Chi resta in gabbia di Arianna Giunti L’Espresso, 22 aprile 2018 Prigionieri in preda a crisi psichiatriche, segregati illegalmente in una cella. E malati di schizofrenia abbandonati a se stessi, dimenticati da quello stesso Stato che dovrebbe garantirne le cure. Disabili mentali in attesa di un posto letto, costretti a vagare da una comunità all’altra. Un anno fa esatto anche l’ultimo degli ospedali psichiatrici giudiziari è stato spazzato via per sempre. Al posto degli Opg sono nate le Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture più piccole che hanno eliminato quasi del tutto l’uso di mezzi contenitivi sui pazienti. Una rivoluzione gentile, che avrebbe dovuto cambiare per sempre il destino dei “folli rei”, i malati di mente che hanno commesso un reato. Oggi però la situazione in Italia sembra già sull’orlo del collasso. I numeri parlano chiaro: per 604 persone collocate all’interno delle Rems, altre 441 in questo momento sono in attesa di un posto. Quarantuno di loro si trovano illegittimamente dietro le sbarre, senza una pena da scontare. Si tratta di una lista che aumenta ogni giorno, secondo i dati ottenuti da l’Espresso. “Una situazione esplosiva”, confermano senza tanti giri di parole dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Colpa soprattutto denunciano i garanti regionali dei detenuti - della troppa facilità con la quale i giudici dispongono i trasferimenti “preventivi” nelle Rems, anche in assenza di condanna. E così i posti letto nelle strutture psichiatriche diventano ambitissimi, trasformandosi in un appetitoso business che ingolosisce Regioni e sanità privata. Eppure in questi ultimi 4 anni l’Italia ha compiuto uno sforzo innegabile. L’abisso di disperazione dei manicomi criminali, sovraffollati e fatiscenti, ha lasciato il posto a strutture con una media di 20 ospiti. Case di cura che dopo l’approvazione della legge 81 del 2014 devono accogliere - per periodi che vanno da un minimo di 6 mesi al massimo di 10 anni - gli autori di reati giudicati infermi o semi infermi di mente, anche socialmente pericolosi. Delle 28 strutture presenti in tutta Italia, però, oggi soltanto 4 sono definitive. In alcune regioni, le Rems sono nate dalle ceneri dei vecchi Opg. Così è successo a Castiglione delle Stiviere, che con i suoi 160 internati (140 uomini e 20 donne) è la struttura più grande d’Italia. Un notevole passo avanti è stato fatto anche in Sicilia. Qui le strutture di Naso (Messina) e Caltagirone hanno sostituito il vecchio ospedale giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, diventato simbolo del degrado e della sofferenza dei pazienti. Ma insieme a edifici all’avanguardia provvisti di spazi verdi, laboratori e aree ricreative, resistono strutture che assomigliano a piccole carceri. Come denuncia Stefano Cecconi promotore del Comitato Stop Opg, che oggi vigila sul funzionamento delle Rems. La situazione più critica è in Lazio: nella Rems di Subiaco il portone è controllato con il metal detector, c’è l’obbligo di consegnare telefonini, documenti e borse. La zona d’aria è tappezzata da sbarre fino al soffitto, tanto che è stata ribattezzata “la gabbia”. A Pontecorvo, nel Frusinate, il corridoio è attraversato da un reticolo d’acciaio che oscura il cielo. A Palombara Sabina, gli internati prendono aria in una terrazza completamente blindata. “Questi pesanti dispositivi di sicurezza”, spiega Ceccon, “hanno un influsso negativo sulla psiche dei pazienti”. E poi c’è l’aspetto della sicurezza interna. In alcune strutture - per una ragione di spazi e costi - malati psichiatrici non pericolosi si ritrovano a stretto contatto con pazienti di natura violenta. Succede per esempio a Vairano Patenora, nel Casertano, dove i pazienti della Rems vivono fianco a fianco con gli ospiti della Sir, struttura intermedia di riabilitazione psichiatrica convenzionata con il Comune. Qui lo scorso febbraio uno di loro, Pasquale Di Federico, 46 anni, è stato trovato in fondo a una rampa di scale, gravemente ferito alla testa. È morto dopo un mese di agonia. Ora la Procura di Santa Maria Capua Vetere sta indagando per capire se si sia trattato di un incidente o di un omicidio. E si che il fondo di Stato messo a disposizione nel 2012 per l’adempimento della legge 81/2014 sul superamento degli ospedali giudiziari - che prevedeva la nascita di strutture all’avanguardia in termini di sicurezza - non è cifra da poco: 174 milioni di euro. Ogni struttura è costata in media 2,5 milioni di euro. E poi ci sono le spese quotidiane degli internati. La retta giornaliera per ogni paziente - che comprende vitto, alloggio, tarmaci ed esami clinici - varia tra i 190 e i 450 euro. Le Rems dipendono dal Ministero della Salute e sono supervisionate dalle Asl regionali che ne gestiscono i fondi. Costi che impennano soprattutto quando si tratta di sistemare i “pazienti fuori territorio”. Se non ci sono Rems libere nelle vicinanze, le Asl devono infatti collocare gli internati in un’altra regione sobbarcandosene il costo. Spesso maggiorato. A Castiglione delle Stiviere, per esempio, la tariffa per i “forestieri” è di 500 euro al giorno. Per mettersi in regola con la nuova legge, quindi, alcune regioni hanno dovuto accelerare i tempi e creare dal nulla nuove strutture. E qualcuno avrebbe cercato di approfittarne. Un’inchiesta portata avanti dalla Procura di La Spezia, per esempio, sta facendo luce sul giro d’appalti per la Rems di Calice al Cornoviglio, piccolo Comune ligure al confine con la Toscana. Secondo gli inquirenti, l’ex consigliere regionale di Forza Italia Luigi Morgillo avrebbe fatto pressioni per aggiudicarsi l’appalto per il conto termico della struttura in costruzione, che dovrà affiancare l’unica Rems già presente in Liguria, a Genova. Perennemente satura. Così, spesso, in soccorso di una sanità pubblica in affanno ecco che arriva quella privata. Succede per esempio in Piemonte. A Bra, alle porte di Cuneo, nel 2015 la clinica San Michele di proprietà della famiglia Patria è stata accreditata dalla Regione per ospitare un intero reparto dedicato alla Rems, che oggi accogliel8 persone. Per ogni paziente la Regione rimborsa 295 euro al giorno, cifra che viene pagata al 60% se il paziente si trova fuori sede. A conti fatti, sono circa 159mila euro al mese. La struttura è una piccola oasi: ci sono coloratissime aule per il disegno e per la pittura, si organizzano corsi di equitazione, teatro e gite in montagna. Il più giovane degli internati ha 19 anni ed è accusato di omicidio. Non ci sono sbarre, a impedire le fughe, ma grate. Ed è presente un servizio di vigilanza interna attivo 24 ore al giorno. Stessa retta - 295 euro - anche alla clinica privata Antonio Martin di San Maurizio Canavese. Qui gli internati sono venti: il giro d’affari è di circa 177mila euro al mese. Ma le oasi private si trovano anche al centro sud. La Rems di Montegrimano, alle porte di Pesaro, ospita al costo di 300 euro al giorno 19 persone, sforando di qualche unità il numero chiuso. A occuparsene è il Gruppo Atena presieduto dall’imprenditore Ferruccio Giovanetti, che guida un piccolo impero di strutture sanitarie distribuite fra Marche e San Marino. Mentre la Rems calabrese di Santa Sofia d’Epiro (Cosenza), attualmente ospita 20 internati al costo di 190 euro ed è convenzionata con la Onlus “Il Delfino”, titolare della gestione di altre 7 cliniche specializzate nella cura dei malati psichiatrici e tossicodipendenti e nell’assistenza ai minori immigrati. Infine, ci sono le comunità private che accolgono le persone che non trovano posto altrove. Secondo le stime dei garanti regionali dei detenuti, al momento sono circa duecento quelle in attesa di Rems provvisoriamente prese in carico da strutture protette accreditate. Qui i costi giornalieri variano dai 160 ai 250 euro a paziente. Un giro d’affari in vertiginosa crescita, ma di cui non esistono dati certi. A sottolineare questa mancanza di trasparenza è il Commissario unico per il superamento degli Opg Franco Corleone: “Manca del tutto una informazione chiara rispetto al luogo dove le persone destinatarie delle misure di sicurezza si trovino se non ci sono posti liberi nelle Rems”, scrive Corleone nella sua ultima relazione, “non conoscendosi questo dato, non si riesce a stabilire se si tratti di luoghi di cura propri o impropri”. L’unica cosa certa è che la lista dei “folli rei” che aspettano di entrare nelle Rems si ingrossa giorno dopo giorno con una curva sempre crescente, anche di 50 unità a settimana. Oggi siamo a quota 401. Quarantuno di loro si trovano dietro le sbarre, 15 in Lazio, 7 in Campania, 4 in Lombardia, 2 in Puglia. Alcuni sono ricoverati nei Centri di osservazione psichiatrica, piccoli reparti ospedalieri interni alle carceri. Altri si trovano nei centri clinici, sottoposti a pesanti trattamenti farmacologici. La maggior parte di loro è rinchiusa in celle comuni. Paolo Pasquariello, 40 anni, si trova parcheggiato a Regina Coeli ormai da un anno. di gravi disturbi deliranti. Il giudice ha revocato la custodia cautelare in carcere e ne ha ordinato il trasferimento in una Rems, ma non c’è posto. E allora dal carcere si rifiutano di liberarlo. “Non esiste una motivazione giuridica per cui debba essere trattenuto in cella”, tuona il suo legale Simona Filippi, che promette battaglia davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, “quello che sta succedendo va oltre la legge”. A San Vittore Massimiliano Spinelli, 46 anni, è stato rinchiuso illegalmente per quasi un anno. Assolto dai giudici per incapacità di intendere e di volere ma ritenuto socialmente pericoloso, è rimasto in custodia cautelare nonostante non avesse nessuna pena da scontare. C’è voluta tutta la costanza dell’avvocato Giulio Vasaturo, invece, perché Alessandro Cassoni, 24 anni, malato di epilessia, affetto da problemi psichiatrici gravissimi e con tendenze suicide, riuscisse dopo 4 mesi a essere scarcerato dalla Casa lavoro di Vasto per essere finalmente trasferito in una Rems. “Si tratta di persone che si trovavano già in custodia cautelare e che sono state valutate come socialmente pericolose: se non si trova posto nelle Rems non possiamo lasciarle liberei ribatte il direttore generale dei detenuti del Dap Calogero Piscitello. Uno di nodi fondamentali, spiegano dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, è l’assenza di coordinamento livello centrale che stabilisca una sorta di “graduatoria”, in base alla pericolosità sociale, per chi debba entrare per primo in una Rems in caso si liberi u posto. E così gli ingorghi aumentano. Quasi la metà di loro, inoltre - 208 su 604 - è dentro in via provvisoria, in ai senza di condanna. Per il Garante di diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, si tratta di una grave responsabilità da parte di alcuni giudici: “si dispone il ricovero nelle Rems troppo facilmente, senza valutare percorsi di terapia alternativi sul territorio”. Del resto la rete dei servizi sociali per la carenza di mezzi e risorse spesso non riesce nel suo intento: un paziente su dieci, una volta libero, fallisce nel percorso di recupero. E tutto ricomincia. Trattativa Stato-Mafia, depistaggi e vittime di un ventennio di Antonella Beccaria Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2018 Andiamo all’inizio. Anzi, a una fine che è un inizio della trattativa tra lo Stato e la mafia. Andiamo al 30 gennaio 1992, il giorno in cui la Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarebbero potuti partire da qui per colpire anche i referenti istituzionali di Cosa Nostra. Successe altro, invece, nel densissimo periodo che seguì, venne costruita, anello dopo anello, una catena di fatti. Alcuni sono noti. Tra questi, il ministro Calogero Mannino, nel febbraio, parlò a un maresciallo dei carabinieri, Giuliano Guazzelli, poi assassinato il 4 aprile successivo. Gli disse: “Ora uccidono me o Lima” e a essere ammazzato fu, il 12 marzo, il secondo, Salvo Lima, luogotenente del potere andreottiano sull’isola. Ne seguì un’allerta che raccolse le parole di una fonte confidenziale secondo cui politici di primo piano erano a rischio attentato. Criminalità organizzata, certo, era la matrice delle minacce, ma non solo. Si parlava anche di destabilizzazione. Prodromi di una Seconda Repubblica. Pataccari presunti. Termini che richiamavano gli anni cupi che, tra i Settanta e gli Ottanta, avevano segnato una lunga scia di sangue nelle banche, sui treni o nelle stazioni. Nei Novanta, invece, si puntava su uomini di partito. Dc, Psi e Pds, sorto dopo la svolta della Bolognina dalle ceneri del Pci. E tornava un altro termine, fin troppo esplicito: stragi. Vicine, vicinissime, da compiersi entro il luglio 1992. Possibile? Macché, è una “patacca” e chi lo sosteneva era un “pataccaro”. Parola dell’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti, nel mirino tanto quanto Mannino e un altro ministro, Carlo Vizzini. Tutto falso, dunque, per l’uomo che, per la settima - e ultima - volta occupava la poltrona più alta di Palazzo Chigi. Eppure le stragi si verificarono: il 23 maggio a Capaci e il 19 luglio a Palermo, in via D’Amelio, e spazzarono via Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, la moglie del primo magistrato e le rispettive scorte. E allora? La “patacca” era tale o no? Nuovo salto indietro, breve. Focus sul “pataccaro”, che ha un nome e un cognome. Si tratta di un detenuto, rinchiuso nel carcere di Sollicciano dal dicembre 1991. Si chiama Elio Ciolini e ha una storia da depistatore. Esattamente dieci anni prima, infatti, ha iniziato a parlare della strage alla stazione di Bologna avvenuta il 2 agosto 1980 (85 morti e oltre 200 feriti). Entra in scena quando un altro depistaggio - che va sotto l’espressione “Terrore sui treni” - fallisce trascinando con sé gli ufficiali del Sismi in odore di P2 di Licio Gelli, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte. Con loro, la terra frana sotto i piedi di Francesco Pazienza, il consulente del direttore del servizio, il generale Giuseppe Santovito, anche lui nelle liste P2. Quando “Terrore sui treni” si rivela davvero una patacca destinata, nelle intenzioni, a indirizzare le indagini verso la pista internazionale già indicata da Gelli, ecco che spunta Ciolini. Secondo cui il massacro di Bologna sempre all’estero deve guardare, sempre alla manovalanza neofascista attinge, sempre alla P2 - la cui ombra viene esasperata fino a diventare una maxi Spectre che avvolge un pezzo del pianeta - deve richiamare per comprendere la matrice della strage. È una patacca, stavolta sì. Perché, come ogni buon depistatore, Ciolini mischia ampie fette di realtà a frammenti - talvolta marginali, ma non per questo meno tossici - di menzogne. Smascherato e condannato. Ma Ciolini, che prima di finire a Sollicciano sparisce e trascorre un periodo di latitanza in America Latina, conosce i fatti e sa dosare verità e menzogne. Come fa? Non si sa. Come non si sa l’origine di ciò accade nel carcere toscano. Perché qui, a inizio marzo, prima del delitto Lima, il depistatore si rivolge al giudice istruttore di Bologna che si sta occupando dell’Italicus bis, Leonardo Grassi. È lui che - con uno stile gotico non di semplicissima interpretazione - “prevede” la morte del luogotenente andreottiano Lima, gli omicidi di altri esponenti politici e le stragi. Il tutto compreso tra marzo e luglio 1992, quando ripartirà una nuova stagione della strategia della tensione. Il giudice Grassi, quando legge le parole di Ciolini, sua vecchia conoscenza, le bolla per primo come patacche. Poi, però, a Mondello, Lima muore ammazzato e allora le parole di Ciolini vengono trasmesse a Roma e rimbalzano a tutte le questure d’Italia. Il nome della fonte viene tenuto riservato e, fino a quando riservato lo rimane, l’allerta è elevata. Poi, nella seconda metà di marzo, misteriosamente quel nome finisce alle agenzie di stampa senza che a tutt’oggi si sappia perché e succede il finimondo. Un finimondo volto a screditare l’allarme e partorire la tesi - che funziona alla perfezione - della “patacca” e del “pataccaro”. Il quale, tuttavia, stavolta ha ragione: le stragi ci sono davvero, una dopo l’altra, e proseguono anche nel 1993, seguendo quanto il “pataccaro” dice. Come ha fatto un detenuto, un depistatore, a sapere in anticipo della stagione di bombe e sangue in anticipo? Non si sa, a tutt’oggi non c’è risposta. Guai a mettere mano agli affari di Stato. Si sa invece cosa dissero e cosa fecero altre due persone che, a un certo punto, della trattativa Stato-mafia si occuparono negli anni successivi e che per questo pagarono. Il primo era un ex mafioso, già esponente di spicco della famiglia di Caltanissetta, che per un soffio non è diventato collaboratore di giustizia (lo uccisero appena prima). Si chiamava Luigi Ilardo. Il secondo, invece, è un colonnello dei carabinieri formatosi alla scuola del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa negli anni del terrorismo. Fu lui che iniziò a seguire Ilardo e che, dopo l’omicidio dell’ex boss, finì per pagare con il carcere e con una condanna l’aver messo il naso in affari di Stato. Il suo nome è Michele Riccio. Ilardo fu assassinato il 10 maggio 1996 a Catania e dall’ottobre precedente le sue confidenze avevano consentito a Riccio di mettersi sulle tracce del boss latitante Bernardo Provenzano conducendolo fino a Mezzojuso, nel palermitano, dove si nascondeva. Perché questa storia c’entra con la trattativa? Perché i vertici del Ros dei carabinieri furono accusati di aver fatto sì che l’operazione per l’arresto di Provenzano saltasse consentendogli di collezionare un altro periodo di latitanza, fino all’11 aprile 2006 (due lustri dopo dopo l’omicidio di Ilardo), e di totalizzare complessivamente 43 anni da uccel di bosco. Il colonnello Michele Riccio, uscito gioco forza di scena Luigi Ilardo, rimase il grande accusatore dell’allora capo del Ros, il prefetto Mario Mori, condannato in primo grado a 12 anni di reclusione. Riccio, come accennato, veniva dalla lotta al terrorismo, fin dagli anni delle bombe di Savona, tra il 1974 e il 1975. In base alle confidenze di Ilardo, stese il rapporto “Grande oriente”, ma si rese conto che, all’interno del Ros, qualcosa non funzionava. Non si fermò, andò avanti, senza guardare in faccia nemmeno ai colleghi, compresi quelli più alti in grado. Però, morto l’ex mafioso, nel 1997 venne arrestato con l’accusa di aver svolto in Liguria indagini disinvolte sul traffico di stupefacenti. In un periodo in cui il colonnello era spesso altrove. La storia passa, appunto, anche - o forse soprattutto - da vicende misconosciute, come quelle raccontate sopra. Ma il fatto che siano misconosciute non significa che siano meno importanti. Importante è la profezia mai spiegata di un detenuto che anticipa fatti reali, ma che sembra farlo con lo scopo di farli sbertucciare, come se fosse un grande gioco ad andare oltre. E a maggior ragione lo sono vicende come quelle di Ilardo e del colonnello Riccio, che avrebbero potuto riscrivere un pezzo di storia d’Italia, ma che - forse - tentarono di farlo troppo presto. E che per questo pagarono un prezzo altissimo. La sentenza di Palermo pronunciata di ieri per certi versi ha fatto giustizia anche su questo. Il nemico esiziale della politica e della burocrazia? le riforme di Alessandro De Rossi Ristretti Orizzonti, 22 aprile 2018 Il ministro Andrea Orlando, come gli altri, in campagna elettorale pur parlando relativamente poco di programmi, ci ha invece fatto credere che la condizione dei penitenziari è oggi abbastanza accettabile e sostanzialmente sotto controllo. Peccato che i suicidi in carcere sono sempre troppi e che l’indice di affollamento reale non è quello ufficialmente dichiarato ma ancora molto, molto diverso e lontano dalla realtà. I casi sono due: o il ministro non gode di dati aggiornati o non vuole spaventare gli italiani descrivendo lo stato reale delle cose. Ambedue le preoccupanti ipotesi non ci sembrano all’altezza della situazione. Di nuovo dobbiamo interrogarci sui criteri con i quali la politica, attraverso l’amministrazione statale, sceglie, decide, si pronuncia in presenza di situazioni altamente drammatiche che riguardano le carceri in Italia. Giusta, e lo ripetiamo ancora con convinzione, la decisione fatta a suo tempo di promuovere gli “Stati generali dell’esecuzione penale”. Ma questo non basta Onorevole Ministro. Meno giusto l’ambiguo “percorso” successivo che in certi ambiti più ristretti, tra discussioni, lotte interne, proclami e contestazioni ha visto partorire l’idea del “nuovo” carcere di Nola. Un progetto sul quale abbiamo avuto modo di discuterne l’evidente obsolescenza progettuale verificando che la concezione di base, nata purtroppo già vecchia, con cifre stratosferiche di costruzione e di futura pessima gestione. Vetrate blindate, brise soleil, frangisole a gogò, organizzazione funzionale tardo-ottocentesca ma con tanta demagogia coperta dal solito vetusto “politically correct”, quello ben noto di una obsoleta sinistra in cachemire che tanto male ha fatto al pensiero democratico e riformatore. La domanda viene spontanea: chi decide queste soluzioni aberranti? Chi sceglie colui (o colei) che deve decidere simili aberrazioni? Saremmo ben curiosi di sapere quali siano i criteri di valutazione, se esistono, che hanno portato talune figure professionali a coordinare tavoli, meeting, convegni, simposi, conferenze e altre pubbliche manifestazioni dedicate alla (loro) più recente scoperta di una necessaria “riflessione” sulle carceri? Saremmo soddisfatti se almeno una delle teste responsabili, al di là delle amicizie e dei cognomi importanti anche se (ufficialmente) non pagata, avendo scoperto di recente queste problematiche, ci dicesse il perché di questi subitanei interessi verso l’architettura penitenziaria pur non avendo la necessaria pratica consolidata da anni in questo specifico settore. Quali titoli abbia acquisito o quali altre motivazioni “umanitarie” l’abbiano spinta a preoccuparsi di una così specialistica attività professionale. I ponti crollano per i calcoli sbagliati o perché costruiti male. Le carceri invece non funzionano perché troppe sono le deficienze informative di base che dovrebbero essere fondamento di un corretto approccio culturale teso ad una corretta progettazione e gestione. Gli istituti italiani nella maggior parte dei casi sono tutti fuori norma. Ed è l’intero patrimonio edilizio che occorre ripensare. Appunto: “ripensare”. Ma per questo ci vorrebbe un pensiero, una cultura, l’esperienza e una informazione vasta. Le improvvisazioni di norma non danno buoni risultati. I ponti crollano e le carceri scoppiano. Mi viene sempre più un sospetto: ormai si sa quasi tutto per promuovere una vera riforma dell’esecuzione penale. Sono piene le biblioteche italiane e straniere di libri, manuali, idee perché ci si possa adeguatamente informare, se necessario, sul modo come risolvere questa insostenibile situazione. Ogni giorno si fanno convegni tra esperti che tra loro si parlano, si confrontano e discutono sulle misure migliori da adottare per attuare riforme. Tutto è da tempo profondamente noto. La domanda è: perché non si fa? Il sospetto sempre più forte è che una volta instradata la soluzione dei problemi, il gigantesco apparato politico burocratico che governa e amministra, a riforme fatte di che si occupa? *Presidente Commissione diritti della persona privata della libertà - Fidu Federazione Italiana Diritti Umani Velletri (Rm): detenuto italiano di 77 anni muore dopo il ricovero in ospedale ilmamilio.it, 22 aprile 2018 Per l’uomo inutile l’intervento dei medici. I sindacati denunciano ancora le cattive condizioni del carcere di contrada Lazzaria. Nella notte tra sabato 21 e domenica 22 aprile 2018 un detenuto italiano di 77 anni è stato trasportato d’urgenza con l’ambulanza presso il Pronto Soccorso di Velletri per presunto infarto in corso. Il detenuto è stato immediatamente visitato e preso in cura da una equipe di medici e paramedici che costatando la gravità del caso attivavano tutte le procedure salva vita. Foggia: carcere, luci e ombre nel rapporto di Antigone foggiacittaaperta.it, 22 aprile 2018 “Quello di Foggia è il secondo istituto penitenziario della Puglia per grandezza. Il sovraffollamento resta il problema principale, insieme alle scarse opportunità lavorative. Al momento della visita risultano solo 85 detenuti lavoranti (tutti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria) su un totale di 519 detenuti. Per quanto riguarda il lavoro all’esterno, risulta difficile individuare spazi occupazionali in un territorio già di per sé caratterizzato da un alto tasso di disoccupazione. Alcuni detenuti riescono ad accedere a misure alternative grazie ad offerte di lavoro provenienti dalla sfera familiare o amicale”. Inizia così la scheda che descrive la Casa Circondariale di Foggia consultabile all’interno di “Un anno in carcere”, il rapporto di Antigone sulle condizioni carcerarie in Italia giunto quest’anno alla 14esima edizione. Il dossier è stato presentato qualche giorno fa a Roma dall’associazione che proprio nel 2018 celebra un anniversario importante: sono vent’anni, infatti, che Antigone è autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare i 190 Istituti di pena italiani. Ed oggi sono oltre 70 le osservatrici e gli osservatori dell’associazione autorizzati a entrare nelle carceri con prerogative paragonabili a quelle dei parlamentari. Fra le strutture visitate, anche quella in Via delle Casermette costruita nel 1978 che “necessita di interventi di ristrutturazione in varie parti, sia interne ai reparti detentivi (ad esempio la chiesa e l’area ex lavorazioni) sia per quelle destinate agli uffici, dove gli impianti elettrici e gli infissi risultano fatiscenti. La mancanza di risorse non consente di attivare progetti di ristrutturazione radicale nel breve-medio periodo”. La situazione in Via delle Casermette. La fotografia che viene fuori dal rapporto di Antigone, dunque, presenta degli alti e dei bassi. Come l’annosa questione del sovraffollamento che, a leggere il dossier, è registrata nella maggior parte delle strutture visitate. A Foggia, per esempio, a fronte dei 349 posti regolari, al momento della visita degli osservatori di Antigone erano presenti 519 detenuti, di cui 18 donne, 86 stranieri e 255 definitivi. Ed è proprio questo uno dei nodi rilevati: “La realtà di Foggia si conferma complessa per le variegate tipologie di detenuti presenti ai quali destinare le attività: ad esempio, la presenza di detenuti con condanne definitive in tutti i reparti rende difficile realizzare attività uguali per tutti”. Bene attività sociali e culturali. Alle osservatrici e agli osservatori di Antigone, però, non è sfuggita la dinamicità culturale e sociale attiva all’interno del penitenziario foggiano. Merito delle tante iniziative promosse dalle associazioni di volontariato e non, che vengono citate nella scheda. “Vanno senz’altro rilevate le numerose proposte progettuali, finanziate sia da enti pubblici che privati”. A partire da quelle animate dal Centro di Servizio al Volontariato di Foggia, dai numerosi progetti sportivi avviati da Luigi Taglienti, dalla presentazioni dei libri alla presenza dell’autore, dall’attività formativa offerta dal Centro Provinciale Istruzioni degli Adulti o da quella educativa avviata dal gruppo Cinofilo Dauno. Dove probabilmente occorrerebbe fare di più, risorse permettendo, è nella formazione professionale in quanto “per i detenuti dei reparti maschili non sono attualmente attivi corsi di formazione con conseguimento di qualifica finale”. Brescia: “il futuro del carcere”, lettera della Fp-Cgil Corriere di Brescia, 22 aprile 2018 La Segretaria della Fp-Cgil di Brescia, Francesca Baruffaldi ed il Coordinatore Regionale della Fp-Cgil Polizia Penitenziaria Calogero Lo Presti hanno chiesto un incontro al Sindaco di Brescia, Emilio Del Bono, per avere informazioni precise in merito alla costruzione del nuovo penitenziario a Brescia. Purtroppo, ad oggi, un nuovo carcere è stato solo un miraggio, un progetto giacente in qualche cassetto del Ministero. Nel frattempo il “Nerio Fischione” scoppia. I dati sono allarmanti, la popolazione detenuta ha un trend sempre più in aumento, ad oggi sfiora i quattrocento detenuti a fronte di una tolleranza di 206 posti letto. La Polizia Penitenziaria continua a soffrire la cronica carenza di personale, che ad oggi supera le 60 unità. I poliziotti in servizio sono particolarmente stressati ed esausti per i carichi di lavoro ma anche per la difficile gestione di taluni soggetti detenuti avversi al rispetto delle regole. Sicuramente la realizzazione di una nuova struttura abbasserebbe il numero di eventi critici tra i detenuti e permetterebbe delle migliori condizioni di vivibilità. Quelle lavorative comprese. Catanzaro: il carcere attento ai bambini lagazzettareggina.it, 22 aprile 2018 Raccontare il carcere ai bambini diventa difficile eppure molti di loro devono conoscere precocemente questa realtà e frequentarla per incontrare i genitori, i nonni, i fratelli, gli zii. Diventa quindi importante un approccio corretto con questo mondo sia per evitare veri e propri traumi sia per una reale educazione alla legalità. Queste idee sono alla base delle iniziative volute dalla direttrice del carcere di Catanzaro Angela Paravati, sia per valorizzare il ruolo della genitorialità nel percorso di recupero dei detenuti, sia per la tutela delle famiglie. L’Associazione Universo Minori, presieduta da Rita Tulelli, e la Casa Circondariale hanno avviato delle attività per una corretta percezione da parte dei bambini figli di detenuti di questo “quartiere chiuso” che vuole essere un servizio sociale. Giovedì 19 aprile, Jessica Scalise, Pamela Critelli, Rotundo Tiziana e Ianchello Jessica, dell’associazione Gaia, sostenuta dall’Associazione Universo Minori, all’interno della struttura di Siano e in modo assolutamente gratuito per l’Istituto penitenziario, hanno avviato laboratori creativi per far trascorrere utilmente ai piccoli il tempo con i genitori. Infatti se da un lato la conoscenza del carcere contribuisce a ridurre le barriere culturali che fanno del carcere un mondo a parte, per altro verso incide sul processo formativo dei ragazzi affinché tocchino con mano il significato del violare la legge e della conseguente punizione. Nello specifico saranno realizzati laboratori linguistici e artistici, incentrati sulle favole e sulle abilità figurative, in un certo senso paralleli ai laboratori di scrittura e artistici per adulti che vengono tenuti all’interno del carcere da anni. L’obiettivo è educare ad una legalità positivamente accolta e interiorizzata per prevenire la devianza. Avezzano (Aq): le foto in cella per raccontare libertà Ansa, 22 aprile 2018 Progetto “Inforidea Idee in Movimento” con las Casa circondariale di Avezzano. La fotografia in carcere per formare e per analizzare, con gli stessi detenuti, i difficili equilibri tra libertà e legalità, sono il filo conduttore e il tema del progetto fotografico “Luci e Ombre” di Inforidea Idee In Movimento in collaborazione con il Ministero di Giustizia e il carcere di Avezzano. “L’idea - spiega Cristina Mura, responsabile del progetto - oltre ad avere come uno degli obiettivi l’insegnamento della professione di fotografo ai reclusi del carcere, ha anche come finalità la realizzazione di un reportage fotografico narrativo che verrà prodotto non solo dagli stessi reclusi, ma anche da un nostro gruppo di allievi della scuola di fotografia”. Il progetto è in fase avanzata e i promotori stanno selezionando gli scatti migliori. Alla fine saranno realizzate due mostre: la prima ad Avezzano, che sarà inaugurata sabato 9 giugno alle 16,30, e la seconda a Roma da martedì 3 luglio alle 16,30. Contestualmente alle mostre fotografiche saranno organizzate delle tavole rotonde in cui verranno invitate personalità che, per esperienza e professionalità, si occupano di legalità e del mondo carcerario. Infine sarà pubblicato un libro fotografico-narrativo. “Quest’anno ricade il 70esimo anniversario della Costituzione italiana - conclude Mura - e il messaggio che vorremmo ricreare all’interno di questo progetto fotografico, in rapporto anche alle leggi della nostra Costituzione, è la relazione tra l’uomo e il valore di libertà e legalità che sarà il tema di tutto il percorso in cui gli stessi allievi saranno protagonisti e fautori. La fotografia diventerà solo lo strumento, il mezzo per dare incipit, a chi lo vorrà, di mettersi a nudo e di far emergere anche un suo lato diverso e creativo, dando così nuovi spunti di confronto sul tema”. Bari: poesia e narrativa entrano nel carcere minorile Corriere del Mezzogiorno, 22 aprile 2018 Cinque edizioni di un caffè letterario possono sembrare poche per un bilancio. Sono molte, moltissime, se si tiene conto del contesto in cui si tengono. Il carcere minorile Fornelli di Bari e la casa circondariale F. Rucci sempre a Bari. È il “Caffè Ristretto”, che fin dal nome dichiara la sua collocazione e la scelta sociale che lo ispira. Portare i libri tra le sbarre, farli planare nelle vite detenute, riempire vuoti di riflessioni o di pentimento, di sogni o evasioni fantastiche raccontare, che esiste un altro modo di vivere, che tra le pagine dei libri si possono trovare risposte a domande che a volte fanno tremare i polsi. L’idea di Teresa Petruzzelli che ha progettato e curato le edizioni del Caffè è quella di tanti che da tempo lavorano nelle carceri italiane. Cioè la possibilità di fornire ai detenuti strumenti di comprensione non solo di quello che hanno fatto, ma di una realtà esterna che prima o poi dovranno riaffrontare. Si spera, su basi diverse da quelle che li hanno portati in quei luoghi. Una iniziativa che rifugge dal glamour e dalle passerelle mediatiche, e che ha coinvolto nel tempo numerosi scrittori, giornalisti, attori operatori sociali, quest’anno nella prima fase Francesca Palumbo e Alessio Viola, e che continua a svolgersi grazie al finanziato dall’Assessorato alle politiche giovanili del Comune di Bari e al Cpia 1, il centro provinciale per l’istruzione degli adulti. Il progetto “Caffè Ristretto” è continuamente alla ricerca di nuovi interlocutori sociali, che abbiano un ruolo attivo e “pedagogico”, inteso come cambiamento di una realtà spesso stantia attanagliata dai luoghi comuni e dallo stigma. Di concerto con la programmazione scolastica penitenziaria i detenuti possono partecipare attivamente anche quest’anno a laboratori, letture e sollecitazioni teatrali: percorsi tematici per veicolare valori di legalità, integrazione e relazione, in una sorta di viaggio immaginario fuori/dentro che è anche un viaggio fuori e dentro di sé. “Caffè ristretto” vuole essere un intervento educativo strutturato, coordinato e coerente per un percorso di osmosi culturale e artistica tra il dentro e il fuori, che coinvolga soggetti di ogni impegno civile e culturale. Un’agorà aperta al confronto, diretto e attivo, su temi e problematiche generati dalla letteratura. Altra caratteristica del progetto è la stretta e indispensabile collaborazione con le autorità penitenziarie. La sensibilità dei dirigenti e degli operatori ne fa degli interlocutori primari. La vita dietro quelle mura è difficile e dura anche per loro, il Caffè non è una operazione di separazione ma piuttosto sto un tentativo di trovare linguaggi condivisi nei limiti delle possibile fra chi è detenuto e chi quella detenzione garantisce per conto della collettività. Cosa che fa di questo Caffè un esperimento prezioso. I libri forse non salvano le vite ma aiutano chi vuole cercare una vita nuova. Napoli: presentazione del libro “Passami a prendere. In carcere oggi” linkabile.it, 22 aprile 2018 Il 24 aprile 2018 presso la “sala schermo” del Consiglio Regionale della Campania si terrà la presentazione del libro di Angiolo Marroni e Stefano Libuardi “Passami a prendere In carcere oggi”. Tanto interesse per questo evento che sarà introdotto da Ermanno Russo, Vice Presidente del Consiglio Regionale. Il libro è un immersione totale nelle carceri italiane. Un immersione che avvolge due mari: il mare di chi il carcere lo sconta ed il mare di chi il carcere cerca di migliorarlo. La criminalità organizzata, il diritto e la procedura penale. Tanti gli argomenti trattati dai due autori. Da un lato Marroni, avvocato e figura storica della sinistra Italiana, dall’altra il giornalista de Il Tempo Liburdi fondono i propri pensieri in un unico scritto. Presenzieranno all’evento il presidente dell’Associazione Antigone Campania Luigi Romano, Dea Demian Pisano de l’Associazione La Mansarda ed Enrico Sanchi Presidente de l’Associazione Virtus Italia. La discussione con gli autori del libero dipingeranno d’interesse la mattinata del 24 Aprile, che vedrà iniziare l’evento alle 11.00. Alla presentazione il moderatore sarà il Garante dei detenuti della regione Campania: Samuele Ciambriello. Un viaggio nelle carceri Italiane dunque, a “conoscere” chi il carcere lo vive e chi lotta giorno per giorno affinché migliori. Napoli: “L’ultima prova”, il romanzo dei detenuti del carcere di Nisida di Daniela Merola newsly.it, 22 aprile 2018 Le parole del romanzo “L’ultima prova” arrivano dal carcere minorile di Nisida, Napoli ed è stato scritto dal collettivo di giovani detenuti e scrittori che si sono chiamati “i nisidiani”. Il romanzo “l’ultima prova” è stato curato dalla Professoressa Maria Franco che insegna italiano, storia e educazione civica da 35 anni ai ragazzi del carcere di Nisida. Da 10 anni ha ideato un laboratorio di scrittura creativa dal quale quest’anno è uscito il romanzo “l’ultima prova”, una raccolta di racconti pubblicati da Guida editore per la collana per il sociale. Questo romanzo è stato scritto dal collettivo “i nisidiani” e ne fanno parte alcuni detenuti con scrittori come Viola Ardone, Riccardo Brun, Daniela De Crescenzo, Maurizio De Giovanni, Antonio Menna, Valeria Parrella, Patrizia Rinaldi. Un esperimento straordinario che ha permesso uno scambio di idee, di opinioni, di stili di narrazione diversi tra due realtà, quella di dentro e quella di fuori. “L’ultima prova” è un appello a mettere a fuoco gli errori della propria vita, è appunto l’ultima prova prima di uscire e per non commettere ancora gli stessi errori che hanno portato quei giovani ad essere lì a Nisida. Non è stato facile mettere insieme la vita di fuori degli scrittori con le sensazioni e i pensieri controversi di questi ragazzi che vivono una situazione precaria della loro vita, una ultima prova che può consentire loro un riscatto o una definitiva perdizione, una ultima chance che può portare alla redenzione o continuare la strada dell’autodistruzione. Storie difficili da raccontare su carta e che hanno impegnato gli scrittori coinvolti a non far emergere solo la disperazione di questi giovani detenuti ma anche qualche spiraglio di luce. L’obiettivo degli scrittori è stato quello di far capire che la parola scritta o raccontata può essere salvifica. Lo stesso obiettivo che hanno il Direttore di Nisida, la Professoressa Franco e tutti gli operatori che agiscono nel carcere. La strada è tutta in salita ma l’impegno è quello di portare avanti questo laboratorio di scrittura che possa permettere ancora di produrre altri romanzi e sperare che la parola possa far diventare adulti consapevoli questi ragazzi. Catanzaro: presentato in carcere il libro “Diversamente sano. Liberi di essere folli” calabriamagnifica.it, 22 aprile 2018 Prosegue il percorso comune del corso di laurea in Sociologia dell’Università Magna Grecia e della Casa Circondariale di Catanzaro. Si continua a leggere, nel carcere di Siano: nel pomeriggio del 19 aprile questo posto è ancora una volta l’insolita location di un incontro letterario, quello per la presentazione del libro “Diversamente sano-Liberi di essere folli” di Antonio Cerasa, neuro-scienziato e ricercatore presso l’Ibfm-Cnr di Catanzaro. Gli allievi della facoltà di Sociologia dell’Università Magna Grecia di Catanzaro e alcuni giovani laureati hanno assistito ad un’originale lezione nella sala teatro del carcere. Qui, insieme ai detenuti iscritti allo stesso corso di laurea e a quelli che frequentano il laboratorio di lettura e scrittura creativa, portato avanti nel carcere di Siano dal professor Nicola Siciliani De Cumis e alle due volontarie Giorgia Gargano e Ilaria Tirinato, ha avuto luogo questa iniziativa, volta a favorire gli spunti di riflessione su temi sociali. Sono intervenuti al dibattito con l’autore la direttrice del carcere Angela Paravati, il coordinatore del corso di laurea in sociologia, Cleto Corposanto, ed il docente Umberto Pagano. “La presenza in carcere del polo didattico dell’Università Magna Grecia è di fondamentale importanza perché la Casa Circondariale riesca ad essere un servizio sociale” ha affermato la direttrice del carcere Angela Paravati: “Puntare sull’istruzione, ed anche sull’alta formazione, è fondamentale per fare di questo luogo un contenitore di cambiamento”. L’argomento del testo, pubblicato dalla casa editrice Hoepli nel 2018, si adatta bene ad essere discusso in questo contesto, perché riguarda principalmente il malessere diffuso in una società in cui nessuno è soddisfatto della propria esistenza: i disturbi mentali crescono e cambiano rapidamente e la linea di confine che separa le persone sane da quelle malate è sempre più incerta. Come raggiungere l’ego-sintonia, cioè la realizzazione di comportamenti in armonia con l’immagine che il soggetto ha di sé? Come farlo in un contesto carcerario? Lo scopo del libro è descrivere alcune fra le più strane e nuove malattie della mente, quali l’ortoressia, la sindrome di Pollyanna, l’incontinenza emotiva, le dipendenze da Internet e affettive, le fobie sociali, nella nuova prospettiva della psicologia positiva. Il testo va alla ricerca di un luogo in cui normalità, psicopatologia e malattia psichiatrica si possano incontrare. E magari possano iniziare un dialogo. Corposanto sottolinea che il libro racconta una quotidianità inesplorata ed è significativo che se ne parli in carcere, luogo che “mantiene ancora oggi un alone di mistero “per chi sta fuori”“, mentre Pagano evidenzia che l’opera è “su persone che smarriscono la strada e la ritrovano: ci sono strade che perdiamo e che dobbiamo avere il coraggio di ritrovare”. Seguono la lettura di una poesia scritta da uno degli studenti del carcere “Luce del dolore” ed una serie di domande, da parte dei detenuti che avevano in precedenza letto e commentato il libro. Particolarmente significativa, alla fine, la richiesta da parte dei detenuti, di affidare proprio alle voci degli studenti la lettura dei loro elaborati, che raccontano come il carcere possa essere una fucina di patologie ossessivo- compulsive, di ansie che sfociano spesso in vere e proprie manifestazioni di fobie, ma che queste ansie possono essere gradualmente controllate, anche grazie all’osservazione ed alla comprensione dell’altro. Si osserva il compagno di cella che pulisce ossessivamente tutto, quello che ha paura di mangiare le patate, quello che è convinto che i suoi reclami siano rigettati per dispetto. E si osservano anche i piccoli cambiamenti, i tentativi di contenere queste fobie. Parte da un detenuto infine una proposta affinché l’istituzione universitaria aiuti il carcere attraverso il volontariato e la direttrice Angela Paravati conclude l’incontro affermando “Proprio grazie ai volontari che collaborano con il personale educativo e al contributo del personale di polizia è possibile, anche in carcere, intraprendere nuovi percorsi, trovare “strade nuove.” Il bullismo sconcerta, ma la scuola merita di più di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 22 aprile 2018 Non è vero che tutti gli alunni siano maleducati e tutti gli insegnanti inadeguati, al contrario. E il prossimo governo farebbe bene a garantire sedi e stipendi più giusti. La nostra economia arranca, superata dai risultati spagnoli, la politica è in bilico e offre tutti i giorni uno spettacolo discutibile e persino nel calcio siamo arretrati al punto da non meritarci nemmeno i Mondiali. Siamo gli ultimi, siamo sempre gli ultimi, e spesso ce ne facciamo un vanto. Ma la scuola no, per favore. Nonostante tutto. L’episodio di Lucca è sconvolgente: e la punizione proposta dal consiglio degli insegnanti è una punizione esemplare che forse aiuterà i responsabili diretti e indiretti a riflettere sulla gravità inaudita dei loro gesti. Speriamo, almeno, perché il tema, sempre eluso, della punizione educativa riguarda le famiglie prima della scuola. Pur tuttavia, il rischio ora è di semplificare accusando la scuola italiana di essere incapace di “formare” e/o di “educare”. Non è così. Proprio adesso, nel pieno del marasma, verrebbe da dire: salviamo la scuola italiana. E salviamola anche dai (nostri) pregiudizi secondo cui la scuola fa schifo, i docenti sono pessimi e gli studenti (a parte i nostri figli) maleducati e violenti. Non è così. Basta andare a vedere. Seguire qualche lezione, parlare con gli insegnanti, entrare in una scuola elementare, in una media o in un liceo: conoscere, vedere e ascoltare. E non sto parlando delle cosiddette “eccellenze”. Sto parlando delle scuole pubbliche delle periferie cittadine, del Nord, del Centro e del Sud. Per favore, salviamo la scuola dal nostro catastrofismo e dal sistematico tentativo di affossarla perpetrato dai vari governi, ciascuno con la propria riforma miracolosa. La prima riforma seria sarebbe quella che si impegna a ridare dignità ai maestri e ai professori, adeguando gli stipendi agli standard europei (dunque almeno raddoppiandoli) e si propone di rendere decorose strutture spesso indecenti in cui nessuno vorrebbe passare le sue giornate. Bisognerebbe partire da questi provvedimenti-base, riducendo le pretese sulle “offerte formative”, per migliorare l’istituzione scolastica italiana. Evitando di aggiungere confusione alla confusione, riforme burocratiche soffocanti, didattiche pseudo moderniste (lo smartphone e l’inglese...), false soluzioni iper valutative o aziendaliste (i presidi-dirigenti) che misurano la qualità sulla quantità di “fruitori”. La realtà scolastica è molto complessa perché complesso è il mondo. Capita però, a me come a tanti scrittori e giornalisti, di frequentare la “scuola reale” per presentazioni di libri e incontri, di conoscere insegnanti e presidi. Pochi giorni fa sono stato invitato nell’ennesimo istituto, una media milanese della zona Stazione Centrale: ragazzi tra i 12 e i 13 anni, tre insegnanti donne che ponevano domande sul fare letteratura, sullo scrivere, sul rapporto tra scrittura e mondo, e sollecitavano quelle degli studenti. Scuola cosiddetta multietnica, con giovani africani, filippini, cinesi, sudamericani, oltre agli italiani. Ebbene, udite udite: erano ragazzi e ragazze vivaci, interessanti e attenti, rispettosi, qualcuno ha preso la parola per raccontare la storia della propria famiglia, qualcuno ha detto la sua (magari ingenua ma non generica) sulla società, sulla funzione della memoria, sulla necessità di ascoltare gli altri. Gli altri ascoltavano pazienti anche quando un compagno si dilungava in considerazioni un po’ cervellotiche. Le docenti hanno parlato senza retorica della solitudine e della tecnologia. Una scuola “normale”, non d’élite e non di frontiera, in cui si percepiva subito il senso di una comunità intelligente. Un’eccezione? Le eccezioni sono purtroppo quelle che fanno notizia, anche se non hanno il clamore di quella di Lucca, con tutto ciò che si può aggiungere sulla “debolezza” o frustrazione o spaesamento di quel professore come di altri, e sul declino dell’autorità: ma quale ragazzo può conoscere il rispetto delle regole e il senso di responsabilità se non gli viene trasmesso dai genitori ben prima che dagli insegnanti, e se anzi è circondato da persone pubbliche e private che se ne fanno beffe ovunque nella vita collettiva? Non so quante scuole “normali” ci siano in altri Paesi europei. Conosco abbastanza bene le scuole svizzere e posso dire che quel che le distingue davvero dalle nostre non è la qualità dell’”offerta formativa”, ma le aule accoglienti e prive di umidità e di calcinacci, i cortili accessibili, i bagni funzionanti. Ciò che le distingue è soprattutto il livello economico (non quello culturale!) dei docenti e di conseguenza la dignità di cui godono nel contesto sociale. I problemi di bullismo esistono anche lì, così come le famiglie sempre più invadenti. Anche lì sono tempi difficili per l’istituzione scolastica. È vero che non c’è il tasso di dispersione scolastica che si registra in Italia, ma non si può pretendere che la scuola italiana, deprivata del minimo di sopravvivenza, ponga rimedio ai malesseri della società, con la sua povertà minorile, l’esclusione, le diseguaglianze eccetera. Del resto, alzi la mano chi ha sentito pronunciare la parola “scuola” durante la campagna elettorale. Dunque, un modesto consiglio al prossimo governo: niente riforme magniloquenti e risolutive, pensiamo ai fondamentali. Muri e stipendi, cioè decoro e dignità minima. Il resto verrà. Istat: in Italia un adolescente su due subisce episodi di bullismo Corriere della Sera, 22 aprile 2018 L’età a rischio è quella compresa fra 11 e i 17 anni, anche se il periodo più critico è quello fra 11 e 13. Lorenzin: “Lavorare sul rispetto di sé, dell’altro e delle regole”. In Italia un ragazzino su due è vittima di episodi di bullismo. L’età a rischio è quella compresa fra 11 e i 17 anni, anche se il periodo più critico è fra 11 e 13: all’inizio parolacce e insulti, seguiti dalla derisione per l’aspetto fisico e poi, in 4 casi su cento, si arriva a botte, calci e pugni. È quanto emerge da uno studio dell’Istat, che fotografa la situazione dell’anno 2014. Una maggiore sinergia tra famiglia, scuola e istituzioni e un monitoraggio forte sui social media è la strada proposta dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, per contrastare il fenomeno. “Bisogna sensibilizzare sia i bambini sia i genitori sul tema del bullismo. Bisogna lavorare sul rispetto di sé, sul rispetto dell’altro, sul rispetto delle regole” ha detto il ministro a margine della Giornata nazionale della salute della donna, nell’ambito della quale sono stati presentati i dati sul bullismo. Problema da non sottovalutare - “Bisogna porre un’azione di monitoraggio forte sui social network e stroncare nettamente, con un’azione tra famiglia, scuola e istituzioni, i fenomeni che avvengono sui siti e dentro gli istituti scolastici, non ultimi quelli ai danni degli insegnanti - ha detto ancora il ministro -. Dobbiamo renderci conto che questo non è un problema da sottovalutare. Le leggi già ci sono, bisogna fare progetti e lavorare in modo sinergico e a tappeto su tutto il territorio nazionale”. Dai dati Istat emerge che nel 2014 poco più del 50% dei ragazzi ha subito qualche episodio offensivo, non rispettoso o violento. Nel 9,1% dei casi gli atti di prepotenza si sono ripetuti ogni settimana; a subire costantemente comportamenti offensivi, non rispettosi o violenti sono stati nel 22,5% dei casi i ragazzini fra 11 e 13 anni e nel 17,9% dei casi gli adolescenti fra 14 e 17 anni. Le ragazzine prese più di mira - A subire il bullismo sono più le femmine (20,9%) che i maschi (18,8%), mentre tra gli studenti delle superiori le vittime più numerose sono tra i liceali (19,4%), seguiti dagli studenti degli istituti professionali (18,1%) e degli istituti tecnici (16%). Ci sono differenze anche tra Nord e Sud: il fenomeno è più diffuso nelle regioni settentrionali, con il 23% dei ragazzi fra 11 a 17 anni; la percentuale supera però il 57% considerando anche le azioni avvenute sporadicamente. Le violenze più comuni sono offese, parolacce e insulti (12,1%), la derisione per l’aspetto fisico o per il modo di parlare (6,3%), la diffamazione (5,1%), l’esclusione per le proprie opinioni (4,7%), le aggressioni con spintoni, botte, calci e pugni (3,8%). Stati Uniti. L’onda degli studenti contro le armi torna in piazza di Marina Catucci Il Manifesto, 22 aprile 2018 Nell’anniversario della strage alla Columbine. “Enough is enough”, ripetono gli studenti, “quando è troppo è troppo”, e sono serissimi ed organizzati, ripetono che la loro arma è il voto è molti di loro saranno maggiorenni in tempo per votare alle elezioni di medio termine a novembre, penalizzando i politici che non abbracciano una posizione seria per il controllo delle armi. Sono passati diciannove anni dal massacro alla Columbine High School in Colorado, dove hanno perso la vita dodici studenti e un insegnante, vennero ferite 24 persone, e i due studenti autori della strage si suicidarono, sparandosi a loro volta. La data di questo drammatico anniversario è stata scelta da migliaia di studenti delle scuole superiori in tutti gli Stati uniti per tornare a manifestare, facendo un walk out, un’uscita contemporanea dalle scuole all’ora in cui, quasi 20 anni fa, si apriva il fuoco nel liceo del Colorado. Gli studenti hanno ripetuto ancora una volta che i politici non fanno abbastanza per garantire la loro sicurezza, nonostante da allora le sparatorie, specialmente nelle scuole, non siano mai diminuite; l’ultima è avvenuta solo un’ora prima delle manifestazioni, a Ocala, in Florida, dove una ragazza di 19 anni con una pistola è entrata in una scuola superiore ed ha sparato a una ragazza di 17 anni. “Enough is enough”, ripetono gli studenti, “quando è troppo è troppo”, e sono serissimi ed organizzati, ripetono che la loro arma è il voto è molti di loro saranno maggiorenni in tempo per votare alle elezioni di medio termine a novembre, penalizzando i politici che non abbracciano una posizione seria per il controllo delle armi. Alcuni degli studenti più noti di questo neonato ma già bene organizzato movimento, come David High, sopravvissuto alla sparatoria del 14 febbraio scorso a Parkland in Florida, è diventato maggiorenne pochi giorni fa e ha ribadito sui social la sua determinazione a votare per le elezioni di mid-term, dalle quali dipendono le sorti degli equilibri al Congresso. Campagne di sensibilizzazione che puntano a riempire le urne di giovani contro le armi sono organizzate e diffuse capillarmente, come quella spinta da Now This, il sito web e società portale di notizie che distribuisce contenuti, principalmente video, per dispositivi mobili e piattaforme social, dove in tre minuti una neo diciottenne spiega perché questo voto che si avvicina può fare la differenza. È una novità questo impegno politico così sentito da parte di un’intera generazione di giovani, sostenuti da tutti i politici e attivisti per il controllo delle armi che da decenni non riescono a far breccia nella direzione di una legislazione responsabile, ma che ora vedono in questo movimento la possibilità di poter incidere. Stati Uniti. “Basta pistole”, i ragazzi sono all right di Alessandro Portelli Il Manifesto, 22 aprile 2018 Nelle strade di New York, tra i giovanissimi che sfidano la lobby delle armi remixando gli slogan del Vietnam. Colonna sonora di Springsteen e Alfredo Bandelli. E poi dicono che il futuro non esiste. Scendo giù per la Quinta Strada in cerca di un posto dove mangiare, e da lontano vedo avvicinarsi un gruppo di ragazzi con le magliette arancione che scandiscono uno slogan che mi pare familiare - “how many kids did you kill today?” quanti ragazzini hai ammazzato oggi? Lo gridavano ai tempi della Guerra del Vietnam al presidente Johnson - “hey hey, LBJ, how many kids did you kill today”. Lo gridano adesso, mentre infuria un’altra guerra, solo che invece di LBJ dicono NRA: ehi, National Rifle Association, quanti ragazzini hai ammazzato oggi? Poi dicono che i ragazzi non hanno memoria storica. Mi fermo a salutarli, faccio un paio di foto, proseguo - e due isolati più giù Washington Square è gremita di ragazzini - mi viene in mente il nostro Alfredo Bandelli: “Oggi ho visto, nel corteo, tante facce sorridenti, le compagne, quindici anni…” Non so quanti siano, la piazza è grande, ma nello spazio fra la storica fontana dove un tempo si sedevano a suonare Woody Guthrie e Cisco Houston e l’arco che apre la piazza stanno fitti che non ci passa un ago. La sera prima, a Broadway, Bruce Springsteen raccontava la sua vita, intrecciata con le canzoni, in jeans e maglietta, sul palco con pianoforte e chitarra, come uno zio nel salotto di casa che racconta storia agli amici. Una delle ragioni per cui ho sempre rispettato Bruce Springsteen è che non ha mai fatto finta di avere un’età diversa da quella che ha; e adesso, che è più vicino ai settanta che ai sessanta, fa i conti con la propria storia, coi rapporti col padre (mi si inumidiscono inevitabilmente gli occhi quando canta My Father’s House), la traumatica scoperta del rock and roll (Growing Up), poi sul palco sale Patti Scialfa e cantano insieme una delle mie passioni segrete, Tougher than the Rest, e per la prima volta sentendola da vicino mi accorgo che anche lei ha una gran voce. Nel fare i conti con la propria storia, Bruce ci fa capire che è anche la nostra; sarà per il prezzo dei biglietti, sarà per Broadway, ma il pubblico è quasi tutto di mezza età, gente che con lui è cresciuta e - ammettiamolo - invecchiata (a un certo punto dice, queste cose ditele ai vostri figli - se gli interessano). Quando accenna ai tempi neri che attraversa l’America, e non solo, è tutta una generazione che deve fare i conti con la propria storia e i propri fallimenti. Non è una cosa triste; prima di finire con Born to Run, chiude, a sorpresa, con una preghiera, poi Long Walk Home (che ne è, che significano oggi, i simboli della nostra democrazia?) e Land of Hopes and Dreams - la sua forza è che continua a dirci, nonostante tutto non smettete mai di sperare e di immaginare. E quindi di lottare. Aggiunge: ho visto la marcia per la vita dei ragazzi, contro la armi e la violenza, dopo la strage di Parkland, l’ennesimo massacro di ragazzi, 17 ammazzati in una scuola in Florida il febbraio scorso. “Per un vecchio come me” (dice proprio così, an old man) “questa è un’ispirazione”. Come sempre parla anche per me. A Washington Square, “the kids are all right”, come cantavano gli Who di My Generation. Springsteen ha invitato la mia generazione a guardarsi addosso, e a passare il testimone a questi ragazzini di scuola media, e neanche dell’ultimo anno che gridano basta, “enough is enough”. I cartelli sono fatti a mano ognuno diverso, da quello che dice. “Quando dicevo che preferivo morire che fare il compito in classe era un’iperbole, non l’avete capito?”, alla ragazzina che ha scritto: “Di che si deve preoccupare una ragazza? Primo, i ragazzi carini. Secondo, se ho i capelli in ordine e il trucco a posto. Terzo, se entra in classe un pazzo con una mitragliatrice e ci ammazza tutti. Quarto, il compito in classe di domani”. Si alternano sul palco, bianchi e neri, ragazze (più numerose) e ragazzi, gay e straight (Bandelli cantava “gli operai con gli studenti”, qui l’unità è di colore, di genere, di identità sessuale, e anche di classe, vengono dalle scuole del centro come da Harlem e dal Bronx). Mi si inumidivano gli occhi ascoltando My Father’s House, mi succede lo stesso adesso, circondato da questi figli e nipoti. Nessuno parla più di un minuto, tutti dicono qualcosa. Sono arrabbiati, decisi, informati, niente ideologia ma moltissima coscienza. Sanno fin dove possono arrivare, spiegano che non chiedono l’abolizione ma il controllo delle armi. Evocano la violenza contro le donne (centinaia di femminicidi), la violenza poliziesca contro i neri (Black Lives Matter), contro i gay (la strage di Orlando un anno fa). Una ragazza: “Io vengo da una famiglia conservatrice, ma qui non è questione di schieramenti, è questione di vita e di morte”. Un ragazzo nero con un nome portoricano: “Io non ci pensavo proprio finché cinque rapinatori con due pistole a testa hanno fatto irruzione nella stanza della mia ragazza e l’hanno rapinata. Non aspettate che succeda a qualcuno che amate prima di impegnarvi”. Sono maestri della comunicazione hanno ritmo e sfiorano la rima, gestiscono magistralmente l’antifona, il call and response dell’oralità tradizionale, con la folla assiepata strettissima intorno a loro. Qualcuno ha un foglio scritto, molti leggono dal telefonino. “I social sono pieni di veleno e di menzogne, ma sono anche il posto dove ci possiamo informare e comunicare fra noi. Usate Instagram, usate Facebook. Leggete anche il New York Times. Soprattutto, parlate fra voi”. “Siamo in tanti, siamo noi la democrazia, e stiamo arrivando”. Sale un gruppo con le magliette arancione e una chitarra: per fare un movimento, dicono, ci vuole una canzone. Hanno belle voci, armonizzano sapientemente, soprattutto sanno quello che vogliono: “Siamo qui per cambiare il mondo e non vi lasceremo entrare nelle nostre vite”. Nel pomeriggio, ne parlo in una lezione alla New York University. Una signora mi dice, riusciranno a cooptare anche loro, o a spedirli su un binario morto. I media e le destre sono già al lavoro per isolarli e deriderli. Ma mi sembrano diversi, troppo vivi, per lasciarsi ingabbiare. Chissà, forse ancora una volta ha ragione l’antico Bob Dylan che, a pochi metri da qui, annunciava: “I figli e le figlie sono fuori dal vostro controllo - levatevi di mezzo se non potete dare una mano”. E se invece di controllarli, o di metterci da parte a fare il tifo, seguissimo l’ispirazione e provassimo a dare una mano? Sarà un long walk, ma forse anche loro ci aiuteranno ad arrivare a casa. Il futuro esiste ancora. L’India pensa alla pena capitale per gli stupratori di bambine sotto 12 anni La Stampa, 22 aprile 2018 Il governo indiano ha deciso di imporre la pena capitale ai condannati per stupro di bambine sotto i 12 anni di età: la misura, che passerà ora all’esame del presidente della Repubblica Ram Nath Kovind, dovrà anche essere approvata dal Congresso entro sei mesi prima di diventare legge. La decisione del governo segue la protesta popolare dopo lo stupro e l’uccisione di una bimba di 8 anni nello Stato di Jammu-Kashmir ed il presunto stupro di una bambina da parte di un parlamentare del Partito al potere nell’Uttar Pradesh. Dopo l’approvazione da parte del presidente della repubblica, il decreto governativo sulla violenza ai minori di 12 anni sarà trasmesso al Parlamento che dovrà approvarlo entro sei mesi. Nell’attesa comunque esso potrà essere utilizzato già da subito per istruire procedimenti penali nei confronti di imputati accusati di stupro di minorenni in tenera età. Anche oggi i media indiani continuano a riferire di nuovi casi di violenze sessuali, il più impressionante dei quali riguarda una neonata di meno di un anno che è stata violentata e uccisa nella notte fra giovedì e ieri a Indore, nello Stato di Madhya Pradesh. Il suo cadavere, riferisce l’agenzia Pti, è stato recuperato nel sottosuolo di un edificio vicino alla sua casa, mentre la polizia ha arrestato un giovane di 21 anni. Ogni 15 minuti un minore subisce in India una violenza sessuale. Lo ha reso noto in un rapporto pubblicato a New Delhi la ong Child Rights and you (CRY). Sulla scia dell’inarrestabile serie di attacchi a minori registrata dai media e dai social network negli ultimi mesi, CRY ha confermato una impressionante impennata delle statistiche relative a questo tipo di crimini, evidenziando che negli ultimi dieci anni essi sono cresciuti del 500%. Dallo studio emerge anche che oltre il 50% dei casi di violenza sessuale sono concentrati in solo cinque Stati: Uttar Pradesh, Maharashtra, Madhya Pradesh, Delhi e West Bengala. Egitto. Minacce contro il direttore di un’organizzazione per i diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 aprile 2018 “Mi auguro che le autorità egiziane lo trattino così come fanno i russi con le spie”. Un riferimento macabro, chiaro e diretto all’attacco portato a termine col gas nervino contro Sergei Skripal nel Regno Unito. Così, il 21 marzo, si è espresso un ospite di un programma televisivo di largo ascolto. La persona minacciata è Bahey el-Din Hassan (nella foto di Frontline defenders), direttore dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani. La “colpa” di Hassan è quella di aver inviato - insieme ai direttori di altre sei organizzazioni non governative egiziane - un memorandum al segretario generale delle Nazioni Unite relativo allo svolgimento delle allora imminenti elezioni presidenziali. L’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani è una prestigiosa organizzazione non governativa, riconosciuta a livello internazionale, che da 20 anni si occupa di diritti umani in Medio Oriente e Africa del Nord. Bahey el-Din Hassan, che l’ha co-fondata, è un giornalista di fama internazionale ed è membro fondatore della Fondazione euromediterranea di sostegno ai difensori dei diritti umani e di EuroMed Rights. Dal 2014 è costretto all’esilio ma non ha mai cessato, in Europa e negli Usa, di informare e sensibilizzare opinione pubblica, mezzi di comunicazione e istituzioni sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese. Da quelle minacce via tv è passato un mese. Mai le autorità egiziane si sono dissociate. Al contrario, continuano a portare avanti la loro politica repressiva nei confronti della società civile con arresti, processi e norme draconiane all’interno del paese e attraverso intimidazioni da parte di giornalisti compiacenti, veri e presunti, e servizi segreti all’estero. Vale la pena ricordare quanto accaduto un anno fa a Roma, quando due persone spacciatesi per giornalisti si presentarono a un seminario a porte chiuse scattando foto agli attivisti presenti. Poche ore dopo Mustafa Bakry, un esponente politico molto vicino al presidente al-Sisi dichiarò in televisione che i servizi di sicurezza avrebbero dovuto “rapire” i difensori dei diritti umani, compreso Bahey el-Din Hassan, in esilio in Europa e riportarli in Egitto “dentro una bara”. Somalia. Con gli italiani nella terra di Al Shabaab di Francesco Semprini La Stampa, 22 aprile 2018 “La lotta sarà lunga, c’è bisogno di noi”. Tra check point, clan in guerra ed esuli dell’Isis fino a Yaaqshid, regno degli islamisti. Ma a Mogadiscio i giovani cercano il riscatto: calcio in spiaggia e selfie sulle terrazze. Il rumore metallico della sbarra segna il passaggio nel “wild west”. La colonna di automezzi “Lince” procede a passo spedito facendosi strada tra gli sciami colorati dei tuc tuc Piaggio. Dieci, cento, mille, una distesa infinita che congestiona le strade di asfalto deflagrato, fango e fogne a cielo aperto. Ieri notte è piovuto a Mogadiscio, per i somali è di buon auspicio. I “Lince” proseguono la marcia mentre gli uomini a bordo si tengono in contatto via radio. Sono gli Angeli Neri, il plotone di “Rangers” Alpini-Paracadutisti, l’unità di protezione che ci accompagna nel wild west. Così viene soprannominato tutto ciò che è al di fuori del Mogadiscio International Airport (Mia), un dedalo di basi, ambasciate e strutture di ogni genere. Una città nella città, la zona protetta nel cuore di tenebra dell’Africa orientale. Paese dal cuore di tenebra - La Repubblica federale di Somalia è stata a lungo considerata lo Stato fallito, disintegrato da guerre e conflitti interni. Uno Stato non Stato, dove la logica dei clan prevale sul principio nazionale e istituzionale, causando avvicendamenti compulsivi di leadership. Il presidente Mohamed Abdullahi Farmajo, un passato come conducente di autobus durante gli studi in Usa, ha di recente azzerato lo Stato maggiore con le dimissioni di 19 generali. Mentre lo speaker della Camera alta, Muhammad Cusmaan Jawaari, ha dovuto lasciare sulle pressioni del primo ministro Hassan Khayra, nell’ambito di dispute “claniche” e di spartizioni di risorse. Denaro, appunto, di cui la Somalia viene inondata per cooptare chi conta, come i 9,6 milioni di dollari intercettati in una valigetta diplomatica proveniente da Abu Dabi. “Le vicende somale sono anche riflesso della crisi del Golfo”, spiega l’ambasciatore Luciano Pezzotti, inviato speciale della Farnesina per il Corno d’Africa. Da una parte ci sono sauditi (primi partner commerciali) ed Emirati, pronti a fare incetta di porti per evitare la concorrenza a Dubai, dall’altra i qatarini allineati con Ankara, l’attore più audace. Parla da sola l’ambasciata turca sul porto, adiacente al minareto di ottomana memoria. Se si aggiunge la penetrazione commerciale della Cina e le insidie di Mosca, che tratta il riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland in cambio di una base militare, si capisce come le soluzioni proposte dall’Europa abbiano forza limitata. Oltre ai vuoti interni che mettono il Paese alla mercé di trafficanti e terroristi. Al Shabaab, appunto, eredi delle Corti islamiche che parlano il linguaggio delle bombe e della mafia: raccolgono tasse, amministrano la giustizia, assicurano protezione. C’è poi l’Isis della “jihaspora”, quasi trecento miliziani arroccati tra le montagne di Possasso, nel Puntland. Nel regno di Al Shabaab - “Attenzione, camion sospetto”, pericolo Shabaab. L’allarme arriva dal pick-up dove quattro guardie armate di Kalashnikov scortano la jeep civile su cui siamo a bordo. Il timore di autobomba è elevatissimo in questo tratto di strada vicino al ministero degli Esteri, dove il 14 ottobre 2017 un kamikaze si è fatto esplodere polverizzando sei palazzine e causando oltre 500 morti, il più sanguinoso attacco della storia della Somalia. Sulle tracce del terrore arriviamo in prossimità del Check point pasta, oggi Pasta Factory, teatro di battaglia per i militari italiani in quel fatidico 2 luglio 1993. Si trova in una delle zone ad alta intensità Shabaab, i militari italiani qui non c’entrano, vi arriviamo protetti dai “contractor” di Peace Security. Con loro ripercorriamo la storia, quella delle tante proprietà terriere italiane sparse per il Paese, riconosciute dal governo somalo ma non utilizzabili. E quella di Mogadiscio, la “Torino africana”, ispirata alla planimetria urbanistica del capoluogo piemontese. Nei distretti di Waaberi e Hamar Weyne tutto parla tricolore, dall’arco di Umberto di Savoia al Milite ignoto, una rassegna dell’architettura coloniale di cui gli inglesi e le guerre hanno fatto scempio. Al mercato, sul pavimento fetido, si contrattano squali e si fa criminosa incetta delle carni di testuggini ancora vive. La cattedrale ridotta a scheletro ha crocifisso e affreschi ancora vivi, piantonati dalle colonne. “I jihadisti hanno provato a farle saltare in aria, inutilmente”, spiega Shakur, esperto della sicurezza. Con lui arriviamo alle porte di Yaaqshid, il regno degli Shabaab animato da colonne di fumo e sentinelle velate, segnali di morte: “Oltre non si va”. Ci lasciamo alle spalle il cuore di tenebra per cercare un po’ di luce nella Mogadiscio del riscatto. Quella dei ragazzi che giocano a calcio sulla spiaggia del Lido, dove il cappuccino si paga via cellulare con Hormoud, compagnia telefonica che ha il controllo di tante attività nella capitale. Quella dei selfie sulla terrazza dell’Hotel Dolphin che rimbalzano su WhatsApp o Instagram, in uno strano connubio tra tradizione e progresso raccontato dai vistosi make up incastonati nel velo delle giovani somale, che sotto il dirac indossano tacchi vertiginosi. La sfida dell’Europa - All’International Village, all’interno del Mia, si celebra l’ottavo compleanno della missione militare europea in Somalia denominata Eutm-S, che ha l’obiettivo di fornire non solo capacità, ma un sistema di addestramento che diventi il modello di riferimento per il futuro. Ci sono gli Alpini che garantiscono la sicurezza degli addestratori e le attività di consulenza e supporto ai vertici delle forze armate e alla Difesa per armonizzare e coordinare gli sforzi. Occorre costruire uno staff, una struttura, cosa che manca in Somalia, dove vige il principio clanico “uno comanda tutti”. “Le istituzioni locali si stanno tirando su dopo 25 anni di anarchia”, spiega il generale Pietro Addis, comandante della missione. Ufficiale incursore, con un passato somalo nel 1994, Addis spiega come il Paese abbia oggi tanti giovani che non hanno riferimenti del passato, di uno Stato funzionante. E che i fallimenti locali generano flussi di migranti anche verso il Mediterraneo. Ecco l’importanza di assistere ed essere presenti per l’Italia, nazione leader di Eutm-S, che svolge una missione diversa da quella prettamente anti-terrorismo degli americani, tale da renderla più vicina ai somali. “Da parte loro c’è grande disponibilità e grande richiesta di italianità, perché ricordano tutti con ammirazione i periodi trascorsi con l’Italia, perché sono fieri di parlare italiano e di avere rapporti con il nostro Paese - chiosa il generale -. C’è una grande richiesta di maggior coinvolgimento italiano e di maggiore attivismo”. “Le cose vanno meglio grazie al contributo europeo - conferma il colonnello somalo Mohamed Hassan Buney -. Ma per favore rimanete qui, abbiamo bisogno del vostro supporto, la lotta agli al-Shabaab durerà ancora a lungo”. Italiani in prima linea - Monica parla italiano, è la responsabile del distretto di Shibis, con i militari dialoga costantemente su progetti congiunti. Come il “Mother and child health center”, dove gli italiani hanno restaurato la struttura e donato materiale sanitario, perché è anche questo lo sforzo del Paese in Somalia. Uno sforzo che porta il nome Cimic, la Cellula di Cooperazione Civile e Militare del National Support Element IT guidato a Mogadiscio dal tenente colonnello Pino Rossi: “Si tratta di sostegno alle autorità locali, tramite interventi sul terreno con progetti specifici su sicurezza, sanità, istruzione e supporto umanitario”. Come la ricostruzione della stazione di Polizia di Boondheere e del piccolo ambulatorio pediatrico adiacente. O il MCH, appunto, che ha da poco inaugurato un consultorio per aiutare le vittime di abusi domestici. Al nosocomio Forlanini, struttura del Ventennio, i militari italiani hanno dato supporto alla cura di malattie mentali e a piccoli interventi strutturali, come un pozzo in corso d’opera. La responsabile è Fadumo, cittadina americana figlia della diaspora che l’ha portata a Boston, dove ha lasciato i quattro figli per tornare ad aiutare il suo Paese. Anche lei parla italiano: “Alcuni ospiti sono affetti da patologie con alto livello di aggressività”. Sono giovanissimi, come Ahmed: indossa la maglia della Juventus, piange, ride, ci fa il segno di vittoria. “Le uniformi italiane sono la speranza di questi ragazzi, il buon auspicio di questo Paese dimenticato - ci ripete Fadumo - lo dica”. I Lince si rimettono in marcia, il rumore della sbarra accompagna il passaggio delle nuvole al tramonto. Questa notte a Mogadiscio è tornata la pioggia.