per assicurare le migliori condizioni di mobilità per garantire una completa libertà di movimento per tutti, offrendo servizi di mobilità di nuova generazione, soluzioni di trasporto e tecnologie avanzate nelle auto e all’interno delle mura domestiche, anche a chi vive diverse forme di disabilità o nei confronti delle persone anziane. Toyota si è affermata come punto di riferimento per affidabilità, qualità, sicurezza e innovazione tecnologica, quest’ultima rappresentata, in primis, dalla tecnologia Full Hybrid Electric, che assicura prestazioni elevate ed estremo piacere di guida, con consumi ed emissioni ridottissime. La #GuerradiParole è un confronto dialettico che ha l’obiettivo di premiare la squadra maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili e sintetiche, senza perdere la calma o insultare l’avversario. Un sofisticato esercizio di auto-controllo e di civiltà, che consiste nell’affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. I detenuti e gli studenti non avranno la possibilità di incontrarsi prima del giorno del dibattito. Verranno preparati allo “scontro” separatamente da PerLaRe, Associazione Per La Retorica: da Flavia Trupia, la presidente, e dall’attore e regista Enrico Roccaforte. Ogni squadra parteciperà a quattro incontri formativi sui temi dell’oratoria e del linguaggio del corpo. Nel corso della formazione, i detenuti e gli studenti avranno modo di imparare a costruire le argomentazioni e a gestire il corpo e la voce, grazie alle tecniche del teatro. I partecipanti non sono stati scelti sulla base del talento naturale ma esclusivamente per la loro motivazione. La #GuerradiParole non è un talent show, ma un esercizio che si ispira a un principio chiave di PerLaRe-Associazione Per La Retorica: tutti, attraverso l’applicazione e la conoscenza di alcune strategie, possono diventare oratori migliori. Le due squadre, composte da 20 persone ciascuna, sceglieranno autonomamente i loro portavoce, che li rappresenteranno nel dibattito del 4 maggio, nel corso del quale dovranno sostenere posizioni opposte che riguarderanno lo stesso argomento di attualità. La gara si svolgerà in due round di 20 minuti ciascuno. Allo scadere del round, le posizioni da sostenere si invertiranno. Il tema del dibattito di quest’anno sarà il reddito di cittadinanza. La giuria della #GuerradiParole è composta da: Mauro Caruccio, amministratore delegato di Toyota Motor Italia; Valeria Della Valle, socia dell’Accademia della Crusca; Francesco Montanari, attore; Ludovico Bessegato, produttore creativo tv; Gaetano Eboli, magistrato di sorveglianza; Vincenzo Siniscalchi, avvocato penalista; Ema Stokholma, Dj e conduttrice radiofonica; Alessio Falconio, direttore di Radio Radicale; Francesco Piccinini, direttore di Fanpage. Per assistere alla #GuerradiParole, è necessario iscriversi inviando un’email a info@perlaretorica.it entro il 24 aprile 2018, specificando nome, cognome, luogo e data di nascita. Varese: il rapper che attraverso la musica dà voce ai detenuti di Kevin Ben Ali Zinati tpi.it, 25 aprile 2018 Dal 2014 il rapper Kiave viene ospitato in un carcere dove cura laboratori creativi con i detenuti che vogliono rimettersi in gioco. La sesta edizione a Varese ha prodotto tredici brani che faranno parte di un album disponibile online. Il dj scalda il mixer. Il fonico monta spie e casse, cavi lunghi e neri inondano il palco. “Check, one-two, one-two, ok”. Le basi sovrastano le voci. “Che hai detto? Così si sente?”. Sì, l’audio è buono. Il microfono è acceso, le rime fanno a pugni con la laringe, le mani alzate sorreggono il soffitto e i ragazzi sul palco sono visibilmente nervosi. “Quando volete, noi ci siamo” abbozza qualcuno. Arriva il primo bagno di applausi. E allora tutti dentro. Tutti dentro al carcere. Carcere, nessun errore. La casa circondariale di Varese, in Lombardia, si è trasformata in un vero palcoscenico con il progetto “Voci Spiegate”. Un progetto pensato, costruito e portato in giro per l’Italia dal rapper cosentino Kiave. Dal 2014 l’artista viene ospitato in un carcere dove cura laboratori creativi con i detenuti che “vogliono (ri)mettersi in gioco”. Insieme studiano l’hip-hop, la sua storia e la sua cultura, ascoltano basi, buttano giù qualche rima “giusto per far capire concretamente di costa stiamo parlando”. E poi via, penna e foglio direttamente in mano a loro, ai detenuti, a chi di voce solitamente non ne ha. Con i laboratori di Voci Spiegate ragazzi di qualunque età si mettono a nudo, si raccontano rappando davanti al loro primo vero pubblico e su basi musicali studiate da Kiave, al secolo Mirko Filici. La sesta edizione, andata in scena ai “Miogni” di Varese, ha prodotto tredici brani che nel giro di un mese finiranno in un album poi disponibile online. Qui finisce la spiegazione, perché dopo le parole di circostanza, i ringraziamenti all’Associazione Assistenti Volontari San Vittore Martire che ha voluto e finanziato l’intero progetto, agli educatori e al personale della casa circondariale, il microfono l’hanno preso loro, i detenuti. Gli applausi sono arrivati subito. Applausi di incoraggiamento, i più facili. Ma quelli che il grande pubblico presente al carcere di Varese ha regalato spontaneamente a metà concerto, a scena aperta, a ogni rima, racchiudevano molto altro. Ammirazione, forse anche un pizzico di invidia da parte di qualche compagno di Tony, Domino, Labi e Pach, i quattro detenuti protagonisti del progetto. “Loro hanno avuto il coraggio di farlo, io non me la sono sentita” rivelerà qualcuno. “Che cosa avevamo da perdere? Stiamo già in carcere, peggio di così non poteva andare…”. Amarezza corretta con un pizzico di ironia. Ma dietro a quello che più che un esperimento è un’esperienza, c’è di più. “Ci vuole coraggio” sentenzierà Kiave, “ci vogliono le palle per salire su questo palco e sbattere in faccia a tutti i propri errori, le scelte sbagliate e anche quella voglia di non sentirsi per questo esclusi e diversi”. Ci vuole coraggio. Perché l’odio, l’inferno, le armi, le “serate finite a mazzate”, le notti sulla panchina “tirando cocaina”, le “spade” e le prostitute quando le senti in radio sono ovvie, quasi imperative. Ma quando sul palco ci sono persone - ragazzi - che raccontano quelle che non sono “solo” parole ma ricordi e incubi, cuore, polmoni e animo restano pietrificati, immobili come sotto le bombe. Le idee assumono i contorni di un volto e le “cazzate”, come le chiamano loro, ti si siedono così vicine che puoi sentire l’odore della paura, della furia, della delusione, dell’annientamento, del sole mangiato dal buio. Ci vuole coraggio. Perché pensarlo senza sentirsi degli ipocriti è un conto, dirlo ad alta voce senza essere derisi è un altro ma mettere in rima la voglia di riscatto, ammettere di credere per davvero nella speranza che sì, si può davvero ricominciare e che “nonostante tutto siamo figli, fratelli, mariti di qualcuno come voi” è tutta un’altra storia. Alla casa circondariale di Varese il rap e l’hip-hop hanno urlato per quasi tre ore. Tre ore suggestive in cui l’atmosfera da concerto ha sostituito quella del carcere. Solo per poco, certo. E così doveva essere. “Voci Spiegate” non è fatto per dimenticare, per rinnegare il passato inventandosi una vita diversa. Aprire il microfono ai detenuti è dare il megafono alla nostra quotidianità, sono quelle realtà a volte rinnegate e troppo (spesso) riassunte in titoli di prime pagine che ci prendono e ci trascinano oltre l’inchiostro e la puzza di buonismo. È soprattutto l’essere testimoni della ripartenza. Sedersi e ascoltare i Tony, i Domino, i Labi e i Pach vuol dire dimenticarsi i ruoli sociali, mischiare il mazzo e staccare le etichette, (s)battere via il (pre)giudizio, imparare ad accettare, ad ascoltare, a capire, a pensare. E qui gli altri applausi, quelli dei ragazzi delle scuole di Varese presenti al live. Applausi ai detenuti ma soprattutto ai loro insegnati. Gli applausi più sinceri, i più difficili (da strappare). “Grazie per averci portati qui”. La catarsi esiste e oggi è a tempo di flow. “Dopo quest’esperienza sto recuperando il rapporto con mia sorella, ha visto che sto cambiando, che sto diventando una persona migliore. Il carcere mi ha fatto apprezzare di più la vita e la mia vita. Prima pesavo 40 chili, non mangiavo e non dormivo. Ora invece credo in me stesso. Mi voglio bene e sono pronto a riprovarci”. Porto Azzurro (Li): teatro in carcere, presentato "Incontro" quinewselba.it, 25 aprile 2018 È il titolo dello spettacolo che venerdì 20 aprile è stato presentato dal Laboratorio teatrale “Il Carro di Tespi”. Protagonisti i detenuti. “Incontro” è il titolo della nuova offerta teatrale nella Casa di reclusione di Porto Azzurro. Incontro fra diversi, che imparano ad integrarsi a vicenda, a capovolgere stereotipi che pare impossibile rimuovere. Questa molto in breve la sintesi dello spettacolo teatrale che venerdì 20 aprile il Laboratorio teatrale “Il Carro di Tespi”, da 25 anni attivo nel carcere elbano, ha presentato agli spettatori. Tratto dal racconto “Il paese dei ciechi” di Wells e liberamente rielaborato, il drammatico copione è stato letto dalla brava attrice livornese Loretta Ronsichi e animato da alcuni validi interpreti, detenuti e no. In un paese lontano, in una valle remota delle Ande, vivono abitanti tutti privi della vista. Giunge casualmente in questo mondo sconosciuto Nuñes, che è invece vedente e che si rende conto con stupore della realtà in cui è capitato. E vi si confronta e comprende. In quel buio i ciechi hanno acutizzato gli altri sensi, in particolare il senso dell’udito e l’amore per la musica. Nuñes si innamora di una ragazza del paese e questo incontro lo costringe - così decidono gli anziani - a scegliere: se vuole sposare la bella Medina deve rinunciare alla vista e divenire anche lui cieco. Che farà Nuñes? Il finale, con felice invenzione, si apre a ventaglio e offre varie soluzioni, presentate da diversi attori che le hanno escogitate ed elaborate personalmente. La conclusione così non è unica, ma varie e fantasiose sono le possibilità di scelta che i validi interpreti hanno rappresentato per Nuñes, così come varia e imprevedibile è la vita. Davvero interessante e commovente il dialogo e soprattutto l’impegno degli attori, sia tra gli ospiti del carcere, come tra i soci della cooperativa Altamarea, e in particolare tra gli studenti dell’Istituto superiore “Volta” di Piombino. Brava e coraggiosa la regista Manola Scali, che non esita a mettere in scena tematiche non certo facili. Coinvolgente come sempre Bruno Pistocchi, che con Manola collabora e che ha introdotto lo spettacolo con una poesia che celebra l’arte e la fede, cioè la bellezza e la speranza, che salvano il mondo. Il tutto reso ancor più vivido e suggestivo dalla musica e dal canto di Daniele Pistocchi, che hanno arricchito di incantevole armonia l’intero spettacolo. Prima di presentare questa nuova "performance", è stato riproposto un recital di poesie e prose in memoria della seconda guerra mondiale e della Resistenza italiana, riduzione del lavoro già offerto al pubblico nel mese di gennaio. Presenti un gruppo di studenti piombinesi con i loro insegnanti, alcuni volontari, qualche detenuto, pochi in verità - e questo inconveniente si spera possa essere superato, così come si è notata l’assenza di alcuni portoferraiesi, di solito presenti in altre occasioni. Il teatro, grande palestra culturale e sociale, veicolo di pensieri e di emozioni, è da secoli scuola e occasione di crescita per tutti. In particolare il teatro in carcere, che ha un valore formativo, un significato pregnante di humanitas, che acquista senso quanto più si offre e interagisce con il mondo esterno, specie con quello giovanile. Agli operatori penitenziari, in particolare all’Area educativa e agli agenti della Polizia penitenziaria, un grazie sentito per il contributo alla realizzazione di questo e di altri simili eventi da parte dell’Associazione di volontariato penitenziario “Dialogo”, che si onora di sostenere, fra gli altri, il Progetto del Teatro in carcere a Porto Azzurro, progetto che fa parte del più vasto importante Progetto Teatro in carcere, finanziato dalla Regione Toscana. A fine estate, appuntamento per la replica. 25 Aprile, le tentazioni revisioniste La Stampa, 25 aprile 2018 I partiti vincitori delle elezioni tiepidi nei confronti della Festa della Liberazione. La comunità ebraica attacca l’Associazione partigiani e diserta la manifestazione. Oggi si celebra la Festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, il 25 aprile 1945. Una giornata simbolo della lotta vittoriosa della resistenza contro la Repubblica Sociale Italiana e l’occupazione dei tedeschi. Ma la ricorrenza, che dovrebbe unire il Paese, divide prima di tutto la politica: tra i vincitori delle elezioni, pochi parteciperanno a cortei e festeggiamenti ufficiali. Ieri, su “La Stampa” l’editoriale di Giovanni De Luna ha descritto il 25 Aprile come un termometro dei valori per i nuovi partiti. Sempre ieri, l’annuncio della comunità ebraica di Roma, che critica l’Anpi per aver accettato la presenza di gruppi filo-palestinesi che promettono “azioni antisioniste”: “Con loro in piazza, non ci saremo noi”. 5 Stelle: “fascismo e antifascismo concetti vecchi, la memoria va onorata, ma niente cortei” Il Movimento 5 stelle riconosce con una voce sola l’importanza della giornata della Liberazione dal nazifascismo. “Una festa viva”, “partecipata”, ripetono i parlamentari pentastellati con patriottica convinzione. Eppure, al tempo stesso, si continua a definire il fascismo una categoria superata dalla storia. Con lo stesso spirito, la festa della Liberazione diventa nelle parole dei Cinque stelle “la festa della Libertà”. E in questo modo, senza forse averne coscienza, si svuota di senso il 25 aprile. Perché in fondo, tra le tante anime che compongono il Movimento 5 stelle, la Liberazione è sempre stata considerata una festa “difficile”, troppo di sinistra, legata a una ideologia per chi da sempre si professa post-ideologico. Così oggi gli unici big dei Cinque stelle a partecipare alle celebrazioni ufficiali saranno gli uomini che ricoprono cariche istituzionali, come il presidente della Camera Roberto Fico, in visita all’Altare della Patria, o la sindaca di Roma Virginia Raggi. Gli altri uomini dei vertici pentastellati, invece, resteranno lontani dalle piazze; chi a lavorare, chi su un treno tornando a casa e chi, come Alessandro Di Battista, al parco per un picnic con la famiglia, approfittando del sole e della giornata libera. “È una celebrazione storica a memoria di valori infiniti e di chi ha dato la vita per la nostra democrazia”, dice la deputata M5S Giulia Sarti, “ma un conto è tener fede quotidianamente a quei valori e trasmetterli alle nuove generazioni. Altro conto è utilizzare con ipocrisia le ideologie per dividere ancora di più il Paese”. Perché, spiega Angelo Tofalo, fascismo e anti-fascismo “sono concetti vecchi”, nonostante “la storia non invecchi mai”. Vecchi e anche pericolosi se, come mette in guardia il senatore Sergio Puglia, vengono utilizzati per una “guerra ideologica”. Anche chi nel Movimento è entrato da “esterno”, come l’ammiraglio Gregorio De Falco, vede nel fascismo un termine legato al passato. Una “categoria concettuale fuoriuscita dal linguaggio comune dei giovani, che non hanno memoria diretta né sono stati destinatari del ricordo dei loro genitori, a differenza dei ragazzi degli anni Cinquanta e Sessanta come lo sono io”. “L’antifascismo - sottolinea ancora De Falco - è un dovere civico, un valore fondante della nostra democrazia, che però non esiste più come negazione delle atrocità vissute e subite, bensì come monito storico”. Anche se lo stesso De Falco, osserva in questi stessi giorni con preoccupazione alcune “derive fasciste in Europa, come in Ungheria”. È una difesa, quella dei pentastellati, alle accuse di chi spesso negli ultimi anni ha visto nelle pieghe del Movimento i tratti distintivi di un fascismo strisciante. E una risposta che, con leggerezza, nega l’esistenza stessa del fascismo come definizione politica attuale, lasciando quella storia “importante, fondamentale, che non invecchia mai”, passare sul 25 Aprile con un velo di polvere sopra. Come un cimelio di riconosciuto valore, prezioso, ma così difficile da riutilizzare al giorno d’oggi, tra tutti questi smartphone. Lega: “non celebriamo una ricorrenza in cui sventolano solo bandiere rosse” Festa? Forse sì, ma troppo di parte, monopolizzata dalla sinistra. Da celebrare con moderazione o da non celebrare affatto. Per i leghisti, da sempre, il 25 Aprile è più un obbligo che una convinzione. Prendete Lucia Borgonzoni, anima leghista nella Bologna ex rossa di cui adesso è senatrice. Più che commentare, esplode: “Ho appena segnalato al prefetto che a San Pietro in Casale chi organizza la festa al Casone del partigiano ha stilato una specie di black list di persone e associazioni da tenere d’occhio perché sospettate di fascismo. Ci sono anch’io, io che ho pure avuto un nonno partigiano. Ecco, se la festa è questa, non ci sto. La Liberazione ha un senso se è di tutti. Così, è solo della sinistra”. Cambiando l’ordine delle città il risultato non cambia. Prendete Daniele Belotti, deputato bergamasco, popolarissimo fra la base perché è sua la voce tonitruante e iper-amplificata che commenta il raduno sul sacro pratone di Pontida. “Premetto: sono figlio di un partigiano che a 18 anni andò sui monti a combattere. Non era un partigiano rosso, ma cattolico. Quindi non posso accettare che il 25 Aprile sia una festa dove sventolano solo bandiere rosse, perché allora diventa una festa che divide e non che unisce”. Quindi oggi non festeggerà? “Sì, festeggerò San Marco. È il suo giorno”. Sindaci e amministratori della Lega sono invece assai divisi. Sulla facciata del Comune di Pontida oggi sventola il Tricolore. Lo ha fatto mettere il sindaco, Luigi Carozzi, il cui entusiasmo per la ricorrenza è però zero: “A me non interessa. Il 25 Aprile riguarda solo una parte degli italiani. Ci sono ben altri problemi che mi toccano di più, a partire dal lavoro e dalla lotta alla disoccupazione”. Basta spostarsi di 40 chilometri, nel comune di Adro, provincia di Brescia, e tira un’altra aria. Oscar Lencini, da sindaco, ha seminato il paese di verde padano e soli delle Alpi. Da eurodeputato, subentrato al posto di Matteo Salvini, giura che sarà in piazza anche lui: “La ricorrenza è importante. Purtroppo c’è sempre meno gente. Quel giorno si festeggia la fine di una guerra civile con morti da una parte e dall’altra. Ma è vero che si è persa molta di quell’eredità che ha dato vita alla nostra Costituzione. Nell’articolo 1 si parla della Repubblica fondata sul lavoro. Chi ha governato in questi anni ha fatto ben poco per il lavoro. Finendo col disastro della legge Fornero”. “Guerra civile” è un tema ricorrente nel lessico leghista. L’eurodeputato Mario Borghezio sfida il sindaco di Torino, Chiara Appendino, a voler ricordare pure Marilena Grill, la sedicenne della RSI uccisa dai partigiani: “Il 25 Aprile deve essere la data della riconciliazione nazionale. Non possiamo proseguire con l’odio per altri 70 anni”. Poi c’è il leghista che non ti aspetti. Giancarlo Gentilini, detto “lo sceriffo” da sindaco e prosindaco di Treviso, ammira uno dei padri della Resistenza che racconta a modo suo: “Lo diceva Sandro Pertini che il 25 Aprile è la festa della riconciliazione. La sinistra se n’è appropriata, ma non è roba sua. E ha dimenticato pure la Costituzione: se ne frega del lavoro. Adesso mi piacerebbe un altro Pertini: basta manfrine, si torni a votare e vediamo chi vince”. Nell’Europa indifferente ora l’odio costringe gli ebrei a nascondersi di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 25 aprile 2018 In vari Paesi gli episodi di intolleranza si moltiplicano e i “mai più” delle ricorrenze ufficiali e dei giorni della memoria svaniscono. In Germania il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, sconsiglia per prudenza agli ebrei di indossare la kippah: troppo pericoloso, troppa ostilità antiebraica. I “mai più” delle ricorrenze ufficiali e dei giorni della memoria svaniscono. In Francia un mese fa Mireille Knoll, un’anziana ebrea sopravvissuta alla Shoah, è stata bruciata nel suo appartamento per il fatto stesso di essere ebrea. Gli ebrei francesi se ne vanno, insicuri, bersaglio di un odio antisemita che ha preso virulenza nelle banlieue musulmane in cui il verbo antisionista è diventato, nell’indifferenza generale, volontà persecutoria nei confronti dei singoli ebrei, delle loro sinagoghe da terrorizzare, dei simboli da linciare, dei sopravvissuti da sbeffeggiare come negli spettacoli di un feroce antisemita come Dieudonné. Qualche giorno fa un ragazzo con la kippah è stato aggredito da un giovane siriano che gli gridava “ebreo” come un forsennato. Dopo oltre settant’anni essere ebreo diventa ancora motivo di paura in Germania. Ma non sono i fantasmi del passato che si ripresentano identici. Magari l’antisemitismo fosse appannaggio solo di un branco di teste neonaziste vuote e rasate. Portare una kippah scatena l’odio di chi, assieme agli ebrei, vuole vedere distrutta Israele, gli infedeli che osano deturpare e sporcare la “terra santa”. In Europa, nell’accondiscendenza passiva della maggioranza impaurita e rassegnata, l’odio antiebraico si diffonde senza soprassalti di dignità, malgrado le parole vuote delle cerimonie ufficiali in memoria dell’Olocausto. E allora gli ebrei, restati da soli, devono ancora fare da soli: nascondere se stessi e nascondere i propri simboli di identità, come la kippah. Una deriva triste. Un gorgo di legittima paura e di senso di isolamento di cui l’Europa intera dovrebbe vergognarsi. Migranti. Hotspot e Cpr all’esame del Consiglio d’Europa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2018 Il rapporto della visita del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) la scorsa settimana ha pubblicato un rapporto sulla visita ad hoc condotta in Italia per esaminare la situazione dei cittadini stranieri privati della propria libertà negli hotspot e nelle strutture di detenzione amministrative per migranti. La delegazione del Cpt ha visitato gli hotspot di Lampedusa, Pozzallo e Trapani, nonché un’unità mobile hotspot al porto di Augusta. Gli esperti del Consiglio d’Europa hanno anche visitato i Centri di permanenza per i Rimpatri (Cpr) di Caltanissetta, Ponte Galeria (Roma) e Torino, nonché camere di sicurezza presso l’aeroporto di Roma Fiumicino. Per quanto riguarda gli hotspot, non sono pervenute accuse o altre indicazioni circa l’uso eccessivo della forza o altre forme di maltrattamento fisico. Le condizioni di vita sono state ritenute buone a Pozzallo e Trapani e accettabili per brevi permanenze a Lampedusa. Nonostante ciò, i livelli di occupazione in tutti e tre gli hotspot superavano regolarmente la capacità ufficiale, creando una grave congestione, soprattutto a Lampedusa. Quest’ultimo, in seguito, è stato temporaneamente chiuso. La delegazione ha notato con favore che la fornitura di servizi sanitari presso i tre hotspot è risultata molto buona e supportata da mezzi adeguati. Il numero di operatori sanitari era sufficiente, con medici e infermieri pronti a intervenire e garantiti 24 ore su 24. Dopo aver osservato che a diverse categorie di cittadini stranieri poteva essere impedito di lasciare gli hotspot, il Cpt ha sollevato il problema delle basi giuridiche per la privazione della libertà in questi centri e i relativi problemi collegati all’esistenza e al funzionamento di tutele legali. A tale proposito, ha formulato diverse raccomandazioni che riguardano, ad esempio, il controllo giudiziario sulla privazione della libertà, la fornitura di informazioni su diritti e procedure e l’accesso efficace a un avvocato, nonché le misure pratiche per ridurre il rischio di respingimento. Infine, è stato osservato che occasionalmente i minori non accompagnati rimanevano presso gli hotspot per diverse settimane a causa della mancanza di disponibilità in opportune strutture di accoglienza. Per quando riguarda i Cpr la delegazione ha osservato il problema delle intimidazioni e della violenza tra i detenuti presso il Cpr di Caltanissetta e, in qualche occasione, presso il Cpr di Torino. Le condizioni materiali sono state complessivamente ritenute accettabili, ad eccezione del Cpr di Caltanissetta, dove sono state valutate molto carenti: spazi ridotti e scarse condizioni igieniche, con materassi e coperte sporchi e sanitari che richiedono riparazioni urgenti. Il Cpt critica la mancanza di attività presso i tre Cpr visitati e raccomanda lo sviluppo di un regime appropriato per tutti i centri di permanenza per i rimpatri, compreso l’accesso a mezzi di ricreazione, materiale di lettura e progetti organizzati da Ong. dovrebbero essere riviste. Israele congela il piano per l’espulsione dei migranti africani La Repubblica, 25 aprile 2018 Dopo mesi di tentativi andati a vuoto, di fronte alla polemiche, il governo di Benjamin Netanyahu rinuncia al progetto di deportare migliaia di eritrei e sudanesi entrati illegalmente. Ma cercherà di far approvare dal Parlamento una nuova legge. Il governo di Benjamin Netanyahu congela il piano per la deportazione dei migranti africani entrati illegalmente in Israele. "Allo stato, la possibilità di procedere a espulsioni in Paesi terzi non è in agenda", si legge in una nota inviata dall’esecutivo alla Corte suprema dopo mesi in cui ha cercato in tutti i modi di arrivare alla deportazione di migliaia di persone, in maggioranza eritrei e sudanesi. I migranti saranno quindi di nuovo autorizzati a rinnovare i permessi di residenza ogni 60 giorni. Nel frattempo il governo proverà a ottenere una nuova legge dalla Knesset, come si evince dalla comunicazione al massimo organismo giuridico laddove si ribadisce che lo Stato intende perseguire l’espulsione, volontariamente o con ogni altro mezzo consentito dalla legge. Netanyahu ha inoltre dato istruzioni volte a riaprire centri di detenzione per gli "infiltrati". Gli irregolari e le associazioni per i diritti umani sostengono che si tratta di richiedenti asilo in fuga da guerre e persecuzioni. Il governo israeliano li considera invece migranti economici in cerca di lavoro e rivendica il diritto a proteggere i propri confini. Dal 2013 circa 4.000 africani hanno lasciato volontariamente lo Stato ebraico per il Ruanda e l’Uganda, ma Netanyahu è stato messo sotto pressione dai suoi elettori di estrema destra e ha puntato sul piano di deportazione. A un certo punto si era parlato anche di un accordo Onu per il trasferimento di 16 mila migranti in Stati occidentali, tra i quali l’Italia. L’intesa era poi naufragata sotto il peso delle polemiche e delle smentite dei Paesi chiamati in causa dall’esecutivo israeliano. E si era tornati al piano di espulsioni, contro il quale diverse associazioni erano ricorse alla Corte suprema.