Riforma carceri, il governo va avanti da solo. Orlando scrive al Parlamento di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 aprile 2018 Il decreto attuativo trasmesso alle Camere, senza attendere la decisione della capigruppo sulla Commissione speciale. Colpo di scena: il governo ha deciso che procederà in ogni caso all’approvazione del primo decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario. Fatta chiarezza sulle competenze della Commissione speciale, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha inviato il testo del provvedimento alle Camere, senza attendere ulteriormente che la capigruppo di Montecitorio rifletta maggiormente sulla questione, accogliendo l’appello sollevato dallo stesso presidente Roberto Fico, e si convinca così ad incardinare il provvedimento all’ordine del giorno dell’organismo temporaneo istituito in attesa di una maggioranza. A quanto si apprende da Via Arenula, il Guardasigilli Orlando avrebbe inviato una seconda lettera (dopo quella dell’11 aprile scorso) ai presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Fico. Questa volta però, insieme alla richiesta di usare tutta la loro autorevolezza per convincere i capigruppo ad aprire le porte della Commissione speciale al decreto legislativo giunto all’ultimo passo prima dell’approvazione definitiva, c’è anche un’informazione in più. Ricorda infatti Orlando che i dieci giorni di tempo che il Parlamento ha per rendere il parere decorrono dal momento in cui il decreto è stato trasmesso dal governo alle Camere. Passati questi dieci giorni - che ora possono cominciare ad essere contati - in qualunque caso, il Consiglio dei ministri potrà dare il via libera definitivo alla prima parte della riforma, quella sulle misure alternative, la più importante e incisiva nell’azione di contrasto al sovraffollamento carcerario e alla recidiva dei reati. È su questo cavillo “tecnico” che si erano appigliati i gruppi parlamentari ideologicamente contrari alla riforma. Il centrodestra quasi per intero e il Movimento 5 Stelle, per intenderci, che per mesi hanno gridato contro lo “svuota-carceri” e il “salva-ladri”. Sono loro che al Senato, nella Commissione giustizia presieduta dal centrista D’Ascola, hanno richiesto tante e tali correzioni all’articolo 4 bis (selezione dei reati per i quali vanno esclusi i benefici), da stravolgere completamente il senso del decreto legislativo. E siccome di Commissioni speciali temporaneamente istituite in attesa di quelle permanenti, in Parlamento, non è che ce ne siano state poi così tante, non è stato semplice neppure per il governo appurare quali fossero le competenze e per quali provvedimenti può - e soprattutto deve - lavorare l’organismo temporaneo. Sono state le indicazioni del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, a convincere il presidente della Camera Fico (che con il suo appello ha spezzato l’asse Lega-M5S) e ad aprire la via anche per l’esecutivo. Mercoledì, poi, è stata la volta del Consiglio superiore della magistratura che ha si è affiancata ai reiterati appelli degli avvocati penalisti e di tutto il mondo della giustizia che ha partecipato agli Stati generali dell’esecuzione penale. Il ministro Orlando però nella lettera ai presidenti Casellati e Fico ha sottolineato comunque “l’importanza che un provvedimento di tale portata abbia in ogni caso la seconda valutazione da parte della Commissione speciale”. Carceri, ancora niente riforma. Intervista all’avvocato Riccardo Polidoro (Ucpi) di Marco Magnano riforma.it, 20 aprile 2018 Dopo un percorso durato anni, cominciato con la sentenza Torreggiani della Cedu nel 2013 e passato attraverso gli Stati generali dell’esecuzione penale, la riforma è ancora oggi a un metro dal completamento. Ancora ferma a pochi passi dal traguardo la riforma dell’ordinamento penitenziario. Nonostante le richieste del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, la Commissione speciale della Camera non è tornata sui suoi passi e non ha inserito in calendario l’esame finale sul primo dei quattro decreti che compongono la riforma. Il parere della Commissione non è vincolante per il governo, che può comunque decidere di procedere all’approvazione definitiva, ma il testo del decreto deve essere necessariamente inviato alle commissioni. Tuttavia il testo, approvato lo scorso 16 marzo in Consiglio dei Ministri, non è mai arrivato al Parlamento perché si attendeva la formazione delle commissioni. “La mancata attuazione della riforma - ha affermato il ministro della Giustizia in una lettera inviata al Parlamento - rischierebbe di pregiudicare gli importanti passi compiuti, che hanno determinato la chiusura del monitoraggio al quale il nostro Paese era stato sottoposto a seguito della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’uomo del gennaio 2013”. L’urgenza della riforma è determinata dalla situazione carceraria del nostro Paese, ancora preoccupante. Durante i primi tre mesi del 2018 si sono registrati undici suicidi, mentre il numero dei detenuti continua a crescere: oggi sono oltre 58.000 le persone recluse, ben oltre i 50.000 posti disponibili. A questo va aggiunto che più di un detenuto su tre è ancora in attesa di giudizio. Nei giorni scorsi sono stati numerosi gli appelli, a partire da quello del presidente della Camera, Roberto Fico, che si è rivolto ai gruppi parlamentari sulla base delle indicazioni del Garante dei detenuti, Mauro Palma, fino all’intervento del Consiglio superiore della Magistratura, che ha chiesto al Parlamento di permettere alle Commissioni speciali di occuparsi della riforma dell’ordinamento penitenziario: il Csm ha chiesto esplicitamente di approvare il primo decreto attuativo licenziato in seconda lettura dal governo. Per contro, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha risposto a Fico affermando che “quella non è una materia da Commissione speciale”. Convinta della necessità dell’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario è invece l’Unione delle Camere penali italiane, che per protestare contro i ritardi e le reticenze ha deliberato l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria per i giorni 2 e 3 maggio 2018 e ha organizzato per il 3 maggio 2018, a Roma, una manifestazione nazionale. Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio sul carcere dell’Unione delle Camere penali italiane, spiega che “la riforma dell’ordinamento penitenziario è necessaria, quasi un obbligo per l’Italia”. Da dove discende questo obbligo? “L’Italia è stata condannata nel 2013 dalla Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) con una sentenza pilota, l’ormai famosa sentenza Torreggiani, e c’era un obbligo di intervenire soprattutto modificando il sistema, quindi proprio con la riforma dell’ordinamento penitenziario. Il nostro ordinamento è del 1975 e aveva recepito i principi costituzionali del 1948, ma dal 1975 a oggi non solo non ha trovato una concreta applicazione, ma poi ci sono stati degli innesti con delle leggi speciali dettate dall’emergenza, che dovevano essere momentanee e invece sono tutt’ora in vigore, norme che hanno completamente snaturato quello che era la volontà del legislatore del 1975. Oggi l’obbligo viene dall’Europa e abbiamo la necessità di far ritornare il nostro ordinamento al rispetto dei principi costituzionali”. Chi critica la riforma parla in sostanza di un decreto che ha solo lo scopo di far uscire i criminali dalle prigioni. È questo l’effetto principale? “Chi in questi giorni ha parlato di un decreto criminale, di un decreto salvaladri, dicendo che sarebbero usciti i mafiosi, fa solo cattiva informazione. La riforma mira in realtà a individualizzare i detenuti, a responsabilizzarli, a far sì che chi voglia possa seguire un programma di rieducazione proprio come prevede la Costituzione. È bene che si sappia che il detenuto a un certo punto esce dal carcere, quindi è bene far uscire un uomo diverso. La riforma responsabilizza anche il magistrato di sorveglianza che valuta il percorso che viene fatto, che può magari cominciare con il carcere e poi passare alle misure alternative. Questo primo schema di decreto favorisce proprio l’uso delle misure alternative, che definirei piuttosto pene alternative, perché sono comunque delle pene. Ricordiamo che la pena non è solo il carcere, ma lo sono anche gli arresti domiciliari o l’affido ai servizi sociali”. Tuttavia si potrebbe obiettare che così si fa venire meno la dimensione punitiva del carcere, quindi il suo effetto deterrente. Per contro chi sostiene la riforma ritiene che l’applicazione di pene alternative serva per scontare la pena restituendo qualcosa in termini di tempo e di lavoro alla società alla quale si è fatto un danno. Dove sta la verità? “Ci sono statistiche che ci dicono che chi sconta la pena interamente in carcere torna molto spesso a delinquere, ha una recidiva nel 70-75%, mentre chi fa uso di pene alternative torna a delinquere solo nel 10% dei casi. Un detenuto che sconta dieci anni di carcere, esclusivamente in carcere, è un detenuto che è solamente peggiorato, non migliorato. Dare la possibilità di fare un percorso per far sì che poi quando si esce dal carcere si sia una persona diversa da quando si è entrate è necessario. Ecco, la riforma favorisce la sicurezza tanto desiderata dai cittadini”. Il carcere oggi, nel dibattito politico ma anche in alcune fasce della popolazione, viene visto come una struttura positiva. Su questa percezione pesa anche la distanza, l’invisibilità dell’istituzione carceraria? “Certamente. Penso invece che il carcere debba essere una struttura trasparente, dovrebbe interessare molto di più i cittadini. Come Osservatorio sul carcere abbiamo proposto al ministro della giustizia Orlando una pubblicità progresso, una pubblicità istituzionale che possa far comprendere il senso della pena, possa avvicinare il cittadino al carcere. I cittadini devono comprendere che, come l’ospedale è un’istituzione che cura e guarisce le persone, il carcere è un’istituzione che deve punire ma deve anche rieducare, proprio come dice la Costituzione”. È possibile arrivare a un’approvazione parziale della riforma o è necessario procedere in modo complessivo? “La delega che ha avuto il governo dal Parlamento a giugno 2017 prevede tutta una serie di punti e poiché è una delega parlamentare è importante che il governo la eserciti appieno. Il primo schema di decreto è quello attualmente più avanti e riguarda soprattutto l’allargamento della concessione delle misure alternative. Poi c’è un altro schema di decreto che ha a oggetto il lavoro, la giustizia riparativa e l’ordinamento penitenziario minorile, che invece è un po’ più indietro, deve ancora passare alle Commissioni giustizia di Camera e Senato e quindi andrà atteso necessariamente che vengano istituite quelle commissioni. Infine c’è l’affettività, che pure è prevista espressamente dalla delega e che è stato accantonata perché sembra che la parola affettività, come la possibilità di avere rapporti sessuali in carcere, faccia paura, mentre in altri Stati questo avviene tranquillamente. Soprattutto però credo che non vada sottovalutata l’attesa di chi si trova oggi in carcere, parliamo di persone che da tanti anni vengono illuse e che devono sapere che è un loro diritto avere questa riforma”. Le carceri scoppiano e oltre 20mila potrebbero avere misure alternative di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2018 Presentato il XIV Rapporto di Antigone. A Larino affollamento del 202,8%, a Como del 200%. Sono detenuti con una pena residua inferiore a 3 anni, potenzialmente ammissibili a misure alternative, ma sono in cella e il loro numero è in costante aumento negli ultimi 27 mesi. Sono, infatti, 20.961 i detenuti con pena residua inferiore ai 3 anni, potenzialmente ammissibili a misure alternative, che invece sono risultati essere in carcere in base ai dati aggiornati alla fine del 2017. Nelle carceri italiane, inoltre, non c’è nessuna emergenza stranieri, ma si registra un forte aumento dei detenuti sotto osservazione per radicalizzazioni (nel 2017 sono 506 contro 365 del 2016, il 72% in più). Sono questi i dati emersi da “Un anno in carcere”, il XIV rapporto di Antigone presentato ieri mattina a Roma. Per Antigone, il 2017 avrebbe dovuto essere l’anno della “svolta” per il sistema penitenziario italiano. “Avrebbe dovuto chiudersi un ciclo - scrivono Michele Miravalle e Alessio Scandura nel rapporto, idealmente iniziato nel 2013 con la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Era atteso un nuovo ordinamento penitenziario, che, dopo quarant’anni avrebbe dovuto modificare e “ammodernare” l’impianto originario del 1975, sulla base del cospicuo lavoro degli Stati generali dell’Esecuzione penale”. Questione ribadita dal presidente di Antigone Patrizio Gonnella durante la presentazione, ricordando che “questa riforma non è affatto una svuota-carceri e abbiamo bisogno di far crescere la qualità di vita in carcere, spostando l’asse verso l’esecuzione penale esterna: non abbiamo oppositori nell’Amministrazione, ma nella politica. Bisogna ricordare che esecuzione penale esterna vuol dire sicurezza, mentre il carcere chiuso, l’ozio forzato, non producono sicurezza”. Nel 2017, tra l’altro, nelle carceri italiane ci sono stati 52 suicidi, 7 in più rispetto al 2016. Nel corso del 2017 Antigone ha visitato 86 delle 190 carceri in giro per l’Italia: 36 nel nord, dalla Valle d’Aosta alla Romagna, 20 in centro Italia e 30 tra il sud e le isole. Il carcere più grande dove Antigone si è recato è Poggioreale, una cittadina nel centro della città di Napoli che ospita ormai oltre 2.200 detenuti (erano poco più di 2.000 un anno fa) ed in cui lavorano più di 1.000 persone. Il più piccolo, visitato, è Arezzo, una Casa circondariale con una capienza ufficiale di 101 posti ma in cui da tempo, a causa di interminabili lavori di ristrutturazione, le presenze non superano le 30 unità. Antigone ricorda il luogo comune duro a scalfirsi, quello che “in carcere non ci va più nessuno”. Eppure durante le visite l’associazione ha dovuto registrare che il sovraffollamento è tornato, ed anzi in alcuni istituti non è mai andato via. Un sovraffollamento evidenziato dalla mappa tracciata dall’associazione Antigone sulle 10 carceri più affollate del Paese. Al 31 marzo 2018, era il carcere di Larino, in Molise, a presentare il più alto tasso di affollamento: con una capienza di 107 posti letto, ospitava 217 detenuti (tutti uomini e di cui uno su quattro straniero), con un affollamento del 202,8%. A seguire, le tre carceri più affollate si trovano tutte in Lombardia: quello di Como, con un tasso del 200% (462 detenuti per 231 posti, con 56 donne e 242 stranieri), è l’istituto più affollato della regione. “Vi abbiamo trovato - osserva Antigone detenuti che non avevano 3 metri quadri di spazio a disposizione. Le condizioni igienico- sanitarie sono critiche. Molte docce sono prive di diffusori e alcune sono inutilizzabili a causa degli scarichi intasati. L’acqua calda in cella non è garantita”. Ci sono poi l’istituto Canton Mombello, a Brescia, affollato al 192,1% (363 detenuti per una capienza pari a 189 unità, senza presenze femminili e con un’utenza straniera che supera la metà) e quello più piccolo di Lodi (86 persone, di cui 50 stranieri, per 45 posti), con un tasso del 191,1%. Il quinto carcere per tasso di affollamento è quello di Taranto, dove in 306 posti vivono 583 detenuti (di cui 25 donne e 41 stranieri), per un tasso pari a 190,5%, seguito da altri penitenziari lombardi: Brescia Verziano (187,5%: 72 posti, 135 detenuti, di cui 51 donne e 50 stranieri), Busto Arsizio (186,7%: 240 posti, 448 detenuti, di cui 263 stranieri) e Bergamo (179,8%: 321 posti, 577 detenuti, di cui 38 donne e 318 stranieri) sono in sesta, settima e ottava posizione. Il nono e il decimo posto nella classifica delle carceri più affollate d’Italia sono infine occupati dall’istituto di Chieti (175,9%:, con 139 detenuti, di cui 31 donne e 32 stranieri, che vivono in 79 posti letto) e da quello di Pordenone (173,7%, 38 posti per 66 detenuti, di cui circa la metà composta da stranieri). “I detenuti aumentano - sottolinea ancora Antigone - mentre diminuisce il numero dei reati denunciati alle forze di polizia”. Per quanto riguarda le misure alternative, Antigone osserva che sono 20.961 i detenuti con pena residua inferiore ai 3 anni, potenzialmente ammissibili a misure alternative, che invece sono risultati essere in carcere in base ai dati aggiornati alla fine del 2017. Numeri ‘ bassissimi’, evidenza il rapporto, sono quelli relativi al regime di semilibertà (878), mentre quasi 11 mila (10.969) sono le persone in detenzione domiciliare. Sono invece 15.523 quelle in affidamento in prova ai servizi sociali. Cresce invece il numero di adulti (12.278) che usufruiscono dell’affidamento in prova. “Il lavoro è l’elemento principe del recupero per i detenuti, le nostre strutture si devono trasformare in aziende, devono essere produttive e tutti i detenuti impegnati in attività!”. Lo ha sottolineato il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo intervenendo alla presentazione del rapporto di Antigone. Il capo del Dap, in particolare, ha voluto ricordare i protocolli firmati con l’Anci e con alcuni sindaci - tra cui Virginia Raggi - per impiegare i detenuti per il decoro nelle aree verdi nelle città, nonché quelli siglati con “importanti realtà imprenditoriali del Paese”, per attività produttive. Antigone, nel rapporto, evidenza come il numero dei detenuti lavoratori sia cresciuto negli anni, passando dai 10.902 (30,74%) del 1991 ai 18.404 (31,95%) del 2017, con percentuali omogenee nelle diverse aree geografiche (32,5% al Nord, 33,1% al Centro e 31% Sud e Isole). La quasi totalità dei lavoratori risulta però alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria (86,52%) e i detenuti vengono retribuiti nel rispetto dei Ccnl di categoria. Negli ultimi anni il budget stanziato per le mercedi (salario) nei vari istituti, che permette di retribuire i detenuti che lavorano per l’Amministrazione penitenziaria, è quasi raddoppiato. Infatti mentre nel 2010 sono stati stanziati 54.215.128 euro (836,7 euro per detenuto), nel 2017 gli istituti hanno avuto a disposizione 100.016.509 euro (1.830 euro per detenuto). Il rapporto però evidenzia l’incredibile divario tra nord e sud per quanto riguarda la volontà delle imprese di lavorare in carcere. Meno reati ma più detenuti: oltre 58 mila di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2018 Il numero dei reati denunciati nel 2016 è il più basso degli ultimi 10 anni, eppure il numero di detenuti nelle carceri italiane, che era sceso al minimo di 52 mila a fine 2015, è di nuovo in aumento: 58.223 al 31 marzo, una cifra cresciuta al ritmo di 600 persone negli ultimi tre mesi. A segnalarlo, nel rapporto sulle condizioni di detenzione, è l’associazione Antigone che da vent’anni, con i suoi osservatori, visita le carceri e accende un faro sulle disfunzioni del sistema. A fine 2012, pochi giorni prima della sentenza Torreggiani della Corte Europea per i diritti dell’uomo, che ha imposto provvedimenti strutturali per affrontare il sovraffollamento, i detenuti erano 65.701. Le misure adottate hanno portato quel numero fino a un minimo di 52.164 presenza a fine 2015. Dopodiché c’è stata un’inversione di tendenza e le carceri hanno ripreso a riempirsi. Antigone: approvare riforma penitenziaria - Di qui l’appello lanciato da Antigone a “non perdere l’occasione” e approvare la riforma dell’ordinamento penitenziario che, tra l’altro, allarga il ricorso alle misure alternative alla detenzione “di gran lunga meno costose del carcere e più capaci di ridurre la recidiva e garantire la sicurezza della società”. Il decreto approvato dal Cdm a metà marzo in secondo esame preliminare ha bisogno di un parere (non vincolante) prima del via libero definitivo da parte del governo. Ma non è entrato tra le materie di competenze delle commissioni speciali istituite in Parlamento in attesa della nascita del governo, a causa dell’ostilità di centrodestra e M5s. Le irregolarità riscontrate - Antigone ha visitato 86 carceri (su 189), 36 nel nord, 20 in centro Italia e 30 tra il sud e le isole. Dal più grande, Poggioreale, che ospita 2.200 detenuti, in cui lavorano più di 1.000 persone, al più piccolo, Arezzo, dove ci sono non più di 30 persone. In 10 istituti tra quelli visitati hanno trovato celle in cui i detenuti non avevano a disposizione la soglia minima di 3mq calpestabili, in 50 celle senza doccia ed in quattro celle in cui il wc non era in un ambiente separato. Le carceri più affollate sono in Lombardia: Como, con un tasso del 200% (462 detenuti per 231 posti, con 56 donne e 242 stranieri), e Brescia Canton Mombello, 363 detenuti su una capienza di 189, oltre la metà sono stranieri. Diminuita percentuale stranieri detenuti - Nel suo rapporto Antigone definisce un “bluff populista” la correlazione tra migranti e reati. “Non c’è un’emergenza stranieri, non c’è correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere” si legge nel rapporto che spiega come negli ultimi quindici anni, a partire dal 2003, gli stranieri residenti in Italia sono più che triplicati mentre il tasso di detenzione degli stranieri è diminuito di tre volte, osserva Antigone. Se, infatti, nel 2003 su ogni cento stranieri residenti in Italia (erano circa 1 milione e mezzo) l’1,16% finiva in carcere, oggi (che sono circa 5 milioni) è lo 0,39%. Rispetto al 2008 “ci sono 2 mila detenuti stranieri in meno”. I più numerosi sono i tunisini 2.153 e i marocchini 3.676. 506 osservati per radicalizzazione - Va rilevato però che nel 2017 i detenuti sotto osservazione per radicalizzazione sono molto aumentati rispetto al 2016: 506 contro 365. Questi detenuti sono monitorati dal Dap con tre livelli di allerta: alto, medio e basso. E tra i 242 oggetto di un alto livello di attenzione, 180 sono in carcere per reati comuni e 62 perché sospettati o condannati per reati connessi al terrorismo islamico. I detenuti che si dichiarano di fede musulmana sono 7.194, ma sono autorizzati ad entrare in carcere solo 17 imam. Recidiva, il 39% detenuti torna dentro entro 10 anni - Quanto al fenomeno della recidiva, Antigone segnala che il 39% delle persone uscite dal carcere nel 2007 vi ha fatto rientro, una o più volte, negli ultimi 10 anni. Non solo. Il 37% dei circa 58 mila detenuti attualmente in carcere non ha alle spalle precedenti carcerazioni, oltre 7 mila sono, invece, detenuti abituali, già stati in carcere più di 5 volte. Dati commentati così: “troppo spesso il carcere non aiuta la sicurezza dei cittadini”. Antigone rileva, invece, con soddisfazione, che sono in aumento le persone che usufruiscono della messa alla prova, una delle riforme sperimentate per evitare il sovraffollamento: sono attualmente 12.278. “Ci vorrebbe ora - osserva l’associazione nel suo rapporto, presentato oggi - un grande investimento in risorse umane e sociali per far sì che i progetti vadano a buon fine”. Cresce pericolo jihad nelle carceri: oltre 500 detenuti considerati a rischio di Andrea Gualtieri La Repubblica, 20 aprile 2018 Presentato il XIV rapporto di Antigone sul sistema penitenziario. Si sgonfia l’allarme della criminalità legata alla presenza dei migranti: 4 detenuti su 10 tornano in prigione, ma ad essere recidivi sono soprattutto gli italiani. Nel 2017 aumentano però del 72 per cento i casi di possibile radicalizzazione: 242 sono al massimo livello di allerta. Il problema della carenza di educatori e imam autorizzati. Nelle carceri italiane i detenuti considerati a rischio di radicalizzazione jihadista sono aumentati del 72 per cento nel 2017 rispetto all’anno precedente. Al 31 dicembre ne risultavano 506, contro i 365 del 2016. Ed è cresciuto anche il loro grado di pericolosità: 242 sono classificati al più alto livello di rischio (quasi un terzo in più dell’anno precedente) e altri 150 vengono ritenuti ad un livello medio (esattamente il doppio rispetto al 2016). Sono 114, invece, quelli a basso pericolo: in calo rispetto ai 126 registrati un anno prima. I numeri emergono dal XIV dossier sulle condizioni di detenzione pubblicato oggi dall’Associazione Antigone. E l’impennata di casi di integralismo stride con i dati relativi alla presenza di fugure specializzate nella prevenzione. I mediatori culturali sono solo 223: uno ogni 88 detenuti. E il rapporto aumenta ancora se ci si concentra solo sui maghrebini. Diciassette in tutta Italia sono invece gli imam autorizzati ad entrare nelle celle, nonostante il loro contributo sia considerato prezioso nel prevenire degenerazioni fondamentaliste tra i musulmani. Ad essere carente, in realtà, è tutto il personale penitenziario dell’area educativa. Fra il 2016 e il 2017 si è registrato un taglio del 27 per cento delle risorse e i 1.377 educatori si sono ridotti a 999. Col risultato che ci sono strutture nelle quali ognuno di loro deve occuparsi dei percorsi individuali di 90 o 100 detenuti. Dove si può ci si arrangia con i volontari: sono quasi 17mila, in aumento rispetto agli anni precedenti. “Al contrario - denuncia Antigone - gli agenti penitenziari sembrano in eccesso rispetto ad altri Paesi: in Italia la media è di 1,8 detenuti per ogni agente, mentre negli altri Stati del Consiglio d’Europa è di 3,5 a 1”. In totale, i carcerati in Italia al 31 dicembre scorso erano 57.608. Negli ultimi due anni sono aumentati di oltre seimila unità. Ma soprattutto le statistiche rivelano che il 40 per cento dei detenuti torna in galera entro 10 anni. E per settemila persone attualmente imprigionate, le porte delle celle si sono aperte già dalle 5 alle 9 volte. “Chi esce dal carcere, troppo spesso vi ritorna: è il sintomo che il reinserimento sociale presenta notevoli limiti ed è per questo che non va persa l’occasione di procedere con la riforma dell’ordinamento penitenziario”, sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, richiamando l’attenzione sul decreto delegato che il governo ha lasciato in eredità al nuovo parlamento e per il quale il presidente della Camera, Roberto Fico, ha chiesto ai gruppi politici di riconsiderare la possibilità di assegnazione alla commissione speciale che gestisce le pratiche nella fase transitoria. “È una riforma - fa notare Gonnella - che interviene solo su alcuni aspetti. Si poteva fare di più e purtroppo alcune norme essenziali sono rimaste al palo, come quelle sui minori o sulla sessualità. Ma se gli ultimi passaggi legislativi saranno portati a termine entro la scadenza di giugno, ci sarà un passo in avanti su temi delicati come la salute psichica, la vita interna alle carceri, il sistema disciplinare e in particolare l’accesso alle misure alternative e i rapporti con l’esterno che sono essenziali proprio per accompagnare il ritorno ad una vita normale dopo la detenzione”. I detenuti con una più alta recidiva sono di nazionalità italiana: addirittura il 4,8 per cento degli italiani ha commesso oltre 10 reati, mentre tra gli stranieri la percentuale scende allo 0,8 per cento. E le statistiche rivelano anche quello che Antigone definisce “il grande bluff populista” dell’emergenza della criminalità legata ai migranti. Riferisce infatti il rapporto che negli ultimi 15 anni gli stranieri residenti in Italia sono più che triplicati, mentre la loro presenza nelle carceri si è ridotta di quasi tre volte: nel 2003 erano presenti circa un milione e mezzo di stranieri e in prigione se ne trovava l’1,16 per cento, mentre oggi che in tutto il Paese sono circa 5 milioni, ne risulta imprigionato solo lo 0,39 per cento. “Il patto di inclusione paga e assicura sicurezza”, evidenzia Antigone, riportando come caso paradigmatico quello della comunità romena: negli ultimi anni i detenuti sono diminuiti di 1.100 unità, nonostante i cittadini liberi immigrati siano quasi centomila in più. Il 38,9 per cento degli stranieri che si trova in carcere ha subito condanne legate alla droga. Se si sommano agli italiani, il totale dei detenuti coinvolti nei reati per stupefacenti supera quota 19mila, mentre 23mila hanno commesso crimini contro la persona e 32mila contro il patrimonio. Gli ergastolani sono 1.735, i confinati al regime duro del 41bis sono 724. “Sono invece oltre 20mila i detenuti che hanno una pena residua inferiore ai tre anni e quindi potrebbero accedere a misure alternative, invece restano dentro”, sottolinea Antigone. Al 31 dicembre solo 800 detenuti potevano andare a lavorare all’esterno del carcere. E in alcune regioni si esce meno che in altre: “La pena non è dappertutto uguale - si legge nel rapporto, esiste una differenza di trattamento e molto dipende dalla magistratura di sorveglianza: nel Lazio ad esempio si concedono pochissimi permessi premio, sette volte meno che in Lombardia”. Non è uguale nemmeno la vita nelle prigioni. Poggioreale, a Napoli, è una città nella città, con 2.200 persone rinchiuse. Arezzo ospita invece appena 30 persone. Finire ad esempio a Larino, in Molise, significa stringersi in 217 in una struttura che dovrebbe ospitare 107 reclusi: un indice di sovraffollamento del 202 per cento, a fronte di una media nazionale del 115. A Como ci sono 462 persone schiacciate in una capienza di 231 posti, con condizioni igieniche definite “critiche”, docce con gli scarichi intasati e prive di diffusori, acqua calda a singhiozzo. E soprattutto uno spazio a disposizione di ogni detenuto che è inferiore ai 3 metri quadri previsti dalle norme europee per le quali l’Italia, in passato, ha già subito una condanna dalla Corte di Strasburgo. Da quei fazzoletti di pavimento, a volte si riesce a fuggire: 18 le evasioni registrate dai penitenziari nel 2017. Più spesso, però, la disperazione degenera. I suicidi sono stati infatti 52, 7 in più del 2016. E gli atti di autolesionismo 9.510. “Ma abbiamo potuto verificare - garantisce Antigone - che in un carcere come Bollate, caratterizzato da un regime a celle aperte, gli eventi critici sono marginali”. Capitare in una prigione piuttosto che in un’altra può essere una condanna aggiuntiva. Come si decide se un detenuto musulmano in Italia è un terrorista o no di Luca Gambardella Il Foglio, 20 aprile 2018 Un nuovo studio dice che i radicalizzati nelle carceri del nostro paese sono sempre di più. Ma l’identificazione dei potenziali terroristi islamici troppo spesso è lasciata al caso. Alcuni aspetti del processo di radicalizzazione islamica dei carcerati restano un mistero, spiega al Foglio Claudio Paterniti, ricercatore di Antigone, associazione che proprio oggi ha diffuso i dati aggiornati sulla popolazione carceraria italiana. “Nel 2017 i detenuti sotto osservazione per radicalizzazione sono stati in forte aumento rispetto all’anno precedente: 506 contro 365 del 2016, cioè il 72 per cento in più”. È il dato preoccupante che emerge dal rapporto dell’associazione, svolto in base ai numeri forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Il fenomeno riguarda anche altri paesi europei e tra gli attentatori dello Stato islamico erano molti quelli ad essersi radicalizzati in carcere. È il caso di Abdelhamid Abaaoud, che quando uscì di prigione nel 2012 diede da subito “i primi segni della radicalizzazione”, come ha raccontato suo padre Omar. Il giovane belga, figlio di immigrati marocchini, viveva a Bruxelles e prima di essere arrestato frequentava una scuola privata di alto livello, il Collège Saint-Pierre d’Uccle. Abdelhamid era finito in prigione per piccoli reati, droga, qualche furto. Ma solo quattro anni dopo il rilascio, il ragazzo ricompare in Siria, dove combatte per lo Stato islamico, col nome di battaglia Abu Omar al Baljiki. Infine, nel novembre 2015, il 28enne diventa la mente del commando che uccide 129 persone a Parigi. Come Abaaoud anche altri attentatori del Califfato, da Salah Abdeslam ad Anis Amri, si sono radicalizzati in cella. L’orientalista e politologo francese Olivier Roy ha provato a dare una spiegazione: “Il carcere amplifica molti dei fattori che alimentano oggi la radicalizzazione - scrive Roy sul Guardian: la dimensione generazionale, la rivolta contro il sistema, la diffusione di un salafismo semplificato, la formazione di un gruppo coeso, la ricerca di dignità legata al rispetto della norma e la reinterpretazione del crimine legittimato come protesta politica”. E se il numero delle conversioni alla religione islamica in prigione aumentano in tutta Europa, la vera sfida è capire in quali casi l’appartenenza all’islam nasconda il seme dell’integralismo. In Italia la prevenzione e l’identificazione dei potenziali terroristi islamici nelle carceri è lasciata troppo spesso alla sensibilità e alla percezione di chi opera a contatto coi detenuti, piuttosto che a regole organiche. “Chi è sotto osservazione è monitorato con tre livelli di allerta: alto, medio e basso”, spiega Paterniti: “242 sono oggetto di un alto livello di attenzione (il 32 per cento in più rispetto al 2016), 150 di un livello medio (il 100 per cento in più del 2016) e 114 di un livello basso (nel 2016 erano 126)”. A spiegare al personale delle carceri come riconoscere un potenziale terrorista islamico sono le linee guida di un gruppo di lavoro della Commissione europea e un manuale pubblicato dalle Nazioni Unite. Nei documenti si incoraggia a tenere sotto osservazione sia l’aspetto fisico del detenuto (se si faccia crescere la barba o no, per esempio) sia i suoi comportamenti (quante volte prega, eventuali fenomeno di violenza nei confronti delle guardie carcerarie). “Ma se e quanto questi elementi siano sufficienti per decidere se un musulmano è un terrorista oppure no resta poco chiaro. L’unica strategia applicata dal Dap è quella della separazione dei detenuti radicalizzati, e di quelli a rischio radicalizzazione, dagli altri. Per il resto non esiste un approccio coerente a livello nazionale”, dice Paterniti. “Oggi in Italia ci sono 62 reclusi in regime di alta sicurezza per reati connessi al terrorismo, ma solo 4 sono stati condannati in via definitiva. Molti di questi finiscono nelle stesse sezioni penitenziarie e il rischio che i veri radicalizzati possano influenzare quelli presunti è elevato”. Inoltre, il 42 per cento dei carcerati che provengono da paesi a maggioranza musulmana non dichiara la propria confessione religiosa: questo avviene - spiega Antigone - soprattutto per il timore di discriminazioni in carcere, ma il sospetto del Dap è che così facendo alcuni di questi provino a sottrarsi al piano di contrasto alla radicalizzazione. Le difficoltà nella gestione di questi detenuti “speciali” non riguardano solo l’Italia, ma sono analoghe a quelle affrontate nelle carceri di Francia, Belgio e Regno Unito. Ma a differenza di questi paesi, l’Italia resta ancora più indietro. Per provare a risolvere i problemi del sovraffollamento delle carceri e della scarsa formazione del personale, lo scorso anno la Camera aveva approvato una proposta di legge che però si è arenata al Senato. Secondo i dati del Dap, nel 2017 sono stati solo 10 i componenti del personale penitenziario che hanno seguito corsi di lingua araba, mentre continuano a mancare interpreti e mediatori culturali. Un passo avanti era stato compiuto col Protocollo di intesa siglato nel 2015 tra il ministero della Giustizia, il Dap e l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). Il protocollo prevedeva l’accesso di imam accreditati negli istituti di pena per permettere che i detenuti di fede musulmana potessero contare su un’assistenza religiosa ufficiale e controllata. Ma oggi sono solo 8 gli imam dell’Ucoii coinvolti dal programma in tutta Italia, lasciando campo libero al proselitismo degli “imam fai da te” in carcere. Associazione Antigone: ecco come vivono i detenuti nelle prigioni italiane di Gaetano De Monte osservatoriodiritti.it, 20 aprile 2018 Sovraffollamento cronico, celle senza doccia, la condanna della Corte europea per i diritti dell’uomo. E i suicidi dietro le sbarre, ancora troppi. Ecco cosa emerge dall’ultimo Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone. “Delle celle lisce non vogliamo parlare? E delle celle di punizione dove avevate detenuti senza materassi e cuscini e dove non potevano avere penne e foglio per scrivere una lettera? E del reparto infermeria dove mettevate anche detenuti con problemi psichici nudi obbligandoli ad avere le finestre aperte? Fino al 2013 qui accadevano cose assurde”. Era il 3 marzo del 2017, e questo scriveva, in una lettera indirizzata all’associazione Antigone, Antonio (il nome è di fantasia), un detenuto che ancora oggi si trova recluso all’interno della casa circondariale Carmelo Magli di Taranto. Storie di questo tipo sono contenute all’interno dell’ultimo rapporto sul sistema carcerario italiano presentato ieri a Roma nella sede del Centro servizi per il volontariato. “Negli scorsi mesi abbiamo visitato 86 carceri, dalla Valle d’Aosta alla Romagna”, si legge in “Un anno in carcere: XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione” di Antigone. “In dieci istituti, tra quelli che abbiamo visitato, c’erano celle in cui i detenuti non avevano a disposizione neppure 3mq calpestabili. Nella metà dei penitenziari che abbiamo visto c’erano celle senza docce, o, peggio ancora, in quattro istituti abbiamo riscontrato la presenza del wc in un’ambiente non separato dal resto della cella”. E c’è dell’altro: “Abbiamo riscontrato in media la presenza di un educatore ogni 76 detenuti, il 43% degli istituti visitati non aveva corsi di formazione professionale attivi, oltre che spazi per le eventuali lavorazioni”. Ma è il sovraffollamento dei penitenziari una delle maggiori preoccupazioni dell’associazione che da 20 anni è autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare i 190 istituti di pena italiani, a entrare nelle carceri con prerogative simili a quelle dei parlamentari. Il carcere di Larino, in Molise, presentava fino al 31 marzo scorso il maggior tasso di affollamento. Con una capienza massima pari a 107 posti letto, infatti, ospitava 217 detenuti, con una percentuale di affollamento del 202,8 per cento. A livello regionale, le prigioni della Lombardia sono le più affollate. A Como, con un tasso del 200%, si trova il carcere più affollato della regione, il secondo d’Italia; un penitenziario in cui “abbiamo trovato detenuti che non avevano 3 metri quadri di spazio a disposizione, dove le condizioni igienico-sanitarie erano critiche, e molte docce erano inutilizzabili a causa degli scarichi intasati”. In media, per tutti gli istituti considerati, il tasso di sovraffollamento è pari al 115,2 per cento. Mentre il tasso di detenzione - numero di detenuti per numero di residenti in Italia - è pari a circa un detenuto ogni mille abitanti. Corte dei diritti dell’uomo su sistema carcerario italiano - Negli ultimi due anni i detenuti sono cresciuti di circa 6.000 unità. E il sovraffollamento degli spazi è aumentato di conseguenza. Il tutto, va notato, nonostante una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, risalente ormai a 5 anni fa, avesse condannato il comportamento dello Stato italiano proprio per le condizioni dei suoi detenuti. Non solo. Tutto ciò accade mentre diminuiscono i crimini, come già si registrava nel report dell’anno scorso di Antigone. Per esempio, il numero dei reati denunciati alle forze di polizia e all’autorità giudiziaria nello scorso anno è stato il più basso degli ultimi 10 anni. E c’è una correlazione inversamente proporzionale anche tra l’aumento del numero degli stranieri presenti oggi in Italia e il numero di detenuti stranieri. Questi ultimi, infatti, sono 2.000 in meno rispetto a dieci anni fa. Questa stima conferma come non ci sia alcuna correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere. Ogni allarmismo in questo senso, numeri alla mano, pare dunque ingiustificato. Situazione carceri italiane: i suicidi in case circondariali - Secondo gli ultimi dati raccolti dall’Osservatorio sulle carceri, Ristretti Orizzonti, nei primi tre mesi del 2018 ci sono stati 11 suicidi nelle carceri italiane. E 52 persone si sono tolte la vita in cella lo scorso anno. I tentativi di suicidio sono stati oltre un migliaio. E 123 è il numero dei reclusi deceduti nel 2017 in seguito a “morte naturale”. Le chiamano così, “morti naturali”, anche se spesso nascondono un disagio profondo legato alle condizioni di detenzione. Quelle del carcere di Belluno, in Veneto, ad esempio, il detenuto Riccardo (nome di fantasia) le ha raccontate così: “Sono stato detenuto 7 mesi a Baldenich. Dal maggio 2016 fino a gennaio 2017. Le celle sono sovraffollate. Il bagno della cella è di un metro quadrato, e non c’è acqua calda, considerando che a Belluno il clima è molto freddo”. E ancora: “Episodi di autolesionismo ne vedi tutti i giorni. Persone che tentano di suicidarsi ingoiando oggetti diversi come batterie, taglia unghie, accendini”. Quasi 2.500 donne detenute e 70 bimbi crescono in cella Libero, 20 aprile 2018 Aumentano i bambini “detenuti”, ovvero che vivono in carcere con la propria mamma. Secondo il rapporto Antigone, al 31 marzo dello scorso anno le donne in carcere erano 2.437, il 4,1% della popolazione detenuta. I bambini conviventi con 58 detenute madri, invece, sono 70 contro i 50 dello scorso anno. Restano bassi, secondo il rapporto dell’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, solo un detenuto su 5 va a scuola e il tasso di occupazione in carcere è del30%. In aumento costante, invece, le presenze nelle carcerinegliultimi27mesi: dal31dicembre 2015 a oggi, il numero è cresciuto di 6.059 unità e il tasso di detenzione (il numero di detenuti rapportato a quello della popolazione residente) è pari a un detenuto ogni mille abitanti. Nel 2012, prima della sentenza Torreggiani sul sovraffollamento dei penitenziari, i detenuti erano 65.701, scesi poi, a fine 2015, a 52.164 unità. Al 31 dicembre scorso, su 50.499 posti ufficiali, il numero di reclusi era di 57.608 e il31marzo scorso è stata raggiunta quota 58.223, con un tasso di sovraffollamento pari al 115,2%. L’Italia è inoltre il quinto Paese dell’Ue con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: nel 2017 in attesa di sentenza definitiva erano il 34,4% contro una media europea del 22%. Al 31 dicembre scorso, gli ergastolani risultavano essere 1.735. Sono invece 724 i detenuti sottoposti al 41bis (1,2% del totale), mentre quelli in sezioni di alta sicurezza sono 8.862. I detenuti aumentano, sottolinea ancora Antigone, mentre diminuisce il numero dei reati denunciati alle forze di polizia (nel 2016 è stato il più basso degli ultimi 10 anni). In particolare, in calo risultano essere gli omicidi, -11,8% tra il 2016 e il 2017, passati da 389 a 343 (46 attribuibili alla criminalità e 128 consumati in ambito familiare/affettivo). Al 31 dicembre scorso, le tipologie di reato per cui vi sono detenuti in carcere restano pressoché invariate: i reati contro il patrimonio sono 32.336 di cui 9.222 ascrivibili a cittadini stranieri; 23mila contro la persona, 19.793 per la violazione della normativa sulle droghe. A seguire, i detenuti per violazione della legge sulle armi (9.951), quelli per associazione di stampo mafioso (7.106), e per reati contro la Pa (8.027) e contro l’amministrazione della giustizia (6.795). Il 39% delle persone uscite dal carcere nel 2007 vi ha fatto rientro, una o più volte. Carceri, ogni detenuto costa 137 euro al giorno ildenaro.it, 20 aprile 2018 Il budget preventivo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per il 2018 è di 2.881.004.859 euro per un costo giornaliero per detenuto di 137,02 euro, in lieve diminuzione rispetto al 2017 (quando il budget preventivo era di 2.853.346.330 e il costo giornaliero per detenuto di 137,34€) a causa dell’aumento del numero dei detenuti. È quanto emerge dal dossier dell’associazione Antigone sulla situazione nelle carceri italiane. L’80% del budget è destinato a spese per il personale civile e di polizia penitenziaria. Secondo quanto riportato dall’Amministrazione Penitenziaria nella Relazione di inizio anno giudiziario, nel 2017 sono stati ultimati un nuovo padiglione detentivo da 200 posti a Caltagirone e un padiglione da 97 posti detentivi a Nuoro. Vicini al completamento sono invece un padiglione da 200 posti a Parma e uno di uguale grandezza a Lecce. Altri padiglioni che sono in corso di costruzione e che risultano tuttavia in ritardo rispetto al Piano Carceri sono quelli di Trani e di Sulmona da 200 posti e di Milano Opera da 400 posti. Sono in corso le procedure di gara relativa alla progettazione del nuovo carcere di Nola (1200 posti) e all’ampliamento del carcere di Brescia Verziano (400 posti). In fase di approvazione del progetto è il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento (300 posti), mentre il procedimento per il nuovo carcere di Bolzano (220 posti) sembra essere arenato. La ristrutturazione delle carceri di Milano San Vittore e Napoli sono in procedura di gara mentre sono sospese quelle del carcere di Livorno. Quasi 4 su 10 tornano in cella - Il 39% delle persone uscite dal carcere nel 2007 vi ha fatto rientro, una o più volte, negli ultimi 10 anni. È quanto emerge dal dossier Antigone. “Troppo spesso il carcere non aiuta la sicurezza dei cittadini - scrive l’associazione per i diritti dei detenuti nel rapporto presentato oggi a Roma. Dei 57.608, solo 22.253, meno del 37%, non avevano alle spalle precedenti carcerazioni. 7.042 ne avevano addirittura un numero che spazia dalle 5 alle 9. Il 29% degli italiani e il 57% degli stranieri non ha precedenti, mentre il 49,6% degli italiani e il 38,8% degli stranieri ne avevano fino a 4. Se si sale con il numero dei precedenti aumenta il divario tra gli italiani e gli stranieri, infatti il 16,6% dei primi e il 3,8% dei secondi ne avevano da 5 a 9 mentre, ad averne oltre 10, erano il 4,8% degli italiani e lo 0,8% degli stranieri”. Dal 1998 l’Associazione Antigone è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i 190 Istituti di pena italiani. Sono oltre 70 le osservatrici e gli osservatori di Antigone autorizzati a entrare nelle carceri con prerogative paragonabili a quelle dei parlamentari. Negli ultimi mesi l’associazione ha visitato 86 carceri: 36 nel nord, dalla Valle d’Aosta alla Romagna, 20 in centro Italia e 30 tra il sud e le isole. Il carcere più grande è stato Poggioreale, una cittadina nel centro della città di Napoli che ospita oltre 2.200 detenuti (erano poco più di 2.000 un anno fa) ed in cui lavorano più di 1.000 persone. Il più piccolo probabilmente Arezzo, una Casa Circondariale con una capienza ufficiale di 101 posti ma in cui da tempo, a causa di interminabili lavori di ristrutturazione, le presenze non superano le 30 unità. “Alla fine delle nostre visite pubblichiamo una dettagliata scheda di quanto osservato in ciascun istituto nel sito del nostro Osservatorio - spiega l’associazione. Da quest’anno, in una pagina apposita del sito, è possibile vedere in tempo reale lo stato di avanzamento delle nostre visite ed una parziale visualizzazione dei dati raccolti. Si vede ad esempio come in 10 istituti tra quelli che abbiamo visitato c’erano celle in cui i detenuti non avevano a disposizione 3mq calpestabili, in 50 istituti c’erano celle senza doccia ed in 4 celle in cui il wc non era in un ambiente separato dal resto della cella”. Negli istituti visitati c’era in media un educatore ogni 76 detenuti ed un agente ogni 1,7 detenuti, ma in molti istituti questi numeri sono decisamente più alti, come nel caso di Bergamo (un educatore ogni 136 detenuti e un agente ogni 2,8 detenuti). Nel 43% degli istituti al momento della visita non c’erano corsi di formazione professionale attivi e nel 32,6% non c’erano spazi per le lavorazioni. Lo straniero criminale è un falso: ora riforma subito di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 20 aprile 2018 Negli ultimi quindici anni al triplicare degli stranieri residenti in Italia abbiamo assistito alla riduzione del loro tasso di detenzione di tre volte. Tante, troppe le falsità sentite e subite sul rapporto tra immigrazione e criminalità. Sembrava che gli stranieri fossero tutti delinquenti e galeotti. Invece scopriamo ben altre verità nel 14esimo rapporto di Antigone sulle carceri. Scopriamo che sono state raccontate fandonie non basate su dati reali. Negli ultimi quindici anni al triplicare degli stranieri residenti in Italia abbiamo assistito alla riduzione di tre volte del loro tasso di detenzione. Negli ultimi dieci anni, mentre gli stranieri liberi sono raddoppiati nei numeri, gli stranieri detenuti sono addirittura diminuiti di circa 2 mila unità. Gli stranieri sono inoltre dentro per reati meno gravi rispetto agli italiani. Ci sono comunità penitenziarie, come quella romena, in progressivo calo di presenze nonostante in passato c’era chi sollecitasse contro i romeni addirittura leggi ad hoc. Sembrava che essere romeni fosse di per sé una circostanza aggravante. Ci sono comunità come quella filippina con un tasso di detenzione inferiore a quella italiana. La figura dello straniero criminale è dunque un falso. Il rapporto di Antigone è il frutto di analisi di dati, osservazione empirica (2 mila visite in carcere negli ultimi vent’anni) e proposte. Abbiamo constatato come i detenuti siano cresciuti fino a superare la soglia delle 58 mila unità, come la crescita nei numeri sia disordinata e determini condizioni oggettive di invivibilità in alcune carceri (si pensi a Bergamo o a Como) rispetto ad altre, come ancora troppe siano le persone in custodia cautelare (circa il 34% del totale), e troppo poche le persone che fruiscono di lavoro all’esterno, semilibertà e permessi premio, come la magistratura di sorveglianza sia troppo rigida in alcune regioni (ad esempio il Lazio) così limitando le possibilità di reinserimento sociale di detenuti, come solo il 29% dei detenuti presenti nel 2017 non aveva mai avuto un’altra esperienza di carcerazione, come una vita in carcere trascorsa nell’ozio in cella alimenti violenza e aggressività, come sia necessario assumere almeno cento giovani direttori visto che gli ultimi sono stati assunti più di vent’anni fa. E come più assicuriamo diritti religiosi meno ci sarà rischio di radicalizzazione (secondo il Dap, nel 2017 sono oltre 500 i detenuti in osservazione per radicalizzazione, contro i 365 del 2016, con un aumento del 72%). Abbiamo raccontato di buone prassi di sistema come i poli universitari, le riviste e le redazioni di giornali gestite da detenuti, il teatro ma abbiamo raccontato anche le violenze, le morti, i suicidi (undici dall’inizio del 2018, quasi mille dal 2000 ad oggi, un numero che fa impressione), i processi dove Antigone è costretta a stare in giudizio o a costituirsi parte civile. Non tutte le carceri sono uguali. In alcune carceri si sta peggio, in alcune meglio. Ha giustamente detto Mauro Palma, in occasione della presentazione del Rapporto, che non esiste l’inferno ma che non esiste neanche il paradiso. È compito però delle istituzioni standardizzare il più possibile verso l’alto la qualità della vita detentiva. Quest’anno la presentazione del Rapporto di Antigone è arrivata in un momento di particolare rilevanza. È nelle mani del Parlamento e di tutte le forze politiche la legge che dovrebbe riformare, a 43 anni di distanza, l’ordinamento penitenziario. Basta molto poco, ossia incardinarla nella discussione della Commissione speciale che dovrebbe esaminare a Montecitorio i provvedimenti a cavallo fra le due legislature, affinché il decreto legislativo faccia l’ultimo passo formale verso la definitiva approvazione. Finalmente avremmo più tutele per la salute, più possibilità di accesso alle misure alternative, più opportunità di vita degna in carcere. *Presidente di Antigone Il grado di civiltà di un Paese (e le sue bugie) si misurano osservando le sue carceri di Giulio Cavalli Left, 20 aprile 2018 “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire e se non fossimo il Paese in cui nessuno si risparmia di condividere sui social almeno un aforisma al giorno verrebbe da pensare che la frase non l’abbia mai letta nessuno vista la situazione carceraria in Italia. I numeri del rapporto dell’Associazione Antigone lasciano pochi dubbi: nel 2017 quasi la metà dei decessi avvenuti in carcere sono suicidi (52 su 123). C’è un luogo, nella civilissima Italia, in cui il suicidio è la causa principale di morte. E quei 52 sono solo un piccola parte dei 1123 tentativi di suicidi avvenuti durante l’anno. Gli atti di autolesionismo sono 9510, con picchi altissimi in alcuni penitenziari: ad Ivrea, tanto per citare un esempio, 109 su 224 detenuti hanno ceduto al farsi del male. E forse non è il caso che nel carcere di Bollate (conosciuto per il regime “a celle aperte”) siano solo 87 su 1216. Ma c’è altro: diminuiscono i reati (e non ditelo a Salvini altrimenti gli tocca trovare un lavoro) e aumentano i detenuti. Scrive bene l’Associazione Antigone: “È evidente come l’aumento del numero delle persone presenti nelle carceri italiane, registrato negli ultimi due anni, nulla abbia a che vedere con la questione criminalità, ma sia figlio di un sistema politico che per accrescere i propri consensi ha fatto leva sulla paura dei cittadini e agitando lo spettro della sicurezza. Elementi, questi, tipici del populismo penale e dell’utilizzo dello stesso diritto penale in senso repressivo e antigarantista, senza - come detto - nessuna efficacia nel prevenire i crimini.” Il 39% dei detenuti rientra in carcere entro i successivi 10 anni. Il carcere rieducativo, insomma, continua a essere un miraggio. Non c’è un’emergenza stranieri, non c’è correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere: negli ultimi quindici anni, a partire dal 2003, gli stranieri residenti in Italia sono più che triplicati mentre il tasso di detenzione degli stranieri è diminuito di tre volte. È bassissimo il numero di carcerati fuggiti dalle guerre di origine siriana o afgana: 144 in tutto. A guardare la situazione delle carceri in Italia, insomma, verrebbe voglia di condannare più le bugie degli uomini. Puntiamo sulle misure alternative: costano meno e abbattono la recidiva di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2018 Sono oramai vent’anni. È dal 1998 che Antigone è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare le circa duecento carceri italiane. Sono oltre 70 le osservatrici e gli osservatori di Antigone autorizzati a entrare negli istituti di pena con prerogative paragonabili a quelle dei parlamentari. È questa una prova importante di trasparenza dell’amministrazione penitenziaria, che ringraziamo. Ci permette di entrare in carcere anche con le telecamere, per filmare quanto vediamo e mostrarlo fuori. Negli ultimi mesi abbiamo visitato 86 carceri, 36 nel nord, dalla Valle d’Aosta alla Romagna, 20 in centro Italia e 30 tra il sud e le isole. Tra il 31 dicembre 2015 e oggi i detenuti sono cresciuti di 6.059 unità. Oggi il tasso di sovraffollamento - secondo la capienza ufficiale delle carceri, che tuttavia non tiene conto delle sezioni inutilizzabili - è pari al 115,2%. Troppo spesso il carcere non aiuta la sicurezza dei cittadini. Dei 57.608 detenuti al 31 dicembre scorso, solo 22.253, meno del 37%, non avevano alle spalle precedenti carcerazioni. 7.042 ne avevano addirittura un numero che spazia dalle 5 alle 9. Le misure alternative garantiscono assai di più l’abbattimento della recidiva e dunque la sicurezza della società. E costano anche assai di meno del carcere. Chi vuole usare la razionalità, non può che sperare in un loro incremento. Il sovraffollamento delle carceri non è uniforme sul territorio nazionale. Alcuni istituti sono sottoutilizzati, altri superano di gran lunga il tasso di affollamento medio. Ad esempio quello di Como, con un tasso del 200% (462 detenuti per 231 posti, con 56 donne e 242 stranieri). Vi abbiamo trovato detenuti con un numero del tutto insufficiente di metri quadri di spazio a disposizione. Le condizioni igienico-sanitarie sono critiche. Molte docce sono prive di diffusori e alcune sono inutilizzabili a causa degli scarichi intasati. L’acqua calda in cella non è garantita. Anche le due carceri di Brescia e quella di Busto Arsizio sono molto sovraffollate. La Lombardia ha questo triste primato. E poi anche Taranto - dove l’esiguità degli spazi esterni è tale da costringere la direzione ad un sistema di turnazione che garantisca a tutte le sezioni le ore d’aria ma dove l’apertura delle celle e la vita in comune per molte ore al giorno aiuta a supplire a questa carenza - Chieti, Pordenone. Se guardiamo agli stranieri in carcere, possiamo ben affermare, dati alla mano, che non sussiste un’emergenza al proposito. Non c’è correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere. Negli ultimi quindici anni, a partire dal 2003, alla più che triplicazione degli stranieri residenti in Italia è seguita, in termini percentuali, una quasi riduzione di tre volte del loro tasso di detenzione. Se nel 2003 ogni cento stranieri residenti in Italia (erano circa 1 milione e mezzo) l’1,16% finiva in carcere, oggi (che sono circa 5 milioni) questa percentuale si riduce allo 0,39%. Un dato straordinario in termini di sicurezza collettiva, che mostra come ogni allarme, artificiosamente alimentato durante la campagna elettorale recente, sia ingiustificato. Rispetto al 2008 ci sono duemila detenuti stranieri in meno. Questo e molto altro si può trovare nell’ultimo Rapporto di Antigone. Per chi vuole farsi un’idea del carcere basata su una ricerca empirica, su dati corroborati, su statistiche forti. Per chi non vuole gridare slogan senza base di realtà che solo parlano alla pancia delle persone dimenticandosi che esse hanno una testa. Messa alla prova: Orlando firma Convenzione con Acli su lavori pubblica utilità giustizia.it, 20 aprile 2018 Lavori di pubblica utilità a tutela del patrimonio archivistico e culturale nonché prestazioni di lavoro inerenti a specifiche competenze o professionalità per quegli imputati che abbiano fatto richiesta di sospensione del procedimento penale con messa alla prova. È questo l’oggetto della Convenzione nazionale che è stata firmata oggi dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal Presidente nazionale dell’Unione Sportiva Acli Damiano Lembo. La concessione della messa alla prova è subordinata alla prestazione di lavori di pubblica utilità, che consiste in attività non retribuite in favore della collettività. A questo scopo, l’Unione Sportiva Acli mette a disposizione 26 posti per lo svolgimento di tali attività in 18 sedi locali, dislocate su tutto il territorio nazionale e contemplate nell’allegato che è passibile di aggiornamento. I lavori di pubblica utilità, oggetto della Convenzione stipulata, saranno meglio declinati sul territorio, anche in considerazione della specifica natura del bene interessato e con il coinvolgimento degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna (Uepe). Mansioni, durata e orario di svolgimento della prestazione lavorativa gratuita saranno disposti nel programma di trattamento e nel rispetto delle esigenze di vita dei richiedenti, dei diritti fondamentali e della dignità della persona. La sede locale dell’U.S. Acli comunicherà all’Uepe territorialmente competente il nominativo del referente incaricato di coordinare le prestazioni di ciascun imputato, comunicando tempestivamente eventuali inosservanze, assenze o impedimenti. A sua volta l’Uepe indicherà il nominativo del proprio funzionario, incaricato di seguire l’andamento della messa alla prova. Per la pianificazione degli interventi verrà costituito un Comitato paritetico composto da rappresentanti dei due Enti firmatari e la Convenzione, della durata di 5 anni, potrà essere rinnovata. Brescia: detenuti e diritti umani di Carlo Alberto Romano Corriere di Brescia, 20 aprile 2018 Si è tenuta ieri la Seconda giornata dell’Esecuzione penale socialmente responsabile, promossa dall’Ufficio della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia. La Giornata ha voluto commemorare la figura di Mario Gozzini, padre dell’omonima, illuminata legge che, con fiducia e coraggio, contribuì nel 1986 a rafforzare l’idea già anticipata dalla riforma del 1975 secondo la quale le alternative al carcere costituiscono la via privilegiata per l’abbattimento della recidiva e per un efficace reinserimento sociale, affiancato in questa convinzione, e in tante battaglie, dal fondatore di Carcere e Territorio di Brescia, Giancarlo Zappa. L’attualità di questi percorsi riabilitativi, impossibili da realizzare senza un contributo costante, consapevole e maturo del territorio non è certo venuta meno col tempo, anzi. Quest’anno, poi, il valore aggiunto dell’evento è stata la presentazione del neo costituito gruppo di detenuti di Verziano, che si pone come obiettivo la (auto)responsabilizzazione sociale ed è il frutto di due anni di attività inframuraria sul tema dei Diritti Umani. “Verziano per i Diritti Umani (V4HR)” - è il nome del Gruppo - intende promuovere azioni socialmente responsabili e accogliere idealmente tutte le persone che, in stato di detenzione o libere, vogliano attivarsi per i bisogni degli altri. L’invito ad aderire al gruppo sarà pertanto rivolto a tutti i detenuti degli istituti italiani in modo da ampliare il movimento, orientandolo verso azioni estese all’intero territorio nazionale. Il gruppo cercherà di coinvolgere il più possibile anche la comunità esterna e, in particolar modo, le realtà del Terzo settore che già operano per la tutela dei diritti di tutti, in modo da porsi come nuovo ma attento interlocutore. Inoltre, attraverso la rete internazionale di collaborazioni consolidata da Carcere e Territorio, sarà possibile condividere le iniziative di V4HR anche con persone recluse all’estero, con l’ambizioso - forse presuntuoso - obiettivo di trasformare il movimento penitenziario bresciano in una voce globale proveniente dai reclusi. L’idea che proprio dal carcere possa nascere una rinnovata attenzione nei confronti dei Diritti dell’Uomo si pone certamente come una sfida importante. Saranno le persone del gruppo V4HR che dovranno dimostrare di saperla cogliere e di essere in grado di trasformarla in una risorsa per la collettività esterna. Napoli: folla a San Giovanni a Teduccio per la marcia contro i raid della camorra di Antonio Di Costanzo La Repubblica, 20 aprile 2018 Scuole, associazioni e parrocchie in corteo nelle strade colpite dalle “stese”. Una marcia per dire no alle scorribande armate dei clan. Per ribadire, una volta per tutte, “Io non ci sto”. Scuole, associazioni e parrocchie scendono in strada. In tanti, almeno un migliaio di persone, stanno partecipando alla manifestazione contro i raid armati della camorra (gergalmente detti “stese”) nel quartiere San Giovanni a Teduccio di Napoli. Protagonisti, soprattutto i giovani, con gli alunni di dieci scuole che hanno aderito alla protesta. Don Modesto Bravaccino, prete della parrocchia di San Giuseppe e Madonna di Lourdes, ha in mano un bossolo: uno dei tanti proiettili che si raccolgono in strada dopo le “stese”. “L’iniziativa - spiega don Bravaccino - nasce da un sogno che ho condiviso con la preside Valeria Pirone, all’indomani della sparatoria del 31 dicembre, dove fu ferito un ragazzino che commise l’errore di affacciarsi al balcone. Purtroppo le sparatorie si ripetono spesso e noi siano al centro di una guerra tra clan”. La marcia, accompagnata dal ritmo dei tamburi, attraversa il Rione Villa, teatro di numerose sparatorie. Il corteo incrocia anche via Taverna del Ferro, dove spicca il doppio maxi murale di Jorit, che ritrae Maradona e un bimbo autistico su due facciate di palazzi paralleli. Teramo: incontri su donne e carcere di Veronica Marcattili quotidianolacitta.it, 20 aprile 2018 L’esperienza di un laboratorio di libera scrittura, partendo dai fatti di cronaca, con le detenute nel carcere di Rebibbia raccontata in un libro dalle parole delle protagoniste. La pubblicazione - “A mano libera. Donne tra prigioni e libertà” (Editrice Cooperativa Libera Stampa), a cura di due volontarie, Paola Ortensi e Tiziana Bartolini, direttora della storica rivista NoiDonne - è stata presentata a Teramo in un evento organizzato dal Centro di cultura delle donne Hannah Arendt, in collaborazione con l’Università. La presentazione, avvenuta nel pomeriggio di ieri nell’aula consiliare del Rettorato (Campus Colleparco), è stata preceduta in mattinata da un incontro con due classi del Liceo Statale Milli e da un incontro con le detenute del carcere di Teramo. Tema degli incontri e delle discussioni che ne sono seguite, “Soggetto donna: scrittura e altre arti. Stereotipi sessisti e la violenza di genera”. Presenti Guendalina Di Sabatino, presidente del Centro Hannah Arendt; Luciano D’Amico, Rettore dell’Università di Teramo, la docente di criminologia dello stesso ateneo, Laura Di Filippo; Elisabetta Santolamazza, funzionaria giuridico-pedagogica del carcere della città. “A mano libera” raccoglie gli scritti delle detenute che hanno elaborato e riflettuto, nel corso del laboratorio tenuto dalle due curatrici del libro in qualità di volontarie, sul concetto di libertà e, in particolare, di una nuova consapevolezza di genere che esprime anche degli insospettabili paradossi. Come quello espresso da Lucia che scrive: “La vera me l’ho ritrovata in carcere. Qui contrariamente a quanto si possa immaginare, ho fatto esperienza di libertà”. Parlando con gli studenti del liceo del rapporto con le detenute, le curatrici del libro hanno sottolineato la “necessità di investire nelle persone” per un percorso di crescita e di reinserimento nella società del detenuto una volta scontata la pena. Di Sabatino ha messo l’attenzione sul ruolo del volontariato che entra in carcere e che permette esperienze che possono sostenere una consapevolezza nuova dei detenuti. In particolare, a suo avviso, ciò che colpisce nelle testimonianze riportate dal libro è la “forte umanità e la forte ricchezza” d’animo delle donne che si trovano recluse. Nell’incontro in carcere, hanno partecipato circa una ventina di detenute. Molto attente al racconto dell’esperienza romana, ed anche molte di loro impegnate in opportunità di corsi e laboratori. Ne è nato un confronto in cui le donne hanno raccontato spontaneamente le proprie esperienze di vita, che spesso delinquono come frutto di relazioni sbagliate con i propri mariti e i propri padri. Grande sofferenza la lontananza dai figli. Storie in cui la differenza di genere ha il suo peso. “Dalle storie che ho ascoltato - ha detto il Rettore D’Amico - emerge una forza incredibile. Siete forti - ha precisato rivolto alle detenute - e forse non l’avete scelta questa forza e di cui non vi rendete del tutto conto. Ma una volta fuori di qui dovrete esigere dagli altri il rispetto di cui avete diritto. Di questo dovete prendere coscienza, e per questo dovete volervi bene. Solo così anche gli altri vi vorranno bene”. Viterbo: l’Associazione Gavac, per trasformare gli errori in opportunità di Michela Di Pietro lafune.eu, 20 aprile 2018 Laggiù a metà della Teverina esiste un posto isolato, dimenticato da Dio e spesso dagli uomini. Come un miraggio dopo ore di cammino sotto il sole cocente di luglio o dopo chilometri di nebbia in inverno, appare il carcere di Mammagialla. Non è però un miraggio, è una realtà importante della città. In quel luogo vivono degli uomini, molti uomini: nazionalità varia, età varia, moralità varia. Li accomuna una colpa, una pena da scontare, dei bisogni, dei diritti e dei doveri. Questi uomini sono seguiti, ogni giorno, dal lavoro dell’amministrazione e della polizia penitenziaria, ma anche da un gruppo di persone che scelgono di ascoltare quelle colpe e di provare a ricucire lo strappo creato con la società. Incontriamo due volontari dell’Associazione Gavac, Gruppo Assistenti Volontari Animatori Carcerari, Claudio Mariani e Cristiana Cardinali che ci accompagnano a scoprire qual è la loro attività dentro e fuori il carcere Mammagialla di Viterbo. Quando nasce il Gavac? Da quanti membri è composta? “Il Gruppo Assistenti Volontari Animatori Carcerari è nato oltre 30 anni fa da una intuizione di Don Pietro Frare, cappellano del carcere nel periodo caldo delle contestazioni all’interno dei penitenziari culminate poi nella riforma della Legge Gozzini. Al momento purtroppo l’associazione risente di una grave crisi che ha coinvolto l’intero mondo del volontariato e nonostante gli iscritti siano 23, di fatto meno di una dozzina possono essere considerati realmente operativi. L’associazione si propone di sostenere e accompagnare i detenuti nel loro percorso di detenzione e collabora con la casa circondariale per proporre itinerari di risocializzazione e reinserimento nel tessuto sociale”. Cosa significa fare parte di una associazione di questo tipo? “Occuparsi di detenuti che si sono macchiati di colpe a volte orribili, non riscuote consensi e approvazione tra la gente comune, il che è comprensibile ma non condivisibile: in primo luogo nessun bambino nasce cattivo e presumibilmente le esperienze della vita e altre forme di disagio ne possono aver condizionato l’esistenza fino al punto da annullare la consapevolezza o la libertà di scelta di un individuo; ma al di là delle opinioni personali su questo aspetto, quel che è invece fuori di dubbio è che il carcere come è oggi strutturato non è in grado di generare un cambiamento reale e l’altissima recidiva ne è la testimonianza; inoltre ha dei costi elevatissimi che sarebbero giustificabili se fosse effettivamente deterrente ed efficace ma di fatto non è così; forse bisognerebbe avere il coraggio di trovare un nuovo modo di “fare carcere” trasformando il detenuto da problema a risorsa e proponendo culture alternative a chi molto spesso ha conosciuto solo le subculture della devianza”. La situazione delle carceri italiane è molto critica. Come è la situazione nel carcere Mammagialla di Viterbo? “La situazione della casa circondariale di Viterbo rispecchia più o meno l’andamento nazionale: il numero delle persone ristrette supera ampiamente la capienza regolamentare e il personale di polizia penitenziaria è sottodimensionato rispetto alle esigenze”. C’è collaborazione tra volontario e l’amministrazione del carcere? E con gli agenti? “In termini programmatici c’è sicuramente collaborazione: il problema è che mancano le risorse per attuare un vero progetto rieducativo e stabile. L’amministrazione penitenziaria deve gestire una situazione quotidianamente complessa e spesso in emergenza e diventa quindi difficile attuare sinergie efficaci”. Quali sono i compiti del volontario all’interno di una struttura penitenziaria? “Non esiste un vero e proprio elenco di attività che si possa seguire ogni anno: dipende certamente da tanti fattori (il numero dei volontari, le risorse disponibili, le esigenze contingenti, ecc.); la nostra associazione ha sicuramente proposto nel tempo ogni tipo di iniziativa: attività didattiche, laboratori teatrali, cineforum, corsi di ogni genere, sostegno alla genitorialità, musicoterapia, addestramento dei cani, raccolta di autobiografie, ecc. ecc. Negli ultimi tempi, a causa delle difficoltà sopra accennate, ci dobbiamo occupare prevalentemente delle necessità più urgenti: ad esempio distribuiamo vestiario e generi di prima necessità (oltre il 50 per cento dei detenuti è straniero o non ha una famiglia che possa sostenerlo nelle più elementari esigenze quotidiane); in una casa accoglienza ubicata in centro ospitiamo i detenuti in permesso premio o i loro parenti che vengono a visitarli da lontano e non possono permettersi un albergo; portiamo avanti le attività scolastiche e universitarie”. Quali sono le attività che svolge l’associazione fuori dal carcere? “Fuori del carcere cerchiamo di creare un ponte con la cittadinanza, proponiamo nuove forme di accoglienza e una cultura della tolleranza; incontriamo gli studenti dei licei per illustrare loro i pericoli delle dipendenze o di qualsiasi altro comportamento a rischio e li mettiamo direttamente in contatto con i detenuti che hanno vissuto sulla loro pelle le conseguenze di scelte sbagliate; laddove è possibile creiamo piccole opportunità di lavoro o di tirocinio formativo”. Quali sono i bisogni più urgenti di un detenuto quando arriva in una struttura penitenziaria? “Un detenuto ha bisogno di “tutto” proprio perché le strutture penitenziarie ben poco possono garantire; ad esempio, un detenuto che entra ad agosto con bermuda e infradito, se non ha chi lo aiuta veste nello stesso modo quando arriva dicembre, un detenuto non ha sapone e carta igienica a sufficienza e così via di seguito se parliamo delle esigenze materiali; ma il bisogno primario è quello di essere ascoltato e non essere giudicato ogni giorno, dal momento che lo ha già giudicato un Tribunale”. Le famiglie e la rete dei rapporti famigliari resta oppure si perde nel tempo? “Ovviamente varia da caso a caso: molti di loro non sanno neanche cosa sia una famiglia, altri ne hanno una ma distante migliaia di chilometri, altri ancora non hanno più contatti proprio perché le scelte sbagliate li hanno allontanati; non sono moltissimi in effetti coloro che hanno rapporti saldi e costanti con le loro famiglie di origine”. Come vi sostentate? “In passato abbiamo beneficiato anche del sostegno dei Servizi Sociali o dei contributi aggiudicati partecipando a qualche bando regionale; la crisi degli ultimi anni ha cambiato un po’ tutto: oggi continua a sostenerci costantemente la Diocesi di Viterbo, la Caritas e anche qualche fondazione privata; ma non possiamo dimenticare la generosità di molti privati cittadini tra i quali anche diversi commercianti che donano i loro articoli che possono essere per noi preziosi; anche le Parrocchie organizzano raccolte specialmente in alcuni periodi come la Quaresima ma non solo”. Progetti futuri? “Nel nostro settore è difficile fare programmi. Dipendiamo da una serie di variabili per noi imponderabili e di conseguenza dobbiamo cambiare rotta in funzione dei cambiamenti: negli ultimi due anni ad esempio è stato smantellato il reparto di Alta Sicurezza, sono aumentati gli stranieri, aumentano le presenze dei detenuti psichiatrici o a doppia diagnosi a causa della chiusura degli Opg; sono tutte situazioni che ci inducono a nuove modalità di accompagnamento. In conclusione si vive un po’ alla giornata ma sempre fiduciosi nella Provvidenza, nella generosità delle persone e nelle possibilità di cambiamento del genere umano”. Bologna: musica e Carcere, il “Dozza” apre eccezionalmente al pubblico farodiroma.it, 20 aprile 2018 Per il concerto del coro con 40 detenuti uomini e donne: “Per un attimo senza mura, sbarre e guardie”. “Ero iscritta all’Università di Scienze politiche, dovevo diventare qualcosa di quel genere, ma purtroppo la vita ha preso un’altra piega e mi sono ritrovata qui. Io vivo i concerti che vengono fatti qui dentro in modo molto bello, è un attimo in cui mi sembra che non ci sono mura, non ci sono guardie, non ci sono sbarre”. (Elisabetta, detenuta presso il carcere Dozza di Bologna e parte del coro Papageno, progetto Mozart14, associazione condotto da Alessandra Abbado, figlia del Maestro Claudio, specializzata in musicoterapia nelle carceri e negli ospedali) Il 26 maggio sarà l’unica possibilità per ascoltare il Coro Papageno dal vivo all’interno della Casa Circondariale Rocco d’Amato di Bologna, un complesso di voci composto da 40 detenuti sia uomini che donne, caso particolarmente raro all’interno delle strutture detentive italiane. Si tratta di un’esperienza irripetibile in quanto, in via eccezionale, le autorità permetteranno a tutti l’ingresso dentro le mura carcerarie per assistere ad un evento. Un repertorio vario che va da brani classici a canti popolari di varie culture, a rappresentanza delle diverse provenienze geografiche dei detenuti coristi, che si esibiranno di fronte ai propri familiari e quanti coloro vorranno essere protagonisti di un momento molto importante per tutti, soprattutto per il pubblico spettatore di uno show esclusivo capace di suscitare le più intense emozioni. Il Coro Papageno rappresenta una delle straordinarie attività condotte dall’associazione no profit Mozart14, e nasce dalla consapevolezza che la musica può diventare un efficace strumento di riscatto sociale per l’individuo. Cantando insieme gli uomini imparano a conoscere il valore dell’ascolto e del reciproco rispetto, entrano in relazione e costruiscono nuovi legami e un rinnovato senso di comunità. Torino: dacci il nostro pane quotidiano, anche in carcere di Marina Lomunno vocetempo.it, 20 aprile 2018 A partire dal primo ricettario scritto dai detenuti, con la consulenza dello chef Matteo Baronetto, uno spettacolo a cura dell’associazione Outsider messo in scena nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Le orecchiette con le cime di rapa servite in un piatto di carta dai detenuti hanno ricevuto addirittura il plauso del maître Paolo Novello, general manager dello storico ristorante torinese “Del Cambio”. È accaduto sabato 14 aprile, come racconta fratel Marco Rizzonato, religioso cottolenghino, nel teatro del carcere torinese “Lorusso e Cutugno”, al termine della spettacolo “Che cosa bolle in cella” messo in scena venerdì, sabato e domenica scorsi di fronte ad un folto pubblico di torinesi nell’ambito dei progetti di inclusione della realtà carceraria con la società civile promossi dal penitenziario torinese. Nella replica di sabato 14, tra gli spettatori oltre al direttore del “Lorusso e Cutugno” Domenico Minervini e a Paolo Novello, anche il Prefetto di Torino Renato Saccone e l’assessore alle Politiche sociali del Comune Sonia Schellino. Sul palco 20 detenuti e 10 persone con disabilità intellettiva ospiti del Cottolengo di Torino e i volontari dell’associazione Outsider, hanno rappresentato tra musica, poesia, canto e cucina “dal vero” la preparazione di una cena nel “famoso” ristorante virtuale “Ti cambio”: al termine, oltre agli avventori seduti ai tavoli, le orecchiette alla pugliese cucinate “in diretta” dall’attore-chef sono state ammannite (piacevole sorpresa) a tutti gli spettatori. “Obiettivo dello spettacolo di quest’anno” prosegue fratel Rizzonato, fondatore di Outsider, “è stato quello di farci entrare - attraverso i piatti che i detenuti preparano nelle loro celle con fornelletti da campo e ingredienti ‘poveri’, replicando le ricette delle loro famiglie d’origine - nella vita quotidiana del carcere. I sapori e i profumi degli gnocchi alla sorrentina, della pasta e fagioli o della pastiera napoletana preparati dietro le sbarre con amore e cura, come ci ha detto un detenuto, ‘rendono liberi’ perché si rivive aria di casa e la cella diventa una cucina famigliare, dove i ristretti fanno qualcosa per i compagni”. Un percorso che, oltre a far incontrare persone con diverse disabilità - come sottolinea la regista e Debora Sgro, dal 2001 impegnata in carcere con fratel Marco nel progetto “La pietra scartata” - ha anche una finalità solidale: le ricette “sperimentate” dai reclusi torinesi, grazie alla consulenza “stellata” di Matteo Baronetto, chef “Del Cambio”, sono state raccolte in un libretto “Che cosa bolle in cella”, il cui ricavato sarà devoluto per contribuire all’acquisto di una cucina da donare ai detenuti e per attivare dietro le sbarre un corso di cucina professionale. “La creazione di un grande piatto”, scrive Baronetto nell’introduzione al primo ricettario scritto da detenuti, “non è necessariamente vincolata alla presenza di una cucina hi-tech. Quello che serve davvero sono buoni ingredienti e l’estro dello chef… Ho trascorso così una giornata insieme a loro all’interno del carcere, dove mi hanno fatto vedere come nascono e vengono realizzati i loro piatti: grazie a loro ho scoperto che c’è un mondo che inizia dove finisce il nostro. E dove il tempo scorre a volte più lento, a meno di non farlo diventare una risorsa, trasformando un problema in un’opportunità”. Ecco la scommessa di fratel Marco che nel 2017 ha ricevuto dal Presidente Sergio Mattarella, l’Onorificenza di Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica Italiana, proprio per le sue molteplici e innovative iniziative a favore di detenuti, poveri e disabili. Tra questi appunto l’associazione Outsider e il progetto “La Pietra Scartata” con cui le persone con disabilità sono diventate “volontari in carcere” realizzando ogni anno inediti spettacoli mettendo in scena “magicamente” limiti diversi. Sia disabili che detenuti vivono dietro le sbarre, limitati nella libertà di muoversi ma dall’incontro di più fatiche può nascere energia nuova per “addolcire” il quotidiano. Anche con un piatto di orecchiette. Chi desidera acquistare il ricettario dei detenuti può telefonare allo 011.5225.555 (Associazione Outsider). Terni: “Fuori fuoco”, il documentario realizzato da sei detenuti di Lucio Perotta huffingtonpost.it, 20 aprile 2018 C’è un momento particolarmente toccante in Fuori fuoco (Alba Produzione con Rai Cinema). Si trova verso il minuto 40 e mostra quattro detenuti del carcere di massima sicurezza di Terni riunirsi in preghiera poco prima del pranzo. “Preghiamo per quelle persone che sono fuori - dice con il capo chino e gli occhi chiusi uno di loro -. Per tutti i profughi, che possano trovare un luogo migliore nella loro vita”. È dalla religione che alcuni provano a ripartire, dal pentimento vero e sincero, altri. Ci sono quelli che, invece, rimuginano su ciò che è successo prima di entrare nelle quattro mura: tre, sette, dodici o venti anni fa, per una rapina finita male, un omicidio, un traffico di stupefacenti. E piangono, come fanno tutti, ricordando com’era la vita, cos’era la libertà, guardando la foto di un bambino che sarà adulto quando le grate saranno - si spera per sempre - alle loro spalle. Tutti condividono la speranza e l’attesa. L’attesa interminabile di un permesso premio, della concessione di un qualunque beneficio, di una buona notizia che arrivi anche per loro. “Le buone notizie non arrivano dal cielo, ma dalla porta”, afferma in un passaggio Rachid, che ha trovato nella poesia il suo rifugio. Fuori Fuoco è un esperimento riuscito alla perfezione. E che assume particolare rilevanza dopo la pubblicazione del rapporto dell’Associazione Antigone 2017 sullo stato dei detenuti nel nostro Paese. Si può dire che il documentario realizza in immagini ciò che Antigone mette per iscritto. Ed è riuscito perché per la prima volta in Italia, le telecamere entrano in un carcere e a maneggiarle sono proprio loro, i carcerati. Questo è stato possibile perché la direttrice del penitenziario, Chiara Pellegrini, ha dato a sei di loro la possibilità di sperimentare un racconto tutto nuovo, un’introspezione nel quotidiano dietro le sbarre. Per alcuni mesi Erminio Colanero, Rosario Danise, Thomas Fischer, Rachid Benbrik, Alessandro Riccardi e Slimane Tali hanno abbandonato i panni dei detenuti per vestire quelli dei cameraman (con risultati - anche tecnici - sorprendenti). Sei storie per sei stadi diversi della detenzione. C’è tutto l’arco dei sentimenti umani nei racconti di Erminio, Rosario, Thomas, Rachid, Alessandro e Slimane: rabbia, delusione, affetto, amore. Ci sono tutte le difficoltà che una persona incontra nel momento esatto in cui diventa detenuto. C’è il rischio suicidio (52 nel 2017), c’è l’incubo della recidiva, il ritorno in carcere, lì all’orizzonte, al di là delle sbarre, perché dentro non esistono le condizioni affinché si realizzi a pieno l’articolo 27 della Costituzione, quella “rieducazione” decantata ma nei fatti poco ricercata. Non è il finale un po’ amaro a “rovinare” un racconto emozionante e prezioso. Anzi, quel finale (no spoiler) è tra gli imprevisti da mettere in conto in uno Stato che non dovrebbe mai dimenticare gli ultimi. Migranti. Strasburgo: Italia non ha sistema reclami nei centri Ansa, 20 aprile 2018 In Italia il meccanismo per i reclami a disposizione dei detenuti funziona bene, ma manca per i migranti, privati della libertà in varie strutture a partire dai centri. Lo afferma Mykola Gnatovskyy, presidente del Cpt, organo anti tortura del Consiglio d’Europa, in occasione della pubblicazione del 27esimo rapporto annuale. Nel documento l’organismo detta i principi che devono regolare il funzionamento dei meccanismi di reclamo per tutti quelli che sono privati della libertà, nelle carceri, nelle stazioni di polizia, nei centri per i migranti, negli istituti psichiatrici e in altre strutture di detenzione. “Questi meccanismi, che mancano in molti paesi e in altri mostrano gravi lacune, sono una garanzia fondamentale contro la tortura e i maltrattamenti” osserva il Cpt, aggiungendo che “la loro esistenza mostra che l’atmosfera nel luogo di reclusione è buona”. Per quanto concerne l’Italia, il presidente del Cpt, facendo riferimento alle ultime visite condotte nel Paese, osserva che “i detenuti hanno ora varie possibilità per sporgere reclami” e che “queste sono ben conosciute e usate senza alcun timore”. Lo stesso non è invece vero, osserva Gnatovskyy, per i migranti che si trovano privati della libertà. Infine nel rapporto pubblicato lo scorso anno sulla visita periodica condotta in Italia nel 2016, il Cpt sottolineava che le autorità dovrebbero aumentare le informazioni sui meccanismi di reclamo per quanti sono nei Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Migranti. Decriminalizzare la solidarietà e proteggere le vittime d’abusi di Valentina Stella Il Dubbio, 20 aprile 2018 Decriminalizzare la solidarietà, creare passaggi sicuri per i rifugiati, proteggere le vittime di abusi. Sono i tre obiettivi dell’iniziativa dei cittadini europei (Ice) “Welcoming Europe. Per un’Europa che accoglie”, presentata ieri mattina a Roma, nella sala “Caduti di Nassirya” del Senato, dai rappresentanti delle organizzazioni che la promuovono in Italia, tra cui Radicali Italiani, Fcei, Legambiente, Oxfam, ActionAid, A Buon Diritto, Cild. “Questa iniziativa di partecipazione e democrazia - ha dichiarato Riccardo Magi deputato di + Europa e segretario di Radicali italiani - punta a rendere più chiara ed efficace a livello europeo la normativa sulla gestione dei flussi migratori. Ed è importante anche di fronte al sospetto fondato che il nostro Paese, con quello che avviene con la guardia costiera libica, si stia di fatto rendendo complice di respingimenti: per questo l’Italia ha già subito una condanna dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Presente all’incontro anche Riccardo Gatti di Proactiva Open Arms: “La nostra nave è stata dissequestrata e sta per tornare in mare. Il nostro operato si è svolto nel rispetto della cornice legale. Noi sappiamo come soccorrere le persone in mare e sappiamo altrettanto bene che le autorità di Tripoli operano nella violenza”. In particolare, come ha detto la senatrice Emma Bonino, con l’iniziativa, che coinvolge diversi Stati Europei, vogliamo “decriminalizzare la solidarietà”, ossia riformare la direttiva comunitaria che definisce il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali; creare passaggi sicuri e ampliare i programmi di sponsor-ship privata rivolti a rifugiati; proteggere le vittime di abusi e rafforzare i meccanismi di tutela e di denuncia nel caso di abusi, sfruttamento e violazioni dei diritti umani, in particolare nella gestione delle frontiere esterne. L’obiettivo ora è quello di raccogliere un milione di firme in 12 mesi in almeno 7 Paesi membri da consegnare poi alla Commissione Europea, a cui dovrebbe seguire un’audizione pubblica presso il Parlamento europeo. La Commissione adotterà poi una risposta formale in cui illustrerà le eventuali azioni che intende proporre. Grecia: Corte suprema: non trattenere i richiedenti asilo sulle isole dell’Egeo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 aprile 2018 Con una sentenza emessa il 17 aprile su un ricorso presentato dal Consiglio greco dei rifugiati, la Corte suprema di Atene ha invalidato la politica del governo di imporre limitazioni geografiche ai richiedenti asilo arrivati sulle isole di Lesbo, Rodi, Samo, Coo, Lero e Chio. Quella politica era figlia dell’accordo del 20 marzo 2016 tra Unione europea e Turchia: i richiedenti asilo arrivati dopo quel giorno sarebbero stati bloccati sulle isole del mar Egeo orientale per rendere più facile il ritorno, ai sensi dell’accordo, in Turchia. Il risultato è stato pesantissimo per i richiedenti asilo (e naturalmente per le piccole isole greche e la loro popolazione), trattenuti in territori piccoli, in condizioni squallide e di sovraffollamento, destinatari di straordinari gesti di solidarietà ma anche di brutali atti di violenza. La sentenza della Corte suprema greca non ha effetto retroattivo e dunque non risolverà il problema dell’intenso sovraffollamento sulle isole dell’Egeo orientale, a meno che con una decisione politica il governo non disponga che tutti gli altri richiedenti asilo siano trasferiti sulla terraferma, lontano dalle attuali inaccettabili condizioni di vita. Libia. Il dramma nelle carceri denunciato dall’Onu treccani.it, 20 aprile 2018 Un dossier dell’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Abuse Behind Bars: Arbitrary and unlawful detention in Libya, mette sotto accusa il governo del premier Fayez al-Sarraj denunciando come alcuni gruppi armati in Libia siano responsabili di uccisioni e torture perpetrate ai danni di civili detenuti, a volte illegalmente. Il ministero della Giustizia di Tripoli gestisce infatti direttamente alcune prigioni che ospitano 6500 detenuti, ma migliaia di altri, spesso vittime di arresti arbitrari, si trovano invece in carceri che solo formalmente dipendono dal governo di Tripoli, mentre in realtà sono state affidate a gruppi armati alleati del governo, che violano in modo costante i diritti elementari delle persone che, per diverse motivazioni, sono state private della libertà. A farne le spese sono sia migranti sia cittadini libici. A causa della grave situazione di instabilità politica che si è creata nel Paese negli ultimi anni, i trafficanti di esseri umani agiscono impunemente, con violenze e torture sui migranti, spesso costretti in condizioni di semi-schiavitù e impegnati in lavori forzati. Una situazione che persiste nonostante numerose denunce e che ha già chiamato a responsabilità l’Unione Europea, spesso più preoccupata per il controllo delle sue frontiere che per il rispetto dei diritti umani. Nel tentativo di arginare questa situazione di gravi lesioni dei diritti, con il supporto dell’Unione Europea e dell’Unione Africana e l’intervento diretto dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), più di 10.000 migranti sono riusciti a tornare su base volontaria nei loro luoghi d’origine, dopo aver subito abusi e maltrattamenti in Libia. Anche molti cittadini libici sono sottoposti ad arresti arbitrari e condizioni di detenzione inumane; alcuni di loro sono oppositori politici e giornalisti e questa situazione naturalmente incide in maniera fortemente negativa sulle possibilità di uno sviluppo democratico in Libia. Il dossier attribuisce una grande responsabilità per la situazione dei diritti umani in Libia proprio al governo Sarraj, che nonostante l’appoggio dell’ONU e di influenti vicini di casa come l’Italia, non è mai riuscito ad assumere il controllo effettivo del Paese. La situazione di instabilità si è ulteriormente accentuata per l’assenza dalla scena politica nelle ultime settimane del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica. Il generale è gravemente malato e sembra si trovi a Parigi per sottoporsi a cure. Se le voci sulla sua morte si stanno dimostrando infondate, è però probabile che lo stato di salute incida notevolmente sulla sua capacità di essere presente nello scenario libico. Molti osservatori ritengono che sia in corso una sorta di lotta per la successione. Abusi simili a quelli denunciati in Tripolitania si sono verificati, peraltro, anche nella Cirenaica in cui hanno esercitato finora la loro forte influenza Khalifa Haftar e il suo Libyan national army. È ciò che accade, ad esempio, a Kuweifiya, dove sono costrette più di 1800 persone e ci sono state denunce per violazioni dei diritti elementari. Nessuno dei principali antagonisti che si affrontano per il predominio in Libia ha prestato la dovuta attenzione al rispetto delle libertà individuali; molti osservatori temono che se la situazione di caos e di insicurezza diffusa si dovesse aggravare, a risentirne sarebbero proprio le categorie più fragili, i migranti, gli oppositori e tutti coloro che per diverse ragioni sono stati privati della libertà. Stati Uniti. Giustiziato un uomo di 83 anni: è il condannato a morte più anziano La Repubblica, 20 aprile 2018 Era accusato di aver ucciso un giudice federale durante un’azione terroristica del 1989. A 83 anni era il condannato a morte più anziano da quando, negli Stati Uniti, le esecuzioni della pena capitale sono riprese negli anni 70. La morte di Walter Leroy Moody Jr. è stata pronunciata in Alabama alle 20 e 42 ora locale, le 3 e 42 in Italia. È spirato dopo essere stato sottoposto ad una iniezione letale nella prigione di Atmore. Era stato condannato per aver ucciso con una bomba un giudice federale - Robert S. Vance di Birmingham - nel 1989, in un’ondata di azioni terroristiche nel sud degli Stati Uniti. La Corte suprema aveva rinviato temporaneamente l’esecuzione. Ma si è trattata di una speranza vana. Esaminato il ricorso d’urgenza dei legali, alla fine è stato dato il via libera.