Un anno del servizio di posta elettronica che fa restare i reclusi uniti alle famiglie Il Mattino di Padova, 23 aprile 2018 È passato un anno esatto da quando siamo stati autorizzati ad attivare nella Casa di Reclusione di Padova il servizio “Mai dire mail”, in collaborazione con JailBook, che ha “inventato” questo servizio attivo in molte carceri. Si tratta di un servizio a pagamento (come lo sono posta e telefonate), attraverso il quale le persone detenute ci consegnano delle lettere in formato cartaceo che noi scansioniamo ed inviamo, una volta fuori dal carcere, all’indirizzo che le persone ci indicano. Allo stesso modo, riceviamo mail per le persone detenute, le stampiamo e ogni giorno (dal lunedì al venerdì) le diamo agli agenti addetti alla distribuzione della posta per la consegna. Abbiamo fortemente voluto imbarcarci in questa impresa perché stando quotidianamente in contatto con le persone detenute e le loro famiglie, conosciamo la frustrazione di poter disporre di poche telefonate al mese e di dover affidare alla posta ordinaria i propri scritti e i propri documenti, che talvolta non giungono a destinazione o comunque ci arrivano con tempi molto lunghi. Quanto è importante comunicare dal carcere Sicuramente uno dei problemi del nostro tempo è la dipendenza dalle tecnologie, che in alcuni casi richiede una vera e propria disintossicazione. Le persone detenute durante i primi permessi lo notano subito, gruppi di amici al bar, ciascuno con la testa china sullo schermo dello smartphone, persone che tengono il telefono tra la testa e la spalla mentre fanno altre tre cose e noi operatori che li accompagniamo che mettiamo la mano nella borsa ad ogni piccolo suono. Da questo punto di vista il carcere in Italia è rimasto a poco più dell’anno zero rispetto alla tecnologia. Le persone detenute sono le uniche che ancora affidano i propri pensieri alle lettere affrancate, che quando è una scelta libera conserva un certo sapore romantico, ma quando è l’unica opzione diventa frustrante e terribilmente anacronistico, perché se è vero che le lettere d’amore non sono urgenti (e anche questo è opinabile), ci può essere l’urgenza di inviare un documento o una comunicazione che sarebbe troppo costoso inviare via telegramma. Io uso molto le tecnologie, anche troppo, potrei usarle meno, ma non potrei non usarle affatto, ne ho bisogno per il mio lavoro e per la mia vita sociale. Noi a Ristretti Orizzonti ci rivolgiamo spesso a chi le cose le fa già o le sa fare meglio, quindi ho contattato la realtà che per prima aveva provato a dare una risposta diversa alle esigenze di comunicazione delle persone detenute proponendo a Rebibbia N.C. di inviare la posta cartacea via mail. Abbiamo incontrato Alessandro Maiuri, l’ideatore di “Mai dire mail” che è venuto a Padova a spiegare a noi e alla direzione il progetto, che noi gestiamo in convenzione con loro e dopo qualche mese di preparazione siamo partiti, coinvolgendo Elisa Sarti, al tempo tirocinante presso la nostra associazione e poi volontaria per qualche mese, gestendo il progetto in autonomia. Elisa si è appassionata a questo progetto tanto che ne ha fatto la sua tesi di laurea in Scienze dell’educazione e della formazione, dal titolo “Mai dire mail. La comunicazione come indicatore di benessere nella situazione carceraria”. Inizialmente sia tra gli agenti che tra le persone detenute, c’erano i “perplessi” e gli “entusiasti”, come rileva Elisa nella sua tesi. Entusiasti per una modalità nuova, più veloce, di comunicare; perplessi per la diffidenza legata alla tutela della privacy non garantita visto che le mail vengono scansionate e stampate da esterni. Prima di partire con il progetto abbiamo incontrato le persone detenute nelle loro sezioni per spiegare il funzionamento del servizio, sottolineando che le mail non avrebbero sostituito tutte le altre possibilità offerte dalla posta ordinaria. Durante quest’anno è aumentato il numero delle persone abbonate e anche il flusso quotidiano delle mail, che impegnano volontari e tirocinanti per circa sei ore al giorno. Nella sua tesi Elisa Sarti ha intervistato alcune persone per capire se questo servizio può influire sul benessere delle persone detenute, e soprattutto delle loro famiglie, e qui riportiamo alcuni estratti della sua tesi. “La velocità di comunicazione che permette è il fattore più apprezzato, perché per la prima volta inserisce anche in carcere il concetto di una comunicazione che può essere quotidiana, nonostante sia in forma scritta. Il fatto di poter avere notizie giorno per giorno da chi è all’esterno permette di vivere una vita, nei limiti del possibile, più serena e tranquilla, i detenuti così riescono a provare un senso di sicurezza, dato anche dalla possibilità di condividere le difficoltà delle proprie famiglie e affrontarle con loro. Questo servizio e ciò che offre permette, come sostiene un intervistato, di sentirsi più legati e aperti alla realtà presente all’esterno del carcere, ai propri affetti e alle amicizie. (…) La comunicatività giornaliera, che avviene attraverso il servizio “Mai dire mail” secondo gli intervistati ha portato ad un miglioramento nel loro stato di benessere, anche se in minima parte, e ha provocato un incremento delle possibilità di relazione. Alcuni detenuti grazie a questo servizio sono riusciti infatti a ricostruire dei rapporti che nel tempo avevano perso o accantonato a causa delle loro scelte di vita. Con gli altri servizi di posta la continuità della comunicazione viene meno a causa dei tempi di attesa, come sostiene un intervistato: inviando una lettera e ricevendo la risposta più di dieci giorni dopo si può anche dimenticare le richieste fatte o cosa si era scritto. La possibilità di utilizzare questo servizio ha proprio ottimizzato il modo di vivere la quotidianità: “Vedere il foglio la mattina appoggiato sulla fessura della cella, quando torno da lavoro, mi migliora la giornata”, dice uno di loro. Il servizio ha influito anche sull’aspetto psicologico: “Le comunicazioni che arrivano giornalmente hanno rilevanza fondamentale, qui la posta ha un’importanza straordinaria. Così si riesce a portare avanti i rapporti nonostante il carcere”. E ancora, “come afferma un intervistato sottoposto ad una cura antidepressiva, la possibilità di comunicare quotidianamente con l’esterno tramite questo servizio “è stato come prendere mezza pastiglia al giorno in meno”. Poche righe quotidiane e mi sento più serena Vorrei condividere la mia esperienza personale per far capire cosa vuol dire essere la compagna di una persona detenuta in una situazione in cui le possibilità di vedersi o sentirsi per telefono sono ridotte al minimo. Più di un anno fa mi è stato diagnosticato un tumore al seno. La disperazione era tanta, volevo condividere il mio terrore con il mio compagno, avevo bisogno che mi aiutasse a prendere la decisione giusta, cosa fare, dove andare ad operarmi, a chi rivolgermi. Non c’era la possibilità come ora di scambiarsi delle mail, anche se in modo indiretto, sentirsi era molto difficile, anche se il direttore aveva concesso 4 telefonate straordinarie in più, sono sempre otto telefonate di dieci minuti al mese e a me avevano appena detto che avevo un tumore. Il supporto del mio compagno per me è fondamentale, è stato lui a consigliarmi di andare allo IOV di Padova, dove mi sono trovata benissimo. I miei figli mi sono stati sempre vicini, ma a me mancava il mio compagno, la sua spalla su cui piangere. Capisco che lui non potesse esserci, ma se ci fossero state le mail sarebbe stata tutta un’altra cosa, ricevere ogni giorno le sue parole di conforto, avrebbe attutito molto il mio dolore e la mia angoscia. Adesso con il “servizio mail” è tutto diverso, quando il mio morale è a terra ecco che bastano poche righe quotidiane per farmi tornare ad essere più serena, ci scambiamo tutti i nostri pensieri più profondi e ci sosteniamo a vicenda dandoci la forza una con l’altro di lottare e andare avanti. È difficile per chi non vive questa situazione capire quanto sia importante avere questa possibilità per tenere unite le famiglie. I dieci minuti di telefonate non bastano, con le mail si ha la possibilità di fare sapere notizie urgenti e importanti al proprio caro, ma soprattutto di tenere un legame quotidiano. Anche la dignità di ogni persona è sacra e la “libertà” di esprimere i propri sentimenti ci fa sentire più vicini a loro, questo servizio è eccellente anche solo per un buongiorno o una buonanotte, un semplice ti amo. Ringrazio di cuore tutte le persone che l’hanno reso possibile! La magistratura sulla linea del silenzio: “veniamo intimiditi” di Liana Milella La Repubblica, 23 aprile 2018 Dopo gli anni del protagonismo anti-Berlusconi ora i giudici preferiscono attendere la fine dello stallo politico senza esporsi. E le toghe stanno a guardare. Aspettano che la situazione politica evolva. Che M5S scelga tra destra e sinistra. Nel frattempo tacciono. Per una scelta dettata dalla necessità contingente. Tranne chi, come Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo, per logiche e ragioni diverse, il primo candidato per il futuro Csm, il secondo convinto che ormai “non si può più tacere”, affrontano uno i talk show e l’altro la platea di M5S e il dopo sentenza su Stato-mafia. Ma sono eccezioni. Tra gli altri prevale il self restraint. I processi disciplinari, invocati con insistenza, come continua a fare Forza Italia, fanno paura. I trasferimenti d’ufficio pure. L’istantanea della magistratura italiana rivela che i tempi del protagonismo anti Berlusconi sono lontani. Ora si naviga sott’acqua. Le mailing list in cui le toghe condividono pensieri e sfoghi sono sempre più esclusive. Prevale la prudenza, tant’è che non si riesce a raccogliere un solo commento tra i giudici di fronte alla notizia che l’ex Cavaliere chiede di essere giudiziariamente, ma in realtà politicamente, riabilitato. Come dice l’ex pm di Mani pulite Davigo “ormai la magistratura è chiaramente intimidita”. E il solo Di Matteo parla del “suo” processo e rivolge un’accusa pesante ai colleghi per il “silenzio assordante” di chi avrebbe dovuto difendere il pool dagli attacchi e non lo ha fatto. Di Matteo, oggi alla procura nazionale Antimafia dopo una vita spesa come pm a Palermo, a “1/2ora in più” di Lucia Annunziata, ripete parole che ha usato più volte quando piovevano attacchi sul processo: “Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall’Anm e dal Csm”. Niente più giudici ragazzini - L’identikit numerico dei magistrati riserva novità. Al 9 marzo 2018 sono 9.543, di cui 5.061 donne e 4.482 uomini. L’età media delle prime è 47 anni, 52 quella dei secondi. Ma è quella d’ingresso che stupisce: 35 anni, con punte che arrivano fino a 40. Per dirla con il colpo d’occhio di un magistrato come l’ex procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, oggi in forza alla Scuola della magistratura di Scandicci, “assistiamo a una trasformazione strutturale che consiste in una netta femminilizzazione, ma anche nell’aumento dell’anzianità dei magistrati, frutto di una selezione ritardata e censitaria, perché non tutti possono permettersi di attendere tanto tempo prima di ottenere il primo stipendio (5 anni di università, 2 per la scuola di specializzazione, 2 nelle scuole per prepararsi al concorso, 2 di concorso tra scritto e orale, 18 mesi di tirocinio, ndr.). Infine la decapitazione e rottamazione degli anziani, una delle peggiori leggi di Renzi, che ha mandato o manderà a casa molte voci autorevoli”. Con l’età pensionabile portata da 75 a 70 anni, la “cura” Renzi ha archiviato nomi famosi, dall’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati all’ex procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti. Davigo, da presidente dell’Anm, ne ha fatto una battaglia, di fatto persa, ma tuttora s’infuria: “È stato riprovevole mandare a casa 500 magistrati da un giorno all’altro, ma averne tenuti 18 con una proroga è stata una vergogna”. Era forse questo il primo segnale della china in discesa della magistratura? Chiunque può vedere che oggi i magistrati non sono più osannati come star dalla politica. In Parlamento ne arrivano solo due, Cosimo Maria Ferri e Giusi Bartolozzi. Ferri col Pd, nonostante sia considerato tuttora il capo di Magistratura indipendente, la corrente più di destra e conservatrice. La seconda con Forza Italia. Ma anche leader delle correnti o esponenti famosi sono meno loquaci di prima su temi “politici”. La minaccia del disciplinare o del trasferimento d’ufficio sono concrete. Al Csm, per quattro anni, non ha fatto sconti la pattuglia di Forza Italia, con Pierantonio Zanettin e la neo presidente del Senato Elisabetta Casellati. Vittima illustre il pm di Napoli Henry John Woodcock. Ma anche andati via loro, tornati parlamentari berlusconiani, la pressione continua, ed ecco l’ex forzista Antonio Leone pronto a scatenarsi contro l’ex pm di Genova Enrico Zucca, reo di aver parlato dei poliziotti torturatori ai tempi del G8. Ma sotto processo disciplinare - lo accusano di non essersi astenuto - è finito anche Gilberto Ganassi, esponente storico di Magistratura democratica, le famose “toghe rosse”, colpevole di aver mandato al Csm le intercettazioni con un imprenditore dell’allora procuratore di Nuoro (e ora di Ferrara) Andrea Garau, di fede Mi. Entrambi correvano per la poltrona di procuratore di Cagliari. E come non ricordare la pratica contro Giancarlo De Cataldo tenuta aperta per mesi prima dell’archiviazione? Un tema, quello della minaccia di un trasferimento d’ufficio incombente che pende per mesi sulla testa di una malcapitata toga, che più volte ha denunciato la segretaria di Md e pm a Roma Maria Rosaria Gugliemi. Come dice Di Matteo “per non sbagliare è meglio non fare”. O ancora “è meglio non apparire ostili al potere politico per poter poi accedere al vertice di un ufficio”. Prevale “la logica delle carte a posto, per cui contano solo i numeri e le statistiche”. Ovviamente l’attuale vice presidente del Csm Giovanni Legnini non condivide affatto quest’analisi: “Sono gli stessi magistrati che gradiscono sempre di meno le prese di posizione politiche dei loro colleghi. Certo che i giudici possono parlare, ma devono attenersi al loro ruolo. Lo dimostra anche il dibattito interno sull’uso dei social media. Ma è un nostro dovere verificare se ci siano state delle anomalie nei loro comportamenti”. Tant’è che Legnini vanta come un successo l’aver allontanato dalla magistratura ben otto toghe in questa consiliatura, “il numero più alto mai registrato. Ma un esponente di Md come Piergiorgio Morosini, pronto a ritornare a Palermo al suo lavoro di gip, parla di un “fattoide” e spiega: “Sì, è un fattoide la teoria dell’alleanza perversa tra magistrati e giornalisti, per cui se una toga parla e offre un contribuito contro un potente si scatena subito una reazione negativa, scatta la reprimenda, partono gli attacchi mediatici. Ma la domanda è: un magistrato può portare la testimonianza del suo lavoro nel dibattito pubblico oppure non può? Dovrebbe essere lecito, anche perché ciò rende il circuito istituzionale consapevole dei problemi da affrontare”. Ordini dall’alto - Del resto, come non recepire i segnali di chi è appena giunto ai vertici della Cassazione? Giovanni Mammone, il presidente, targato Mi, e Riccardo Fuzio, il procuratore generale, di fede Unicost (la corrente centrista della magistratura) all’inaugurazione dell’anno giudiziario lanciano due bei segnali ai colleghi, un duro richiamo all’essere e all’apparire irreprensibili. Darsi “regole di comportamento che non siano mai condizionate da appartenenze o da scelte di parte” raccomanda Mammone; “anche nella vita privata e nei rapporti con i media” seguire “precisi obblighi deontologici di misura e di moderazione necessari per preservare la terzietà”. Fuzio non è da meno quando chiede “un magistrato deontologicamente ineccepibile e professionalmente attrezzato” perché “una giustizia che non ha credibilità e legittimazione non è in grado di assicurare la democrazia”. Seguono i dati sulle azioni disciplinari chieste al Csm dalla procura generale, ben 149 nel 2017, a fronte della media di cento azioni nel quinquennio 2012-2016. E le statistiche del Csm, 141 decisioni l’anno scorso, con 35 condanne (3 rimozioni, 24 censure, 4 perdite di anzianità, 4 ammonimenti) e 40 assoluzioni. Stupri, mai faccia a faccia vittime e aggressori. Le nuove regole del Csm di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 23 aprile 2018 “Una vera emergenza nazionale”. È il presupposto che ha spinto il Consiglio superiore della magistratura a elaborare un nuovo strumento per prevenire e contrastare aggressioni e femminicidi: le linee guida sulle violenze di genere e domestiche. Una sorta di vademecum per le toghe su come trattare questo tipo di reati. Imposto all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che l’anno scorso con la sentenza Talpis aveva stigmatizzato l’inerzia del nostro sistema giudiziario di fronte alle reiterate denunce di una moglie, vittima per anni dei maltrattamenti del marito. Per ora è ancora una bozza, che Repubblica è in grado di anticipare, ma l’obiettivo di è chiaro. E ha una parola chiave: specializzazione. Secondo l’organo di autogoverno, le violenze sessuali e i reati contro le donne devono essere trattati da magistrati che abbiano una comprovata esperienza. Lo stesso vale per la polizia giudiziaria: deve occuparsi principalmente di quello. E pure le procure e i tribunali, compresi quelli piccoli, devono organizzarsi in modo da avere sezioni dedicate. Un modo per “individuare l’approccio processuale più rispettoso della sensibilità delle vittime - scrive il Consiglio - e al contempo idoneo a saggiarne l’attendibilità, consentendo un efficace e tempestivo intervento”. Evidente la ratio: evitare che la vittima si senta ancora più vittima di quanto già non sia; intervenire nell’immediatezza, usando tutte le accortezze che il codice mette a disposizione. La premessa del Csm è che questi reati devono avere una “trattazione prioritaria” passando davanti agli altri per urgenza. Il che deve valere sia in fase d’indagine (e per questo è bene che ne siano informate anche le forze dell’ordine, i presidi sanitari e i centri anti-violenza), sia in fase di dibattimento. Una donna violentata o picchiata deve avere giustizia più rapidamente possibile. Per questo Palazzo dei Marescialli invita le procure a stabilire con gli investigatori un modus operandi che preveda “la trasmissione in tempo reale al pm delle notizie di reato che rivestono carattere di assoluta urgenza”. È la cronaca, in particolare quella sui femminicidi, a raccontare spesso di denunce trascurate o sottovalutate. E poi ci sono le aule di tribunale. Dove, sia in fase d’indagine preliminare, sia in fase di dibattimento, dev’essere usata la massima cautela. Sul punto, il Csm detta una serie di misure pratiche per evitare che la vittima venga messa faccia a faccia con il suo aguzzino. Per questo, “fermo restando che le modalità concrete con cui procedere all’esame del testimone devono essere stabilite dal giudice”, si legge nelle linee guida, “è possibile assumere la deposizione senza che il teste sia rivolto verso l’imputato, eventualmente presente in aula, oppure con l’uso di un “paravento”, o, ancora, facendo ricorso alla “videoconferenza”. La stessa protezione riservata ai pentiti di mafia, ai collaboratori e ai testimoni di giustizia. Questo vale anche per l’indagine preliminare: “Meritano di essere valorizzati strumenti quali l’incidente probatorio”. Anche per questo, è meglio che i gip siano specializzati: “Spesso la prova dichiarativa della vittima è l’unica fonte di prova di fatti criminosi che si svolgono in ambiti riservati ed esclusivi”. Nell’attesa che la bozza diventi definitiva, la risoluzione del Csm raccoglie già il plauso di molti magistrati. “Si tratta - spiega il procuratore aggiunto di Roma Maria Monteleone, che coordina il gruppo che si occupa proprio di questi temi - di uno strumento di aiuto sia per la repressione sia per la prevenzione, senza mai perdere di vista il rispetto delle vittime”. Processo Stato-mafia. Di Matteo: “Csm e Anm non ci hanno mai difesi” di Grazia Longo La Stampa, 23 aprile 2018 Da una parte, la convinzione sulla necessità di “un pentito di Stato, qualcuno che appartiene alle istituzioni che faccia chiarezza” perché forte è il sospetto che “il livello politico fosse a conoscenza o fosse il mandante della trattativa con la mafia avviata dai carabinieri condannati”. Dall’altra, l’accusa “all’Anm e al Csm, al loro silenzio assordante rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro”. E, per finire, l’ammissione di non ritenere “scandaloso un ingresso in politica” e di non doversi scusare “per la partecipazione a convegni del M5S”. Nino Di Matteo, pm della Direzione nazionale antimafia e pilastro del pool che ha istruito il processo sulla trattativa Stato-mafia, forte delle recenti condanne in primo grado agli ex vertici dei carabinieri del Ros e all’ex senatore azzurro Marcello Dell’Utri, non risparmia critiche e polemiche. Durante la trasmissione “1/2 ora in più” di Lucia Annunziata ribadisce la certezza sull’esistenza di accordi tra una parte dello Stato e Cosa nostra e lamenta la latitanza da parte di Anm e Csm. Ma l’Associazione nazionale magistrati replica di aver “sempre difeso dagli attacchi l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati”. Il presidente dell’Anm Francesco Minisci aggiunge: “Lo ha fatto a favore dei colleghi di Palermo e continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie”. Di Matteo ribadisce che quella di Palermo è una “sentenza precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla Presidenza del Consiglio di Berlusconi”. Ma è altrettanto certo che “nel momento in cui la mafia faceva 7 stragi e ne falliva altre, c’era qualcuno nelle istituzioni che trattava con i vetrici e trasmetteva le richieste per far cessare la strategia stragista. È un punto importante che può costituire un input per la riapertura anche delle indagini sulle stragi che probabilmente non furono opera solo di uomini di Cosa nostra”. Sul presunto ruolo della classe politica Di Matteo insiste: “I carabinieri non hanno agito da soli. Non abbiamo avuto prove concrete per agire nei confronti dei livelli più alti. Noi riteniamo che i carabinieri siano stati incoraggiati a fare una trattativa”. Quanto a un possibile impegno politico (molto si è scritto sul desiderio dei grillini di poterlo designare ministro dell’Interno), il pm osserva: “Non vedo nulla di scandaloso. Credo, però, debba essere regolata meglio la possibilità di tornare in magistratura”. E a proposito della sua presenza a un convegno sulla giustizia promosso dal Movimento Cinque stelle afferma di non “doversi giustificare di nulla. A parlare di giustizia ci sarei andato anche se il convegno fosse stato organizzato da altre forze politiche”. Dell’Utri in carcere da malato ora rischia di non uscire più di Patricia Tagliaferri Il Giornale, 23 aprile 2018 Si riducono le speranze di poter essere curato fuori. Se fino adesso nessuno degli innumerevoli giudici chiamati a pronunciarsi sull’incompatibilità delle condizioni di salute di Marcello Dell’Utri con il carcere ha mostrato una qualche pietà nei confronti dell’ex parlamentare, dopo i 12 anni che gli sono stati inflitti dalla Corte d’Assise di Palermo per la trattativa Stato-mafia, si allontana ancora di più la speranza per il fondatore di Publitalia di poter uscire dal carcere prima del tempo per potersi curare. Perché è solo quella che rimane a Dell’Utri, in carcere dal 2014 per scontare una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa e ormai assuefatto ai no ricevuti non solo dal Tribunale di Sorveglianza di Roma - che più di una volta ha respinto le richieste di scarcerazione per motivi di salute presentate dai suoi legali (motivandola in un caso con il pericolo di fuga, ndr) - ma anche dalle toghe di Caltanissetta che hanno rigettato la richiesta di revisione e dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo alla quale aveva chiesto la sospensione della pena sempre per motivi di salute. Perché la questione gira tutta intorno alle sue precarie condizioni fisiche, dopo che al diabete e alla cardiopatia di cui soffre da tempo, la scorsa estate si è aggiunto un carcinoma alla prostata contro il quale sta ancora lottando. Lo scorso febbraio l’ex senatore di Forza Italia aveva lasciato Rebibbia per essere seguito dallo staff medico del Campus Bio-Medico di Roma dove ha effettuato la necessaria radioterapia, ma lo scorso 18 aprile è tornato nell’infermeria del carcere dove dovrà sottoporsi ai controlli che gli sono stati indicati nella scheda di dimissioni. L’avvocato Alessandro De Federicis, che lo affianca nella lotta, teme ora che la nuova condanna possa alterare il delicato equilibrio psicologico che Dell’Utri si è creato durante la detenzione, fatto di buone letture e tanto studio. “Sembra reagire bene a tutto - spiega l’avvocato - ormai non si fa più illusioni, sa che i riflettori della giustizia italiana sono puntati su di lui e pensa solo alla prossima laurea in carcere e che passi presto l’anno e mezzo che ancora gli manca da scontare”. Nel frattempo il processo sulla trattativa Stato-mafia farà il suo corso, ci sarà l’appello, poi la Cassazione, con chissà quali esiti e soprattutto con quali tempi. Il figlio malato non basta contro la custodia in cella Italia Oggi, 23 aprile 2018 Se i parenti possono assistere il figlio gravemente malato la richiesta di sostituzione della misura cautelare non è valida. Lo spiega la Corte di cassazione, nella sentenza 11014/2018, che ha esaminato un caso molto delicato sul piano degli affetti e delle cure filiali. Il gip del tribunale di Catanzaro, lo scorso anno, rigettò l’istanza di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere di un detenuto. La famiglia dell’indagato, secondo il dispositivo, versava in situazioni molto difficili: il figlioletto, 13enne, soffriva di una gravissima patologia diabetica; la madre non poteva assicurare efficacemente gran parte delle cure in quanto lavoratrice, malata di cancro e un’altra figlioletta di 7 anni a carico. Ma la Corte d’appello di Catanzaro, in ogni caso, rigettò l’impugnazione dell’ordinanza del gip, da qui il ricorso al giudizio dei magistrati supremi di Roma lamentando la violazione dell’articolo 4 dell’articolo 275 del codice di procedura penale, perché l’ordinanza “aveva escluso la possibilità di ricomprendere, tra le ipotesi che ai sensi dell’art. 275, 4 comma, quella dell’esistenza di figli della persona sottoposta alla custodia cautelare che, pur superando i limiti di età previsti dalla norma indicata, versino in condizioni tali da richiedere comunque una particolare assistenza materiale e psicologica, che non possa essere garantita dall’altro genitore”. Ma i porporati di piazza Cavour, carte alla mano, hanno escluso la possibilità di trasformare la custodia in carcere in altra forma. Secondo gli alti magistrati infatti “il ricorso è inammissibile, in quanto fondato su motivo del tutto generico e poiché assume una possibilità interpretativa che il provvedimento impugnato ha motivatamente escluso”. Nello specifico gli ermellini spiegano che “il provvedimento impugnato ha logicamente evidenziato come gli aspetti fattuali esposti dallo stesso ricorrente (ossia, che il figlio tredicenne, in ragione delle esigenze di salute, risulta essere stato più volte prelevato dall’istituto scolastico da altri familiari) siano indicativi dell’assenza di pregiudizi per la salute e l’assistenza necessari per il minore, garantiti pur in assenza del padre”. Stalking, per dimostrare lo stato di ansia e paura bastano le dichiarazioni della vittima di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 23 aprile 2018 Cassazione, sezione V penale, sentenza 28 marzo 2018 n. 14200. In tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata a elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata. Così la sezione V della Cassazione con la sentenza 28 marzo 2018 n. 14200. In termini, di recente, Sezione V, 11 febbraio 2016, L., nonché Sezione V, 24 aprile 2015, B., secondo la quale, in particolare, ai fini della configurabilità del delitto di atti persecutori (cosiddetto stalking) (articolo 612-bis del Cp),la sussistenza del grave e perdurante stato di turbamento emotivo prescinde dall’accertamento di uno stato patologico conclamato, essendo sufficiente che gli atti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità dell’equilibrio psicologico della vittima. In proposito, va ricordato che lo stalking costituisce un reato “di evento”, giacché la condotta materiale (reiterati episodi di minacce o molestie) deve avere determinato, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra tre tipi di evento: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero, in alternativa, ingenerare nella vittima un fondato timore per la propria incolumità ovvero, sempre in alternativa, costringere la vittima stessa ad alterare le proprie abitudini di vita. Qui, la Cassazione si è soffermata sull’evento “stato di ansia e di paura” e, al riguardo, l’orientamento consolidato si esprime nel senso, per la configurabilità di tale stato, è sufficiente che gli atti incriminati abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (cfr., di recente, Sezione V, 14 novembre 2012, O.; in termini, Sezione V, 1° dicembre 2010, R.), non essendo richiesto l’accertamento di uno “stato patologico”, considerato che la fattispecie incriminatrice del reato non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (articolo 582 del Cp), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (in termini, Sezione V, 10 gennaio 2011, C.; Sezione III, 23 maggio 2013, U.; nonché, Sezione V, 28 novembre 2013, C.). Da ciò deriva, dal punto di vista probatorio, la non necessità del riscontro di tale stato attraverso una certificazione sanitaria, in ipotesi attestante una “patologia” determinata dal comportamento persecutorio (ad esempio, un certificato medico attestante di una sindrome ansioso depressiva). La prova dell’alterazione, infatti, può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Sezione V, 28 febbraio 2014, D’E.). Brindisi: “detenzione disumana”, Ministero condannato a risarcire detenuto di Stefania De Cristofaro brindisireport.it, 23 aprile 2018 Il Tribunale civile accoglie l’istanza di risarcimento presentata dagli avvocati di un brindisino: otto euro al giorno per quasi in anno in cui è stato ristretto in una cella di tre metri con quattro persone. Senza avere la possibilità di lavorare. “Cella angusta nel carcere di Brindisi”, appena tre metri quadrati per ospitare quattro detenuti, senza neppure avere la possibilità di svolgere attività lavorativa e fruire di maggiori ore di permanenza all’esterno: una “detenzione disumana”, secondo quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, motivo alla base della condanna del Ministero della Giustizia al pagamento dei danni lamentati da un brindisino che per quasi un anno ha vissuto in condizioni “degradanti”. Il Tribunale civile di Lecce, Prima sezione (giudice Katia Pinto) ha accolto il ricorso presentato e discusso dagli avvocati Giuseppe Guastella (nella foto accanto) e Giuliano Grazioso, del foro di Brindisi, difensori di un brindisino ristretto nella casa circondariale di via Appia dal mese di aprile 2011 al settembre 2012. E ha riconosciuto il diritto del detenuto a essere risarcito per i danni patiti, riconoscendo la somma di otto euro al giorno per 292 giorni, conteggiati con riferimento all’effettivo periodo di permanenza in una cella “obiettivamente angusta” tenuto conto del sovraffollamento in uno spazio vitale limitato, pari a “3,1675 metri quadrati”, definito escludendo la superficie occupata dai letti a castello, dagli armadi, dagli sgabelli e dalla tv. Spazio da dividere con altri detenuti. Erano in quattro a dover convivere in quel rettangolino che per il giudice è stato “angusto”, tenuto conto di quanto stabilito dall’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, anche in relazione alle recenti pronunce della Corte di giustizia europea, dopo la sentenza “Torreggiani” dell’8 gennaio 2013. I giudici di Strasburgo per la prima volta riconobbero un equo risarcimento alla parte lesa per le condizioni di sovraffollamento del carcere, estendendo l’indagine ad altri fattori quale la dimensione delle celle, il sistema di riscaldamento, le condizioni di areazione e illuminazione, il diritto all’ora d’aria. La pronuncia del Tribunale, con motivazioni annesse, è dell’11 aprile scorso e sancisce, quindi, il diritto al risarcimento dei danni, per la somma pari a 2.336 euro, più gli interessi legali sino all’effettivo soddisfo. Prima ancora, ha evidenziato le condizioni disumane e degradanti che, in quel periodo, hanno segnato la detenzione nella struttura penitenziaria di Brindisi, più volte oggetto di dibattito. Si è persino ipotizzato un trasferimento ad altra sede del carcere, alle porte di Brindisi. La pronuncia, quindi, è destinata ad avere ripercussioni non solo nella discussione, ma anche per eventuali risarcimenti per condizioni di detenzione analoghe. I difensori hanno evidenziato innanzitutto che il brindisino “era stato recluso in tre diverse celle, con annesso bagno, di 12 e 8 mq circa, celle che ospitavano contemporaneamente altri detenuti; in una sola occasione il ricorrente era stato l’unico occupante della camera di pernottamento”. Lo spazio personale di cui aveva avuto disposizione, “al netto del mobilio e dei servizi igienici, era compreso tra i 3 ed i 4 mq”, superficie a cui fa riferimento la Convenzione europea dei diritti dell’uomo sia per garantire la tutela della salute dei detenuti, sia per assicurare la funzione rieducativa e risocializzazione della pena. Perché tali scopi, come ha ricordato il giudice nelle motivazioni, “sarebbero del tutto vanificati ove vi fossero condizioni di vita assimilabili alla tortura, come ritenuto dalla sentenza della Corte di giustizia europea”. Accanto all’esiguo spazio disponibile in ogni stanza di detenzione, “emergono condizioni carcerarie non solo disagevoli, come per esempio per la mancanza di scala per la salita sui letti a castello, ma afflittive per carenze strutturali e dell’organizzazione dell’Istituto con evidente sovraffollamento dei locali di detenzione”. I legali Guastella e Grazioso hanno evidenziato che “da un lato risulta che le finestre delle celle non garantiscono un’adeguata areazione e illuminazione date le dimensioni ridotte (appena 0,52x1,62 metri)” e dall’altro “le dichiarazioni acquisite in sede di interrogatorio confermano le precarie condizioni della struttura carceraria, in specie delle celle di pernottamento che sono sempre state così senza mai essere interessate da lavori di ristrutturazione e/o adeguamento”. Diversamente da quanto sarebbe avvenuto in altre parti dell’Istituto. Nel corso del processo civile è stato ascoltato anche il direttore del carcere di Brindisi (il 21 giugno 2016). “Val la pena di ricordare la disposizione dell’articolo 18 delle Norme penitenziarie europee, secondo cui i locali di detenzione destinati all’alloggiamento e al pernottamento dei detenuti devono soddisfare le esigenze del rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle esigenze minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche”, hanno scritto i difensori del brindisino. “In particolare, per quanto riguarda l’illuminazione, il riscaldamento ed il ricambio d’aria”. E ancora: “In tutti gli edifici in cui i detenuti devono vivere, lavorare o in cui si riuniscono, le finestre devono essere abbastanza grandi perché i detenuti possano leggere o lavorare alla luce naturale in condizioni normali e permettere l’ingresso di aria fresca, a meno che non vi sia un adeguato sistema di condizionamento d’aria”. Non solo. Sempre secondo gli avvocati Guastella e Grazioso, “l’istruttoria ha confermato la totale mancanza di un impianto di condizionamento e/o di riciclo dell’aria, la limitata disponibilità di acqua calda, concessa nelle stesse ore dedicate all’ora d’aria, il tempo quotidianamente passato in cella, pari a 20 giornaliere, con possibilità di libera uscita per quattro ore da dedicare al passeggio ovvero a pochi momenti di convivialità, socialità e attività organizzate nell’Istituto”. Il detenuto brindisino è stato ammesso al lavoro come portantino da gennaio a settembre del 2012, nove mesi appena durante i quali ha potuto lasciare la cella, in aggiunta alle ore d’aria. Dal conteggio del risarcimento dei anni, il giudice ha sottratto tale periodo, ritenendo mitigata la violazione. Ma per i legali, avrebbero dovuto essere prese in considerazione anche le condizioni di salute, perché il detenuto, stando alla documentazione raccolta, aveva “seri problemi di salute in quanto soggetto “iperteso” e “cardiopatico”, problemi che certamente erano conosciuti all’istituto per stessa ammissione del direttore”. Lo stato di sovraffollamento costituisce un dato oggettivo e incontrovertibile dei locali di detenzione all’interno del carcere di Brindisi, secondo i due penalisti. “Una situazione endemica avvalorata dalla deposizione del direttore del carcere, secondo il quale all’epoca della permanenza del brindisino, la presenza media giornaliera si attestava intorno alle 200 unità a fronte di una capienza regolamentare di 117 unità”. Situazione che caratterizza non solo il carcere di Brindisi, purtroppo. Quanto alla struttura di via Appia, il giudice ha riconosciuto i danni al detenuto e ha condannato il ministero al pagamento del risarcimento con sentenza immediatamente esecutiva. Oltre che al versamento delle spese di lite. Venezia: dirigenti puniti per aver vietato il calcio ai profughi di Silvia Giralucci La Repubblica, 23 aprile 2018 Migranti che nei centri di accoglienza giocano a calcio se ne vedono ovunque. Una palla si trova sempre e il calcio non ha bisogno di parole. A Cona, provincia di Venezia, i profughi si spingevano anche in bici fino a Codevigo, in provincia di Padova, per vedere gli allenamenti delle squadre locali. Una sera Gino Mez, padovano, allenatore, li nota e li riaccompagna al centro di accoglienza in macchina, ci scambia qualche parola e di lì nasce un’idea: fare la squadra del Campo Cona, interamente formata da richiedenti asilo. Giocano, si allenano, arrivano a iscriversi a un campionato amatoriale locale. E qui il salto: serve un campo da calcio vero. Chiedono ospitalità alla vicina società sportiva di Pegolotte di Cona. L’esperienza dapprima funziona: due di questi migranti giocano così bene che vengono anche tesserati ed entrano a far parte della squadra locale. L’invidia però è una brutta bestia. L’allenatore che li aveva messi assieme comincia a subire minacce, viene allontano da feste comuni. Viene offeso in pubblico. Fino a che non arriva il casus belli: uno dei due giocatori tesserati, un diciannovenne del Bengala, si ammala. In ospedale si sospetta una meningite. Alla riunione di genitori, allenatori, dirigenti, i medici spiegano che al campo sono tutti vaccinati, ma ovviamente non si può escludere che in un ambiente dove sono stipate 1.500 persone le malattie possano diffondersi. È così che sulle porte dello stadio compare il cartello: “Per ragioni di igiene e sanità pubblica è sospeso l’accesso all’impianto sportivo a tutte le persone accolte presso il campo base di Cona in attesa di essere sottoposte ai previsti controlli sanitari e vaccinazioni”. Quando la meningite viene esclusa, niente cambia. La giustificazione dei dirigenti della squadra è il classico “non siamo razzisti ma…”. +Gli altri baby giocatori, spiegano, avevano minacciato di andarsene in blocco e la squadra non poteva permetterselo. Gino Mez e gli altri allenatori dei migranti si dimettono dai loro ruoli nella società del paese, quella dove giocavano da bambini, dove sono cresciuti i loro figli. Una lacerazione pesante, ma non una resa. La squadra ottiene di finire il campionato anche senza campo, giocando tutte le partite fuori casa. E la giustizia sportiva fa il resto. La sentenza è di qualche giorno fa. I 14 dirigenti della società del Pegolotte che hanno preso la decisione di interdire l’accesso ai migranti sono stati deferiti dalla procura federale della Figc “per aver tenuto un comportamento discriminatorio”. Milano: “Stanze sospese” pure fuori Bollate, gli Icam e Moke di Francesca de Carolis remocontro.it, 23 aprile 2018 “Beh, qui siamo mica a Bollate”, Gatto Randagio ha sentito spesso così sospirare qualcuno dei “cattivi” soggetti che ormai stabilmente frequenta. Bollate, carcere modello sinonimo di civiltà (se civile può mai essere l’idea della carcerazione), sogno di chiunque varcato il cancello di un istituto di pena, inizia a capire dov’è che è davvero finito. E a Bollate dunque, ha letto il Gatto, verrà sperimentato un arredo per celle più funzionale, in maniera che dallo stesso pur breve spazio si possano ricavare piccole “comodità”. Tipo barre multiuso che diventano mensole, tavolini smontabili, guardaroba ricavati in angoli del letto a castello… “Stanze sospese”, la mostra in cui si presenta il progetto, al quale hanno lavorato designer e detenuti, nell’ambito del Fuorisalone milanese. Certo negli spazi costipati, e spesso fuori norma, delle celle in cui sono ristretti i nostri detenuti, potrebbe un po’ rasserenare sapere dove mettere una maglietta in più, dove sedersi, dove poggiare con agio un libro… ma, primo pensiero del Randagio, di Bollate ce ne è uno solo… e poi e poi … c’è sempre quel tarlo che gli rode dentro, da quando ha toccato con mano cosa sia una detenzione, che per quanto si possa abbellire, riformare, attenuare… proprio non lo convince quella strana idea di rieducare imprigionando corpi… sorvegliando e punendo… E questo stava rimuginando leggendo delle “stanze sospese”, quando incappa nel prototipo di sedia ideata per i piccoli ospiti dell’Istituto di custodia attenuata dove sono le donne con bambini. Le donne, sapete, possono tenere con sé i figli fino all’età di cinque anni. La sedia pensata per i loro bambini è modificabile, per adattarsi man mano alla crescita del piccolo… E subito, al Gatto, gli si rattrappisce l’anima… avverte qualcosa che gli stride dentro, come un prolungato graffio gelato… “Il pensiero di quella sedia, programmata per crescere - mi ha detto - vengono in mente le mutazioni degli arredi intorno ad Alice, nel paese delle meraviglie, quando la meraviglia del gioco si capovolge nell’incubo del tunnel nel quale precipita”. “Pensaci un po’ - mi ha detto, una sedia pronta ad adeguarsi all’età di chi lì dentro cresce, a definire un destino d’infanzia prigioniera”. Certo che non è obbligatorio che il bambino di donna che abbia commesso reato vada anche lui in prigione, ma spesso è una scelta di fatto obbligata, se troppo piccolo per stare senza mamma, o senza alcun parente a cui poterlo affidare, ad esempio. E mi ha ricordato, il Randagio, quanti bambini passano i primi anni di vita insieme alle loro madri, nella tristezza delle nostre celle… settanta, secondo i dati aggiornati a marzo del ministero di giustizia. Ora, in un Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam), oltre e prima dell’idea di sedie che crescano con loro, i bambini hanno intorno un ambiente che non ricorda il carcere, dove chi si occupa delle sorveglianza non porta la divisa, ad esempio, dove vi sono educatori specializzati… ma questo rimane un sogno, per la maggioranza dei piccoli detenuti e delle loro madri, perché gli Icam in Italia sono solo cinque. Le cose sembra a volte vengano a cercarci… Proprio due giorni prima, Stefania (Stefania Elena Carnemolla) mi segnala, dalla pagina della Società italiana di pediatria, un articolo in cui la dottoressa Michela Salvioni, che proprio a Bollate presta la sua opera, spiega cos’è la vita di un bambino in un carcere “normale”. Per quanto si possano dipingere d’azzurri le stanze-asilo… rimane l’ambiente carcerario, con le sue regole, i suoi tempi cadenzati, le sbarre, il rumore del ferro, le guardie… e quanto problematico può diventare il rapporto affettivo con la madre, spiega Salvioni, quando unica figura di riferimento in mezzo a tanta estraneità, la madre a cui unirsi in un legame che pure poi si spezza, quando, allo scoccare dell’età stabilita, il piccolo viene allontanato… Immaginate allora quanta violenza per lui, che… come non sentirsi abbandonato. E quanta violenza per lei, che perde l’unico appiglio, l’unico riferimento di vita, al quale si è morbosamente legata… Quel sediolino intanto cresciuto di una, due spanne… che stridore, che incubo. Le cose… mai arrivano per caso. In questi stessi giorni incappiamo, io e il Randagio, nel video di Calaya, una femmina di gorilla di pianura occidentale (animali a rischio d’estinzione) e del suo cucciolo appena nato. Video diffuso, con immaginabile orgoglio, dallo Smithsonian’s National Zoo and Conservation Biology Institute di Washington, dove il gorillino, che hanno chiamato Moke, è venuto alla luce. Vi siete inteneriti? Mamma gorilla e il suo cucciolino…. Ma il punto non è questo. Perché saranno pure encomiabili i responsabili del centro che questo evento hanno, immaginiamo, preparato e seguito e accudito nella maniera migliore possibile, ma vedo che non riesce, il Randagio, a non fissare quell’inferriata alle spalle di Calaya, e lei lì a suggere l’aria da quel briciolo di vita nuova che ha fra le mani. Saranno pure così salvati dall’estinzione, i gorilla di pianura… ma, ho sentito mormorare il Randagio, “come si è ridotta l’umanità se per salvare, in un modo o nell’altro, esseri viventi (da un destino di morte che l’uomo stesso ha prodotto) non riesce a pensare altro che farne dei prigionieri, bene o male accuditi che siano”. E mi ha fissato, facendomi un po’ vergognare di me, in quanto rappresentante del genere umano che ha più vicino. Ma ormai il guaio è fatto. L’ho lasciato libero di rifornirsi alla mia libreria. Ha letto Foucault, si capisce… Nietzsche, persino… Mi ha, pensate, confidato di avere avuto pensieri di gran pena anche per l’uomo, nel quale vede, ed è cosa che ripete spesso, “l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice”. Insomma, “un essere uguale a tutti gli altri animali, ma che ha perduto in maniera estremamente pericolosa, il sano intelletto animale”… Genova: “Giochi senza frontiera”, sul palco detenute e studenti genova24.it, 23 aprile 2018 Debutta l’8 e il 9 maggio “Giochi senza Frontiera” di Teatro dell’Ortica di Genova al Teatro dell’Archivolto di Sampierdarena. Appuntamento alle 20.30 (mercoledì 9 anche alle 10.30 con una replica dedicata alle scuole). Lo spettacolo rappresenta l’esito del Laboratorio condotto da Anna Solaro con le detenute del Carcere di Pontedecimo (Ge), gli alunni, gli insegnanti e i genitori della Scuola Primaria Anna Frank di Serra Riccò e della Scuola Secondaria di primo grado Don Milani di Genova e gli attori del Teatro dell’Ortica. Il lavoro si inserisce nell’ambito del progetto Oltre il cortile che prende vita nel 2006 con un’attività laboratoriale realizzata dapprima con i detenuti della Casa Circondariale di Marassi V, in seguito, dal 2010, presso la sezione maschile di Pontedecimo per poi spostarsi dal 2013 alla sezione femminile dello stesso. Biglietti a 14 euro (ridotto scuole 6 euro). Il laboratorio e le produzioni teatrali rappresentano il primo esempio in Italia di collaborazione tra i ragazzi delle scuole primarie e i detenuti, fornendo un’inedita e innovativa possibilità di incontro e conoscenza. Il progetto di “teatro-carcere” si fonda sull’ascolto dei luoghi che attraversa e sui vissuti biografici ed emotivi delle persone coinvolte. Il teatro diventa così opportunità di emancipazione per i detenuti ma anche straordinaria occasione di sperimentazione scenica e drammaturgica. Recuperare la persona al di là del reato portando il laboratorio teatrale nello spazio della detenzione e della pena è l’obiettivo primario del progetto. “La persona non è il reato che ha commesso”: al detenuto si forniscono gli strumenti per ripensarsi e riprogettarsi al di fuori del carcere e alla comunità esterna si dà un’occasione di conoscenza reale di persone e storie, al di là del pregiudizio. Il teatro diventa così un mezzo sorprendente per favorire il reinserimento sociale. Intorno a Oltre il Cortile si è creata negli anni una rete di soggetti che vede - oltre il Carcere di Pontedecimo, le Scuole Primaria Anna Frank e Secondaria di Primo Grado Don Milani - anche il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e i partner del progetto europeo Erasmus Plus Skills for freedom, il cui obiettivo è di creare modelli di cooperazione innovativi per favorire le possibilità occupazionali degli ex-detenuti, studiando e applicando percorsi artistici che permettano di sviluppare le competenze professionali di chi si trova in una condizione di detenzione. Il tema scelto quest’anno in seno al Laboratorio è quello del Gioco: sulle varie accezioni e modalità del gioco si è lavorato e creato lo spettacolo che omaggia nel titolo la celebre trasmissione televisiva. Giochi senza frontiera è uno spettacolo sul gioco e sulla libertà visti attraverso gli occhi di chi gioca e di chi forse non sa neppure più cosa sia giocare. Giocare in libertà, nella libertà più assoluta, senza regole del gioco. Giocare col fuoco. False partenze partite con il piede sbagliato. Fuorigioco, fuorigioco perenne, fuorigioco esistenziale. Eppure… è bello pensare di salire su e giù sullo scivolo, finire in acqua …saltare la corda, il pampano, il cavalluccio tutto in un colpo, in un unico sogno. Manca il fiato. E poi correre e correre e guardarsi i piedi che volano sul selciato infangato e sconnesso. Manca il fiato. Il Sessantotto di Foucault contro carceri e manicomi di Corrado Ocone Il Dubbio, 23 aprile 2018 Riedito “Esperienza e Verità. Colloqui con Duccio Trombadori” firmato dal grande filosofo francese. È una bella occasione per riflettere su un pensatore veramente rilevante la ripubblicazione da parte dell’editore Castelvecchi di quelli che, nella prima edizione del 1981, si chiamavano Colloqui con Foucault. Ne era autore Duccio Trombadori, che aveva incontrato “l’ ultimo maitre à penser” francese qualche anno prima nella sua casa parigina. Oggi il libro, una vera e propria intervista filosofica a tutto campo, esce con il titolo: Esperienza e verità. Colloqui con Duccio Trombadori, in cui il grande filosofo francese (era nato a Poitier nel 1926) figura direttamente come autore (pp. 126, euro 12,50). È una piccola forzatura, ma è giustificata dal fatto che il volume, che è stato tradotto negli anni in diverse lingue e ha circolato un po’ in mezzo mondo, è diventato un classico, utile ancora oggi soprattutto per capire in che ordine di idee Foucault si muoveva e come egli venne gradualmente costruendo il suo universo mentale (e anche morale). Purtroppo il libro non mette a tema per ovvi motivi cronologici la parte più sostanziale e originale, oltre che più attuale, dell’opera foucaultiana, emersa in tutta la sua ampiezza di orizzonti e originalità di prospettive negli ultimi anni, man mano che, a cavallo fra l’ultimo decennio del Novecento e il primo del Duemila, venivano pubblicati i corsi tenuto al Collège de France (che Foucault tenne dal 1970 fino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1984). Ma procediamo con ordine. Fin dalle prime pagine di questa intervista, Michel Foucault fa presente di non considerarsi un filosofo. È la stessa affermazione che, in universi di pensiero molto differenti, hanno fatto altri grandi “filosofi” novecenteschi, ad esempio Isaiah Berlin o Hannah Arendt. In verità il problema segnalato è che è oggi impossibile fare filosofia seguendo i canoni con cui essa è nata e si è sviluppata dai presocratici fino, diciamo, ad Hegel. “Non sono un teorico - afferma il nostro - non sviluppo sistemi deduttivi da applicare uniformemente a campi diversi di ricerca”. E aggiunge: “Quando scrivo, lo faccio soprattutto per cambiare me stesso e non pensare più la stessa cosa di prima”. Qui, più che sull’elemento esperienziale, come si dice con un brutto termine, l’accento va posto, a mio avviso, sul “metodo” di conoscenza, il modo di procedere che contraddistingue il filosofo postmetafisico. Costui, infatti, segue il filo dei ragionamenti facendosi trasportare da essi, senza avere una meta prefissata, lasciando emergere la “verità” dalle “cose stesse”, come direbbe un fenomenologo (anche se Foucault è un critico della fenomenologia, che giudica ancora inscritta nell’orizzonte dell’umanismo e del soggettivismo). Un interesse di studio specifico, in verità, Foucault lo matura subito dopo una tumultuosa giovinezza, ed è quello per la storia. Lo concepisce però in modo del tutto diverso da come potrebbe concepirlo uno storico di professione. Più che tumultuosa, la sua giovinezza fu in verità ambigua, essendo divisa fra i successi scolastici e universitari (fu ammesso brillantemente all’École Normale Superieure) e i problemi psicologici connessi alla sua identità omosessuale. Per un paio di anni (1950- 52), si impegna pure politicamente nel Partito Comunista, ma si sente uomo troppo libero per continuare. A un certo punto, si volge allo studio delle malattie mentali e dei fenomeni devianti, a diretto contatti con gli operatori del settore. Li vede però dal punto di vista dello storico, concentrandosi sulla nascita e sviluppo, in età moderna, di istituzioni e luoghi detentivi che tendono a separare il mondo dei “folli” da quello dei “savi”, i “sani” dai “malati”, i “normali” dagli anormali”: manicomi, carceri e altre “istituzioni totali”. I suoi libri, per quanto generalmente criticati, diventano subito oggetto di discussione e acquistano enorme visibilità: Storia della follia nell’età classica (1961); Nascita della clinica (1963); Le parole e le cose (1966); L’archeologia del sapere (1971). Dietro il trionfo in età moderna di una certa idea rigida di “razionalità”, codificata soprattutto nelle scienze mediche e umane, si delineano, secondo Foucault, in primo luogo rapporti di potere e esigenze di organizzazione sociale che vengono organizzandosi e sedimentandosi. Sono questi gli aspetti del suo discorso, che, insieme all’attenzione per “folli”, detenuti e “malati”, hanno fatto di Foucault uno dei pensatori di riferimento del Sessantotto inteso in senso lato. Anche se, soprattutto con il Maggio parigino (che non ha vissuto direttamente essendo in Algeria), egli fu, come è chiaro in alcuni passaggi di questo libro, molto critico: prima di tutto per l’uso di un linguaggio e di sistemi di pensiero antiquati, per il pampoliticismo e la strabordante presenza del marxismo. “I mutamenti in corso - dice Foucault a Trombadori - avvenivano anche in rapporto a tutto un insieme di sistematizzazioni filosofiche, teoriche, e a tutto un tipo di cultura che aveva segnato, all’incirca, la prima metà del nostro secolo”. Il Maggio fu, ancora, un “momento di smisurata esaltazione di Marx”, di “iper-marxistizzazione generalizzata”. I problemi che interessano Foucault in questa prima fase del suo pensiero sono da una parte molto concreti e specifici, perché la follia, il processo di medicalizzazione, la nascita delle carceri, sono studiate in periodi storici e contesti spaziali determinati, e con l’aiuto di esempi e documenti altrettanto circostanziati; dall’altra, presentano aspetti “epistemologici” molto interessanti che egli va sempre più ponendo in risalto. “Più o meno - dice nell’intervista - mi ponevo il problema così: una scienza non potrebbe essere analizzata e concepita un po’ come un’esperienza, cioè come un particolare rapporto che si stabilisce in modo tale che il soggetto stesso dell’esperienza si trovi ad essere modificato? Detto altrimenti: nella pratica scientifica non si verrebbero a costituire tanto il soggetto quanto l’oggetto della conoscenza?”. È questa la cosiddetta “archeologia del sapere”, cioè il ricondurre ogni volta da parte di Foucault le pratiche scientifiche (ad esempio la psichiatria) al momento in cui si sono costituite come tali, stabilendo con ciò stesso il proprio oggetto (nel nostro caso la “follia”) e valutandolo con i propri criteri (la “razionalità” e la “normalità”). La “medicalizzazione” della “follia”, da questo punto di vista, si svela come fenomeno non “normale” ma tutto moderno, inscritto nella logica della modernità (idee che incroceranno quelle della cosiddetta antipsichiatria e porteranno in Italia alla “legge Basaglia” e alla chiusura dei manicomi). Si tratta, a ben vedere, di una particolare interpretazione del metodo “genealogico” di Friedrich Nietzsche, che, attraverso la mediazione di Georges Bataille e Maurice Blanchot, diventa presto l’autore di riferimento di Foucault. Anche il soggetto, in questo ordine di discorso, diventa il punto di arrivo di una costruzione sociale. Foucault insiste molto con Trombadori su questo allontanarsi del suo pensiero dalle filosofie soggettivistiche e umanistiche, e quindi anche dall’esistenzialismo di Sartre (a cui in verità lui personalmente mai era stato vicino): un processo che è comune a tutti quei pensatori francesi degli anni Sessanta che a torto, egli dice, vengono chiamati “strutturalisti” (una etichetta che si addice invece al solo Claude Lévi Strauss). L’istituzione di una forma di scienza, o meglio di un sapere, corrisponde anche alla messa in atto di determinati rapporti di potere all’interno della società e fra gli uomini. E sul tema del potere Foucault è venuto sempre più concentrandosi negli ultimi anni, come è attestato dalle sue lezioni e come si evince anche da questa conversazione. Prima di tutto, egli pone l’attenzione sul carattere molecolare che lo contraddistingue, mai così evidente come in una società post- moderna (parla di una “microfisica dei poteri”); sulla sua non riducibilità a un rapporto unidirezionale (del tipo “servo” versus “padrone” per intenderci); sul suo proporsi non più oggi come potere statale, più o meno dispotico, ma come “governamentalità”, cioè come un insieme di regole comportamentali interiorizzate dai singoli in cui il potere, sempre più astratto e assoluto (che qualcuno potrebbe compiacersi di apostrofare come “neoliberale”), si pone di fronte alla “nuda vita” senza più le mediazioni della vecchia democrazia rappresentativa e della società “borghese” della prima modernità. È il tema affascinante, diventato poi moda filosofica e accademica anche in Italia (ma Foucault non c’entra), del “biopotere” o della cosiddetta “biopolitica”. Un argomento che, ovviamente, non è nemmeno vagamente accennato in questa intervista. Riflettendo su tutto questo, e anche su quel che il libro ora ripubblicato afferma, non mi sentirei però di avvicinare, come fa Trombadori nella prefazione apposta a questa edizione, “l’eredità intellettuale” di Foucault “a coloro che hanno distinto l’istanza dell’umanesimo liberale nella cultura contemporanea: penso soprattutto a Benedetto Croce, ma anche al tanto diverso Karl Popper, per la convergente idea dell’impresa conoscitiva per via di ipotesi, esperienze, tentativi ed errori; e la comune convinzione che non si possa predeterminare il processo storico e convenga soprattutto affidarsi alle vie imprevedibili suscitate dalla libertà umana”. Sicuramente questi elementi sono presenti in Foucault, come in tanti altri pensatori, ma egli contesterebbe alacremente l’avvicinamento a qualsiasi forma di umanesimo. Direi che, sviluppando in modo radicale e profondo la riflessione sul potere e sui suoi complessi e spesso non evidenti o intuitivi meccanismi di determinazione, egli, che liberale non è, può essere considerato un pensatore utile ad un liberalismo filosofico che si riscrive dopo la crisi delle categorie del moderno (in cui il cosiddetto “liberalismo classico”, da questo punto di vista “superato”, era pienamente inserito). La crisi allarga la “forbice sociale”: al 10% più povero solo l’1,8% dei redditi di Claudia Voltattorni Corriere della Sera, 23 aprile 2018 Eurostat: 10 anni fa era al 2,6%. Unimpresa: boom precari, 9,3 milioni di italiani a rischio. Giovannini (Università Tor Vergata): il Rei non basta, servono politiche di sviluppo per le imprese. Da una parte i ricchi sono sempre più ricchi. Dall’altra, i più poveri continuano a vedere calare i propri redditi. È ciò che accade in Italia dall’inizio della crisi al 2016 secondo la fotografia scattata da Eurostat che rivela come nel nostro Paese siano aumentate le disuguaglianze sociali e il divario tra chi ha redditi più alti e chi ha meno disponibilità è sempre più ampio. A scapito della classe media che si è ristretta ancora di più. Parlano i numeri. Nel 2008, la parte più povera della popolazione in Italia poteva contare su un reddito che corrispondeva al 2,6% del totale. Durante gli anni della crisi, il reddito si è assottigliato fino ad arrivare all’1,8%. Cosa che non è accaduta per la parte più benestante della popolazione, che è passata a detenere quasi un quarto dei redditi, saliti al 24,4% nel 2016 dal 23,8% del 2008, un aumento che supera la media europea ferma al 23,8% (dal 24,6% del 2008). L’Eurostat ha quindi calcolato che in sei anni, dal 2010 al 2016, la disuguaglianza della distribuzione del reddito è salita dal 31,7% al 33,1. La Bulgaria, con il suo 38,3%, ha il divario più ampio d’Europa. Slovacchia e Slovenia i più bassi: 24,3 e 24,4. Non si stupisce Enrico Giovannini, ex presidente Istat e docente di statistica all’università Tor Vergata di Roma: “Quelli di Eurostat sono dati che evidenziano come in Italia, più che in altri Paesi, le disuguaglianze continuino a crescere, non solo nel reddito ma anche nella ricchezza, come già hanno rilevato sia l’Istat che la Banca d’Italia”. Non solo. “Se una volta a rischio povertà erano i più anziani - continua Giovannini, oggi in pericolo sono soprattutto giovani e adulti, questo perché il welfare finora ha difeso i più anziani, non i più poveri”. Uno studio di Unimpresa ha contato oltre 9 milioni e trecentomila italiani a rischio povertà: dal 2016 al 2017 “altre 128mila persone sono entrate nel bacino dei deboli”, questo perché aumentano i lavoratori precari con occupazioni instabili e retribuzioni molto basse. È questo il punto, spiega Giovannini: “La ripresa economica in Italia ha generato molti lavori poveri, sono impieghi frammentati e precari e con redditi molto bassi”. La crisi in Italia, dice lo studioso, “è stata molto più lunga, violenta e grave e ha portato ad una forte disoccupazione e alla perdita di reddito soprattutto per le fasce più basse”. Nel 2013, Giovannini propose il Sia, sostegno d’inclusione attiva, che nel 2017 si è trasformato in Rei, reddito d’inclusione: “Se il Sia fosse stato introdotto subito, oggi avremmo già dei risultati, invece il Rei, con un investimento di risorse così limitato, non può bastare a ridurre il numero dei poveri, può appena attenuare il livello di povertà”. E pure sul reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei Cinque Stelle, “dipende molto da quante risorse vengono destinate al sussidio e ai servizi di accompagnamento e comunque sono importanti anche politiche di tipo economico che si occupino delle imprese, perché le politiche assistenziali non sono sufficienti”. Secondo Giovannini, “c’è bisogno di politiche fiscali e di innovazione per aiutare le aziende ad aumentare la redditività e quindi a generare redditi più alti: solo così si avrà una reale crescita economica con salari adeguati e occupazioni stabili”. Peppe Dell’Acqua: “Con Basaglia il malato divenne un cittadino” di Lucia Bellaspiga Avvenire, 23 aprile 2018 A quarant’anni dalla storica legge che porta il nome dello psichiatra veneziano, parla il suo allievo Peppe Dell’Acqua: “Restituì ai “matti” libertà, diritti e dignità”. “Non mi resta il tempo necessario per cambiare la testa agli psichiatri. Meglio formare una squadra di giovani”. Così lo psichiatra veneziano Franco Basaglia, l’uomo che fondò la concezione moderna della salute mentale, restituendo ai “matti” la dignità di persone colpite da una malattia e non più marchiate da un’indicibile colpa, tra i giovani di buone speranze reclutò Peppe Dell’Acqua, allora ventiquattrenne. “Era il 1971, mi ero laureato a Napoli e all’epoca Basaglia era bandito dalla clinica universitaria, assieme alla psicanalisi”, ricorda Dell’Acqua, che a Trieste è stato per diciotto anni direttore del dipartimento di Salute mentale e oggi insegna Psichiatria sociale all’università. Prezioso testimone, Dell’Acqua visse in diretta la gestazione della legge 180 o Legge Basaglia, entrata in vigore il 13 maggio 1978, esattamente quarant’anni fa, e ricordata sbrigativamente per aver “chiuso i manicomi”. Prima che Basaglia scendesse in campo era ancora in vigore la legge del 1904, per la quale venivano internate “le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose e riescano di pubblico scandalo”. Più una punizione che una cura, più una reclusione che un ricovero, più una colpa e una vergogna che una normale malattia... “In un’intervista del 1968 Sergio Zavoli chiese a Basaglia se fosse più interessato al malato o alla malattia, e Basaglia calcò la voce su un avverbio: “Indubbiamente al malato”. Il malato di mente fino al 1978 non è un cittadino, la Costituzione è valida per tutti ma non per chi è internato, privato di qualsiasi diritto. Per cambiare le cose, deve avvenire qualcosa di straordinario il 13 maggio di quell’anno, quattro giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro, quando in una commissione ministeriale presieduta da una giovane Tina Anselmi nasce una legge grazie a uomini e donne illuminati, che si interrogano: i matti, questi centomila reclusi in novanta manicomi, sono o non sono cittadini italiani? Vige anche per loro la Costituzione repubblicana del 1948? La loro risposta è sì e da lì comincia la scommessa spigolosa del nostro Paese, una strada tutta in salita”. La citazione di Aldo Moro non è casuale... “Moro fu l’estensore dell’articolo 32 della Costituzione sul diritto fondamentale alla cura e alla salute: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario...”, trent’anni dopo questa sarà la 180. Quando scrisse queste parole, Moro si confrontava con La Pira, con Calamandrei, tutti giovani che avevano vissuto le restrizioni del fascismo. Quattro giorni prima dell’entrata in vigore della legge che restituiva libertà, diritti e dignità ai malati, Aldo Moro moriva prigioniero, senza diritti e senza dignità, le cose per cui aveva lottato. Questo ci dà il senso dello spessore umano e drammatico che comporta la follia: il prendersi cura dell’altro non è un atto di carità, è il riconoscimento dell’altro nel suo pieno diritto. I primi balbettii di queste intuizioni avvennero all’inizio del ‘900, ai tempi di Freud, quando ci si chiese se avessero un senso quei deliri, se fosse possibile dare una qualche ragione a quelle allucinazioni. Ma solo Basaglia ha messo tra parentesi la malattia, e fatto questo non poteva che scoprire delle persone, nomi, storie, relazioni, violenze, desideri andati in fumo, tutte vite cui dare un senso. In loro riconosceva “il soggetto”“. Una “scoperta” che rivoluzionava l’approccio e l’intero impianto di cura... “Intuita la pochezza della scienza psichiatrica e invece la potenza della presenza di persone, Basaglia non può fare altro che aprire la porta, non solo in senso letterale e concreto (la porta dei manicomi), ma come intensa metafora: dietro la porta ci sono finalmente cittadini, non più una massa appiattita in un’unica identità, quella dell’internato. Da qui è naturale che derivi la dimensione politica, cioè il battersi per i diritti di chi diritti non ha, la dimensione etica, ovvero rimediare all’indegnità, e la dimensione della singolarità, che poi è quella terapeutica: non posso curare, se non riconosco la singolarità di ogni altro”. Eppure quarant’anni di legge 180 lasciano aperte forti criticità... “Calamandrei della Costituzione disse che aveva uno sguardo presbite, che cioè guardava lontano. Così la 180: nell’immediatezza restituiva finalmente diritti, che sarebbero stati realizzati poi. Molte cose da allora sono accadute, oggi per chi ha disturbi mentali parliamo di diritto di famiglia, diritto alla casa, all’abitare, al lavoro, e quanti si sono sposati, hanno le loro crisi ma anche la loro vita. Nella collana di libri di psichiatria che dirigo (“180 - Archivio critico della salute mentale”), queste persone ci parlano di come ce l’hanno fatta grazie ai servizi più o meno scalcagnati o invece luminosi funzionanti in Italia. Ad esempio Guarire si può è scritto a quattro mani da un’operatrice e una persona con disturbi mentali, laureata e da quarant’anni in cura”. Come commenta l’annosa accusa di aver “chiuso i manicomi senza prima organizzare le alternative”? “Sono invecchiato sentendo queste parole. Le dico che americani e sovietici quando scoprirono l’umanità dei lager non potevano attendere mesi per decidere con quali mezzi portarla fuori da lì, c’erano un’urgenza e una crudeltà per cui non si poteva aspettare. A Norberto Bobbio in un’intervista fu chiesto se in Italia nel dopoguerra ci sia stata una vera riforma, Bobbio restò interdetto e poi rispose che sì, l’unica vera riforma era quella che aveva liberato i matti, perché coglieva il senso della restituzione del diritto”. Parlando di Basaglia lei si commuove spesso... “Un ricordo: ero con lui a Trieste da tre mesi e feci un errore giovanile, chiesi al presidente della Provincia dov’era finita la borsa di studio che mi era stata promessa. Basaglia mi fulminò e mi invitò a fare le valigie. Il giorno dopo mi spiegò: “Non è più il tempo dell’università, qui stiamo facendo una scommessa che ci può vedere perdenti in qualunque momento, qui comincia la lunga marcia”, ed è stato così”. Noi e l’islam, tre domande alle quali rispondere di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 23 aprile 2018 La società libera si fonda sul principio della separazione fra politica e religione, fra economia e religione, eccetera. Ma nell’Islam queste separazioni non hanno senso. È la punta dell’iceberg. A volte alcuni episodi diventano oggetto di attenzione mediatica. Sono, verosimilmente, spie di cambiamenti diffusi, molecolari, quotidiani, che tendiamo per lo più ad ignorare. Si prenda il caso dei responsabili dell’ospedale di Parma che trasferiscono un’anziana assistita dal nipote per darla vinta a una islamica che non accetta la presenza di un uomo nella stanza in cui è ricoverata. Oppure il caso di coloro che, a Savona, coprono una statua per compiacere un gruppo di musulmani che sta per riunirsi in una sala. Non si tratta di folklore, forme di stupidità fastidiose ma innocue. Anticipano scenari che, in capo a pochi anni, potrebbero diventare drammatici. Tre domande meritano di essere poste. La prima: il passaggio dalla multietnicità (uno stato di fatto, in sé neutro: né buono né cattivo) al multiculturalismo (una seria minaccia per la democrazia) è inevitabile? La seconda domanda è una articolazione della prima: è possibile difendere la società aperta, o libera, dall’azione di minoranze culturali che le sono ostili senza sopprimere, mentre si cerca di difenderla, la società libera medesima? La terza domanda è: sarà possibile convincere gli italiani ad affrontare senza isterismi antistranieri ma anche facendo il contrario di ciò che si è fatto a Parma o a Savona, il difficile problema della convivenza fra immigrati extra-occidentali e noialtri indigeni? La multietnicità non è in linea di principio incompatibile con la democrazia. Guidata nel modo giusto può anche infonderle vitalità mettendo i suoi cittadini a contatto con esperienze che in precedenza non conoscevano. In ogni caso, gli ostili alla multietnicità devono darsi pace: una società che ha scelto di non fare più figli non ha altri canali per alimentare la propria forza-lavoro o per mantenere la sua crescente popolazione anziana. Ma se la multietnicità è o può essere un’opportunità, diventa una minaccia se gli indigeni sono così sprovveduti, stupidi o sbadati da accettare che su di essa cresca la mala pianta del multiculturalismo. Il multiculturalismo è una situazione nella quale, di diritto o di fatto (per l’affermazione di nuove usanze), si accetta che l’insieme dei cittadini venga segmentato, diviso lungo le barriere che separano le diverse tradizioni culturali. Si afferma una disparità di trattamento: per i diversi “segmenti” valgono regole diverse, coerenti con le rispettive usanze. La formale uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge viene dapprima neutralizzata di fatto e, in seguito, anche di diritto (in virtù di adeguamenti normativi alla situazione di fatto). Non è difficile ritrovarsi in un “incubo multiculturale”. È sufficiente che nei vari luoghi - dagli ospedali alle scuole agli uffici pubblici e privati - le domande di trattamenti speciali, in deroga, da parte delle minoranze culturali vengano accolte, un giorno qua e il giorno dopo là: il trattamento speciale, una volta concesso, diventerebbe, dal punto di vista della minoranza, un diritto, e i tentativi di revocarlo incontrerebbero dure resistenze. Nascerebbero controversie giudiziarie e non è impossibile che esse sfocino in sentenze volte a riconoscere il suddetto diritto. Ed ecco la società multiculturale, la frantumazione della cittadinanza, la fine dell’uguaglianza formale di fronte alla legge, l’affermazione di diritti speciali e diversità di trattamento a seconda del gruppo culturale di appartenenza. Chi crede che quanto sta accadendo oggi in Belgio non ci riguardi è un incosciente. Il partito islamico, che si presenterà alle prossime elezioni amministrative, punta ad introdurre formalmente (di fatto, nei quartieri islamici è già operante) la sharia, la legge islamica, cominciando simpaticamente dall’idea di mezzi pubblici di trasporto separati per uomini e donne. Fin qui ho parlato dei rischi del multiculturalismo ma gli esempi negativi che ho citato hanno tutti a che fare con la presenza islamica. Benché problemi di vario genere sorgano anche in rapporto alle attività di altre minoranze, è quella presenza all’origine delle difficoltà maggiori. Non sto alludendo al tema della radicalizzazione pro jihad di giovani islamici (un problema speciale all’interno di un problema più generale). Mi riferisco alla delicata questione della convivenza - impossibile per i pessimisti, comunque difficile per gli ottimisti - fra comunità islamiche e democrazia occidentale. Il problema, nella sua potenziale drammaticità, è semplice. La società libera si fonda sul principio della separazione fra politica e religione, fra economia e religione, eccetera. Ma nell’Islam queste separazioni non hanno senso. Il che spiega perché le moschee (a differenza delle chiese) non siano soltanto luoghi di culto. Ne deriva una tensione inevitabile fra società aperta e comunità islamiche. È plausibile, come molti pensano, che la compatibilità fra Islam europeo e società aperta si realizzerà solo se e quando, un giorno, le donne musulmane, influenzate dall’individualismo occidentale, riusciranno a imporre l’abbandono di vecchie regole e principi. Fino ad allora bisognerà stare in guardia, essere consapevoli che si sta maneggiando materiale radioattivo: non bisognerà cedere alle richieste degli (fin troppo visibili) esponenti fondamentalisti delle comunità islamiche, bisognerà favorire solo i musulmani che abbiano già maturato un atteggiamento favorevole per le libertà occidentali, non bisognerà permettere, per eccesso di zelo, deroghe alle regole della nostra convivenza quotidiana. Si riuscirà a “educare” gli italiani? Si riuscirà a impedire che per un misto di ignoranza, opportunismo e desiderio di quieto vivere, passo dopo passo, permettano l’affermazione di principi incompatibili con la democrazia occidentale? Serve una buona dose di ottimismo per crederlo. Lesbo, l’isola che scoppia di migranti: “in fuga da Assad, arriveremo in tanti” di Niccolò Zancan La Stampa, 23 aprile 2018 Nonostante l’accordo con la Turchia la rotta balcanica è di nuovo aperta. L’anno scorso a marzo c’erano stati 350 arrivi, quest’anno siamo a 1.750. “La stragrande maggioranza dei nuovi profughi sono siriani da Afrin e dalla Ghouta”, dice Medici senza Frontiere. In mezzo all’odore di fogna e carne cotta sulla brace, nell’andirivieni continuo di poliziotti, volontari e venditori di catini di plastica, alle 17,15 di mercoledì 16 aprile un’autoambulanza esce dal cancello militarizzato del campo per richiedenti asilo di Moria. Sulla lettiga c’è un ragazzo afghano di 24 anni, si chiama Ali Mohammad Koshe. Da tre giorni sta male. Respira a fatica. Tutti hanno chiesto aiuto per lui. Ma gli è stato risposto di stare calmi: non ha bisogno di niente. Deve solo bere un po’ d’acqua e riposare. Pensano che stia facendo scena, alle volte succede. Ma Ali Mohammad Koshe sta sempre peggio, crolla a terra. L’autoambulanza adesso si mette in viaggio verso l’ospedale di Mytilene, mentre dallo stesso cancello blindato entra un pullman con gli ultimi 58 migranti sbarcati sull’isola di Lesbo. Mai così tanti - Sono in totale quasi 8 mila per 1800 posti ufficiali. Mai così tanti da quando, due anni fa, l’Unione europea ha firmato un accordo da 6 miliardi di euro con la Turchia per bloccare il flusso dei profughi da questa frontiera d’Europa. Ali Mohammad Koshe sta agonizzando lungo il tragitto, mentre dentro il campo non c’è più posto per i nuovi arrivati. Non c’è nella sezione chiusa con gabbie e filo spinato, quella di identificazione e registrazione. Neppure nel comparto “respingimenti”. Ma non c’è posto nemmeno nelle terza sezione aperta, così come nelle tende e nelle baracche che si sono moltiplicate sulla collina a perdita d’occhio, con tetti di cartone e bagni di fortuna, dove dormono centinaia di bambini. Nemmeno nel vicino centro di accoglienza Kara Tape, quello per le famiglie, trovano un letto. “Ogni giorno arrivano nuove barche” spiega Luca Fontana il coordinatore di Medici Senza Frontiere, che qui sull’isola ha aperto una piccola clinica pediatrica davanti al campo di Moria. “L’anno scorso a marzo c’erano stati 350 arrivi, quest’anno siamo a 1750. Ad aprile la media è di 500 a settimana. Non è chiaro cosa stia accadendo in Turchia. Nessuno ha accesso a quel Paese. Ma quello che sappiamo è che la stragrande maggioranza dei nuovi profughi sono siriani da Afrin e Ghouta”. Anche nel resto della Grecia è così. Alla frontiera dell’Evros, dove si tratta di superare un fiume, i migranti arrivati a marzo sono stati 1658, nello stesso periodo dell’anno scorso erano stati 222. Sta succedendo qualcosa. “È la guerra” dice il professore siriano Jabar Al Kahater, 65 anni, partito da Deir el-Zor e ora arrivato davanti ai cancelli di Moria: “Se si esclude la città di Idlib, tutta la Siria è nelle mani del dittatore Assad. Io ringrazio il presidente degli Stati Uniti Donald Trump per l’intervento militare. Ma ormai è tardi. Dovevate fare di più e prima. Molti stanno fuggendo dalla Siria proprio adesso, altri arriveranno. La Grecia è un Paese povero, ma ci offre rifugio. Non è colpa dei greci se siamo in questa situazione”. Il diritto all’asilo - Dentro il campo di Moria ci sono state proteste, incendi, botte, devastazioni. Tentativi di suicidio. Undici migranti sono stati arrestati nel mese di marzo. Il problema è che non ci sono più posti neppure nelle strutture della Grecia continentale. La burocrazia ha tempi lunghissimi e si scontra con le ragioni di chi arriva. Quasi tutti hanno diritto di asilo. Sono stati meno di 1000 i respingimenti nel corso di questi due anni. E i nuovi arrivati continuano a sommarsi ai 60 mila migranti rimasti intrappolati in Grecia dopo l’accordo che ha chiuso le frontiere. Proprio in questi giorni, una sentenza della Suprema Corte di Atene ha stabilito che d’ora in avanti i migranti avranno diritto di muoversi liberamente sul territorio greco. Non dovranno più essere confinati sulle isole dell’Egeo. Una decisone che contrasta con l’accordo dell’Ue con la Turchia. Questo è solo ciò che si vede. L’altra sponda del mare è impraticabile. Il ministero dell’Interno turco aggiorna i dati. Fra il 13 il 15 aprile, 11 imbarcazioni sono state intercettate. Erano tutti gommoni carichi all’inverosimile. A bordo c’erano 587 migranti, 511 di loro erano siriani. Oggi i trafficanti vendono il viaggio a 300 dollari. Ti danno una camera d’aria gonfiata come salvagente. I gommoni non sono più Yamaha nuovi, ma zattere di fabbricazione artigianale. Anche 100 persone portate in mare con un motore fuoribordo da 30 cavalli. Tutti mettono in conto di dover fare diversi tentativi. “Io ci sono riuscito al quarto passaggio” dice Majd Alelewi, un ragazzo fuggito da Damasco. “I militati turchi ci bucano le barche, buttano via i giubbotti di salvataggio. L’ultima volta ci hanno portato dentro una caserma. Gli afghani li hanno tenuti lì dentro. A noi siriani, dopo una lunga attesa, hanno fatto segno di andare”. E adesso, cosa farai? “Il mio sogno è arrivare in America”. Per la prima volta dall’accordo del 2016, i migranti in Grecia stanno per superare quelli arrivati in Italia: 7437 contro 7540 negli ultimi quattro mesi. La rotta balcanica non è mai stata completamente chiusa. Ma ora i profughi siriani stanno tentando con forza di riaprirla. Quello che trovano a Lesbo, alla frontiera Sud-Est d’Europa, è una situazione miserabile e fuori controllo. Alle 8 di mattina del 17 aprile, dentro il campo di Moria arriva la notizia che Ali Mohammad Koshe è morto. Da fuori senti le urla e i pianti. Un gruppo di afgani, circa trecento persone con donne e bambini, decidono di andare a manifestare davanti al Comune di Mytilene. Sono 12 chilometri di strada, salite e discese. Stanno marciando, adesso. “Freedom, freedom!”, scandiscono in coro. “No Moria!” urlano. Quando ormai è notte, sono ancora accampati nella piazza principale. Hanno montato piccole tende color argento davanti ai bar dei turisti. Prima di coricarsi, sollevano per l’ultima volta la stessa fotografia al cielo. “Koshe!”, gridano tutti insieme in una preghiera rabbiosa. È il nome un ragazzo di 24 anni morto di trascuratezza. Arabia Saudita. Alta tensione a Riad, basta un piccolo drone per un grande allarme di Guido Olimpio Corriere della Sera, 23 aprile 2018 La sparatoria di sabato ha svelato i timori legati a possibili sorprese degli Houti, i guerriglieri sciiti attivi nello Yemen e avversari della coalizione a guida saudita. Per questo un’intrusione è diventata un caso destando attenzione a livello internazionale. Tiri intensi nella notte di Riad, sicurezza in allarme attorno al Palazzo reale, notizie incontrollate, voci persino di un tentativo di golpe. In realtà secondo le fonti ufficiali un piccolo drone si sarebbe avvicinato al grande complesso che ospita il monarca innescando una reazione da parte delle sentinelle. Episodio in apparenza chiuso, forse emergeranno in seguito altri dettagli da un Paese dove non sempre è facile avere dati sicuri. La sparatoria di sabato, però, ci dice alcune cose che va oltre la cornice di questa storia. Intanto la risposta delle guardie. È normale, non si poteva escludere che il velivolo radiocomandato rappresentasse un pericolo. Magari anche solo per un’azione simbolica. Timori legati alle sorprese degli Houti, i guerriglieri sciiti attivi nello Yemen e avversari della coalizione a guida saudita. Nel conflitto, che ha provocato migliaia di vittime - anche tra i civili yemeniti sottoposti a raid aerei pesanti - gli insorti non solo hanno resistito ma hanno cercato di replicare prima usando dei missili terra-terra, quindi dei droni. Nelle ultime settimane hanno lanciato almeno un paio di queste armi volanti nelle regioni meridionali dell’Arabia Saudita, brevi incursioni che hanno destato allarme. In precedenza avevano impiegato dei battelli riempiti d’esplosivo sempre guidati a distanza. Secondo alcuni, mezzi ottenuti dalla ribellione grazie all’assistenza dell’Iran, il rivale storico nel Golfo Persico. Aspetti di una guerra regionale che si somma alle tensioni interne per la “rivoluzione” varata dal principe ereditario Mohammed, con personalità in arresto e prove di forza. Ecco perché un’intrusione diventa un caso destando attenzione a livello internazionale. Nicaragua. Proteste per la riforma delle pensioni, negli scontri 25 morti La Stampa, 23 aprile 2018 C’è anche un giornalista che stava realizzando una diretta Facebook tra i 25 morti nelle proteste contro la riforma delle pensioni in Nicaragua. Il bilancio di cinque giorni di rivolta contro il governo del presidente Daniel Ortega comprende anche 67 feriti, 43 dispersi e 20 arresti, secondo i dati diffusi dal Centro per i diritti umani del Paese centro-americano. Tra le vittime, registrate a Managua e in alcuni comuni vicini, c’è almeno un poliziotto. Angel Gahona, questo il nome del giornalista, stava mostrando in diretta su Facebook gli scontri fra polizia e manifestanti e i danni a una banca della città di Bluefields, sulla costa caraibica, quando è stato centrato da un proiettile. Le immagini lo mostrano a terra, sanguinante. I colleghi hanno accusato la polizia affermando che a colpirlo è stato un tiratore scelto e che gli unici armati erano gli agenti anti-sommossa. Quelle scoppiate mercoledì scorso sono le più gravi proteste in Nicaragua in 11 anni di presidenza dell’ex guerrigliero sandinista Ortega. La riforma delle pensioni si propone di aumentare il costo dei contributi che grava su imprese e dipendenti per colmare il buco di 76 milioni di dollari del sistema pensionistico. Nel mirino della dura repressione della polizia sono spesso finiti i giornalisti a cui è stata sequestrata l’attrezzatura. Ortega sabato si è offerto di avviare un negoziato con il settore privato ma le imprese hanno chiesto che prima cessi la repressione della polizia. Yemen. Un’emergenza umanitaria nell’emergenza: la condizione degli emigranti africani lanuovabq.it, 23 aprile 2018 Emigranti, rifugiati e richiedenti asilo africani continuano a raggiungere le coste dello Yemen, nonostante che tre anni di guerra abbiano trasformato il paese in un inferno per i civili, vittime di una delle più gravi emergenze umanitarie del pianeta. Più di 50.000 emigranti provenienti dalla Somalia e dell’Etiopia sono arrivati nel paese nei primi otto mesi del 2017. In tutto attualmente lo Yemen ospita circa 281.000 rifugiati e richiedenti asilo. Dal 2015, da quando cioè è iniziata la guerra civile, sia il governo che i ribelli Huthi hanno riservato a molti emigranti un pessimo trattamento, hanno rifiutato di proteggerli e non hanno permesso che avviassero le procedure per la richiesta di asilo. Inoltre hanno organizzato deportazioni di massa in condizioni pericolose e li hanno esposti ad abusi. È quanto emerge dai rapporti pubblicati nei giorni scorsi dall’ong Human Rights Watch e dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati. HRW riporta testimonianze di torture, stupri ed esecuzioni inflitte da impiegati governativi a uomini e donne detenuti in un centro di raccolta di Aden. Ex detenuti hanno raccontato all’ong che i sorveglianti li picchiavano con spranghe e bastoni, li frustavano, li prendevano a calci e pugni, minacciavano di ucciderli o deportarli, abusavano di loro sessualmente. Li derubavano del denaro, degli oggetti personali e dei documenti forniti dall’Acnur. I sorveglianti maschi costringevano le donne a togliersi niqab e velo. Abusavano sessualmente di donne, ragazze e ragazzi. I ragazzi li andavano a prendere di notte: “ogni notte - raccontano gli ex detenuti - ne prendevano uno per violentarlo. Non tutti, sceglievano solo i più piccoli”.