Quella delle carceri è l’emergenza di cui il prossimo governo non vorrà occuparsi thesubmarine.it, 21 aprile 2018 La condizione di arretratezza dal punto di vista dei diritti in cui si trova tuttora il sistema penitenziario italiano risponde all’inerzia della politica su questi temi. L’8 gennaio 2013 la Corte Europea dei diritti dell’Uomo condannava l’Italia per trattamento inumano e degradante dei detenuti. La sentenza concludeva l’odissea legale di sette carcerati detenuti a Busto Arsizio e Piacenza. I magistrati europei invitavano il paese a intervenire in particolare sul problema del sovraffollamento, introducendo pene alternative al carcere e un sistema di ricorso interno nazionale. Una sentenza storica per il sistema penitenziario italiano, congelato alle condizioni stabilite nel 1975, e che aveva posto il paese su dei binari di rinnovamento, o così doveva essere - si era trattato di un momento verità per il paese, in cui una ministra della repubblica, Paola Severino alla Giustizia, aveva dichiarato che si sarebbe battuta perché “le condizioni dei detenuti fossero degne di un paese civile”. (Sottinteso: non lo sono) Ieri a Roma l’Associazione Antigone ha presentato il XIV rapporto sulle condizioni di detenzione - un’approfondita disamina della situazione delle carceri italiane, che l’associazione, impegnata sin dagli anni Ottanta “per i diritti e le garanzie del sistema penale,” cura ogni anno. Il rapporto si basa sui dati e sulle testimonianze raccolte nel corso di 86 visite effettuate in altrettante carceri italiane (su 190 totali), equamente distribuite tra il Nord, il Centro, il Sud e le isole. I numeri descrivono una situazione ancora emergenziale, a partire dal dato più evidente: il sovraffollamento. Contrariamente al luogo comune secondo cui “in carcere non ci finisce nessuno,” nel corso dell’ultimo anno il numero dei detenuti è aumentato di circa 2000 unità, mettendo in crisi strutture penitenziarie già da tempo oltre i limiti - come Como, che ha un tasso di sovraffollamento del 200%, e Taranto, con un tasso di sovraffollamento del 190%. A marzo 2018 i detenuti totali nelle carceri italiane risultavano 58.223, di cui il 34% non sta scontando una pena, ma si trova in custodia cautelare in attesa di una sentenza definitiva. Le donne costituiscono soltanto il 4,12% della popolazione carceraria. I detenuti stranieri si distinguono dagli italiani soprattutto per la tipologia di reato commesso - meno frequenti tra gli stranieri i reati contro la persona, più frequenti quelli connessi alle leggi sulle droghe - e per la lunghezza della pena inflitta: il 7,1% dei detenuti stranieri si trova in carcere per condanne fino a un anno, contro il 4,9% del totale. Allo stesso modo, i detenuti stranieri sono tendenzialmente più giovani di quelli italiani. Come sottolineano gli autori del rapporto, non c’è alcuna correlazione tra i flussi migratori e l’ingresso in carcere di cittadini stranieri: dal 2003 al 2018 la presenza di stranieri residenti in Italia è più che triplicata, ma il loro tasso di detenzione è diminuito di quasi tre volte. Il dato è particolarmente significativo per le comunità straniere residenti da più tempo nel nostro paese, come quella romena, il cui tasso di detenzione è passato dallo 0,33% nel 2013 allo 0,22% nel 2018. Viceversa, la sovra-rappresentazione di alcune nazionalità all’interno della popolazione carceraria è dovuta spesso all’alto numero di individui non censiti - perché costretti alla clandestinità; pesa molto l’incidenza dei reati per droga - per il 38,9% si tratta di stranieri - e, non da ultimo, l’elevato numero di individui in regime di carcerazione preventiva, applicata più spesso agli stranieri, che sono il 37,7% del totale dei detenuti in attesa del primo giudizio. A fronte di questo quadro, i mediatori culturali nelle carceri italiane sono solo 223, in molti casi assunti non a tempo pieno e sotto-pagati. Dopo la condanna del 2013 da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, la situazione è parzialmente migliorata sul fronte dell’edilizia e dello spazio concesso ai detenuti: la maggior parte delle celle di chi si trova in regime di media sicurezza è attualmente aperta per un minimo di 8 ore al giorno, così da permettere una certa libertà di movimento all’interno dei corridoi e nelle altre celle (in precedenza, i detenuti erano costretti a passare dentro lo spazio ridotto della cella fino a 22 ore). Ancora gravemente insufficienti sono però le condizioni di abitabilità: 7 degli istituti visitati da Antigone non avevano un impianto di riscaldamento funzionante, 37 erano senza acqua calda, 50 senza docce in cella (previste per legge). All’apertura delle celle non hanno fatto fronte in misura sufficiente le attività rivolte a “riempire di significato il tempo della pena,” che dovrebbe essere una delle finalità centrali del sistema penitenziario. Solo il 23% dei detenuti partecipa a corsi scolastici di qualsiasi grado, dall’alfabetizzazione all’universitario, mentre nel 43% degli istituti presi in considerazione non è previsto alcun corso professionale. Tra le altre componenti della vita “fuori dalla cella” si registrano progressi significativi, anche se con notevole variabilità da istituto a istituto - spazi per la socialità, per la visita di parenti e familiari, passeggi, palestre e campi sportivi - mentre rimangono veri e propri tabù, come il diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti. La condizione di arretratezza dal punto di vista dei diritti in cui si trova tuttora il sistema penitenziario italiano risponde all’inerzia della politica su questi temi. “Il 2017 avrebbe dovuto essere l’anno della svolta,” scrivono gli autori del rapporto, “e invece resterà l’anno della disillusione.” Disillusione in gran parte dovuta alla riforma varata dal governo lo scorso mese, dopo infiniti rinvii e rimaneggiamenti del testo. Proprio quella riforma offre lo spaccato più chiaro di quello che potrebbe essere un governo 5 Stelle - Lega. Sotto lo stendardo unito della “certezza della pena” i due partiti si sono trovati vicini come forse mai prima nel proprio giustizialismo virulento, e solo contro i poveri. La questione carceri è uno dei fronti su cui la frammentarietà multiforme del Movimento 5 Stelle si fa più evidente. Sul blog di “Giustizia” dei Parlamentari 5 Stelle non si parla di condizioni delle carceri - nemmeno riallacciandosi ai temi dell’indulto su cui fecero tanto baccano nel 2013 - dallo scorso giugno 2017. La riforma non tocca in nessun modo “la certezza della pena” - un concetto di per sé già iperconservatore - ma mira a ridurre il problema autoalimentante della recidività, allargando la possibilità di applicazione di pene alternative alla detenzione. In Italia il 70% delle persone che esce di prigione torna a delinquere, un dato che testimonia che il sistema penitenziario attuale serva a pochissimo: è una struttura di sospensione di persone dal paese, che non permette di costruire un recupero reale dei detenuti. Attualmente la riforma, approvata dal Consiglio dei Ministri per il rotto della cuffia a legislatura già conclusa, è ancora lettera morta: manca il parere fondamentale delle Commissioni giustizia di Camera e Senato ed è importante che arrivi entro il 3 agosto, data di scadenza della delega. Pochi giorni fa il Consiglio superiore della magistratura ha fatto appello direttamente al Parlamento per spingere verso l’approvazione, ma il provvedimento è tra i primi che Matteo Salvini ha subito promesso di cancellare qualora andasse al governo. Salviamo la riforma del carcere di Marco Tassinari apg23.org, 21 aprile 2018 Sul tema delle misure alternative alla detenzione il governo Gentiloni, prima di precipitare nel baratro, si era messo al lavoro: le scuderie romane ad inizio 2018 stavano forgiando in gran silenzio il principale decreto attuativo, previsto dalla riforma 2017, per regolamentare le varie istituzioni di pena alternative al carcere. Ed il 16 marzo è uscito, un po’ in sordina, un gemito roco di festeggiamento. Le agenzie con gran foga hanno battuto: “riforma del carcere approvata dal governo”, ma si tratta sostanzialmente di una gran bugia. Una piccola modifica qua, un ritocco là: ed ecco che la rivoluzione copernicana delle carceri Italiane, che tutta Europa stava aspettando, è nata già morta. Dovrà adesso ritornare alla Camera, ed è veramente improbabile che sarà una priorità per il nuovo Governo che verrà. Ecco perché in tutta Italia la Comunità Papa Giovanni XXIII ha accolto l’annuncio con momenti di silenzio e di riflessione di fronte ad alcuni dei più importanti istituti penitenziari in tutta Italia. L’appello: salviamo la riforma delle carceri - Nelle carceri infatti la tendenza a commettere di nuovo dei reati, (la cosiddetta recidiva), si aggira fra il 75 e l’80; quando i detenuti hanno la possibilità di accedere a pene alternative la recidiva si abbassa addirittura al 10%. Il Presidente di Apg23 Giovanni Paolo Ramonda fa appello alle coscienze: “Siamo ad un passo dall’approvazione della più importante riforma dell’ordinamento penitenziario degli ultimi 40 anni. Fermarsi ora dopo un lavoro di anni che ha coinvolto centinaia di esperti sarebbe davvero un’ingiustizia”. Gli fa eco in un video il comico di Zelig, Paolo Cevoli. Riceviamo al carcere di Vicenza: “Chiedo a tutti, per quanto possibile, di unirvi a noi, in comunione con i fratelli detenuti e la magistratura, per chiedere l’approvazione della riforma dell’Ordinamento Penitenziario, bloccata, sembrerebbe, per opportunità politiche. La riforma prevede: una grande valorizzazione delle pene alternative; l’eliminazione di leggi che hanno reso nel tempo l’affidamento più difficile; promozione dell’apertura di dimore sociali convenzionate e accreditate per accogliere chi non ha abitazione esterna”. E ancora, dal carcere di Forlì: “Ci troviamo davanti al carcere per difendere l’approvazione della riforma carceraria, In alcuni carceri è in atto lo sciopero della fame. Chiedo che chi può, si unisca a noi”. Una pena alternativa al carcere per i detenuti di Chieti - Il 15 settembre 2017 a Vasto, in provincia di Chieti, è stata inaugurata la casa Santi Pietro e Paolo. Si tratta della 6ª casa del progetto CEC (Comunità Educante per Carcerati, ecco come funziona) aperto in Italia dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Il progetto CEC è operativo anche in Camerun ed è stato riconosciuto per primo in Italia come affiliato all’APAC, il metodo che organizza in modo alternativo diversi carcere in Brasile. “Questa nuova apertura dimostra che l’esecuzione penale al di fuori del carcere non solo è possibile, ma è anche un modo di rendere la pena utile per la sicurezza della società, per la crescita del reo, e rendere giustizia alle vittime. L’intera società è chiamata a farsi carico di chi nella debolezza ha confidato nel male come via per ottenere la felicità. La festa di inaugurazione è anche un momento di riflessione e confronto su alcune proposte concrete per il superamento del carcere” ha detto Giorgio Pieri, coordinatore del progetto CEC. Pene alternative: pareri a confronto - Durante il seminario “L’uomo non è il suo errore” Monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi Chieti-Vasto, ha condiviso una sua esperienza personale: nei primissimi mesi di sacerdozio era stato con i carcerati in Ruanda, dopo il genocidio. In quell’occasione era stato molto colpito dalle condizioni terrificanti in cui venivano i detenuti, molti dei quali erano innocenti; la dignità umana era cancellata, calpestata. Per questo motivo mons. Forte si sente particolarmente sensibile al tema del recupero dei condannati. Citando Papa Benedetto XVI (uno dei suoi interventi sulla pastorale carceraria) ha ribadito che in un carcere non sicuro la dignità della persona è a rischio, ha citato anche Papa Francesco, che dice che ogni pena deve comunque sempre promuovere la dignità dell’uomo, la pena non può essere una vendetta. Ha ribadito inoltre l’importanza che tutte le comunità parrocchiali aiutino i detenuti e i loro familiari, costituendo anche un gruppo di volontari che si rendano presenti in tutte le carceri del territorio. C’è poi l’urgenza di operare per il reinserimento dei detenuti. Federica Chiavaroli, sottosegretario di Stato alla Giustizia, ha sottolineato che il carcere è un mondo sconosciuto e sul tema delle misure alternative ha ribadito la necessità di modificare il nome “carcere”: la dicitura esatta dovrebbe essere “misure di comunità” perché si svolgono in comunità, per la comunità, con la comunità. Non si dovrebbe parlare di “alternativa” al carcere, come se quest’ultimo fosse l’intervento da privilegiare, ma il carcere dovrebbe rimanere l’extrema ratio. Recuperando i detenuti, la comunità crea autentica sicurezza sociale; è fondamentale far conoscere il carcere e le misure di comunità, il modello della giustizia minorile deve essere sviluppato, inoltre anche nell’ambito della giustizia per i maggiorenni c’è un cammino da fare insieme per il futuro. Ha citato un’esperienza personale vissuta con i detenuti del carcere di Pescara che, dietro sua iniziativa, hanno svolto lavoro socialmente utile pulendo il sentiero per Rigopiano ove vi fu quel terribile incidente all’albergo: è stata un’esperienza molto bella che ha colpito prima di tutto gli abitanti del territorio. Si suicidano anche gli agenti: 35 negli ultimi cinque anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2018 I dati della campagna “Dentro a metà” della Funzione Pubblica Cgil della Polizia penitenziaria. Se in carcere i detenuti si suicidano - sono già 11 dall’inizio dell’anno e 52 suicidi nel 2017 come ha evidenziato l’associazione Antigone nel suo rapporto presentato due giorni fa - anche gli operatori penitenziari non sono esenti dal rischio. Sono, infatti, 35 i suicidi e 2.250 le aggressioni subite negli ultimi cinque anni dai poliziotti penitenziari. Una tendenza in aumento che svela tra le righe le reali condizioni di lavoro del corpo, al limite delle possibilità e in una condizione penitenziaria che necessita di essere riformata sia per la condizione dei detenuti, sia per quella degli operatori. Ma la riforma dell’ordinamento penitenziario è ancora ferma a pochi passi dal traguardo. Nonostante le sollecitazioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, l’apertura del presidente della Camera, Roberto Fico, e il recente appello sottoscritto dai 137 componenti degli Stati Generali dell’esecuzione penale, la Commissione speciale della Camera non è ancora tornata sui suoi passi e non ha ancora inserito in calendario l’esame finale sul decreto principale della riforma. Eppure, se solo il governo volesse, potrebbe andare ugualmente avanti. L’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini ha ricordato che il professor Nicola Lupo, Ordinario di Diritto delle Assemblee elettive università Luiss, dieci giorni fa aveva dichiarato a Giovanna Reanda di Radio Radicale che “se lo schema del decreto è già stato trasmesso nei giorni scorsi ma non assegnato, il governo è pienamente legittimato ad adottarlo lo stesso”. Per ora il ministro Orlando nella sua recente lettera indirizzata ai presidenti Casellati e Fico ha sottolineato comunque “l’importanza che un provvedimento di tale portata abbia in ogni caso la seconda valutazione da parte della Commissione speciale”. Nel frattempo, però, si suicidano anche gli agenti penitenziari. Cinque giorni fa un agente penitenzia- rio del Gruppo Operativo Mobile (Gom) di 31 anni della casa circondariale di Aosta - D. S., di origini sarde, sposato da pochi mesi, in forza al della Polizia Penitenziaria e in questo periodo operativo in Sardegna - si è tolto la vita a Oristano. A darne la notizia è stato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria”, ha detto il segretario del Sappe: “Tragedie che ogni volta che si ripetono determinano in tutti noi grande dolore e angoscia. E ogni volta la domanda che ci poniamo è sempre la stessa: si poteva fare qualcosa per impedire queste morti ingiuste? Si poteva intercettare il disagio che caratterizzava questi uomini e, quindi, intervenire per tempo? Siamo vicini alla moglie, al figlio, ai familiari e agli amici. Non sappiamo se vi siano correlazioni con il lavoro svolto - ha precisato - ma è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese: il fenomeno colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette “professioni di aiuto”, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene alle quali ognuno di loro reagisce in base al ruolo ricoperto e alle specificità del gruppo di appartenenza. Il riferimento è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’Amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli con i loro vissuti, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi e ad occuparsi di vari stati di disagio familiare, di problemi sociali di infanzia maltrattata ovvero tutto quel mondo della marginalità che ha bisogno, soprattutto, di un aiuto immediato sulla strada per sopravvivere”. Trend in aumento - Il numero degli agenti penitenziari che decidono di togliersi la vita cresce al livello esponenziale. A denunciare questo fenomeno attraverso i dati ufficiali è la Funzione pubblica Cgil polizia penitenziaria. Parliamo di un nuovo step della campagna della categoria dietro le parole “dentro a metà” lanciata proprio per mostrare le condizioni di vita e di lavoro del personale di polizia penitenziaria. Tra il 2013 e il 2017, in soli cinque anni, secondo i dati raccolti dalla Fp Cgil, 35 sono stati i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita, il più delle volte con l’arma di ordinanza. Le aggressioni invece arrivano a 2.250, nello stesso periodo di riferimento. Un fenomeno che appare essere in forte aumento, tenendo conto delle 344 violenze registrate nel 2013 a fronte delle 590 del 2017. “Dati che segnalano una condizione di vita e di lavoro allo stremo delle possibilità”, commenta Massimiliano Prestini, coordinatore nazionale della Fp Cgil Polizia Penitenziaria. Inoltre sottolinea che: “La cosa che preoccupa di più è che l’amministrazione penitenziaria non ha risposto alla nostra pressante richiesta di avviare un confronto su una situazione lavorativa la cui gravità non può essere ignorata. Benessere e sicurezza devono diventare priorità nella gestione delle carceri del nostro Paese”. A questo si aggiunge anche un altro problema. Nelle scorse settimane, 600 agenti hanno compilato un questionario commissionato dal sindacato penitenziario della Uil ed è emerso che molto dello stress lamentato dagli agenti dipenderebbe dalla chiusura degli ospedali psichiatrici. Con la chiusura degli Opg, infatti, è aumentata la presenza di questi detenuti negli istituti penitenziari causando nuove criticità e problematiche di gestione sia del detenuto con problemi psichici che del ristretto esasperato dalla coesistenza con il soggetto malato. Tra le cause anche, carenza di personale, formazione scadente e dirigenti poco attenti e preparati. Ma, se quasi un terzo degli agenti della penitenziaria dichiara un disagio al limite della sopportazione, il 65% lamenta una situazione di forte malessere. Le soluzioni della Uil - Quali soluzioni per arginare questo stress lavorativo all’interno dei penitenziari? La stessa Uil che ha elaborato la ricerca attraverso il questionario, propone un potenziamento del personale, perché “già una diversa distribuzione delle risorse esistenti e l’ottimizzazione delle procedure operative potrebbero contribuire a ridurre i carichi di lavoro”. La formazione, infatti, rappresenta uno strumento indispensabile per mettere gli operatori in grado di affrontare le situazioni critiche che sono inevitabili nel lavoro carcerario. “Strumenti specifici - propone lo studio della Uil devono essere introdotti per gestire le problematiche dei detenuti stranieri e psichiatrici (la proposta di aumentare la presenza e potenziare l’intervento dei mediatori culturali è bene accetta dal 52%). Analogamente - aggiunge il sindacato - la formazione dei commissari è necessaria per superare le gravi carenze del management che sono state denunciate”. Per assicurare il grande impegno che viene richiesto quotidianamente agli operatori, “risulta fondamentale adottare una gestione delle risorse umane basata sulla comunicazione e sulla partecipazione”. Il sindacato spiega che bisogna superare le soluzioni di emergenza adottate per rispettare la sentenza Torreggiani, ridisegnando i modelli di detenzione e formando gli operatori ai nuovi compiti. “Ma non bisogna dimenticare - sottolinea la Uil - che l’agente di polizia penitenziaria si trova quotidianamente a contatto con soggetti critici in condizioni di sofferenza e che questo determina l’esigenza di un supporto psicologico e di controlli sanitari periodici”. In definitiva, per il sindacato, ciò che occorre in primo luogo garantire all’agente penitenziario è proprio il supporto, in termini di procedure definite, formazione, comunicazione con la direzione, chiarezza degli obiettivi e dei criteri a cui attenersi. “Solo in questo modo - conclude il sindacato potrà sentirsi un operatore della giustizia indispensabile per la tenuta della società e non un guardiano lasciato da solo a presidiare la barriera, con l’unico scopo di tenere lontani dalla nostra consapevolezza quelli che non devono essere nominati”. Su queste proposte la Uil auspica che questa ricerca scientifica possa proseguire, anche in collaborazione con l’Amministrazione della Polizia Penitenziaria, per l’attuazione e la verifica di efficacia degli interventi migliorativi, nonché la sua estensione anche ad altri Paesi ai fini di un confronto tra istituzioni carcerarie. Giustizia penale e informazione di Raffaele Puglia Corriere dell’Alto Adige, 21 aprile 2018 Legnini: servono uffici appositi. Migliucci: no ai processi mediatici. Il rapporto tra giustizia penale e mass media talvolta è conflittuale. La narrazione dei processi, dalle aule dei tribunali ai mezzi mediatici, con strascichi e tempistiche che invece possono divergere dai tempi della giustizia. Soprattutto, le conseguenze: da un lato, il pericolo di alterare la percezione del giudice nella valutazione dei fatti, minando la sua imparzialità. Dall’altro, il pronunciamento di una sentenza mediatica, spesso in chiave colpevolista, ancor prima di un pronunciamento del giudice. Di questo si è discusso ieri sera in un convegno organizzato dalla Camera Penale e dall’Ordine degli Avvocati di Bolzano con un parterre di relatori di grande prestigio, tra i quali: il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Giovanni Legnini, il dottor Luca Palamara e la dottoressa Paola Balducci entrambi consiglieri del Csm, il presidente dell’Unione Camere Penali italiane Beniamino Migliucci, il giornalista Gian Marco Chiocci direttore de “Il Tempo” e il professor Vittorio Manes, tra i massimi studiosi del rapporto tra giustizia e organi di stampa, moderati dalla presidentessa del Tribunale di Bolzano Elsa Vesco. “Il processo mediatico rovescia ogni simmetria, è atopico, acronimo. Un processo informale e impersonale - ha esordito il professor Manes - Nel processo mediatico tutto è rimesso all’opinione pubblica. È urgente trovare strumenti che fanno i conti con la duplicazione di sofferenza legale che la vittima patisce nel processo, indipendentemente che all’esito del giudizio sarà riconosciuta colpevole o innocente”. Il grande problema che si trovano ad affrontare le vittime di un processo mediatico è soprattutto la negazione del diritto all’oblio. Anche il Csm, recentemente, è intervenuto sul tema giustizia e mass media istituendo un gruppo di lavoro presieduto dall’ex presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio al fine di regolare il rapporto, spesso oscuro, tra i due organi. “Credo sia giusto che gli uffici giudiziari adottino un ufficio deputato a gestire la comunicazione con i mass media - ha spiegato il vicepresidente del Csm Legnini. È difficile migliorare il rapporto tra cittadini e giustizia se non muniamo di strumenti di informazione gli uffici giudiziari”. Negli ultimi anni gli avvocati penalisti hanno denunciato con forza l’alterazione dell’informazione giudiziaria da parte degli organi di stampa, che, a detta dei legali, si dividono tra i colpevolisti e gli innocentisti. “Con il libro bianco noi non vogliamo mettere il bavaglio alla stampa-ha sottolineato l’avvocato Migliucci - Tutti parlano male del processo mediatico ma nessuno vuole risolvere la questione. Il Paese è in contrasto con alcuni principi costituzionali. Non ha mai amato il nuovo codice in chiave giustizialista”. È bene ricordare che-come sottolinea anche il direttore de “Il Tempo” Gian Marco Chiocci, tra i più autorevoli cronisti giudiziari italiani - nel momento in cui un giornalista pubblica atti giudiziari riservati vuol dire che qualcuno glieli ha passati. Non pubblicarli per una testata equivarrebbe a prendere quello che in gergo giornalistico viene chiamato il “buco”. Per Chiocci però “la soluzione non è quella di dotare ogni ufficio giudiziario di uffici stampa. Inoltre non si può punire solo il giornalista. A sgarrare non sono solo i giornalisti”. Un’affermazione che non deve essere letta come una assoluzione per la categoria: “È fondamentale la riservatezza delle indagini preliminari. Il mestiere del giornalismo dovrebbe essere quello di cane da guardia del potere, non andare a braccetto con il potere. L’appello che posso fare è di non metterci nelle condizioni di pubblicare gli atti”, ha concluso il direttore de “Il Tempo”. “Csm, metodi mafiosi”, bufera sul magistrato Di Matteo Sorio Corriere del Veneto, 21 aprile 2018 Lui: “Solo un’espressione di colore”. Insorge l’Anm. “Il Csm segue metodi mafiosi”. La frase choc del magistrato veronese Andrea Mirenda solleva una bufera. L’Anm attacca: “Inaccettabile”. “Il Csm ormai non è affatto un padre amorevole per i magistrati, non è più l’organo di autotutela, non è più garanzia dell’indipendenza, ma è diventato una minaccia, perché non vi siedono soggetti distaccati ma faziosi che promuovono i sodali e abbattono i nemici, utilizzando metodi mafiosi”. È un passaggio dell’intervista concessa dal magistrato veronese Andrea Mirenda al giornalista Riccardo Iacona per il suo libro “Palazzo d’ingiustizia Il caso Robledo e l’indipendenza della magistratura”, edito da Marsilio. Un passaggio che a causa dell’espressione “metodi mafiosi”, sebbene argomentata e spiegata da Mirenda sia nel libro sia direttamente come “chiara espressione di colore, un’enfasi, cioè, destinata solo a far capire la drammatica potenza e la pervasività condizionante delle correnti della magistratura”, ha scatenato reazioni a catena. Il parlamentare vicentino di Forza Italia ed ex consigliere laico del Csm, Pierantonio Zanettin, ha scritto al Ministero di Giustizia chiedendo di valutare un’iniziativa disciplinare. E ieri è arrivata la presa di posizione dell’Associazione nazionale magistrati: “Paragonare le attività del Csm, organo di rilevanza costituzionale, ai metodi utilizzati dalle organizzazioni criminali che rappresentano uno dei mali maggiori del nostro Paese, contro cui lo Stato combatte da sempre e ha pagato un altissimo prezzo in termini di vite umane anche tra i magistrati, è inaccettabile e inappropriato”. Presa di posizione cui è seguita quella del gruppo Autonomia e Indipendenza, fondato dall’ex pm di Mani Pulite, Piercamillo Davigo, che invita “a confrontarsi apertamente sul merito delle questioni denunciate piuttosto che sulla forma delle espressioni utilizzate, anche per evitare che la pubblica sollecitazione di iniziative disciplinari si traduca in una sostanziale intimidazione verso chi ha esercitato il diritto di critica”. In scia AreaDG Veneto (Area Democratica per la Giustizia), che “condivide la richiesta di maggiore trasparenza nelle nomine” e, “pur non condividendo il linguaggio utilizzato”, è “contraria a interventi disciplinari, che paiono volti a intimidire la libertà di espressione”. Al centro, dunque, c’è Mirenda. Lui che nel 2017, da presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Verona, aveva chiesto e ottenuto il trasferimento all’ufficio di magistrato di sorveglianza, “un gesto di composta protesta verso un sistema giudiziario che premia i sodali e asserve i magistrati alle correnti”. Lo stesso Mirenda che nel libro di Iacona spiega così quel “metodi mafiosi”: “Voglio raccontare un fatto paradigmatico realmente accaduto. Viene bandito un posto da presidente di tribunale. Tra i concorrenti ci sono perfino presidenti di tribunali di altre città che vogliono trasferirsi, quindi magistrati di un certo peso già giudicati idonei a incarichi direttivi dal Csm. Ebbene, a essere nominato è un magistrato giovane con una carriera non particolarmente brillante, attivo all’interno delle correnti. Il collega anziano non ci sta e fa ricorso al Tar. E qui - dice Mirenda a Iacona - arriviamo al punto, perché quando parlo di sistema mafioso mi riferisco ai modi di condizionamento. Questo collega viene avvicinato da qualcuno: “Ma tu non avevi chiesto anche di essere nominato presidente di sezione di qualche corte d’appello? Allora non preoccuparti, perché noi ti nominiamo presidente di sezione di corte d’appello”. Il collega fa due conti: sa bene che per definire il suo ricorso ci vorranno anni, e accetta. Che ne è della battaglia che aveva fatto contro quella nomina illegittima? Il termina tecnico è “cessata materia del contendere”: il Tar non può più far nulla e il giovane collega rimane al suo posto. Possiamo anche non chiamarlo avvicinamento mafioso ma certamente sono metodi non trasparenti. Questo accade tutti i giorni nella casa della legalità”. Trattativa Stato-mafia: condannati Mori, De Donno, Dell’Utri e Bagarella di Salvo Palazzolo La Repubblica, 21 aprile 2018 La sentenza della Corte d’assise di Palermo dopo 5 anni di processo. I giudici accolgono la ricostruzione della procura sulla stagione del 1992-1993. Mancino: “Ho avuto sempre fiducia che a Palermo ci fosse un giudice”. Di Matteo: “Sentenza storica”. Maxi risarcimento per la presidenza del consiglio: dieci milioni di euro. Condannati gli uomini delle istituzioni e i mafiosi per la trattativa Stato-mafia. Dodici anni per gli ex generali Mario Mori e Antonio Subranni, dodici anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri, 8 anni per l’ex colonnello Giuseppe De Donno. Ventotto anni per il boss Leoluca Bagarella. Assolto l’ex ministro Nicola Mancino, perché il fatto non sussiste. Massimo Ciancimino, il supertestimone del processo, è stato condannato a 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. È scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca. Dopo 5 anni e 6 mesi di processo, 5 giorni di camera di consiglio, ecco il verdetto della Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto (giudice a latere Stefania Brambille) nel processo chiamato a indagare sulla terribile stagione del 1992-1993, insanguinata dalle stragi Falcone e Borsellino e poi dagli attentati di Roma, Milano e Firenze. All’ex ministro Mancino era stata contestata la falsa testimonianza; agli altri uomini delle istituzioni, il reato di concorso in minaccia a un corpo politico dello Stato, minaccia lanciata dai mafiosi con le bombe. La condanna attribuisce la responsabilità agli ufficiali del Ros per il periodo 1992-1993; a Dell’Utri, per il “periodo del governo Berlusconi”. Ovvero, il 1994. I giudici hanno anche stabilito un maxi risarcimento dei danni nei confronti della presidenza del consiglio dei ministri: 10 milioni di euro. Secondo i pubblici ministeri Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, in quei mesi uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra: la finalità dichiarata era quella di bloccare il ricatto delle bombe, ma per l’accusa gli ufficiali dei carabinieri avrebbero finito per veicolare il ricatto lanciato dai mafiosi, trasformandosi in ambasciatori dei boss. Era questo il cuore dell’atto d’accusa dei magistrati, che nella requisitoria avevano chiesto pesanti condanne. Le motivazioni della sentenza arriveranno fra novanta giorni. Esulta Mancino, che aveva scelto di aspettare a casa la lettura della sentenza: “Ho sempre avuto fiducia che a Palermo ci fosse un giudice. Sono stato vittima di un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo, che tale è stato ed è tuttora. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa, benchè il mio capo di imputazione, che oggi è caduto, fosse di falsa testimonianza”. In aula, il pm Nino Di Matteo parla invece di una “sentenza storica”. Dice: “Ora abbiamo la certezza che la trattativa ci fu. La corte ha avuto la certezza e la consapevolezza che mentre in Italia esplodevano le bombe nel ‘92 e nel ‘93 qualche esponente dello Stato trattava con Cosa nostra e trasmetteva la minaccia di Cosa nostra ai governi in carica. E questo è un accertamento importantissimo, che credo renda un grosso contributo di chiarezza del contesto in cui sono avvenute le stragi. Contesto criminale e purtroppo istituzionale e politico. Ci sono spunti per proseguire le indagini su quella stagione”. “Prima si era messa in correlazione Cosa nostra con il Silvio Berlusconi imprenditore, adesso questa sentenza per la prima volta la mette in correlazione col Berlusconi politico - dice ancora Di Matteo - le minacce subite attraverso dell’Utri non risulta che il governo Berlusconi le abbia mai denunciate e Dell’Utri ha veicolato tutto. I rapporti di Cosa nostra con Berlusconi vanno dunque oltre il 1992”. Secondo l’accusa, nel 1992, “i carabinieri del Ros avevano avviato una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ‘papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi”. Circostanza negata dai carabinieri imputati. Mori ha negato anche di avere incontrato l’ex sindaco mafioso prima della strage Borsellino, i primi contatti sarebbero stati tenuti da De Donno. La procura riteneva diversamente. E la corte ha accolto la ricostruzione della procura. Durante l’inchiesta “Trattativa” è emerso che un mese dopo la morte di Falcone, l’allora capitano De Donno chiese una “copertura politica” per l’operazione Ciancimino (il dialogo segreto con l’ex sindaco) al direttore degli Affari penali del ministro della Giustizia Liliana Ferraro, che però rimandò l’ufficiale ai magistrati di Palermo. Il 28 giugno, la Ferraro parlò del Ros e di Ciancimino a Borsellino, che le disse: “Ci penso io”. E da quel momento, il mistero è fitto. Cosa sapeva per davvero Borsellino? A due colleghi disse in lacrime (un’altra circostanza emersa nell’inchiesta di Palermo): “Un amico mi ha tradito”. Chi è “l’amico” che tradì? Resta il giallo. Sono state le parole dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli ad aver messo nei guai l’ex ministro dell’Interno Mancino. “Mi lamentai con lui del comportamento del Ros”, ha messo a verbale l’ex ministro della Giustizia davanti ai giudici di Palermo. “Mi sembrava singolare che i carabinieri volessero fare affidamento su Vito Ciancimino”. Martelli ha affermato senza mezzi termini di aver chiesto conto e ragione a Mancino dei colloqui riservati fra gli ufficiali del Ros e l’ex sindaco mafioso di Palermo. Mancino ha sempre negato: ha detto di non avere mai parlato del Ros e di Ciancimino con Claudio Martelli. Lo ha ribadito poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio. E la Corte ha creduto alla sua versione. Secondo l’accusa, dopo l’arresto di Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, i boss avrebbero avviato una seconda Trattativa, con altri referenti, Bernardo Provenzano e Marcello Dell’Utri. Mentre le bombe mafiose esplodevano fra Roma, Milano e Firenze, un altro ricatto di Cosa nostra per provare a ottenere benefici. “Dell’Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso”, hanno accusato i pubblici ministeri. “Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell’Utri e recapitato a Berlusconi”. E ancora: “Nel 1994, Dell’Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l’organizzazione”. All’esito di questa seconda trattativa, sosteneva l’accusa, sarebbe stato attenuato il regime del carcere duro. La sentenza sulla trattativa Stato-mafia è un’ipoteca sulle alleanze di Massimo Franco Corriere della Sera, 21 aprile 2018 Si chiude il forno dei Cinque Stelle con il centrodestra e la Lega si trova incalzata da Di Maio che chiede di rompere con Forza Italia. È possibile che presto il Movimento 5 Stelle si accorga di come i “due forni”, Lega e Pd, designati come potenziali alleati, siano destinati a rivelarsi due muri; e aumentino le frizioni tra il candidato premier Luigi Di Maio e le correnti più radicali. Ma lo scontro consumatosi ieri nel centrodestra ha incrinato l’immagine di una coalizione compatta, che Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni vogliono accreditare. Le parole del fondatore di Forza Italia contro gli italiani che avrebbero “votato molto male”; e contro i grillini che, testuale, “nella mia azienda pulirebbero i cessi”, sono indizi di una reattività debordante ai veti. Ma al di là degli indizi di nervosismo, a avvelenare i rapporti tra M5S e centrodestra è la sentenza sulla trattativa Stato-mafia a Palermo: una decisione usata da Di Maio per incalzare Salvini. In più, Berlusconi dichiara di preferire un’intesa col Pd: opzione tenuta finora in serbo come punto di ricaduta di un nulla di fatto. E l’unico effetto che hanno avuto le sue parole è stato un coro di no: quello, scontato, di un Pd asserragliato all’opposizione; e soprattutto quello irritato di Salvini e Meloni. È azzardato pensare che l’offensiva berlusconiana rilancerà la “diarchia” M5S-Lega. Differenze acuite - Di certo fa capire che non esiste la prospettiva di un governo tra Cinque Stelle e centrodestra; ma neanche quella tra centrodestra e Pd, fosse anche solo la componente renziana. Un Salvini abile nel far saltare i nervi sia a Di Maio, sia agli alleati, ieri ha ricominciato a parlare di contatti col leader grillino; a candidarsi a Palazzo Chigi; e a dissociarsi platealmente dalle affermazioni del capo di FI, rilanciando l’alleanza con il M5S per evitare che spunti un governo tecnico o “dettato da Bruxelles”. Quanto a farne uno coi voti del Pd, “sarebbe un tradimento degli elettori italiani”. Insomma, almeno a parole, sull’esigenza di avere un esecutivo che rifletta la volontà popolare espressa il 4 marzo, Salvini e Di Maio rimangono d’accordo. Lo stesso Quirinale preferirebbe un governo politico. Ma sulla politica estera i leghisti ribadiscono posizioni filorusse e ostili all’Europa, che seminano preoccupazione. E comunque, il modo in cui il Carroccio apre e chiude spiragli a un’intesa coi Cinque Stelle acuisce le diffidenze degli interlocutori. Si insiste sulla volontà di far partire la legislatura con un’intesa tra le forze premiate dal voto. Ma i comportamenti portare a un esito opposto. Manicheismo grillino - Rimane da capire se le quarantotto ore che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, si è dato dopo l’incarico esplorativo della presidente del Senato, Elisabetta Casellati, basteranno. Chi ostenta fiducia, come Di Maio, che rischia di più per avere puntato tutto su Palazzo Chigi, pensa ancora di poter rilanciare il suo “contratto”. E usa l’ultima sentenza di Palermo sulla trattativa Stato-mafia per dichiarare “morta la Seconda Repubblica”. Il manicheismo grillino sul processo archivia qualunque intesa col centrodestra. Di nuovo, il M5S chiede a Salvini una scelta contro Berlusconi. Ma le cose non stanno andando come il Movimento sperava. E, senza novità, potrebbero finire perfino peggio. Trattativa Stato-mafia, una sentenza che può pesare sul nuovo governo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 aprile 2018 Il verdetto ha risvolti politici, e può offrire un’arma a chi cerca di contrastare Forza Italia. I pm avevano riscritto o sottolineato un pezzo di storia d’Italia, drammatico e sanguinoso, sostenendo che al tempo delle stragi ordinate dai Corleonesi di Totò Riina ci furono uomini delle istituzioni - investigatori e politici - che si fecero complici oggettivi del ricatto mafioso allo Stato. Ieri una corte d’assise composta da due giudici togati e sei popolari ha stabilito che in quel pezzo di storia era nascosto pure un reato: violenza e minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario (nel caso specifico il governo) contribuendo a farlo piegare alle richieste di Cosa nostra. È un verdetto sorprendente, nel senso che in pochi se l’aspettavano così adesivo alle richieste dell’accusa, anche tra gli stessi pm. Che certamente hanno vissuto una giornata di riscatto rispetto alle critiche e agli attacchi subiti - soprattutto di natura politica - per aver istruito il processo sulla cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia. Sul piano giudiziario hanno avuto ragione (almeno per ora, giacché siamo di fronte a una sentenza di primo grado, che potrà essere eventualmente ribaltata nei successivi gradi, e non sarebbe la prima volta), ed è ciò che conta per chi indossa la toga. Ma il verdetto di ieri ha anche dei risvolti politici, non fosse altro perché è stato pronunciato nel pieno di un’altra trattativa tuttora in corso, tutt’affatto diversa, per la formazione dell’esecutivo che dovrà guidare il Paese nella nuova legislatura; e nel dispositivo letto ieri dal presidente della corte Alfredo Montalto è risuonato il nome di uno dei protagonisti della trattativa di oggi: Silvio Berlusconi. Serviva ad indicare le responsabilità per cui è stato condannato l’ex senatore Dell’Utri, considerato il tramite del ricatto mafioso dal marzo 1994 in avanti, cioè all’epoca del primo governo Berlusconi. E ora quella condanna (forse la più inattesa poiché per i fatti successivi al ‘92 Dell’Utri era stato assolto nel processo subito per concorso esterno in associazione mafiosa) potrebbe costituire un argomento in più, per chi ne fosse in cerca, per contrastare una maggioranza con dentro Forza Italia. Tuttavia queste sono considerazioni che non c’entrano con il lavoro dei giudici e con la storia dell’altra trattativa, quella tra i boss e pezzi delle istituzioni. La sentenza dice che per fermare le stragi che avevano già ucciso prima i giudici Falcone (con sua moglie) e Borsellino insieme alle rispettive scorte, e poi inermi cittadini con le bombe del 1993, tre governi della Repubblica accettarono di venire a patti con Cosa nostra. Solo attraverso le motivazioni si capirà se e che cosa, secondo la corte, fu recepito e attuato del ricatto mafioso. Per adesso sappiamo che il messaggio fu recepito e veicolato da uomini delle istituzioni, che in questo modo favorirono il progetto mafioso. Il processo - Questo è il significato della sentenza, che dunque ha sottoscritto quelle pagine di storia composte dalla Procura di Palermo che non fanno onore al Paese. Almeno nella misura in cui danno un senso alle parole pronunciate dal pm Vittorio Teresi nella parte finale della lunga requisitoria: “Tutte le tessere del mosaico che abbiamo ricostruito si incastrano perfettamente e forniscono un unico quadro d’insieme che ha tinte fosche. E qualche tessera di questo mosaico è sporca del sangue delle vittime delle stragi”. Al di là della retorica e delle disquisizioni di ogni tipo con cui verrà analizzato, contestato e sottoposto ai successivi gradi del processo, il verdetto di ieri ha confermato quel giudizio. Non definitivo, ma netto. C’era una volta lo Stato di diritto e per condannare servivano prove di Piero Sansonetti Il Dubbio, 21 aprile 2018 È una sentenza che lascia perplessi. Dico meglio: lascia un po’ sbigottiti. Per cinque ragioni. La prima è che non ci sono prove contro gli imputati. Soprattutto contro gli imputati di maggiore valore mediatico: il generale Mori (e i suoi collaboratori) e l’ex senatore Dell’Utri. Non ci sono neanche indizi. La tesi dell’accusa si fonda tutta o su alcune testimonianze giudicate false da questo e da altri tribunali, o sulla parola di qualche mafioso, o su ricostruzioni dei pubblici ministeri molto interessanti ma costruite esclusivamente su ipotesi o sulla letteratura. La seconda è che prima che si concludesse questo processo se ne erano svolti altri, paralleli e sulle stesse ipotesi di reato, e si erano conclusi tutti, logicamente, con le assoluzioni degli imputati (tra i quali lo stesso Mori e l’on. Mannino). Questa sentenza, nella sostanza, ci dice che sì, probabilmente non ci fu il reato, ma ci sono i colpevoli. La terza ragione dello stupore è il reato per il quale sono stati condannati gli imputati eccellenti. Il reato si chiama così: “Attentato e minaccia a corpo politico dello Stato”. Gli esperti e i professori dicono che nella storia d’Italia questo reato è stato contestato una sola volta. Nessuno però ricorda bene quando. Ma comunque quella volta non fu per minacce nei confronti del governo - ed è di questo che sono accusati Mori e Dell’Utri - perché esiste nel codice un reato specifico, scritto nell’art 289 del codice penale, che prevede appunto l’attentato contro un organismo costituzionale (cioè il governo). La quarta ragione non è di diritto ma è di buon senso. E sta nella assoluzione (seppure per prescrizione) del capo della mafia (Giovanni Brusca, uno dei boss più feroci del dopoguerra) che sarebbe l’autore della minaccia, contrapposta alla condanna del generale Mori che è forse il militare che ha catturato più mafiosi dai giorni dell’Unità d’Italia ad oggi e che dalla mafia è stato sempre considerato nemico acerrimo La quinta ragione del nostro sincero sbigottimento sta nello scenario kafkiano che viene disegnato da questa sentenza. Lasciamo stare per un momento il dettaglio dell’assenza di prove. Cerchiamo di capire cosa l’accusa e la giuria ritengono che sia successo nel 1993- 94. Sarebbe successo questo: la mafia, guidata da Riina avrebbe minacciato lo Stato, prima e dopo le uccisioni di Falcone, Borsellino e delle loro scorte. Avrebbero chiesto l’allentamento del rigore carcerario con un ricatto: “Altrimenti seminiamo l’Italia di stragi”. In una prima fase questa minaccia sarebbe stata mediata sempre da Dell’Utri e Mori, evidentemente con Ciampi e Scalfaro. Questa però è solo la tesi dell’accusa, perché la giuria non ci ha creduto, gli è parsa davvero troppo inverosimile. Poi succede che Mori - evidentemente mentre trattava con lui - arresta Riina assestando alla mafia il colpo più pesante dal dopoguerra. In una seconda fase, dopo gli attentati del 1993 (uno dei quali contro un giornalista Mediaset molto legato a Berlusconi, e cioè Maurizio Costanzo) la minaccia sarebbe stata portata Berlusconi, che nel frattempo era diventato Presidente del Consiglio, attraverso Marcello Dell’Utri e forse attraverso lo stesso Mori, evidentemente colpito da un fenomeno grave di schizofrenia. Nessuna delle richieste dei mafiosi, però, fu accolta. E questo, in teoria, dimostrerebbe un comportamento rigorosissimo di Berlusconi: uomo davvero incorruttibile. E infatti la sentenza condanna gli imputati a risarcire con 10 milioni la presidenza del Consiglio, cioè Berlusconi. Le richieste mafiose che Dell’Utri, e forse Mori, avrebbero portato a Berlusconi (e forse a Mancino, ministro dell’Interno, che però ha negato, è stato imputato per falso e poi assolto) erano contenute in un “papello” consegnato dall’ex sindaco Ciancimino, così sostiene il figlio dell’ex sindaco che però è stato a sua volta condannato per calunnia (e dunque il papello è falso). Ma una persona che legge queste cose qui e ha un po’ di sale in zucca, che deve pensare? Beh, probabilmente gli viene in mente un’idea molto semplice: che quello di Palermo sia stato semplicemente un processo politico. E qualche conferma a questo sospetto viene da un paio di elementi. Il primo è che il Pubblico ministero che ha condotto l’accusa fino all’ultimo minuto, si è candidato a fare il ministro coi 5 Stelle, ha partecipato a diversi convegni politici dei 5 Stelle, ha presentato a nome dei 5 Stelle un programma per riformare la giustizia, e, appena emessa la sentenza, ha rilasciato dichiarazioni feroci contro Berlusconi, che oltretutto è parte lesa e non imputato. Possiamo tranquillamente dire che il Pubblico ministero era un uomo politico. Il suo predecessore, quello che avviò il processo (si chiama Antonio Ingroia) ha partecipato recentemente alle elezioni in qualità di candidato premier con una lista di sinistra. Anche questa circostanza (almeno in forma così esplicita) è senza precedenti, credo, in tutti i paesi dell’Occidente. Il secondo elemento sta in tutto quello che ha preceduto il processo. E cioè il processo mediatico, che difficilmente non ha condizionato fortemente la giuria di Palermo. Ho sentito molti commentatori dire che comunque ci sarà un processo di appello, che potrà correggere gli errori del primo grado. Vero. Per fortuna l’impianto della nostra giustizia è solido. Però è difficile digerire l’arroganza del processo di Palermo, e la sua superficialità, e l’ingiustizia palese di alcune condanne, come quella contro il generale Mori. Ed è difficile non considerare il fatto che l’ex senatore Dell’Utri, che sta in cella in condizioni di salute gravissime, difficilmente, dopo questa nuova stangata, potrà sperare di ottenere cure adeguate e di rivedere il cielo senza sbarre. No, non è stata una bella giornata. Vallanzasca: no dei giudici alla libertà condizionale La Repubblica, 21 aprile 2018 Respinta dal tribunale di sorveglianza le richieste dei legali del “Bel Renè”, nonostante il parere favorevole del direttore del carcere di Bollate. Il tribunale di Sorveglianza di Milano ha respinto la richiesta di libertà condizionale e quella di semilibertà presentate dalla difesa di Renato Vallanzasca, il protagonista della mala milanese negli anni 70 e 80 condannato a 4 ergastoli e a 296 anni di carcere. Nei giorni scorsi alla richiesta dei legali del “Bel Renè” si era aggiunto il “sì” del direttore del carcere di Bollate, che nella sua relazione aveva accennato a un “adeguato livello di ravvedimento”. Contrario il pg Antonio Lamanna: “Il ravvedimento deve essere sicuro, e nel caso di Vallanzasca non lo è”. In particolare i giudici, il presidente Corti e il relatore Gambitta, hanno dichiarato “inammissibile” l’istanza di semilibertà e rigettato la libertà condizionale. Renato Vallanzasca aveva già goduto del beneficio nel 2013, poi revocato dopo l’arresto del giugno 2014 per il furto in un supermercato di due paia di boxer, due cesoie e del concime per piante. Una tentata rapina costata all’ex capo della banda della Comasina, noto alle cronache come il “Bel Renè”, una condanna a 10 mesi di carcere e 300 euro di multa, che si aggiungono al curriculum criminale fatto di 4 ergastoli e 296 anni di carcere. Nel presentare la richiesta di libertà condizionata il suo legale, aveva fatto notare come Vallanzasca abbia passato in carcere 45 anni, “quasi mezzo secolo”: considerando che a maggio compirà 70 anni, mezza vita. Dal dicembre 2009 aveva iniziato a usufruire di permessi, nel marzo 2010 l’impegno nella cooperativa Ecolab, poi in una ricevitoria a Milano. Infine l’arresto che, come ha dichiarato ironicamente il legale, lo ha trasformato “da efferato omicida a maldestro ladro di boxer”. “L’intero percorso del condannato è stato connotato da involuzioni trasgressive imputabili anche alla sua personalità”; hanno fatto sapere i giudici, “e non appare dunque possibile ravvisare il requisito del ‘sicuro ravvedimento’”. Il tribunale ha ricordato anche il ‘bel René’ non ha “mai risarcito le vittime dei suoi gravissimi reati”, anche quando “lavorando ne aveva avuta la possibilità”. Ivrea (To): via d’uscita per i detenuti con i progetti di lavoro di Vanessa Vidano La Sentinella, 21 aprile 2018 “Il carcere è un microcosmo molto delicato, qualunque attività ha una grande risonanza al suo interno e un impatto”. Queste le parole in sala giunta della direttrice della casa circondariale Assuntina Di Rienzo, in carica dal 2012. Lei, assieme a un folto gruppo di persone, da anni collabora attivamente con l’amministrazione comunale per rendere il percorso di detenzione nella struttura un percorso verso il ritorno in libertà. Sono tanti i progetti educativi che si sono svolti e si svolgono all’interno del carcere, ma Via D’Uscita - sotto l’egida dell’assessorato comunale alle Politiche sociali in partenariato con la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, le cooperative sociali Mary Poppins, Alce Blu e Alce Rosso - è stato un lavoro congiunto che ha impegnato i diversi soggetti per due anni in maniera caleidoscopica. Finanziato dalla Compagnia San Paolo con 34 mila euro da utilizzarsi nel biennio 2016-2018, le attività hanno perseguito diversi tipi di azione. Innanzitutto la mediazione culturale, che ha coinvolto 130 detenuti di lingua slava e magrebina. Poi due tipi di laboratori pratici: il primo in collaborazione con la Biblioteca di Ivrea ha insegnato l’antica arte della legatoria artigianale promuovendo attività di pubblica utilità e volontariato con i detenuti, il secondo un laboratorio di cucina di 50 ore, per 10 persone. Imprescindibile all’interno della struttura carceraria anche gli 8 workshop di gestione dell’aggressività e comunicazione assertiva, ciascuno dei quali della durata di 10 ore per 10 allievi, per un totale di 80 persone coinvolte. Al fine di favorire l’occupazione post-carceraria invece, un corso per l’ottenimento della qualifica di carrellista, che ha coinvolto 16 detenuti. In ultimo, ma non per importanza, la realizzazione di 4 tirocini formativi presso aziende del territorio. “In carcere le persone hanno bisogno di ricostruire il proprio futuro”, spiega l’educatrica Elisabetta De Muro. “Ci sono dinamiche - continua. che purtroppo sono difficili da capire per chi è fuori: i detenuti alle volte devono stare divisi anche durante i laboratori”. All’interno della struttura infatti esistono delle sezioni divise, dove vengono inseriti i reclusi che devono rimanere isolati rispetto agli altri. Si fa cenno a persone transessuali e ai collaboratori di giustizia. Per loro sono stati organizzati laboratori a parte. “L’istituzione carceraria ha il dovere di pensare al futuro dei detenuti. Loro sono i primi a voler acquisire conoscenze, studiare, cambiare la loro prospettiva di vita” aggiunge Armando Michelizza, garante dei diritti dei detenuti di Ivrea. Il carcere conta circa 250 detenuti condannati, di cui però solo una settantina ogni giorno sono coinvolti in attività di recupero. Le barriere linguistiche sono un problema insormontabile ad esempio. Se non ci sono sufficienti mediatori non si può garantire la partecipazione alle attività. “La mediazione è fondamentale, sono i detenuti stessi a chiederla per potersi sentire partecipi”, aggiunge Florea Lupastiano, mediatrice di lingue slave. Il progetto Via d’Uscita ha garantito il più possibile anche su questo versante, nonostante le esigue risorse a disposizione. L’obiettivo per il futuro è ora quello di riuscire a intercettare altri fondi, come quelli regionali messi a disposizione con il bando cantieri di lavoro a fine aprile. Genova: detenuti-assistenti per i compagni di carcere con problemi sanitari e psichiatrici Il Secolo XIX, 21 aprile 2018 Detenuti-assistenti per i compagni di carcere con problemi sanitari che presentano disagio psichico o manifestano, anche attraverso gesti autolesionistici, segnali di vulnerabilità. È il progetto di percorso formativo promosso dalla Regione Liguria a Genova negli istituti penitenziari di Marassi e Pontedecimo. La proposta è partita dalla vicepresidente e assessore regionale a Salute e Sicurezza Sonia Viale e coinvolge Asl 3 Genovese, amministrazione penitenziaria e direzione degli istituti di pena. Lo schema di convenzione è già stato approvato dalla Regione Liguria. L’obiettivo è quello di preparare professionalmente detenuti come lavoratori in carico all’amministrazione penitenziaria con funzioni di assistenza alla persona tra pari. L’iniziativa punta a trovare soluzioni concrete a favore delle sempre più numerose persone detenute con problemi sanitari e psichiatrici che necessitano di interventi di sostegno integrato e per le quali occorre favorire un supporto anche sul piano della gestione quotidiana della vita intramuraria e della cura personale. Il progetto della Regione Liguria è nato anche dall’accordo in Conferenza Stato Regioni, denominato “Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti” a contrasto della tendenza ad isolare le persone a rischio, con l’opportunità di ricorrere all’ausilio di detenuti in funzione di peer supporters addestrati tramite attività di gruppo organizzate in sinergia tra le Amministrazioni Sanitaria e Penitenziaria. L’Asl 3, tramite qualificati operatori (medici, psicologi, infermieri, operatori socio-assistenziali), realizzerà incontri formativi presso le case circondariali di Genova Marassi e Pontedecimo. Brescia: carcere e volontariato di Massimo Venturelli lavocedelpopolo.it, 21 aprile 2018 Il tema attuale dell’esecuzione penale socialmente responsabile evidenzia l’importanza del ruolo rivestito da tante associazioni presenti a Brescia. In Italia c’è oggi un clima culturale che vede nel carcere l’unica via, magari con un inasprimento delle pene, per risolvere il problema della sicurezza. I numeri ufficiali, però, dicono che non è prolungando la permanenza nelle “patrie galere” e togliendo molti di quei presunti benefici di benefici di cui godrebbero i detenuti, che la criminalità si riduce. Anzi, il 70% dei detenuti che negli anni della pena non hanno potuto contare su alternative cade nella recidiva. Usciti dal carcere tornano a delinquere. Chi sconta, invece, la pena con sanzioni di comunità ha una recidiva del 19%. Il confronto tra i numeri è impietoso! La possibilità di sanzioni di comunità richiede, però, una comunità pronta ad aprirsi con intelligenza e lungimiranza al mondo del carcere. Si tratta, però, di una via non sempre agevole, anche a causa di tanti retaggi culturali che continuano a persistere. Brescia celebra proprio il 19 aprile, con una cerimonia in palazzo Loggia, la “Giornata dell’esecuzione penale responsabile” pensata proprio per “raccontare” quali frutti riesce a portare la collaborazione tra il mondo della giustizia e la società civile. Per Brescia con la quindicina di associazioni di volontariato che da anni, in forma più o meno continuativa, collaborano con il carcere non è un tema nuovo. “Però - afferma Luisa Ravagnani, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale - è importante continuare a parlarne, soprattutto per mettere in risalto quell’arricchimento reciproco che avviene tra questi due mondi”. Non ultimo quello della possibilità che il carcere sia considerato veramente come uno dei tanti mondi che vivono una città. “Questo tipo di volontariato - afferma ancora Luisa Ravagnani - ha avuto nel tempo la capacità e la forza di sensibilizzare il territorio all’idea che il rapporto con il carcere non può essere solo lasciato a poche associazioni e che un’apertura al territorio è la premessa per concepire l’esecuzione penale in modo più costruttivo”. Per la Garante dei diritti dei detenuti la vera sfida è quella di riuscire a convincere la città che quella dell’esecuzione penale non è solo una questione da addetti ai lavori, ma un dovere preciso di tutta la comunità. In questo cammino Brescia fortunatamente non è all’anno zero. “In questi anni - afferma ancora Luisa Ravagnani - di passi avanti ne sono stati compiuti molti, il più eclatante dei quali è sicuramente rappresentato dai detenuti che escono dal carcere per svolgere lavori socialmente utili, in una sorta di restituzione nei confronti della comunità. Ma questo è possibile perché c’è una collettività che evidentemente è pronta ad accogliere queste presenze con convenzioni tra Comuni e carcere”. Questo non vuol dire che il traguardo sia raggiunto e che il percorso sia facile, soprattutto in tempi come quelli attuali in cui da più parti si alza la richiesta di pene severe e intransigenti, con una predilezione più per la punizione che alla rieducazione. “C’è comunque - sono ancora sue considerazioni - una buona parte della comunità che su questi temi non si accontenta più di ragionare con la pancia”. A Brescia un percorso di avvicinamento tra carcere e società c’è ed è ancora in atto, anche grazie al mondo del volontariato che è andato affiancandosi a preti e suore presenti in carcere per un servizio pastorale. Sono tanti i volontari che entrano in carcere con la consapevolezza di essere strumenti di mediazione e di sensibilizzazione con la città che vive all’esterno e che sul mondo del carcere ha ancora bisogno di essere rassicurata. Milano: l’arte entra a San Vittore “bottega” con i detenuti e spazio espositivo di Simone Finotti Il Giornale, 21 aprile 2018 C’è l’arte che si chiude nella sua torre d’avorio e l’arte che apre le porte dei luoghi più impermeabili. Addirittura di un carcere. Metti un direttore illuminato come Giacinto Siciliano, aggiungici una realtà da sempre attenta al ruolo sociale dell’espressione artistica come la Fondazione Maimeri, e la scommessa è lanciata: trasformare il carcere di San Vittore in una sorta di “cenacolo” in cui artisti e detenuti lavorano fianco a fianco per offrire alla città una prospettiva diversa sulla casa circondariale di piazza Filangieri e, in generale, sull’esperienza carceraria. Non più un luogo di segregazione, un’isola inaccessibile in pieno centro tristemente impressa nei ricordi di chi ci è passato e nelle canzoni popolari meneghine, ma uno spazio aperto alla cittadinanza in cui l’esperienza della detenzione diventa occasione per liberare energie creative. Non è semplice, ma le premesse ci sono tutte. “San Vittore - dice il direttore Siciliano - è un carcere di transito, con tempi di permanenza fra i 30 e i 60 giorni e detenuti che provengono da situazioni di forte disagio. Vogliamo innanzitutto superare quest’idea di precarietà, dare a chi viene qui la possibilità di rimettersi in gioco proprio a partire da opportunità culturali. E intanto spiegare a chi è fuori che il carcere non è un altrove isolato, ma un posto in cui le persone possono cambiare e hanno concrete prospettive di reinserimento”. Il progetto è molto articolato e ancora in gran parte in divenire, ma si può sintetizzare in poche parole: fare di San Vittore un “posto normale”, e al contempo un tassello fondamentale che si integri con le altre due realtà penitenziarie milanesi, Opera e Bollate, per creare una rete all’avanguardia. Tutto parte dalla ri-progettazione, con una rivisitazione complessiva che tocca l’organizzazione degli spazi, la scelta dei colori, la vivibilità degli ambienti. “Abbiamo coinvolto il criminologo Adolfo Ceretti, l’architetto Stefano Boeri e molti artisti tra cui Max Papeschi, Domenico Pellegrino, Stefano Pizzi, Ali Hassoun, Domenico Marranchino, Maurizio Temporin, Alessandro Gedda, Omar Hassan, Tom Porta, Save The Wall, Marco Lodola, Rudy Van der Velte e altri, chiamati a portare l’arte all’interno del carcere e a lavorare con i detenuti”, spiega Silvia Basta, della Fondazione Maimeri, che si è lanciata con entusiasmo nell’iniziativa. “Vorremmo realizzare uno spazio espositivo permanente aperto alla cittadinanza per favorire la permeabilità fra la città e il carcere. Parallelamente pensiamo a eventi, mostre e appuntamenti culturali, a partire da aperitivi a cura della Libera scuola di cucina, con concerti, presentazioni di libri, rappresentazioni. Il primo, con musica, è stato organizzato ieri sera, nel cortile della sezione femminile, in occasione della commemorazione del drammatico omicidio di Francesco Di Cataldo, agente di custodia ucciso dalle Brigate rosse il 20 aprile 1978. E già si pensa a un calendario strutturato con almeno un paio di appuntamenti mensili. Cagliari: biblioteche della Città metropolitana a disposizione dei detenuti di Uta sardiniapost.it, 21 aprile 2018 Le biblioteche della Città metropolitana di Cagliari a disposizione dei detenuti del carcere di Uta. Con tutti i servizi e le risorse umane per una tempestiva consultazione dei volumi. Per studiare o per leggerli ai bambini. Tutto questo per agevolare il diritto alla lettura e l’accesso all’informazione. Obiettivo: contrastare il rischio di marginalità e favorire il reinserimento nella società. Anche perché questo è il senso della finalità rieducativa della pena sancita dalla Costituzione. Sono i punti chiave del protocollo d’intesa che istituisce un rapporto di collaborazione organica tra i servizi bibliotecari della Città metropolitana di Cagliari e il servizio di biblioteca all’interno dell’istituto penitenziario. L’accordo - la sigla del patto è in programma martedì 24 - prevede che sarà fornito ai detenuti incaricati e ad altri eventuali operatori il supporto per l’apprendimento di tecniche elementari di catalogazione e di gestione di una biblioteca di base attraverso percorsi formativi su tematiche biblioteconomiche di trattamento dei documenti, quali, ad esempio, timbratura, etichettatura, codici a barre, bande magnetiche, rilevatori, la catalogazione, i servizi inter-bibliotecari. La Città metropolitana si impegna inoltre a fornire la propria consulenza tecnica per la realizzazione delle reti locali (LAN) e per la connessione alla rete territoriale (WAN) e il Servizio Bibliotecario Nazionale (SBN). Un parte specifica dell’accordo è dedicata alla previsione dello studio e alla realizzazione di progetti ad hoc per promuovere la lettura di libri per l’infanzia nell’istituto penitenziario, destinata ai genitori reclusi, quale importante momento di comunicazione ed incontro con i loro bambini. Acireale (Ct): le vite dei ragazzi del carcere minorile di Flavia Musumeci meridionews.it, 21 aprile 2018 “Scrivo per sopravvivere e per chiedere scusa”. Il biglietto di Rosa Parks è un racconto scritto dai giovani detenuti dell’Istituto penale minorile acese. Nel 2016 ha vinto il primo premio al concorso Goliarda Sapienza. A raccontare il progetto a MeridioNews è uno dei quattro educatori dell’Ipm. “È uno spazio di umanità”, spiega. C’è una storia che è stata scritta sui banchi di una scuola carceraria. Racconta delle paure, delle speranze, delle cadute e dei tentativi di riscatto dei giovani detenuti dell’Istituto penale minorile di Acireale. Il testo si intitola Il biglietto di Rosa Parks e fa parte della raccolta di testimonianze contenuta nel libro Così vicino alla felicità. Racconti dal carcere, edito da Rai Eri, che sarà presentato sabato 21 aprile ad Acireale, nei locali del centro culturale Pinella Musmeci della Villa Belvedere. La voce narrante della storia è quella di Antonio, 17 anni compiuti in carcere. Antonio una mattina decide di non scendere in cortile per l’ora d’aria. Così prende la penna e su un foglio di carta inizia a mettere in fila le vite di tutti i suoi compagni. Le pagine riempite da ogni detenuto si sommano sul suo banco, le storie vengono fuori da sole. “Non faccio nulla e mi sento stanco, voglio dormire e non ho sonno, apro la finestra e il mio pezzo di cielo resta immobile”, scrive un ragazzo. “Scrivo per mio padre e per i suoi occhi spenti”, dice un altro biglietto. “Scrivo per i miei figli, da quando sono diventato padre provo dei sentimenti che prima non conoscevo, ho paura di sbagliare e di restare solo”, racconta un compagno. “Scrivo per sopravvivere”, dice un altro biglietto. “Riempio il foglio per riempire il tempo - spiega un detenuto. Anche di scarabocchi va bene, non sopporto il vuoto”. Nelle stanze del carcere si tiene ogni settimana un corso di scrittura a cui partecipano quindici dei venti ragazzi dell’istituto. I giovani, durante il laboratorio, rispondono alle domande poste dagli educatori. Raccontano della propria casa, dei propri sogni, della prima volta che si sono innamorati. Chi in italiano, chi in arabo e chi attraverso dei disegni. Poi tutti i racconti vengono meccanicamente assemblati e ricopiati su un’unica pagina. “Quei racconti vengono letti alla presenza di tutti - spiega Girolamo Monaco, uno dei quattro educatori dell’Ipm - Così i ragazzi si identificano ognuno nella storia dell’altro. Si rendono conto che fanno parte tutti della stessa storia”. Il laboratorio permanente di scrittura nasce dieci anni fa e da quel giorno “si tiene ogni giovedì - continua Monaco, che fuori ci sia il sole, la pioggia o la grandine, non ci rinunciamo mai”. Molti ragazzi si sono appassionati alla scrittura, così finita l’ora di lezione, in tanti il laboratorio se lo portano in cella. “La scuola permanente di scrittura nasce come spazio di umanità dentro a quelle mura, è un momento per potersi raccontare - spiega l’educatore. La partecipazione è libera, ma se scegli di essere presente devi esserci davvero, devi metterti in gioco. Ci siamo resi conto che la quotidianità di questa esperienza allenta le tensioni tra i ragazzi”. Dentro a questa storia scritta a tante mani ci sono le vite di Giovanni, Bakary, Momodou, Davide, Salvatore, Ibrahim, Carmelo e molti altri. “Scrivere non ha senso, sono chiuso qui e quello che penso non interessa a nessuno, nessuno mi ascolta”, si legge su un foglio. “Io scrivo per chiedere scusa ai miei fratelli, perché non li ho salutati quando sono partito dalla Libia”, dice un altro. “Non volevo attraversare il deserto e guidare un vecchio gommone - racconta uno dei giovani, non volevo veder morire i miei compagni affogati. Volevo decidere del mio futuro, volevo diventare un calciatore famoso come Balotelli. Ma da qui il futuro non si vede”. “Nessuno lo direbbe - continua Monaco. Scrivono lettere, e tra queste mura c’è un grandissimo viavai di carta e francobolli. Quello però rimane materiale privato, per questo è nata l’idea di far comunicare tra loro i giovani, di aiutarli a condividere le loro storie”. Il racconto scritto dai giovani detenuti ha vinto il primo premio al concorso Goliarda Sapienza, nel 2016. “Questo ha contribuito a far sentire ai ragazzi che il loro lavoro può essere apprezzato - spiega l’educatore. Scrivere la loro storia li aiuta a capire il valore della persona”. Alla presentazione del libro, organizzata grazie al sostegno dell’associazione Vie traverse, saranno presenti anche quattro dei giovani autori e Carmela Leo, direttrice dell’Istituto penale minorile. “Spesso si crea un immaginario che porta con sé dei pregiudizi - spiega Leo a MeridioNews - Ma noi i ragazzi li abbiamo accanto e conosciamo il valore del loro mondo interiore. Non sono l’equivalente del reato, sono molto altro”. Dai racconti emergono la paura, il senso di ingiustizia, la fragilità e la voglia di pagare per i propri errori per poter poi ricominciare. “L’essenza del nostro compito educativo è dare ai ragazzi un’idea di futuro - conclude Girolamo Monaco -. Molti giovani entrano in queste celle da minorenni e pensano che dopo quel periodo dietro le sbarre per loro non ci sarà niente”. Antonio non è sceso in cortile ma, con quel foglio tra le mani, lui e tanti altri detenuti hanno avuto la loro ora di libertà. “Oggi abbiamo parlato dell’uguaglianza, della libertà e del razzismo: sono cose che viviamo ogni giorno qui - scrive il ragazzo. Molti sono diversi da me perché vengono da paesi africani, hanno la pelle nera e parlano una lingua che non capisco. Ma abbiamo tutti una cosa in comune: ci manca la libertà. Oggi ho conosciuto la storia di Rosa Parks - continua il detenuto, una donna di colore che con un biglietto su un autobus ha combattuto una dura battaglia e ci ha insegnato che siamo tutti uguali. Non ci avevo mai pensato. Anche perché io i biglietti sugli autobus non li pago mai. Si sentono dei rumori. Si apre la porta della cella. Per il mio compagno è finita l’ora d’aria, per me è finita l’ora di libertà”. Airola (Bn): “Fuori le ali”, come portare i mestieri del Cinema nelle carceri La Repubblica, 21 aprile 2018 Nasce un’associazione che tenta di far conoscere il Cinema, non già come arte inarrivabile e privilegiata, ma come lavoro collettivo, artigianale, dove l’oggetto d’arte, il film, è frutto di mestieri diversi e peculiari, concertati tra loro. Un’iniziativa al servizio della società, per aprire possibilità di crescita dove illegalità, povertà, e discriminazioni impediscono ai più deboli di avere un ruolo della società. Dai padri storici del cinema, ai docenti e studenti di Centro Sperimentale di Cinematografia e Scuola d’Arte cinematografica G. M. Volonté, da Dacia Maraini a Luciana Castellina e Altan: un’associazione di registi, autori, magistrati e protagonisti dell’impegno civile pronta a cimentarsi per far conoscere i mestieri del Cinema attraverso la forza ispirata dalla lezione di Ettore Scola, ricordando Vittorio Taviani e con la partecipazione del fratello Paolo e di Giuliano Montaldo, cofondatore di Fuori le Ali. Un’associazione che metta la conoscenza al servizio della società, per aprire possibilità di crescita dove illegalità, il disagio sociale, le discriminazioni impediscono ai più deboli di conquistare un ruolo della società. Il progetto è nato dall’iniziativa di Silva Scola, sceneggiatrice, e Marta Rizzo, studiosa di cinema e collaboratrice di Repubblica.it. L’avvio ci sarà il 24 Aprile ad Airola (Bn) con cinque film, a partire da “Ricomincio da tre”, di Massimo Torisi, nell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola (BN) inaugurando così la sua prima stagione di iniziative. L’esordio in carcere dell’Associazione. Saranno cinque i film e cinque gli incontri con autori e tecnici per aprire in carcere, con i mestieri del cinema, un dialogo oltre la devianza, il disagio della reclusione e della miseria, offrendo ai giovani detenuti l’occasione per avvicinarsi a un mondo che può rappresentare una strada sulla quale crescere verso una concreta possibilità di reinserimento. E poi alla Casa internazionale delle Donne e con progetti nelle periferie. È il progetto e l’obiettivo di “Fuori le Ali, che si apre il 24 Aprile prossimo nell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola (BN) inaugurando la sua prima stagione di iniziative. Gli incontri nel carcere di Airola. L’iniziativa nasce con l’adesione di cineasti sensibili all’impegno sociale e civile. Ma anche con quella del Ministero di Giustizia, di magistrati, Amnesty International, Cinemovel, “Libera contro le Mafie”, soltanto per citare alcuni partners. In questo primo appuntamento - dal 24 Aprile al 29 maggio prossimi, ad Airola (Bn) - all’interno del progetto Il “Palcoscenico della Legalità” dell’Associazione CO2, di Giulia Minoli e Giulia Agostini - “Fuori le Ali” porta cinque titoli storici del cinema italiano, che offriranno spunti di discussione, per i reclusi minorenni di Airola. Assieme a Marta Rizzo e Silvia Scola, ci saranno i registi Daniele Vicari, Wilma Labate, Mimmo Calopresti e Antonio Falduto; il maestro del montaggio italiano Roberto Perpignani e la docente del CSC e montatrice Annalisa Forgione; Il magistrato Giacomo Ebner; il direttore della fotografia e docente della Scuola Volonté Gherardo Gossi; un giovane neo diplomato del CSC. I cinque titoli storici del Cinema italiano. La novità di “Fuori le Ali” sta nel portare due diverse professioni del cinema abbinate tra loro in un unico incontro con i detenuti, per rendere chiaro come il film sia il risultato di molti mestieri diversi e amalgamati. A concludere le conversazioni tra professionisti e giovani detenuti, di volta in volta, verrà proposto un grande film della Commedia Italiana: “Ricomincio da tre” (Massimo Troisi, 1981), “Amici miei” (Mario Monicelli, 1975), “Il sorpasso” (Dino Risi, 1962), “C’eravamo tanto amati” (Ettore Scola, 1974), “La banda degli onesti” (Camillo Mastrocinque, 1956). Le ragioni dell’iniziativa. Spiegano Silvia Scola e Marta Rizzo, esordendo con una frase di Ettore Scola: “ ‘Il fatto che le cose non cambino, non trovino una soluzione, o una evoluzione positiva è il segno della sconfitta che tutta la società paga’. Ecco, cineasti, personalità impegnate nella lotta alle disuguaglianze e alle ingiustizie, intellettuali e professionisti dello spettacolo, provano a portare i mestieri del cinema dove diritti civili e dignità personali sono limitati o negati. Li portano nei luoghi di disagio sociale, fisico, psicologico. Insomma, ai margini e cioè dalle carceri minorili, alle periferie, agli ospedali, nel tentativo di imprimere un’evoluzione positiva - appunto - nella vita di persone disagiate”. I contributi. “Fuori le Ali”, ha intenzione di far conoscere il Cinema, non già come arte inarrivabile e privilegiata, ma come lavoro collettivo, artigianale, dove l’oggetto d’arte, il film, è frutto di mestieri diversi e peculiari, concertati tra loro. Scrittura, regia, recitazione, fotografia, scene, costumi, trucco, montaggio, suono, musica. L’Associazione ha trovato la sua definizione grazie al contributo imprescindibile di Giuliano Montaldo, Roberto Perpignani, Daniele Vicari, Mimmo Calopresti, Wilma Labate; del CSC-Cineteca Nazionale e di Felice Laudadio, di Annalisa Forgione; degli allievi e dei docenti del CSC e della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté; del Sindacato giornalisti cinematografici (SNGCI) con Laura Delli Colli; di Amnesty International Italia con Gianni Rufini; del Ministero della Giustizia con il magistrato Giacomo Ebner; di Francesco Bruni, Antonio Falduto e del giovane divoratore di cinema Fabrizio Ciavoni; della Regione Lazio; di Agis Scuola e di APT - Associazione Produttori Televisivi. Un calendario di impegni. “Fuori le Ali”; andrà nell’IPM (Istituto Penale Maschile e Femminile per Minorenni) di Casal del Marmo a Roma, dove, tra il mese di giugno e il mese di luglio 2018, porterà le maestranze e i professionisti del cinema tra i ragazzi, con incontri settimanali per ciascuna competenza della settima arte. Giovani tra i 14 e i 25 anni che vivono in reclusione dopo aver commesso reati che, evidentemente, li precedono per (in) cultura, degrado, disperazione. Ragazzi provenienti da luoghi di povertà e guerre come l’Africa del nord; o da culture complesse come quella Rom; da quella parte d’Italia più povera, emarginata, violenta e abbandonata, che rimane tragicamente nascosta tra le pieghe della società. “Fuori le Ali” parteciperà poi alla programmazione dell’Estate Romana della Casa internazionale delle Donne con il film Io la conoscevo bene (1965, regia di Antonio Pietrangeli; scritto da Ettore Scola e Ruggero Maccari). Sarà anche l’occasione per approfondire una collaborazione futura con la Casa Internazionale delle Donne e con tutte quelle realtà a essa legate che si occupano di difendere, sostenere e combattere per la tutela delle donne e dei loro diritti. Massa Marittima (Gr): spazio giochi del carcere, l’inaugurazione diventa spettacolo ilgiunco.net, 21 aprile 2018 Il 22 aprile nelle aree verdi del carcere massetano, sarà inaugurato l’ampliamento dello spazio giochi, la cui realizzazione è stata possibile lo scorso anno, sempre grazie al Forum del volontariato di Follonica. Così si andrà ad arricchire e migliorare l’area esterna che, nella bella stagione, ospita i colloqui dei detenuti con i loro familiari. Da anni la Direzione del carcere è impegnata in un lavoro di miglioramento dei luoghi ove si svolgono gli incontri con le famiglie, avendo particolarmente a cuore i più piccoli. In questa giornata, alle 16.30, il carcere si apre alla collettività, grazie anche all’aiuto del comune di Massa Marittima; si esibiranno il coro Goitre diretto dal maestro Maurizio Saragosa ed il Leopold Gospel Choir diretto da Rossano Gasperini; grazie all’aiuto del Comitato Inter-parrocchiale Opere Caritative di Follonica, la giornata sarà completata da un buffet preparato dagli stessi detenuti per tutti i presenti. Baby gang, meno denunce ma reati sempre più efferati di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 aprile 2018 La fotografia del fenomeno parla di minorenni con alle spalle famiglie disgregate e percorsi scolastici disastrosi. Reati sempre più gravi commessi da ragazzini che hanno alle spalle famiglie disgregate e percorsi scolastici disastrosi. È l’ultima fotografia delle baby-gang che viene fuori da una giornata di studio su “Baby gang, devianza, il racconto di un fenomeno sociale”, dedicata alla carta di Treviso, il codice deontologico per i giornalisti. E se le denunce di episodi criminali commessi da minorenni sono in calo, è vero però che la tipologia degli atti commessi colpisce per la sua efferatezza spesso gratuita. Da Maria De Luzenberger, procuratore presso il tribunale dei minorenni di Napoli, arriva l’identikit dei nuovi baby criminali: “Provengono da determinati quartieri: questo vuol dire che o c’è una contaminazione di quartiere o si tratta di figli di persone che hanno avuto già problemi con la giustizia. Quello che vediamo è che si tratta di famiglie spesso disgregate e di ragazzi che hanno percorsi scolastici disastrosi o accidentati. C’è la necessità di un maggiore collegamento tra i vari soggetti che operano sul fenomeno, a partire dalla scuola. Il problema è capire l’incremento, la frequenza di questi episodi e la loro efferatezza - spiega -. I dati delle denunce ci dicono che l’andamento non è crescita ma in diminuzione. Per l’efferatezza, invece, siamo di fronte a episodi sempre più gravi. Questo anche perché si tratta di una generazione di ragazzi molto assuefatti alla violenza”. La garante per l’infanzia Filomena Albano pone invece l’accento su alcune criticità del sistema che rendono più difficile un intervento efficace. “ Dobbiamo sapere chi sono i ragazzi autori dei fatti devianti e criminali, da quale contesto sociale e familiare provengono, quale è lo stato di precarietà lavorativa o il tasso di istruzione. Dietro ogni ragazzo che delinque c’è una responsabilità degli adulti. Per questo bisogna intervenire sugli adulti che sono corresponsabili, sulla famiglia, sulla scuola e sui servizi del territorio. Il problema è l’assenza di connessioni tra le reti istituzionali. La scuola da sola nulla può fare. Assistiamo a progetti anche molto belli che nascono e muoiono, bisogna strutturare reti permanenti che consentano il flusso di comunicazione per amplificare le connessioni. Il bullismo contro i professori è un fenomeno solo italiano? di Paolo Magliocco La Stampa, 21 aprile 2018 Gli episodi di violenza e intimidazione nei confronti di docenti delle scuole non sono un fenomeno solo degli ultimi anni e solo italiano. Negli Stati Uniti la American Psychological Association in uno studio pubblicato nel 2011 riteneva che questa forma di violenza avesse raggiunto livelli mai toccati prima. Lo studio citava una ricerca del 2008 che aveva registrato oltre 250.000 docenti, pari al 7% del totale, minacciati o aggrediti. Un’altra indagine del 2009 fissava invece all’11% gli insegnanti che avevano subito aggressioni verbali. L’ultimo rapporto della stessa Associazione presenta un livello del problema, registrato nel 2014, molto più grave, con l’80% dei docenti finiti nel ruolo di vittime in qualche modo. I dati del Dipartimento dell’Educazione statunitense indicano il 20% di docenti delle scuole pubbliche insultati, il 10% minacciati fisicamente e il 5% aggrediti. Il sito Nobullying, fondato da genitori negli Stati Uniti e che raccoglie esperienze e testimonianze anche da Canada e Gran Bretagna, in un articolo dell’ottobre del 2016 definisce il bullismo contro i docenti “una nuova epidemia”. In Gran Bretagna nel 2014 una professoressa venne accoltellata a morte da uno studente. Secondo una ricerca dello stesso anno della Association of Teachers and Lecturers il 57% del personale scolastico aveva subito aggressioni. Tuttavia i dati dal 2006 al 2012 delle sospensioni ed espulsioni di ragazzi dalle scuole pubbliche per episodi di violenza nei confronti degli adulti, pubblicati dal Guardian, mostravano che le sospensioni erano leggermente diminuite e le espulsioni si erano quasi dimezzate (da 980 a 550) in sei anni scolastici. Un’indagine dei sindacati britannici dello scorso hanno ha denunciato che la metà del personale non docente delle scuole sarebbe vittima di aggressioni e il 18% addirittura una volta alla settimana Uno studio del 2007 indagando sugli episodi di violenza nei confronti dei professori nelle scuole secondarie della Slovacchia scoprì che su 364 docenti intervistati erano 177, cioè il 49%, quelli che dichiaravano di aver subito almeno un episodio di violenza negli ultimi 30 giorni. In un secondo studio condotto nello stesso Paese e nello stesso anno ma limitato agli istituti professionali la percentuale di professori vittime di bullismo studentesco era risultata del 55%. Spagna. L’Eta chiede perdono per la “sofferenza causata dalla lotta armata” di Angela Maria Salis Il Manifesto, 21 aprile 2018 Il comunicato inviato a due giornali locali. L’organizzazione si scioglierà la prima settimana di maggio. Per la prima volta l’Eta ha chiesto pubblicamente perdono per il danno causato dalla lotta armata durante gli anni del conflitto basco. Sono passati quasi sette anni dall’annuncio definitivo della cessazione della lotta armata, era il 20 ottobre del 2011, e da allora un altro passo significativo per la risoluzione del conflitto basco è stato il disarmo dell’organizzazione, annunciato il 7 aprile e celebrato il giorno successivo a Baiona, nel nord dei Paesi Baschi. Nel comunicato datato 8 aprile, che l’Eta ha fatto recapitare ai giornali locali Gara e Berria, si leggono parole inedite e pesate. L’ex organizzazione armata, rivolgendosi direttamente al popolo basco, scrive di voler riconoscere “il danno causato” e di volersi impegnare per superare definitivamente le “conseguenze del conflitto” e non ripetere i suoi atti. Nel documento l’Eta ricostruisce uno scenario di “sofferenza incommensurabile”: “Morti, feriti, torture, sequestri e persone costrette a fuggire all’estero”. E intende “mostrare rispetto nei confronti dei morti, dei feriti e delle vittime”. “Ci dispiace veramente”. Le reazioni sono state numerose. Il governo spagnolo, tramite il suo portavoce Íñigo Méndez de Vigo, assicura che “non darà mai niente in cambio all’Eta” riferendosi alla possibile scarcerazione dei prigionieri baschi. Aggiunge inoltre che la “sconfitta” dell’organizzazione ha potuto aver luogo solo grazie “all’impegno delle Forze di Sicurezza dello Stato”. Iñigo Urkullu, il lehendakari (presidente della regione e del Pnv, il partito nazionalista-moderata), ha chiesto di aggiungere l’aggettivo “ingiusto” al danno causato. Per EH Bildu, forza politica indipendentista di sinistra, è un “fatto storico senza precedenti”. L’inaspettata dichiarazione dell’Eta non si può capire senza l’annunciata imminenza della sua dissoluzione. La televisione pubblica basca ha comunicato che l’organizzazione cesserà di esistere a partire dal primo fine settimana di maggio. Si attendono nuovi particolari nei prossimi giorni. Niente libertà per la Liberia: la svolta autoritaria di Weah presidente di Francesco Battistini Corriere della Sera, 21 aprile 2018 L’ex calciatore diventato presidente del Paese africano lottava per i diritti, oggi minaccia la stampa. È tornato Weah, è tornato Weah, e qualcuno in galera finirà. Parafrasando un famoso coro delle tifoserie anni Novanta, il Comitato internazionale per la protezione dei giornalisti (Cpj) lo stampa a chiare lettere: in Liberia, c’è un problema di libertà. E lo stesso dice un rapporto dell’Onu appena pubblicato: pur di zittire un giornale troppo critico col governo, il Front Page Africa, il partito di George Weah ha sporto causa per diffamazione e chiesto un risarcimento mostruoso di quasi due milioni di dollari (in un Paese dove il reddito medio è di 45 dollari al mese). L’Unione della stampa liberiana s’è riunita la scorsa settimana, “allarmata” per l’aumento di minacce, intimidazioni, molestie ai cronisti. E anche il corrispondente della Bbc, Jonathan Paye-Layleh, qualche giorno fa ha dovuto lasciare Monrovia denunciando gli avvertimenti ricevuti: “Ho paura che il presidente ordini il mio arresto - spiega il giornalista inglese - solo perché mi sono schierato contro di lui e ho chiesto conto del tribunale speciale per i crimini di guerra, non ancora istituito”. Da Weah sono arrivati solo attacchi verbali, ma ora che le accuse alla tv di Londra sono pubbliche e legittimate dal capo dello Stato, “che cosa potrebbe succedermi in un qualche angolo” per colpa di qualcuno delle sue migliaia di sostenitori? Liberia di stampa. Per un Paese con quel nome, primo rifugio degli schiavi liberati nell’Ottocento, il cartellino rosso ai giornalisti era l’ultima cosa che ci s’aspettava. Specie se ad alzarlo oggi è un ex pallone d’oro e “quarantatreesimo miglior calciatore del XX secolo” (parola di Pelé) che ha giocato tutta la sua vita per i diritti umani, costruendosi una carriera politica che tre mesi fa l’ha portato finalmente alla presidenza. Uno che inizia sempre i suoi discorsi in dialetto kru invocando “Amandla!”, che la forza sia con voi, l’urlo dei neri liberati. E che sul celebre motto mandeliano “una gente, una nazione, un destino”, sulla retorica sudafricana della Rainbow Nation ha convinto il 61 per cento della Liberia a votarlo, ponendosi come liberatore dopo decenni di vita politica tormentata, due guerre civili che hanno fatto 250 mila morti, l’incubo dell’ebola e di troppe piaghe che piazzano il Paese al 177° posto (su 184) nelle classifiche mondiali dello sviluppo. Cresciuto con la nonna in una bidonville di Monrovia e diventato famoso solo col calcio, scarso oratore, accusato di saper poco di politica e d’economia (chi l’ha preceduto, Ellen Sirleaf, ha studiato a Harvard e ha vinto perfino il Nobel: lui, come maestri politici e di vita, indica il suo ex presidente Berlusconi e il suo ex allenatore Wenger), George Dabliù ha sempre avuto dalla sua il coraggio dei gol impossibili: nel 1996, quand’era al Milan, si schierò contro il dittatore Taylor e chiese l’intervento dell’Onu; nel 2000, su pressione della stampa britannica, ottenne da Taylor la liberazione di quattro giornalisti inglesi accusati di spionaggio; nel 2002, prometteva una corte internazionale che punisse per i crimini di guerra. Il Weah presidente gioca tutta un’altra partita: come vice, s’è scelto proprio l’ex moglie di Taylor (giustificazione: “Chi non ha partecipato alla guerra civile?...”); sul tribunale speciale, ha cambiato radicalmente idea; le testate che glielo fanno notare, come la Bbc, vengono messe sotto processo o alla porta… “Vi garantisco il 200 per cento di libertà d’espressione e di stampa - si difende il presidente. Come può dare un giro di vite alla libertà di parola un uomo dal cuore tenero e dalle umili origini come me? Dico solo che i media dovrebbero ricordare anche i risultati raggiunti dal mio governo”. El Negro fatto di roccia, lo chiamava Maradona: anche il cuore tenero, dicono i rivali, s’è fatto di pietra. Iran. Appello per Iraee nessunotocchicaino.it, 21 aprile 2018 Golrokh Ebrahimi Iraee è una scrittrice e attivista politica iraniana condannata a sei anni di carcere per aver scritto un testo, non pubblicato, che critica la pratica della lapidazione in Iran. Iraee è in sciopero della fame dal 3 febbraio 2018, stiamo dunque parlando di 75 giorni di mancata assunzione di cibo che l’ha portata a perdere 25 chili e, da quanto rivelato da Simin Nouri, la Presidente delle donne iraniane in Francia in una intervista a Radio Radicale, è entrata in coma. In una lettera degli inizi di febbraio che Iraee ha scritto insieme ad un’altra donna, Atena Daemi, con lei detenuta nel reparto femminile della prigione di Evin ed anche lei in sciopero della fame ora però interrotto, si legge che le donne hanno avviato l’azione nonviolenta perché sono state picchiate e trasferite nella prigione di Gharchak, in violazione sia dell’art 513 del c.p.p. dell’Iran per il quale i detenuti hanno il diritto di scontare la pena in carceri del distretto giudiziario in cui sono state emesse le sentenze, o vicino alla loro città di residenza, sia dell’art 69 del regolamento penitenziario per cui i detenuti politici hanno il diritto a non stare in reparti di non politici. Ma c’è di più dietro la vicenda di Golrokh Ebrahimi Iraee, arrestata una prima volta il 6 settembre 2014, assieme al marito Arash Sadeghi, anch’egli attivista e più volte detenuto. Le autorità avevano messo a soqquadro la casa della coppia senza un mandato di perquisizione confiscando beni personali come computer, CD e documenti. Tra questi c’era un taccuino che Iraee usava come diario personale dove aveva annotato una storia di fantasia, quella di una donna che guardando un film del 2008, “La Lapidazione di Soraya M”, su una lapidazione per adulterio realmente avvenuta, in un moto di rabbia, aveva bruciato il Corano. Iraee è stata interrogata sul contenuto del diario e della storia, in una stanza adiacente a dove era detenuto il marito, da cui sentiva le torture a cui era sottoposto. L’hanno poi messa in isolamento per tre giorni, e per venti giorni non ha potuto incontrare né i familiari, né un avvocato, né un giudice. La Sezione 15 della Corte Rivoluzionaria l’ha accusata di “insulto all’Islam” e di “diffusione di propaganda contro il sistema”. Il processo, che si è concluso con una condanna a sei anni e mezzo, è stato segnato da tutta una serie di violazioni procedurali: il processo si concentrava sulle attività del marito, Sadeghi, rispetto alle quali Iraee non aveva modo di difendersi; il primo avvocato di Iraee è stato costretto a ritirarsi, e un secondo avvocato, dopo poco tempo, le è stato revocato. È stata condotta in carcere nell’ottobre 2016 e rilasciata su cauzione il 3 gennaio 2017, grazie anche ad un lungo sciopero della fame - 71 giorni! - del marito, nel frattempo condannato a 15 anni di carcere per “propaganda contro il sistema”. Tuttavia, la libertà è stata di breve durata: Iraee è stata ricondotta in carcere il 22 gennaio 2017 mentre andava a trovare Sadeghi in ospedale. Dal carcere Iraee ha continuato a cercare di comunicare con l’esterno, scrivendo diverse lettere aperte, anche una in cui ha criticato una visita di facciata condotta da ambasciatori stranieri nel carcere di Evin nel luglio 2017. Nel gennaio 2018, ad Iraee sono state mosse altre accuse come quella di aver insultato il Leader Supremo Ali Khamenei. La durezza della lotta di questa donna ci parla della durezza di un regime, quello iraniano, con soprusi ed ingiustizie tali da non lasciare altra opzione che quella scelta da Iraee, da Sadeghi e da Athena. Le condizioni oggi di Iraee sono gravissime e non possono lasciarci indifferenti perché l’Iran continuerà a produrre morte fintantoché durerà il silenzio sul destino riservato al popolo iraniano, alle sue cittadine e cittadini che mai come in questi mesi, con le dimostrazioni di piazza che non accennano a smettere, ci stanno parlando di un bisogno di libertà di diritti civili e politici, e non solo di un malessere economico.