La bomba carcere. La riforma a rischio e l’equivoco di Saviano di Franco Corleone L’Espresso, 1 aprile 2018 Nelle carceri italiane si diffonde la delusione per il rischio palpabile che le promesse di cambiare le condizioni di vita quotidiana dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea per i diritti umani svaniscano. Tranquilli, non c’è pericolo di rivolte. Aumenteranno solo i suicidi e l’autolesionismo: il sangue sgorgherà dai corpi dei prigionieri. Il colpo per la credibilità dello Stato è grande e lo stato di diritto esce a pezzi. Il 16 marzo il Governo ha approvato con ritardo il testo di riforma dell’ordinamento penitenziario che purtroppo non prefigura un nuovo modello di detenzione ma si limita a ridare potere ai giudici di sorveglianza per le misure alternative e a indicare alcune linee favorevoli al trattamento educativo riconoscendo spazio al volontariato, diritti alla detenzione femminile. L’unica parte di agrade importanza riguarda la salute psichica nelle carceri e la modifica di due articoli del Codice Penale che risolveranno alcune contraddizioni che pesano sul funzionamento delle rems, dopo la chiusura degli Opg. Il Governo ha accolto molte delle indicazioni delle Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata delle Regioni; ora il testo modificato deve essere vagliato dal Parlamento (pare dalla Commissione speciale) per una presa d’atto senza potere di indicare osservazioni o condizioni. Passati dieci giorni dalla assegnazione il Governo avrà il diritto e il dovere di provvedere all’approvazione finale del testo. Se non ci sarà un nuovo governo toccherà all’esecutivo di Gentiloni compiere quello che è un atto dovuto che sarebbe bello accadesse per la festa della Liberazione, il 25 aprile. Il valore di questo atto sarà quello di dare speranza e slancio per chi vuole realizzare carceri più umane e con meno recidiva come ha scritto sull’Espresso del 25 marzo Roberto Saviano. Un solo appunto a quella riflessione. Non è vero che il 34,1% dei detenuti è costituito da tossicodipendenti; quel dato messo in luce ogni anno dal Libro Bianco della Società della Ragione e condiviso da tante associazioni che si occupano dei riflessi sulla giustizia e sul carcere della legge antidroga Iervolino-Vassalli, aggravata dalla Fini-Giovanardi (in parte cancellata dalla Corte Costituzionale) si riferisce a chi viola l’art. 73 del Dpr 309/90, cioè in ultima analisi a chi detiene illegalmente sostanze stupefacenti e subisce pesanti condanne con la reclusione. I tossicodipendenti, con tutti i limiti che questo termine contiene, sono circa il 24%, che in parte si sovrappone con il dato dei consumatori o piccoli spacciatori e in conclusione si può affermare senza timore di smentite che i detenuti a causa di una legge salvifica e punitiva, i detenuti superano abbondantemente il 40%. C’è bisogno di umanità e intelligenza per affrontare questioni sociali e culturali di questa portata. Decriminalizzazione del consumo personale, legalizzazione della cannabis, pratiche di riduzione del danno costituiscono i primi passi. Non si potranno sopportare all’infinito i guasti dell’ideologia del proibizionismo. Il pericoloso confine tra paura e odio di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2018 Parlare di Martin Luther King nei giorni della sua morte (è stato assassinato il 4 aprile 1968) fa venire in mente alcune analogie con il presente italiano. Come molti ricordano, King credeva nella non violenza e nella Costituzione americana. Guidava marce pacifiche, non cedeva ma non rispondeva alla violenza, che era solo di Guardia nazionale e polizia. Sapeva di avere la Costituzione e i fondamenti del diritto e della Carta delle Nazioni Unite dalla sua parte. Per chi era con lui a quel tempo e in quel sogno americano, e poi, tanti anni dopo, si è impegnato in questi nostri strani giorni italiani in difesa degli immigrati e dei rifugiati, è inevitabile vedere delle sorprendenti analogie. Martin Luther King è sempre stato dalla parte della legge e ha sempre avuto contro i rappresentanti della legge. Ha sempre invocato la Costituzione del suo Paese (il Bill of Rights, ricordate? “Tutti gli uomini sono creati uguali”) ma è stato arrestato, processato e incarcerato da autorità che si battevano contro i principi costituzionali pur di non lasciare entrare i neri nelle scuole, negli ospedali, negli alberghi, negli autobus di tutti gli altri americani. Non vi viene in mente la caccia alle Ong, il tentativo di farle apparire criminali, in modo da togliere, con l’accusa grave e senza prove, solidarietà e sostegno dei cittadini? Non vi ricorda la nave del volontariato spagnolo posta sotto sequestro con l’imputazione di “associazione a delinquere”? Motivo dell’imputazione è avere strappato 218 esseri umani al mare e alle prigioni libiche. Pensando a Martin Luther King, ricordo un giorno del 1965 (era già premio Nobel) in cui l’ho accompagnato in carcere a Birmingham (Alabama): doveva scontare due mesi, “per mancanza di rispetto alla polizia locale”(aveva disobbedito all’ordine di fermare una marcia di pace). Sono andato con lui, in aereo, da Atlanta a Birmingham e dall’aeroporto alla prigione, scortato dalle polizie di due Stati in tenuta da sommossa, e seguito da una troupe della Rai. La conversazione con Martin Luther King era cominciata davanti alla sua casa di Auburn Avenue, ad Atlanta, con un suo netto rifiuto. Io volevo pagare la cauzione di 100 dollari che avrebbe evitato il carcere, ma il dottor King (era laureato in Teologia, e tutti lo chiamavano “Doctor King”, a cominciare dai telegiornali, con un certo imbarazzo della polizia) ha rifiutato. “Quello che accade qui si deve vedere e sapere e non si può cambiare il copione come in un film. Questa è storia”. Una sera di quella settimana il frammento di storia Americana e di storia del mondo di quei giorni è andato in onda nel programma lontano e italiano della Rai Tv7. E questo purtroppo non mi serve a vantare il lavoro di molti anni fa. Mi serve per dire che l’Italia sta diventando un Paese poco incline a occuparsi dei Martin Luther King che non stanno a casa (fatti loro se una casa non ce l’hanno). E che ha poco interesse (maggioranze e opposizioni) per i simboli di fraternità etnica e culturale che King rappresentava. Per esempio, nessuno - maggioranze e opposizioni, ha proposto di cancellare la legge incostituzionale Bossi-Fini, duramente ostile a chi fugge e cerca aiuto. A quasi tutti piace descriverli con la parola “clandestino” affinché appaiano subito pericolosi e sospetti. Eppure tutti sappiamo che ogni salvataggio (anche se le navi di soccorso vengono giudicate infide e complici perché si posizionano in modo da evitare la morte in mare) avviene sotto i radar, gli schermi, le apparecchiature militari del Mediterraneo e delle Capitanerie di porto. Se pensate che nessun commentatore, politico o esperto, risponde alla ripetuta e cieca invocazione di “confini rigidamente chiusi” fatta col rosario in mano, in un Paese attraversato da 30 milioni di turisti ogni anno, vi rendete conto che non è fuori luogo avere nostalgia del passato. Improvvisamente è tornata l’inspiegabile saldatura fra la parola “sicurezza” e la parola “migrazione”. Torna il pericolo del terrorismo islamico. Certo, ci sono servizi che lavorano molto bene in Italia. Ma fino a poco fa questo buon lavoro ci veniva presentato come una garanzia di protezione e un vantaggio su altri Paesi. Adesso (fate attenzione: adesso, da alcuni giorni, benché con la partecipazione straordinaria del ministro pro tempore Minniti) vengono fatti circolare dettagli, come la minaccia di tagliare agli infedeli italiani non solo le teste ma anche i genitali. Informazioni che non migliorano la sicurezza, però alimentano ostilità e paura. Qualcuno pensa che finalmente questo sia un buon momento per avvicinare il confine della paura all’odio. Ed ecco che ogni telegiornale aggiunge una notiziola che mille volte si era rivelata vuota: i terroristi arrivano con gli immigrati. È importante ripeterlo finché si crea l’identità fra le due parole. Gli immigrati sono terroristi. L’insinuazione funzionerà anche meglio se mafia e ‘ndrangheta forniranno in tempo le armi, come è accaduto in altri delitti politici. “Così l’antimafia è stata tagliata fuori dalle liste dei Dem” di Paolo Griseri La Repubblica, 1 aprile 2018 Le associazioni per la legalità accusano il Pd di aver privilegiato nelle candidature gli equilibri interni. Gesticolando con la penna in mano, Rosy Bindi aveva affrontato il tema con qualche circospezione e molte premesse. La più importante era stata l’avvertenza: “Ora esco dal politicamente corretto”. Silenzio nella sala dell’Angelicum di Roma dove Libera aveva radunato le associazioni per la legalità italiane. Parlando dal palco come presidente della Commissione Antimafia, Bindi aveva finalmente trovato le parole giuste: “Se io fossi responsabile della preparazione delle liste elettorali, farei davvero fatica a spiegare perché un parlamentare alla prima legislatura, relatore di importanti leggi approvate, non è stato candidato in una posizione certa”. Era il tardo pomeriggio di venerdì 2 febbraio. La sala aveva applaudito freneticamente. Ma ormai la frittata era fatta. Davide Mattiello, esponente di Libera, parlamentare, relatore della legge di riforma del codice Antimafia e della legge sulla protezione dei testimoni di giustizia, è rimasto nelle candidature di retroguardia e ovviamente non è stato eletto. Quello di Mattiello non è un caso isolato. La sua vicenda non è la causa, semmai è il sintomo di un raffreddamento di rapporti e del conseguente smottamento dell’elettorato delle associazioni per la legalità verso altri lidi non di sinistra. Una parte non secondaria dell’emorragia del 4 marzo. Libera, presieduta da don Luigi Ciotti, raduna oggi 1.600 associazioni con 278 presidi territoriali e 20.000 soci. Avviso pubblico, guidata dal piddino Roberto Montà, unisce 400 amministrazioni locali e si occupa di educazione alla legalità e lotta alle mafie. Due punti di osservazione utili per capire che cosa è successo. Il più esplicito è proprio Montà: “La nostra è un’associazione al di sopra delle parti, è bene chiarirlo subito. Ma, se devo parlare del mio partito, dico che non c’è stata una corrispondenza tra le leggi approvate e i comportamenti concreti. In Calabria e Sicilia, a chi ha combattuto l’illegalità, sono stati preferiti candidati assai meno presentabili”. Insomma, si è predicato bene e si è razzolato male. “È bastato che i Cinque Stelle lanciassero lo slogan “Onestà onestà” e sono diventati più credibili, soprattutto agli occhi dei giovani”. Quando è iniziata la frattura? “Quando è cominciata non lo so. Ma ricordo bene il clima che si respirava a febbraio a Roma, all’assemblea dell’Angelicum, quella in cui aveva parlato Rosy Bindi. Un amico aveva fatto il giro dei tavoli di lavoro. Gli avevo chiesto: “Secondo te come votano quelli che sono qui oggi?”. Mi aveva risposto: “Qui il centrosinistra lo votano in pochissimi”. Chiaro no? Nella riunione plenaria si ascoltava e si applaudiva l’elenco dei provvedimenti contro la mafia portati a casa dal governo. E nei gruppi di lavoro ci si confessava che si sarebbe votato per Grillo”. Una schizofrenia che va spiegata. Due mesi dopo Rosy Bindi torna su quelle giornate: “Il problema non è stato solo sui temi dell’antimafia. In generale i rappresentanti delle associazioni sono stati tagliati fuori dalle candidature, applicando scientificamente la teoria per cui la politica parla direttamente ai cittadini senza intermediazione. Con il risultato che abbiamo segato le nostre radici. Sono rimasti fuori, oltre alle associazioni antimafia, anche Acli, Agesci, Azione Cattolica, la Cisl”. E un bel pezzo di base elettorale. Il cappotto del Pd e di Leu in Sicilia (insieme a Potere al Popolo non vanno oltre il 15 per cento) si spiega anche con questa operazione di sradicamento a vantaggio delle lotte intestine alle correnti. La notte tra il 17 e il 18 maggio 2016, sui tornanti della statale 229 tra Cesarò e San Fratello, nel Parco dei Nebrodi in Sicilia, l’auto del presidente del Parco, Beppe Antoci, era stata bloccata da tre grandi massi sulla carreggiata: “Tornavamo da una manifestazione serale, io dormivo sul sedile posteriore. Sono stato svegliato dalle raffiche di mitra”, ricorda Antoci. L’agguato fallì per due motivi: l’auto era blindata ed era scortata dalla polizia. La mafia aveva messo Antoci nel mirino perché da presidente del Parco aveva ottenuto di modificare le norme sugli affitti dei pascoli, imponendo la presentazione del certificato antimafia anche per i piccoli appezzamenti. Un protocollo diventato presto legge regionale e imitato a livello internazionale. L’ira di Cosa Nostra nasce dal fatto che, con la nuova legge, era diventato più difficile per i mafiosi ottenere i finanziamenti europei all’agricoltura. Dopo l’attentato Antoci è stato insignito di un’onorificenza dal presidente della Repubblica. E Matteo Renzi lo ha nominato “Coordinatore nazionale del Pd per la difesa della legalità”. Ma, al momento della presentazione delle liste per le politiche di marzo, tutto questo è passato in secondo piano: “È prevalso il fatto che alle primarie del partito io mi ero schierato con Emiliano. Ancora oggi, quando vengo invitato a parlare di antimafia nelle università, faccio fatica a spiegare questo fatto”. In effetti non è una spiegazione semplice da dare: come raccontare ai più giovani che, nella fisiologica rissa interna sulle candidature, sia prevalsa la fedeltà a una corrente rispetto alla lotta antimafia? “Soprattutto - conclude Antoci - abbiamo rischiato di dare un segnale sbagliato, un punto a favore delle organizzazioni criminali”. Un clamoroso boomerang. A metà febbraio il nuovo presidente della Sicilia, Nello Musumeci del centrodestra, ha tolto ad Antoci l’incarico di presidente del parco che aveva bonificato dalla mafia. Proteste del centrosinistra e inevitabile risposta di Musumeci: “Il Pd lo ritiene un dirigente che si è speso bene nella lotta alla mafia? Bene, perché non l’ha messo in lista?”. Difficile rispondere. La spiegazione “perché stava con Emiliano” è meglio non darla. Schizofrenie. Giancarlo Caselli, ex Procuratore di Palermo, oggi impegnato con Libera, li chiama più prudentemente paradossi: “Nell’ultima legislatura il Parlamento e il governo hanno fatto cose pregevoli. Penso alla riforma del codice antimafia, all’istituzione dell’autorità anticorruzione, alla nuova normativa sui reati ambientali. Tre fiori all’occhiello che non stati rivendicati con forza in campagna elettorale. Quasi che si dovessero nascondere sotto il tappeto”. “La verità - considera sconsolato l’ex procuratore - è che, cessata l’eco delle stragi, da metà degli anni Novanta è diminuita l’attenzione del potere politico per le battaglie sulla legalità e contro le mafie. La destra berlusconiana lo ha fatto in modo diretto ed esplicito attaccando la magistratura e considerando Mangano un eroe. Il centrosinistra, con lodevoli eccezioni, ha cominciato a parlarne poco, ha taciuto. In occasione delle polemiche sul processo Andreotti gli attacchi nei miei confronti sono stati accolti da un silenzio imbarazzato. Forse si ritiene che questi temi elettoralmente non paghino”. Così la bandiera è stata presa dai grillini che della lotta alla corruzione in politica hanno fatto un slogan. Caselli non fa sconti: “Bisogna vedere alla prova concreta dei fatti se chi ha gridato “Onestà onestà” sarà conseguente. Sono disposti, ad esempio, a varare una legge che prevede il carcere per gli evasori fiscali?”. Nel frattempo il rapporto tra il Pd e le associazioni antimafia sembra molto incrinato. Non sarà facile ricostruire. Roberto Montà racconta di aver incontrato il reggente Maurizio Martina alla manifestazione antimafia del 21 marzo scorso a Foggia: “Gli ho detto che il fatto che fosse venuto era positivo, un modo per riprendere il dialogo”. Una presenza, che un tempo sarebbe stata normale, diventa quasi una notizia. “Ma dobbiamo ripartire e per farlo non possiamo che lanciare una nuova costituente del centrosinistra che coinvolga tutte le associazioni italiane”, propone Rosy Bindi. Certa che “sarebbe un esercizio più produttivo di un congresso giocato sull’alternativa tra Martina e Giachetti. Sai che emozione”. L’ultima parola spetta a Beppe Antoci, che vive blindato nella sua casa siciliana insieme a tre figlie di 18, 15 e 14 anni. Dopo tutto quel che è accaduto verrebbe voglia di dimettersi dal ruolo di responsabile della legalità del partito: “Ma io l’ho detto a Martina. Non mi dimetto, vado avanti perché ci credo. Se no loro, quelli che quella notte volevano ammazzarmi come un cane, avrebbero vinto su tutta la linea”. Il somalo innocente dopo 17 anni in cella: “Ad aiutarmi sono stati i genitori di Ilaria Alpi” Corriere della Sera, 1 aprile 2018 Il racconto del somalo Hashi, 17 anni in cella da innocente. Ora vivrà a Padova dove è in contatto con il parroco che lo aiutò a suo tempo. “Tre milioni - dice - sono pochi: niente rispetto all’inferno che ho vissuto. Diciassette anni della mia vita valgono molto di più e tutto quel tempo non mi verrà mai restituito”. Chi ha perso la vita e chi, a 47 anni, quasi non ne ha avuta una: Hashi Omar Hassan è l’altra vittima del caso Alpi. Accusato ingiustamente dell’omicidio della giornalista del Tg3 - il suo grande accusatore, Ahmed Ali Rage, scomparso dall’Italia, non è mai stato cercato e mai ha deposto in aula (“depistaggio” hanno detto i giudici di Perugia) - ha scontato 17 anni di carcere nelle celle speciali di Rebibbia, Sulmona, Biella, Padova. Cosa lo abbia salvato non si sa, ma chi lo conosce, come i suoi avvocati Antonio Moriconi e Douglas Duale, dice che questo ragazzone di Mogadiscio non ha mai perso la forza e ha sempre trovato il modo di farsi benvolere. Prima, da un ispettore di Rebibbia, che negli anni, è arrivato a considerarlo alla maniera di un figlio. Poi, durante i permessi premio, dal parroco della comunità di Padova, don Luca Favarin, che gli ha dato fiducia. Ma, soprattutto, dalla famiglia di Ilaria Alpi. Ed ecco perché, all’indomani della sentenza che stabilisce il suo risarcimento, Hashi ringrazia Luciana Alpi. E dall’Olanda, dove si trova in questi giorni, dice: “Durante questi anni in cui ho sempre detto di essere innocente, la famiglia di Ilaria mi ha creduto e ha fatto quello che poteva per cercare la verità, sapevano che ero solo un capro espiatorio. E mentre mi trovavo in carcere hanno scritto lettere ai magistrati per farmi uscire, è anche grazie a loro se ho ottenuto i permessi”. Oggi Hashi è un uomo di quasi cinquant’anni con una bambina di pochi mesi e una compagna conosciuta in Olanda, dove vivevano la madre e altri parenti. Capro espiatorio. Luciana Alpi, rimasta sola a cercare la verità (il papà di Ilaria, Giorgio, è morto da sei anni) lo ha citato nel suo libro Esecuzione con depistaggi di Stato (Kaos edizioni). In un’intervista, rilasciata a La Stampa il 15 marzo 2014, aveva detto con chiarezza quello che pensava di lui: “Hashi Omar Hassan è innocente, nessun dubbio. È tornato in Italia dopo l’assoluzione di primo grado dimostrando la sua buona fede”. L’ex ragazzino di Mogadiscio è la prova vivente di equivoci e depistaggi. “Il carcere - dice l’avvocato Moriconi - è stato interminabile e durissimo. I suoi genitori non hanno mai ottenuto il visto per l’Italia. Ha trascorso 17 anni senza vederli. Suo padre, un militare dell’esercito somalo, gli ha trasmesso disciplina e senso della giustizia”. Negli anni più crudeli, quelli della detenzione a Rebibbia e poi nel carcere di Sulmona, gomito a gomito con i mafiosi, Hassan ha studiato l’italiano. Il pensiero di essere considerato un assassino lo ha sempre preoccupato più di qualunque privazione: “Finalmente tutti sapranno che non ho ucciso”, ha esultato il 19 ottobre 2016 dopo l’assoluzione. Per un po’ la detenzione lo aveva quasi pietrificato. E infatti dice: “Porto dentro un grande dolore, sono stato accusato ingiustamente, le autorità italiane non mi hanno mai creduto (oltre al processo Api-Hrovatin Hassan era stato arrestato anche per una violenza, ma pure da quella contestazione, che lo aveva fatto finire in carcere, è stato assolto ndr), la mia posizione era debole, era troppo facile accusarmi, ora non voglio vendette voglio solo rifarmi una vita”. Una vita. Un giorno di aprile del 1994 Hashi seppe dell’omicidio della giornalista via radio. In un Paese che si sintonizzava per sapere o distrarsi (i notiziari; il calcio) Hashi, non poteva certo intuire. Eppure nei confronti dell’Italia non c’è rancore. Mercoledì sarà a Roma per parlare con i suoi avvocati, poi a Padova: “Da lì voglio ripartire - dice - anche se mi resta una grande amarezza per Ilaria e Miran... qualcuno non ha voluto cercare una verità”. Napoli: l’attivista che denunciò la “cella zero” ora non può fare visita ai detenuti di Gaia Bozza fanpage.it, 1 aprile 2018 “Il mio terribile dubbio - dice Pietro Ioia a Fanpage - che spero non sia mai confermato, è che le mie denunce pubbliche abbiano avuto un ruolo in questa esclusione”. Intanto, il processo sui maltrattamenti a Poggioreale è a rischio prescrizione, un ulteriore rinvio sposta la prima udienza al 10 Maggio. Pietro Ioia è un ex detenuto che però vent’anni fa ha deciso di cambiare vita e si è esposto pubblicamente. Da quindici anni è un attivista per migliorare le condizioni di vita nelle carceri: soprattutto nel carcere di Poggioreale, a Napoli, che è stato più volte pietra dello scandalo in Europa, per sovraffollamento, negazione di diritti e per denunce di percosse. Per anni, Ioia ha denunciato la presenza di una “cella zero”, cioè una cella (o più celle) dove i detenuti sarebbero stati spogliati e malmenati, e ha supportato le denunce, a Fanpage e poi alla magistratura, di altri detenuti nel 2014. Quelle denunce hanno portato a un processo che, però, di rinvio in rinvio, rischia di andare in prescrizione. Intanto, la sua attività con l’associazione “Ex detenuti napoletani organizzati” è continuata e lo ha portato più volte in visita in varie carceri campane: “Sono stato tre volte a Poggioreale, una volta a Secondigliano e una volta a Santa Maria Capua Vetere - racconta Ioia - insieme ai Radicali Italiani e a una associazione di giovani avvocati vesuviani nel 2017. Sarei dovuto entrare di nuovo in visita in varie carceri campane insieme ai Radicali, ma l’amministrazione penitenziaria mi ha negato l’accesso”. C’è da dire che in caso di visite non ispettive, il permesso accordato è discrezionale e può tenere conto di vari fattori, tra i quali la presenza di importanti precedenti penali, ma è anche vero che le persone con precedenti penali entrano in visita spesso senza particolari problemi insieme a delegazioni di attivisti, movimenti o partiti: “È vero che ho precedenti penali importanti - ribatte Ioia - Ma sono entrato già diverse volte senza alcun problema, soprattutto quando c’era il direttore Antonio Fullone a Poggioreale andavo dove volevo, non c’erano limitazioni come a volte invece capita in altre occasioni, ma il mio intento è sempre stato quello di contribuire a migliorare le condizioni di vita delle persone in carcere”. Quando ha ricevuto questo diniego, per Ioia è stato un vero e proprio schiaffo: “Un’umiliazione insostenibile. Un detenuto, attraverso la moglie, raccontò che nel corridoio sentì due agenti di polizia penitenziaria lamentarsi del fatto che io entrassi in visita in carcere, ho il terribile sospetto di essere visto come un nemico perché denuncio ciò che non va all’interno delle carceri, compresa la “cella zero” per la quale è in corso un processo per dodici agenti imputati”. Qualcuno potrebbe aver sottolineato i suoi precedenti penali, ma al momento non si conosce la motivazione del rifiuto dell’amministrazione penitenziaria di far entrare l’attivista: “Nella mia vita, per cambiare - assicura Ioia. Ho fatto un percorso di miseria anche totale pur di non ricadere nel crimine, e in questo sono stato aiutato solo dai miei figli. Mi sento riabilitato e non grazie allo Stato, ma quando ti senti di nuovo escluso come adesso è un’umiliazione insopportabile. La mia attività per i detenuti è quella per il cosiddetto Stato di diritto, cioè che siano rispettati i diritti fondamentali delle persone, solo così il carcere serve a qualcosa, e la mia battaglia fuori è spinta anche dal fatto che l’assenza di alternative spinge di nuovo a compiere reati. Sbattendomi la porta in faccia mi hanno fatto sentire di nuovo un delinquente, anche se sono un uomo diverso. Il mio terribile dubbio, che spero non sia mai confermato, è che le mie denunce pubbliche abbiano avuto un ruolo in questa esclusione. Comunque non mi fermerò, il 10 Maggio (data della prossima udienza del processo sulla cella zero) con altri ex detenuti sarò in presidio davanti al Tribunale di Napoli, perché non è possibile che questo processo vada in prescrizione e non si conosca la verità su quanto accaduto in carcere”. Aosta: il Garante “pericoloso peggioramento della situazione nel carcere di Brissogne” di Marco Camilli aostaoggi.it, 1 aprile 2018 Sovraffollamento, mancanza del direttore, condizioni precarie dell’edificio: alla casa circondariale di Brissogne è “in atto un pericoloso peggioramento della situazione”. La denuncia è del garante dei diritti dei detenuti, Enrico Formento Dojot. A fine 2017 l’istituto carcerario valdostano contava 196 detenuti (117 cittadini stranieri e 79 italiani), quindici in più rispetto alla capienza regolamentare. “Pare che gli effetti degli interventi normativi adottati negli anni 2013-2014, definiti “svuota carceri”, stiano scemando - ha commentato Formento Dojot nel presentare l’attività svolta lo scorso anno. Non vorrei che, a piccoli passi, si manifestasse nuovamente lo spettro del fenomeno del sovraffollamento”. La presenza di un numero di detenuti più alto rispetto alla capienza massima per cui l’istituto è stato progettato non è che una delle problematiche vissute tra le mura di Brissogne. “Carenza di progettualità, assenza del direttore e del comandante della Polizia penitenziaria, edificio in condizioni di criticità: ne esce un quadro sconfortante”, dice Formento Dojot. Lo scorso il suo ufficio ha trattato 138 istanze da parte dei detenuti : il 44% di queste riguarda l’organizzazione della casa circondariale, 30 casi invece si riferiscono al diritto alla salute. Alcuni problemi rimangono senza soluzione, come la questione dell’acqua potabile che potabile non è. Già da mesi i guasti al vetusto impianto di depurazione della struttura hanno costretto ad improvvisare distribuendo acqua in bottiglia al personale e ai detenuti in attesa che sia pronta la soluzione a lungo termine, cioè l’allacciamento alla rete idrica del Comune di Brissogne, che però richiede ancora tempo. Nei giorni scorsi il problema dell’imbevibilità dell’acqua si è ripresentato e ha scatenato le proteste dei detenuti placate dagli agenti della polizia penitenziaria e dal ritorno dell’acqua in bottiglia. Il garante dei detenuti ha provato ad occuparsi anche di questo aspetto, ma lo stesso Formento Dojot ha ammesso di sentirsi “spesso vox clamantis in deserto visto che tali problematiche, portate all’attenzione degli organi competenti, restano sostanzialmente senza soluzione”. Intanto il magistrato di sorveglianza di Novara, competente per i detenuti del carcere valdostano, ha presentato un esposto per condotte colpose contro la salute pubblica. Livorno: Raspanti alle Sughere denuncia “degrado e sicurezza a rischio” di Nicolò Cecioni Il Tirreno, 1 aprile 2018 Il consigliere di “Futuro!” in visita al carcere lancia un appello perché si risolvano problemi strutturali e di sovraffollamento. “Facciamo funzionare bene il carcere e avremo città più sicure”. Pasqua si avvicina ed è quando le famiglie si riuniscono, che chi è solo sente ancora di più il peso dell’isolamento. È per questo che Andrea Raspanti ieri mattina è andato a far visita ai detenuti. “Si tratta di un piccolo gesto - ha spiegato il consigliere di Futuro! - che però penso che sia doveroso. Dall’inizio del mandato sono venuto almeno un paio di volte all’anno. A Natale e a Pasqua lì dentro la solitudine si fa sentire ancora più forte, perciò penso che la presenza delle istituzioni sia importantissima”. E proprio come rappresentante delle istituzioni, Raspanti è andato a controllare le condizioni delle Sughere. “I problemi che abbiamo tante volte denunciato purtroppo sono ancora irrisolti. La massima sicurezza è in degrado, nelle zone tinteggiate di recente sono tornate le muffe. I bagni sono ancora chiusi senza che siano stati fatti gli interventi di restauro: dall’estate scorsa sono inagibili. Inoltre la nuova cucina ancora non è stata consegnata e la vecchia è in degrado. Ho parlato con detenuti che sono arrivati da altre carceri sperando di poter lavorare ai fornelli, ma che viste le condizioni attuali, sperando di essere trasferiti di nuovo”. I problemi riguardano anche l’alta sicurezza. “È arrivata alla saturazione. È nata per essere coerente con gli standard europei che prevedono 2 detenuti per cella, perché ogni detenuto deve avere almeno 3 metri quadri a disposizione. Ma qui, invece, i detenuti sono 3 per stanza perché in Italia si è data un’altra interpretazione alla normativa, escludendo dal conteggio i letti. Si parlava di stanziamenti economici disponibili quando si decise di non costruire il carcere di Lucca. Ma non si è fatto nulla. Qualcosa si sta muovendo dal punto di vista delle telefonate, dopo l’episodio della protesta non violenta che c’è stata in carcere un po’ di tempo fa. Mi auguro che i politici livornesi, soprattutto a livello regionale e quelli che sono stati di recente eletti a Roma, diano un segnale di vicinanza e di interesse di tutta la comunità cittadina a riappropriarsi del carcere che non deve più essere qualcosa di distante”. Secondo Raspanti un miglior livello di vita all’interno del carcere ha un riflesso immediato sull’intera società. “Alle Sughere siamo in condizioni di illegalità della pena. E se un carcere non funziona, è tutto il meccanismo della sicurezza che non funziona. E quando si fallisce nella rieducazione, quelli che escono sono peggio di quando sono entrati. Con una pena in condizioni degradanti, passata senza fare niente, quando si torna in libertà l’unica possibilità è quella di sbagliare di nuovo. E in tutto questo sistema, a rimetterci è anche il personale perché lavorare così è frustrante e difficile”. Modena: teatro in carcere con “Trasparenze”, intervista a Stefano Tè di Gianluigi Lanza primopianomodena.it, 1 aprile 2018 Teatro in carcere con la sesta edizione di Trasparenze Festival - direzione artistica di Stefano Tè del Teatro dei Venti - che si terrà a Modena dal 10 al 13 maggio e anche quest’anno ospiterà spettacoli e laboratori all’interno del S. Anna con Chiara Guidi, Leviedelfool e Teatro dell’Argine. Oltre al carcere modenese sarà coinvolta anche la casa di reclusione di Castelfranco Emilia, dove la compagnia Teatro dell’Argine ha già iniziato il laboratorio che porterà alla realizzazione di uno spettacolo finale. Il direttore artistico Stefano Tè in questa conversazione ci racconta le ultime novità del festival. Stefano, Trasparenze Festival torna ad ospitare spettacoli e laboratori all’interno del carcere: un esempio di inclusione sociale… “Parliamo di inclusione perché il Teatro consente di praticare dei percorsi di cittadinanza, sia per i detenuti, che dovrebbero trovare un reinserimento sociale, sia per il pubblico esterno, che ha modo di conoscere, anche se in minima parte, il funzionamento del sistema penitenziario. Il risultato atteso è la coesione sociale, ovvero il dialogo tra “dentro” e “fuori” tra parti diverse della società che altrimenti non entrerebbero in relazione. Se è vero, come diceva Dostoevskij, che “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” nessuno può disinteressarsi del tutto delle condizioni e dei percorsi di vita di chi è in Carcere. Noi in Carcere però non facciamo teatro-terapia, o riabilitazione, seguiamo un percorso artistico, che ci impone di stare nei luoghi del vivere sociale per parlare del contemporaneo. C’è un tema sotteso a questa sesta edizione di Trasparenze, “orizzonti proibiti”, e l’ingresso in carcere lo è ancora”. Quali sono gli spettacoli che si potranno vedere in carcere in questa sesta edizione del festival? “Iniziamo il 10 maggio con “Il palazzo incantato”, il lavoro che la compagnia Teatro dell’Argine porterà in scena presso il carcere di Castelfranco Emilia, esito del laboratorio con i detenuti che è iniziato a febbraio. Si proseguirà l’11 maggio presso il carcere di Modena con “Requiem for Pinocchio” de Leviedelfool, una compagnia che il pubblico di Trasparenze conosce e apprezza da tempo. L’ultimo spettacolo in carcere, sempre a Modena il 12 maggio, vedrà in scena Chiara Guidi con gli “Esercizi per voce e violoncello sulla Divina Commedia di Dante”. In questo caso gli attori detenuti prendono parte al lavoro prestando la propria voce per un coro, dopo un Laboratorio di diversi incontri nel carcere di Modena”. Con quali criteri vengono scelte le compagnie che partecipano a questo progetto? “Artisti e compagnie ai quali chiediamo di presentare il loro lavoro in Carcere vengono scelti pensando al programma generale del Festival, a un equilibrio artistico e compositivo, ma anche alla proposta più adeguata per il percorso formativo dei detenuti. Per questo nel carcere di Castelfranco Emilia, abbiamo pensato di proporre il lavoro del Teatro dell’Argine, compagnia che ha fatto del dialogo tra le comunità un metodo oltre che una cifra stilistica, con un laboratorio che avrà esito nello spettacolo finale. Nel carcere di Modena, dove in questi anni Trasparenze Festival ha portato diversi spettacoli e diversi linguaggi artistici, abbiamo pensato di collocare due lavori che in modo differente affrontino la parola, la dimensione verbale, il dire. L’11 maggio con il monologo di Simone Perinelli de Leviedelfool e il 12 maggio con il lavoro di Chiara Guidi sulla Divina Commedia”. Non solo spettacoli, però… “In questa edizione del Festival continuiamo a percorrere la strada che abbiamo sperimentato lo scorso anno: Trasparenze diventa ancora di più un laboratorio di creatività in ambito sociale. Così oltre ai laboratori in carcere avremo la coreografa Simona Bertozzi a lavoro con i richiedenti asilo del Gruppo Marewa, il Teatro delle Ariette con gli ospiti della Casa Protetta per anziani, il coreografo Daniele Albanese con il Gruppo l’Albatro del progetto Teatro e Salute Mentale. Tutti i Laboratori avranno un esito aperto al pubblico in luoghi e momenti diversi del Festival. Per iniziare una riflessione di grande portata, il 13 maggio, nell’ultima giornata di Trasparenze, abbiamo previsto un convegno di studi che metta a confronto le pratiche artistiche in ambito sociale. Un convegno internazionale organizzato da Teatro dei Venti e Teatro Ebasko in collaborazione con Emilia-Romagna Teatro Fondazione e Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. Il programma è in via di definizione e metterà in dialogo, in quattro tavoli operativi, artisti, studiosi ed esperti che si occupano dei temi e delle pratiche. “Che arte sarà?” è il titolo di questo appuntamento che per noi rappresenta il punto di partenza di una riflessione artistica più ampia. Sempre il 13 maggio porteremo in scena “Ubu Re”, il lavoro che abbiamo realizzato con i detenuti e gli internati del carcere di Castelfranco Emilia e di Modena e che sintetizza la nostra visione di teatro come strumento di trasformazione sociale”. Evadere dal carcere per finire in un testo di Tommaso Pincio Il Manifesto, 1 aprile 2018 Narrativa americana. A fronte di un cospicuo anticipo, che lo stato del Michigan pretende di congelare, l’ergastolano Curtis Dawkins ha scritto quattordici mirabili racconti: “Questo ero io”, da Mondadori. Malgrado sia molto diffuso, il romanzo di ambientazione carceraria assume spesso le sembianze di un sottogenere, di una appendice, una estensione delle tante vesti possibili di altre forme letterarie quali il romanzo criminale o il libro di memorie. A renderlo sfuggente non è tanto la varietà di modi e motivi in cui si manifesta quanto il fatto che il carcere, prima ancora di essere un luogo dell’azione, si presenta come premessa, motivo scatenante della scrittura. Si scrive in un certo modo, e si sceglie un determinato argomento, proprio perché si è o si è stati carcerati o si è patita una qualche forma di prigionia. Non per nulla, i romanzi carcerari sono quasi tutti invisibili, essendo nati in una prigionia che non lascia tracce evidenti nella storia. Che un esempio di questo tipo sia il Don Chisciotte, un libro da molti considerato come il primo vero romanzo della storia occidentale, è forse un elemento da non sottovalutare. Come pure non secondaria è la coincidenza per cui certa narrativa di intrattenimento sia chiamata letteratura di evasione. Da Cervantes a Wilde, passando per il marchese de Sade e Dostoevskij, fino all’estremo di Kafka, dove non è ben chiaro se l’incarcerazione sia da intendersi più come un infierire del destino o un’aspirazione inconfessata, la cella è rimasta un approdo, benché sgradito, che lo scrittore si trova ad affrontare venendone cambiato profondamente e, a volte, traendone ispirazione. Una notte disgraziata, anni fa - Nella letteratura del Novecento, in particolare in quella statunitense, si è andato invece affermando un romanzo carcerario di tipo nuovo, non più partorito dallo scrittore in gabbia, ma dal criminale che una volta dentro scopre il potere della letteratura. In alcuni casi - A sangue freddo di Capote o Il canto del boia di Mailer - è una scoperta passiva o comunque mediata da uno scrittore di professione. In altri casi però, è il criminale a prendere carta e penna, a rendere pubblica la sua storia, superando le barriere di ordine morale che spesso la società americana gli oppone, nonostante la libertà di espressione garantita dal primo emendamento. Tra i più noti Ed Bunker. Tra i più interessanti Jack Henry Abbott, non fosse altro che per il modo in cui questo rapinatore e omicida arrivò alla celebrità letteraria, ovvero grazie a Norman Mailer con il quale si era messo in contatto offrendosi di fornire descrizioni di come si vive dietro le sbarre più realistiche di quelle presenti nel Canto del boia. La vicenda di Abbott, tornato a uccidere appena sei settimane dopo avere riacquistato la libertà grazie all’improvvido interessamento di Mailer, sollevò in maniera tragica un dubbio probabilmente ozioso, tanto è indecidibile. Può il talento letterario riscattare dal delitto e, nel caso, fino che punto? La questione è riemersa di recente in America quando lo stato del Michigan ha chiesto che il novanta per cento di quanto guadagnato da Curtis Dawkins con la pubblicazione di Questo ero io (Mondadori, pp. 213, € 19,00) venga trattenuto per rimborsare i costi della sua detenzione. La storia ha avuto inizio una disgraziata notte di fine ottobre di quattordici anni fa quando Dawkins si introdusse in casa d’altri. Sotto gli effetti del crack, e vestito da gangster, terrorizzò le persone che vi abitavano e ne uccise una. Non fu la follia di un ragazzino. All’epoca Dawkins era un uomo fatto e finito seppure con problemi di soldi e di droga. Sposato, padre di tre figli, aveva alle spalle anche un master in Fine Arts, nato dall’incontro casuale con una persona che come lui frequentava gli Alcolisti anonimi e che gli aveva passato libri di Faulkner e Salinger. Sono stati tuttavia il rimorso e l’ergastolo a fare di lui uno scrittore o, per meglio dire, a indurlo a cercare nella scrittura uno scopo o almeno un sollievo dalla consapevolezza che per lui la libertà resterà per sempre soltanto un ricordo. “Dopo aver sentito la porta di una cella chiudersi di schianto - scrive Dawkins nei ringraziamenti del suo libro - nel giro di ventiquattr’ore ti è chiaro che o morirai per il rimorso o imparerai a vivere nel presente. Per me, la narrativa è una grossa parte di questo presente, e mi ci aggrappo come a una scialuppa che ogni giorno si allontana nella nebbia”. Pare che di recente lo scrittore abbia lavorato a un romanzo ambientato in una enorme prigione immaginaria, una specie di alveare sotterraneo. Pare inoltre che abbia tatuato sul petto l’incipit dell’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Dall’insieme di queste due informazioni ci si potrebbe fare un’idea sbagliata del genere di libro che in effetti ha pubblicato con Scribner nel luglio 2017 a fronte di un cospicuo anticipo che lo stato del Michigan vorrebbe però congelare. Questo ero io è infatti un volume di quattordici racconti carcerari dall’impianto realistico o al più alienato, sorretti da una lingua ricca e forte la cui calibrata asciuttezza ha trovato una strepitosa resa nella traduzione di Maurizia Balmelli. Anche enfatizzare che si tratta di racconti sarebbe fuorviante, perché malgrado ognuno di essi abbia un suo taglio e presenti personaggi e situazioni diverse, l’impressione è quella di un corpo unico. Il carcere fa comunque da sfondo e la voce è quasi sempre quella di un narratore senza nome. Artisti del tatuaggio - Del resto, tra le crudeltà inflitte da ogni penitenziario c’è l’azzeramento delle differenze. Per quanto il recluso si sforzi di preservare la propria individualità, in cella diventa comunque un recluso. Ciò che più lo distingue dai compagni è anche ciò lo rende più identico agli altri: il vagheggiamento del mondo esterno. Fuori, il detenuto era un individuo con una sua vita, per quanto sbagliata; ma una volta in gabbia quel passato perde la sua unicità perché tutti in carcere hanno da raccontare la storia della loro vita, che è poi il motivo per cui “dentro non puoi permetterti di demolire un uomo e la sua storia, vera o falsa che sia”. È dunque fatale che molti dei racconti abbiano per tema il desiderio di un contatto con il mondo esterno. Può essere il semplice chiedere alle guardie di ronda che tempo fa fuori o il comporre numeri a caso al telefono, chiamando a carico del destinatario fino a trovare qualcuno abbastanza solo o annoiato da accettare di parlare con uno sconosciuto. La distanza tra dentro e fuori appare evidente anche in quella decorazione corporale che un tempo era prerogativa dei carcerati e oggi è uso comune: il tatuaggio, ovviamente. Dawkins racconta come dopo appena un paio di mesi di detenzione sapesse già riconoscere i tatuaggi fatti dietro le sbarre per via del colore - verde o grigio - e del tratto privo della nitidezza di un ago professionale. “In carcere gli artisti del tatuaggio usano tutto quello che trovano… L’inchiostro è un misto di fuliggine e sputo, talvolta urina… Tatuare in prigione è come ricamare con un ferro da calza. È l’essenza dell’ingegno carcerario: riuscire a fare tanto con poco”. Parole in cui è racchiusa anche l’anima della scrittura di Dawkins, dire tanto con poco. Nessun minimalismo però, se non quello imposto dalle circostanze. Alla fine l’intento è sempre quello di ogni condannato. Trascendere le pareti della cella e il tedio di un tempo che scorre senza scopo. Fare in modo che vita e racconto, dentro e fuori tornino a coincidere, fosse solo nella scrittura. Il programma “Sono innocente”. Matano: “Racconto in tv le vite segnate dall’ingiustizia” di Renato Franco Corriere della Sera, 1 aprile 2018 Persone innocenti la cui vita si trasforma in incubo: è il perimetro narrativo in cui si muove “Sono innocente”, dall’8 aprile in prima serata su Rai3. L’impersonalità della legge e la fallibilità dell’uomo, la giustizia che diventa ingiusta, persone innocenti la cui vita si trasforma in incubo. È in questo perimetro narrativo in cui si muove “Sono innocente”, il programma condotto da Alberto Matano che torna da domenica 8 aprile in prima serata su Rai3. “Raccontiamo storie di gente come noi, persone comuni, che all’improvviso si ritrovano in una prospettiva di vita ribaltata - spiega il giornalista. Persone che senza sapere bene perché finiscono ingiustamente in carcere”. In questa nuova stagione il racconto si dividerà in tre momenti, con tre storie differenti tra loro: le vicende di persone comuni; quelle di persone famose; quelle a tinte più oscure che trattano di pedofilia, satanismo e omicidi efferati. Cosa c’è alla radice di questi clamorosi errori giudiziari? “Indagini frettolose e fatte male, la necessità di trovare un colpevole, in molti casi uno scambio di persona, spesso il pregiudizio: sulla famiglia di origine, sulle frequentazioni, sul luogo dove si vive, come è successo a due ragazzi - uno di Scampia e l’altro di Casal di Principe - che sono stati accusati e condannati per il solo motivo di abitare nel luogo sbagliato. L’errore è umano, ma quando si può influire così tanto sulla vita delle persone, un supplemento di responsabilità e rigore è necessario”. Sulla storia più dura Matano non ha dubbi: “La vicenda di Aldo Scardella, lo studente universitario di Cagliari, ingiustamente accusato di omicidio e morto suicida in carcere”. “Sono innocente” rievoca anche quei casi di ingiustizia di rilevanza nazionale che hanno segnato il vissuto collettivo: da Enzo Tortora, con la presenza in studio della figlia Gaia, al delitto di Meredith Kercher, con la testimonianza di Patrick Lumumba. Anche lo chef Filippo La Mantia finì in carcere negli anni 80 per un delitto di mafia: “All’epoca faceva il fotoreporter a Palermo e fu accusato di favoreggiamento nell’ambito delle indagini sull’omicidio Cassarà. La Mantia racconta che nelle cucine del carcere sviluppò quell’attenzione al gusto che è poi è diventata la passione della sua vita”. Il risarcimento però è una magra consolazione. Chi baratterebbe 22 anni di carcere con 6 milioni di euro quando esci a 60 anni? “Tutti gli innocenti ingiustamente condannati dicono la stessa cosa, nessun risarcimento ti darà indietro quello che hai vissuto, quello che hai provato, quello che hai perso”. Anche la riabilitazione sociale non ha lo stesso impatto che hanno avuto le condanne sulla vita delle persone: “Quando la giustizia rimette le cose a posto, l’eco è decisamente minore rispetto al clamore precedente. Vito Gamberale, il dirigente pubblico arrestato con l’accusa di abuso d’ufficio e concussione, mostrerà la rassegna stampa che lo riguarda: centinaia di pagine sulla sua condanna, appena tre fogli sull’assoluzione con formula piena”. La veglia di Pasqua di Papa Francesco. In rassegna i dolori del pianeta di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 1 aprile 2018 L’anticipazione sul messaggio Urbi et Orbi: affronterà i gravi temi di miseria, guerre, violenze, migrazioni forzate. Nella meditazione un appello a vincere “l’atteggiamento pusillanime”. Si comincia fuori da San Pietro, “immersi nell’oscurità della notte e nel freddo che l’accompagna”. È ancora il tempo in cui “sentiamo il peso del silenzio davanti alla morte del Signore…”. Francesco celebra la Veglia di Pasqua, benedice il fuoco, accende il cero pasquale, guida la processione al canto dell’Exultet, battezza otto adulti. E quando prende la parola torna al momento iniziale, a prima che la Basilica rimasta al buio dall’ora della Passione tornasse ad illuminarsi per l’annuncio della Risurrezione. Il Papa esorta a non restare “ammutoliti e ottenebrati” di fronte al dolore e alle ingiustizie del mondo. Perché è del “silenzio” del Sabato Santo che vuole parlare, non il silenzio della speranza e dell’attesa di Maria ma quello dei discepoli che hanno taciuto di fronte all’ingiustizia e alle calunnie contro Gesù, alla sua condanna: “Durante le ore difficili e dolorose della Passione, i discepoli hanno sperimentato in modo drammatico la loro incapacità di rischiare e di parlare in favore del Maestro. Di più, lo hanno rinnegato, si sono nascosti, sono fuggiti, sono stati zitti”. Ed è quello che accade anche oggi, sillaba il Papa: “Questa è la notte del silenzio del discepolo che si trova intirizzito e paralizzato, senza sapere dove andare di fronte a tante situazioni dolorose che lo opprimono e lo circondano. È il discepolo di oggi, ammutolito davanti a una realtà che gli si impone facendogli sentire e, ciò che è peggio, credere che non si può fare nulla per vincere tante ingiustizie che vivono nella loro carne tanti nostri fratelli”. Oltre la routine - A mezzogiorno della domenica di Pasqua, dalla Loggia delle Benedizioni, Francesco ripercorrerà i dolori del pianeta nel tradizionale messaggio Urbi et Orbi: miseria, guerre, violenze, migrazioni forzate. Così, nella meditazione della Veglia, le parole del Papa sono un appello a vincere “quell’atteggiamento pusillanime che tante volte ci assedia e cerca di seppellire ogni tipo di speranza”. Bisogna saper rischiare. Non come il discepolo “frastornato perché immerso in una routine schiacciante che lo priva della memoria, fa tacere la speranza e lo abitua al “si è fatto sempre così”. O il discepolo “ammutolito e ottenebrato che finisce per abituarsi e considerare normale l’espressione di Caifa: “Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!”“. Il grido delle pietre - Eppure, “in mezzo ai nostri silenzi, quando tacciamo in modo così schiacciante, allora le pietre cominciano a gridare e a lasciare spazio al più grande annuncio che la storia abbia mai potuto contenere nel suo seno: “Non è qui. È risorto”“. Rinascere, rinnovarsi, qui sta il significato essenziale della Pasqua: “È l’annuncio che sostiene la nostra speranza e la trasforma in gesti concreti di carità. Quanto abbiamo bisogno che la nostra fede sia rinnovata, che i nostri miopi orizzonti siano messi in discussione e rinnovati da questo annuncio! Egli è risorto e con Lui risorge la nostra speranza creativa per affrontare i problemi attuali, perché sappiamo che non siamo soli”. Di contro al silenzio dei discepoli, “la pietra del sepolcro gridò e col suo grido annunciò a tutti una nuova via”, prosegue Francesco. “Fu il creato il primo a farsi eco del trionfo della Vita su tutte le realtà che cercarono di far tacere e di imbavagliare la gioia del vangelo. Fu la pietra del sepolcro la prima a saltare e, a modo suo, a intonare un canto di lode e di entusiasmo, di gioia e di speranza a cui tutti siamo invitati a partecipare”. Gesti concreti di carità - Orizzonti nuovi, gesti concreti di carità: “Se ieri, con le donne, abbiamo contemplato “colui che hanno trafitto”, oggi con esse siamo chiamati a contemplare la tomba vuota e ad ascoltare le parole dell’angelo: “Non abbiate paura. È risorto”. Parole che vogliono raggiungere le nostre convinzioni e certezze più profonde, i nostri modi di giudicare e di affrontare gli avvenimenti quotidiani; specialmente il nostro modo di relazionarci con gli altri. La tomba vuota vuole sfidare, smuovere, interrogare, ma soprattutto vuole incoraggiarci a credere e ad aver fiducia che Dio “avviene” in qualsiasi situazione, in qualsiasi persona, e che la sua luce può arrivare negli angoli più imprevedibili e più chiusi dell’esistenza”. La scelta - Celebrare la Pasqua, conclude il Papa, “significa credere nuovamente che Dio irrompe e non cessa di irrompere nelle nostre storie, sfidando i nostri determinismi uniformanti e paralizzanti”. A questo punto tocca a ciascuno scegliere, se restare zitto davanti alle ingiustizie del mondo o rischiare in favore degli scartati, gli ultimi, i troppi crocifissi della Terra: “La pietra del sepolcro ha fatto la sua parte, le donne hanno fatto la loro parte, adesso l’invito viene rivolto ancora una volta a voi e a me: invito a rompere le abitudini ripetitive, a rinnovare la nostra vita, le nostre scelte e la nostra esistenza. Un invito che ci viene rivolto là dove ci troviamo, in ciò che facciamo e che siamo; con la “quota di potere” che abbiamo. Vogliamo partecipare a questo annuncio di vita o resteremo muti davanti agli avvenimenti?”. Caccia al migrante, la Francia sconfina a Bardonecchia di Maurizio Pagliassotti e Mauro Ravarino Il Manifesto, 1 aprile 2018 Irruzione della gendarmerie nei locali del presidio umanitario, a pochi metri dalla stazione di polizia. Fermato un ragazzo nigeriano diretto a Napoli. Una irruzione nel presidio sanitario umanitario di Bardonecchia, derubricata a scontro patriottico tra Italia e Francia. Da molti mesi il locale messo a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, in collaborazione con il comune di Bardonecchia, prefettura di Torino, e le associazioni Rainbow4Africa e Recosol, rappresenta l’ultimo approdo prima della grande traversata verso ovest dei migranti. Venerdì sera un giovane nigeriano era in viaggio verso Napoli, con regolare biglietto. Partito da Parigi è stato individuato poco prima della frontiera italiana. Per ragioni ignote la gendarmeria gli ha imposto di scendere alla stazione di Bardonecchia. La stazione di polizia italiana si trova a cento metri dalla saletta della stazione ferroviaria. I militari francesi si sono ben guardati dal raggiungere, e tantomeno dall’avvertire, i colleghi. Gli automezzi della polizia italiana sono però visibili a occhio nudo e un controllo su quanto avviene nella stazione, e nei dintorni, è sempre attivo. I poliziotti italiani sono arrivati solo dopo essere stati avvertiti dai volontari, e la gendarmeria era ormai sulla strada di casa. Martina, ricercatrice universitaria di Genova, si trovava nella stanza e così descrive il clima dell’irruzione: “I militari erano molto decisi, arroganti in ogni secondo della loro azione. Hanno alzato la voce con tutti”. L’aggressività dei doganieri francesi sta assumendo forme insolite: ieri pomeriggio avanzavano richieste di documenti perfino ad alcuni giornalisti italiani. Il giovane nigeriano, che non parla francese, è stato costretto in un angolo dove ha urinato dentro a una provetta. L’esito dell’analisi è stato negativo e dopo pochi minuti i militari francesi, contrariati, se ne sono andati urlando. Il ragazzo sospettato di essere una spacciatore - rimane l’enigma di come si possa provare una simile accusa attraverso un esame delle urine anche nel caso di esito positivo - è stato poi liberato e ha proseguito il suo viaggio verso Napoli. Il giovane non deteneva alcuna sostanza stupefacente. La polizia francese poteva effettuare lo stesso controllo a Modane, pochi chilometri prima del confine, ovvero dove opera il filtro anti immigrazione. Non l’ha fatto. Il ragazzo inoltre non è stato ufficialmente fermato, ma gli è stata fatta firmare un’autorizzazione: è facilmente intuibile con quali pressioni. I militari hanno quindi deliberatamente scelto di fare un’irruzione dentro il rifugio dove operano medici e volontari, rendendo un controllo molto semplice - formalmente traballante sul piano legale - platealmente ostile. Paolo Narcisi, presidente di Rainbow4Africa, commenta: “Riteniamo questi atti delle ignobili provocazioni. Abbiamo fiducia nell’operato delle istituzioni e della giustizia italiana, che sono state investite della responsabilità di attuare i passi necessari verso la Francia. Il nostro unico interesse rimane assicurare rispetto dei diritti umani dei migranti”. Aggiunge l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione): “Quanto accaduto è una gravissima violazione non solo di quel sistema dei diritti umani che dovrebbe contraddistinguere l’Europa, ma anche dei principi basilari della dignità umana, intollerabile nei confronti di persone venute per richiedere protezione. Si valuterà pertanto ogni possibile azione per contrastare simili comportamenti”. Lo scontro arriva dopo l’apertura di un secondo fronte, quello di Claviere, dove la chiesetta rifugio continua a operare a pochi metri dal confine francese. Una condizione di eccezionalità che sta diventando normalità. Il governo francese - è improbabile che un’operazione di tale portata internazionale possa essere dovuta a intemperanze dei militari - ha scelto quindi di dare un “avvertimento” direttamente a chi opera nell’assistenza ai migranti. Istituzioni e volontari. Prova di questo è data dal continuo flusso di uomini e donne che vengono riportati indietro dalla gendarmeria. Ieri pomeriggio, nel cuore delle polemiche politiche e mediatiche, il solito furgoncino con targa francese scaricava Tarek M. tunisino. In arrivo da Napoli, veniva fermato a Modane dopo un viaggio di quasi mille chilometri. Dotato di carta d’identità italiana e con regolare permesso di soggiorno, veniva respinto dato che i francesi non accettavano la ricevuta di pagamento che attesta il rinnovo del permesso scaduto. Colpa della burocrazia italiana che non gli ha fatto avere il documento dopo quasi due mesi di attesa. Tarek M. stava andando a Lione, dove la sorella malata terminale. Ma evidentemente in Francia ci sono ordini precisi: non passa nessuno e nessuna pietà. Migranti. Lungo la nuova rotta dei disperati dove i gendarmi francesi dettano legge di Lodovico Poletto La Stampa, 1 aprile 2018 “Siamo in Italia, ma comandano loro”. I volontari denunciano gli abusi: “Operano senza autorizzazioni” La rabbia dei valsusini: in piazza chiedono i documenti anche a noi. Al confine La presenza degli agenti della Gendarmeria è frequente a Bardonecchia. I mediatori culturali raccontano che alcuni minori sono stati respinti alla frontiera: “Un atto contro ogni accordo internazionale di protezione”. Dicono che a primavera, e con il disgelo, la montagna regalerà brutte sorprese. E che da sotto la neve ridotta in poltiglia affiorerà il corpo di chi non ce l’ha fatta ad attraversare il confine inseguendo il sogno della Francia. E dicono anche che l’incidente dell’altra notte con la polizia francese non è certo una novità. Non nel senso che gli agenti sono entrati altre volte a controllare i migranti della stanzetta del Comune di Bardonecchia accanto all’ingresso della stazione, dove operano medici e volontari di Rainbow for Africa. E allora che cosa significa non è un caso unico? Moussa, il senegalese che fa da mediatore culturale in quelle tre stanze si rolla l’ennesima sigaretta e, con calma, spiega che: “Quelli fanno ciò che vogliono. Sui treni e alla frontiera. Rimandano indietro la gente anche se ha soldi e documenti a posto”. E ancora: “Fanno come fossero loro i padroni di casa. Molto duri, con pochissima umanità”. La frontiera invisibile - Bardonecchia, vigilia di Pasqua, dodici ore dopo l’irruzione che è diventata un caso diplomatico, è un paese che si sveglia con il sole. Sciatori sulle piste, seconde case con le tapparelle alzate, auto, parcheggi impossibili e il solito affollamento dei periodi di festa. Questa è la terra dove Francia e Italia si fondono, dove lo frontiere - se non conosci il territorio benissimo - diventano ipotesi sulle quali ognuno può dire la sua. E il piazzale davanti alla stazione è un non luogo nel quale i furgoni bianchi con la banda tricolore della Gendarmeria vanno e vengono tutto il giorno e scaricano migranti fermati alla frontiera. “Fanno tutto ciò che vogliono” insistono davanti alla stazione. Chi? I gendarmi? “Tutti, anche le dogane”. E così accade che alle undici del mattino i tre agenti francesi appena scesi dal treno in arrivo da Modane, per il servizio di pattugliamento e controllo viaggiatori tra Italia e Francia, chiedano i documenti anche a chi sta in piazza: “S’il vous plait”. Italiani. Non migranti. Ma questo è territorio italiano e le persone a cui lo domandano non sono scese dal treno. “Fanno sempre così, con tutti” raccontano al bar davanti alla stazione. Operano in modo indipendente in una sorta di attività extraterritoriale condotta in autonomia, cioè senza l’appoggio delle autorità italiane. Che sarebbe indispensabile. Perché, se non c’è, è un abuso. Le intimidazioni - Lo dice alle due del pomeriggio anche Edoardo Greppi, docente di diritto internazionale all’Università di Torino che, ancora con addosso la tuta da sci si presenta davanti alla stazione per capire cos’è accaduto. “Non è scoppiata la terza guerra mondiale, certo. Ma un abuso c’è stato e i contorni sono tutti da definire”. Lo ribadisce il sindaco Francesco Avato, dopo che quelli di Rainbow for Africa hanno denunciato sul web ciò che accaduto l’altra notte. Dopo che Moussa ha spiegato ai microfoni che quando gli agenti sono entrati con quel ragazzo al loro seguito erano decisi. E lei Moussa che cosa ha fatto? “Ho detto che non potevano e sa che cosa mi hanno risposto? Hanno messo il dito davanti alla bocca, così. E mi hanno detto di stare zitto. Cioè che loro potevano fare ciò volevano”. Le accuse dei mediatori - Quando cala la sera su Bardonecchia nevica. La polizia francese non si vede in paese dalle tre del pomeriggio. Poi parli con quelli che si occupano di migranti e saltano fuori mille altre storie che puoi trovare solo in questa terra di mezzo, dove i temi dell’immigrazione si confondono con la convivenza, dove i ruoli non sono mai netti. Dove le norme sono sempre e comunque interpretate. E le storie che circolano in paese andrebbero chiarite fino in fondo. Come quella che raccontano ancora i mediatori: “I minori vengono respinti alla frontiera. In barba a ogni accordo internazionale di protezione dei più piccoli”. Conferma Avato: “Lo sappiamo, ne abbiamo sentito parlare”. Ma se ci fossero dubbi sulla effettiva età dei migranti? “Deve comunque prevalere la protezione della persona. Quindi prima l’accoglienza, poi tutto il resto”. E salta fuori di nuovo la storia di Beauty, malata di linfoma in fase terminale, incinta di sette mesi, morta dopo essere stata respinta alla frontiera e subito dopo aver dato alla luce il figlio, grazie all’impegno e agli sforzi dei medici dell’ospedale Sant’Anna di Torino. “Un altro abuso, un’altra cosa che i doganieri francesi non potevano fare” insistono i volontari. A Briançon, appena oltre frontiera, storcono il naso i gendarmi. E il giornale locale dice che non è andata così. Che è stato fatto tutto secondo la legge. E Bardonecchia si prepara per un’altra serata di neve e di gelo. Di migranti che arrivano. Di polemiche. Di confini fisici e legali che si confondo, si mescolano, non si capiscono più. Privacy e sicurezza. Il profilo social, una “fedina penale” per il visto Usa di Michela Rovelli Corriere della Sera, 1 aprile 2018 Quattordici milioni di utenti che d’ora in poi dovranno riflettere prima di cliccare il pulsante “pubblica”. Il Dipartimento di Stato giustifica la proposta definendola una mossa nella lotta al terrorismo, ma le implicazioni sono più profonde. Nome, cognome, cittadinanza e account di Facebook. Milioni di persone alla frontiera degli Stati Uniti si sentiranno chiedere di mostrare come hanno gestito la propria vita digitale negli ultimi cinque anni. La proposta lanciata dal Dipartimento di Stato prevede che, oltre al passaporto, chi proviene da quelle aree dove si richiede un visto per entrare temporaneamente su suolo americano (40 le nazioni escluse, tra cui l’Italia) dovrà esibire i propri profili social. Si citano venti piattaforme, con base negli Usa (Facebook, Twitter, YouTube o LinkedIn), ma anche in Cina o in Russia. Finora il controllo aggiuntivo era indirizzato solo ai visti per immigrazione, circa 700mila annui. L’amministrazione Trump ora preme perché lo screening di video condivisi e retweet venga esteso a chi viaggia per lavoro, vacanza o motivi di studio. In dogana, insieme ai propri post, si lasceranno anche indirizzi email, numeri di telefono e registro degli ultimi spostamenti (fisici, questa volta). Quattordici milioni di utenti che d’ora in poi dovranno riflettere prima di cliccare il pulsante “pubblica”. Perché se il Dipartimento di Stato giustifica la proposta definendola una mossa nella lotta al terrorismo, le implicazioni sono più profonde. Può il permesso di entrare in un Paese dipendere dalle parole che si affidano alla Rete? Di nuovo i social al centro: maestosi collettori di dati, registri permanenti delle nostre azioni da internauta. La mossa di Trump mina al diritto di parola, è stata l’immediata critica di molti attivisti. Ma dimostra anche come le informazioni che noi cediamo volontariamente, spesso senza renderci conto delle conseguenze, facciano gola non soltanto agli inserzionisti pubblicitari. Nemmeno i governi sanno resistere alla tentazione di monitorare quelle identità virtuali che ormai, pare, valgono anche come documento. O come fedina penale. Turchia. Non disturbate il massacratore di Roberto Saviano L’Espresso, 1 aprile 2018 Nessuno in Occidente alza la voce sulle mattanze di Erdogan. Perché all’Europa serve come alleato per fermare i migranti. Sull’offensiva turca ad Afrin nessuno muove un dito. Al massacro contro i curdi è stato dato un nome che sembra innocuo: “Ramoscello d’ulivo”. Un simbolo di pace per descrivere un bagno di sangue. Ma Erdogan, che vuole arrivare a Manbij con le sue truppe, continua indisturbato a sterminare i curdi, prima eroi anti-Isis, ora inutile ostacolo all’ottomanismo turco. Chi potrebbe avere un peso ed essere ascoltato oggi tace. Troppi sono gli interessi in gioco per opporsi a questo massacro: all’Unione europea la Turchia garantisce il blocco dei migranti diretti in Europa, ed è quindi un alleato troppo prezioso per osare contrastare le sue politiche; gli Stati Uniti non si intromettono perché hanno in Turchia delle basi militari fondamentali. Ecco spiegato il silenzio: l’interesse di tutti oggi è tacere. Intanto i curdi siriani non sono altro che carne da macello dell’artiglieria turca. E qui c’è un altro paradosso: Erdogan è pagato dall’Unione europea per bloccare i profughi diretti in Europa, ma contemporaneamente sta creando profughi, cioè i curdi che sta perseguitando. Già 100 mila persone sono scappate da Afrin per sfuggire alle ostilità. Sullo sfondo, una Turchia sempre più autoritaria, dove l’informazione è completamente egemonizzata da Erdogan. Pochissimi in maniera dettagliata (tra questi Mariano Giustino da Ankara per Radio Radicale, Articolo 21 e Middle East Eye) e tanti altri senza troppo approfondire, hanno raccontato come il quotidiano Htirriyet, la Cnn Ttirk e tutto il più grande gruppo mediatico turco, il Dogan Media Group, siano finiti sotto il controllo di Erdogan. Il repulisti era iniziato dopo il fallito golpe dell’estate 2016: la polizia aveva perquisito le abitazioni e gli uffici di Yahya Uzdiyen (ex direttore esecutivo del gruppo) e Erem Turgut Yucel (consigliere legale), poi arrestati e rilasciati a novembre 2017 con divieto di recarsi all’estero. Il loro arresto era naturalmente collegato a quello del rappresentante amministrativo ad Ankara della holding, Barbaros Muratoglu (poi assolto a novembre 2017), accusato di avere legami con Fetullah Gulen, l’imam considerato da Erdogan la mente del fallito colpo di Stato. Con il passaggio del gruppo Dogan nelle mani di Erdogan, in Turchia restano solo piccoli media indipendenti come Cumhuriyet e pochissimi altri. In più ci sarà un sempre maggiore controllo sui contenuti sui social media. Dobbiamo prendere coscienza di cosa accade ai confini dell’Europa perché, contrariamente a ciò che crediamo, non è la democrazia a essere contagiosa, ma il suo esatto opposto e l’autoritarismo di Erdogan è una seria minaccia per tutti. Ciò che sta accadendo ad Afrin, ci impone di guardare attentamente a quel che succede in Siria, dove la situazione è complicatissima e a farne le spese sono i civili. Centinaia di migliaia di bambini vengono uccisi nel modo più atroce: ne ho parlato su Raiuno, invitando chi domenica scorsa era davanti al televisore a scegliere tra cambiare canale e fingere che nulla di tutto questo stia accadendo o guardare dritto in faccia fin dove porta anche il nostro scellerato silenzio. Ci sono video di bimbi che esalano l’ultimo respiro tra le braccia di genitori inermi; bambini che muoiono perché intossicati dal gas che brucia ossigeno nei polmoni. Assad è un dittatore sanguinario, il fronte che lo combatte dal 2011 è frammentato e al centro vi è la popolazione civile che fa da scudo umano, altra carne da macello. Da118 febbraio muoiono in Siria 50 persone al giorno, la maggior parte civili e tra questi moltissimi bambini. Quello che accade non è solo intollerabile, ma impone a tutti noi una presa di posizione. La guerra in Medio Oriente ci riguarda non semplicemente perché rende insicure anche le nostre città per gli attentati dell’Isis, ma perché gli equilibri mondiali si decidono sulla pelle di chi non ha strumenti per difendersi. Guardiamo attentamente le immagini dei civili massacrati, dei bambini morti e di quelli mutilati, e prima di dire “siamo invasi” e “aiutiamoli a casa loro” pensiamo che all’Italia non conviene aiutare le vittime, ma i carnefici. Alla luce di tutto questo, alla luce di strategie inumane, ciò che resta per salvarci la coscienza è smetterla di criminalizzare chi viene in Europa e chi salva migranti. Ad avere una coscienza si vive meglio, ma questo sembriamo averlo dimenticato. Yemen. 22 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria interris.it, 1 aprile 2018 I dati diffusi dall’Unicef a tre anni dall’inizio del conflitto. Sono oltre 22 milioni le persone che in Yemen hanno bisogno di assistenza umanitaria. Tra di loro circa 11,3 milioni di bambini di età inferiore ai 18 anni; 1,8 milioni di bimbi sotto i 5 anni e 1,1 milioni di donne in gravidanza o in allattamento soffrono di malnutrizione acuta, con un aumento del 128% rispetto alla fine del 2014; 16 milioni di yemeniti, tra cui quasi 8,2 milioni di bambini, hanno bisogno di aiuto per avere o mantenere l’accesso all’acqua potabile e a servizi igienici adeguati. Sono alcuni dei dati diffusi dall’Unicef a tre anni dall’inizio del conflitto in Yemen. Bambini sequestrati, mutilati e uccisi - Secondo quanto emerge dal report del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, dal marzo del 2015, oltre duemila bambini sono stati uccisi, 3.387 mutilati, 2.419 reclutati nei combattimenti, 279 sequestrati e detenuti arbitrariamente. Oltre un milione di bambini sono sfollati; 1,8 milioni di bambini sono a rischio di malattie diarroiche e 1,3 milioni di bambini sono a rischio di polmonite. Nessun accesso all’istruzione - Secondo il rapporto dell’Unicef, quasi mezzo milione di bambini hanno abbandonato la scuola dopo l’escalation del conflitto nello Yemen nel 2015, portando a 2 milioni il numero totale di bambini fuori dalla scuola. Nel frattempo, quasi tre quarti degli insegnanti delle scuole pubbliche non sono stati retribuiti per più di un anno, mettendo a grave rischio l’istruzione di altri 4,5 milioni di bambini; più di 2.500 scuole sono fuori uso, con due terzi danneggiate dagli attacchi, il 27% chiuse e il 7% utilizzati per scopi militari o come rifugi per gli sfollati.