Riforma in stand by: detenuti ancora oltre la capienza di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2018 Il sasso lo ha lanciato Roberto Fico dopo il richiamo del garante dei detenuti. È stato il presidente della Camera, conquistando l’apprezzamento di buona parte del Pd (dal ministro della Giustizia Orlando, a quello per i Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro, al capogruppo dem alla Camera Delrio) che ha chiesto in Conferenza dei capigruppo a Montecitorio di rivalutare la possibilità di inserire il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario (che amplia il ricorso alle misure alternative alla detenzione) tra le materie di esame della Commissione speciale. Senza aspettare perciò la formazione del nuovo governo e della futura commissione Giustizia. Carceri oltre la capienza regolamentare - La richiesta di una rapida approvazione del decreto, che dà la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere anche a chi ha un residuo di pena fino a quattro anni (escludendo però ogni automatismo, perché la valutazione è rimessa sempre al magistrato di sorveglianza), non può prescindere dai numeri. In base alle statistiche del ministero della Giustizia, a fine marzo i detenuti nelle carceri italiane erano 58.223, a fronte di una capienza di 50.613 posti. Particolarmente significativo il caso di Poggioreale, solo per fare un esempio, con 2.223 detenuti e una capienza di 1.659. Lo scontro politico - Ma l’assenza del provvedimento in Commissione speciale ha un motivo politico, vista la contrarietà di Lega e M5s, che all’indomani dell’approvazione del testo da parte del Cdm lo scorso 16 marzo (in secondo esame preliminare), avevano tuonato contro il decreto (“salva-ladri” per Matteo Salvini e “affronto inaccettabile” per Alfonso Bonafede, candidato Guardasigilli M5S e fedelissimo di Di Maio). Dieci giorni per il parere della Commissione - Dal momento dell’assegnazione del decreto, la commissione competente ha dieci giorni di tempo per esprimere il parere (non vincolante). Poi sta al governo decidere se approvarlo o meno in via definitiva. “È necessario fare presto non solo perché la delega scade il 3 agosto - spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone - ma anche perché se si procedesse subito all’incardinamento del decreto in commissione speciale, il governo Gentiloni avrebbe in teoria ancora tempo approvarlo in via definitiva. Mentre in caso di futuro governo formato da forze politiche ostili al testo, come la Lega, dopo il parere della commissione giustizia il decreto potrebbe non vedrebbe mai più la luce”. Dal Csm appello al Parlamento: approvi la riforma - Il fronte pro riforma è ampio. E vede insieme toghe e avvocati. Dal Csm è partito un appello al Parlamento. “Rispettiamo le prerogative e l’autonomia delle Camere, ma credo che possiamo permetterci di rivolgere un invito rispettoso al Parlamento perché si esprima su una riforma così importante”, ha detto il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini. Richiesta analoga è stata espressa dall’Unione delle camere penali (che ha proclamato due giornate di sciopero, il 2 e il 3 maggio prossimi, contro il mancato inserimento del decreto nei lavori delle Commissioni speciali di Camera e Senato). Nonché dal Garante per i diritti dei detenuti Mauro Palma (che a proposito dello stop della Camera ha parlato di “manovra ostruzionistica”). La riforma dell’ordinamento penitenziario - Quello in questione è un decreto legislativo in attuazione della legge delega sulla riforma della giustizia penale (legge 23 giugno 2017, n. 103). Tra gli obiettivi dichiarati “quello di diminuire il sovraffollamento nelle carceri - si legge nel comunicato del consiglio dei ministri del 16 marzo - sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere”, sia potenziando il reinserimento sociale del detenuto “per arginare il fenomeno della recidiva”. Appello del Csm al Parlamento: “approvate la riforma delle carceri” Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2018 Resta il nodo della commissione speciale. Il Consiglio superiore della magistratura si rivolge direttamente alle Camere perché si esprimano sul testo approvato lo scorso 16 marzo dal governo Gentiloni. Rimane il nodo del parere da affidare alla commissione parlamentare unica formata in attesa che nascano quelle definitive. Il presidente della Camera Fico aveva chiesto che facesse una “riflessione”, ma la Meloni dice no. La riforma dell’ordinamento penitenziario non sia accantonata, ma venga finalmente approvata. Dopo il sasso lanciato dal presidente della Camera Roberto Fico, che martedì aveva sollecitato i partiti a riflettere sulla questione, ora a muoversi è il Consiglio superiore della magistratura: “Alla luce dell’invito alla riflessione del Presidente della Camera, penso che anche il Csm possa rispettosamente formulare un appello per l’approvazione di questa riforma”, ha detto il Consigliere Piergiorgio Morosini, da cui è partita la richiesta. “Rispettiamo le prerogative e l’autonomia delle Camere, ma credo che possiamo permetterci di rivolgere un invito rispettoso al Parlamento perché si esprima su una riforma così importante”, ha aggiunto il vice presidente del Csm Giovanni Legnini. La riforma, fortemente voluta dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando e approvata dal governo Gentiloni lo scorso 16 marzo, estenderà la possibilità di accedere alla misure alternative al carcere per i detenuti. Ma prima di diventare esecutivo, il testo del decreto deve essere esaminato dalle commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio. E qui sta il nodo dello stallo: senza un governo e una maggioranza non si può formare la commissione Giustizia, che in condizioni politiche normali sarebbe quella designata per esprimere un parere in merito. L’alternativa, in questa fase post-elettorale, sarebbe quella di far esaminare il testo alla Commissione speciale, ma su questo su punto si gioca una battaglia politica, con Cinque Stelle, Forza Italia e Lega che hanno criticato la riforma e si sono detti contrari a portare il testo in Commissione speciale, mentre il Partito democratico e Liberi e Uguali sono favorevoli. Il presidente della Camera Roberto Fico aveva chiesto alla Commissione speciale di fare una riflessione sulla riforma, proposta rispedita al mittente oggi dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “Non facciamo nessuna riflessione ed il presidente Fico se ne faccia una ragione, il provvedimento sulle carceri non è materia della commissione speciale. Il Movimento Cinque Stelle si ritrova con il Pd che vuole che la certezza della pena vada distrutta”. I componenti degli Stati Generali: “riforma necessaria per la legalità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2018 L’appello di 137 tra giuristi, docenti, medici, operatori del settore ed esponenti della società civile. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, durante il plenum di ieri mattina ha rivolto “un appello al Parlamento sulla necessità di approvare la riforma dell’ordinamento penitenziario, frutto di un lavoro lungo e partecipato che ha coinvolto le migliori competenze del Paese e che ha visto fortemente impegnato anche il Csm in sede consultiva”. “Ci permettiamo - ha continuato Legnini - di rivolgere un invito rispettoso al Parlamento affinché si esprima su una riforma attesa e corrispondente anche ai pronunciamenti della Corte Edu”. In apertura di plenum, è stato il togato di Area Piergiorgio Morosini a lanciare un appello al Parlamento per l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. A seguire la consigliera laica di centrosinistra Paola Balducci ha voluto rilevare che quella sulla carceri “è una riforma indifferibile, che non deve essere accantonata”. Anche i componenti degli Stati Generali dell’esecuzione penale chiedono al Parlamento e al governo di adoperarsi affinché lo schema di decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario completi al più presto il proprio iter normativo. Lo chiedono attraverso un appello da loro firmato (ben 137 tra giuristi, docenti, medici, operatori del settore ed esponenti della società civile), a partire dal professore Glauco Giostra, coordinatore del comitato scientifico degli Stati Generali sull’esecuzione della pena. I componenti ricordano la necessità della riforma a “fronte di una situazione penitenziaria che richiede interventi particolarmente urgenti e non più ulteriormente differibili”. Il motivo? Presto detto. “Lo schema di decreto legislativo - viene spiegato nell’appello - attuando una parte fondamentale della delega a tale scopo conferita dal Parlamento al governo, consente di riportare l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale e costituisce l’adempimento di un impegno assunto dall’Italia in sede europea dopo l’umiliazione della condanna subita nel 2013 nel caso Torreggiani”. I componenti ricordano di come gli Stati Generali dell’esecuzione penale - lanciati presso il carcere milanese di Bollate dal ministro della Giustizia Orlando il 19 maggio del 2015 hanno impegnato in lavori complessi e laboriosi oltre duecento esperti tra magistrati, avvocati, docenti universitari, medici, psichiatri, direttori penitenziari, funzionari di polizia penitenziaria, esponenti del volontariato e della società civile “nell’obbiettivo di accompagnare il percorso della riforma penitenziaria, ritenuta coralmente necessaria, ad oltre quaranta anni da quella del 1975, a fronte delle drammatiche carenze riscontrabili in un settore così sintomatico della civiltà di un paese democratico”. I componenti degli Stati Generali denunciano l’alto numero di suicidi e di gesti autolesionistici, gli episodi di violenza e di sopraffazione, le carenze igieniche e la sostanziale inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, il sovraffollamento, l’endemica mancanza di lavoro intra ed extra-murario, la frequente de-territorializzazione della pena, l’ancora insoddisfacente ricorso alle misure alternative, le carenze dell’assistenza post-penitenziaria, l’elevata percentuale dei casi di recidiva. “Su questi temi della massima urgenza viene ricordato sempre tramite l’appello - l’Italia si è impegnata dinanzi al Consiglio d’Europa a fornire risposte efficaci che, nello schema di decreto legislativo, sono ormai da tempo pronte per essere sperimentate, come primo fondamentale passo per rendere il nostro sistema di esecuzione penale maggiormente conforme alla Costituzione e offrire così a tutti i cittadini più efficaci garanzie di sicurezza, che risiedono nell’individualizzazione dei percorsi di trattamento e nella tutela piena della dignità delle persone”. I componenti degli Stati Generali ci tengono a sottolineare che la riforma non contiene nessuna ‘ liberatorià per pericolosi delinquenti - tanto meno per mafiosi e terroristi espressamente esclusi dall’intervento riformatore - e nessun insensato ed indulgenziale svuota-carceri, “ma una semplice e razionale rimeditazione sulla funzionalità della risposta sanzionatoria al reato, secondo le linee che gli Stati Generali dell’esecuzione penale hanno elaborato in anni di lavoro intenso e disinteressato”. Proprio per tutte queste ragioni i sottoscrittori dell’appello esprimono tutta la nostra preoccupazione per il mancato inserimento della discussione sullo schema di decreto legislativo in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario all’ordine del giorno delle Commissioni Speciali e chiedono al Parlamento ed al Governo che, nell’ambito delle competenze loro specificamente assegnate in materia dalla legge delega, agiscano tempestivamente. “Le gravi condizioni nelle quali versa il mondo penitenziario - concludono i componenti degli Stati Generali - meritano di essere considerate, infatti, tra le più pressanti urgenze civili di cui la Politica è chiamata ad occuparsi”. Giustizia, mobilitati gli Stati Generali: appello per la riforma da 130 esperti di Teresa Valiani Redattore Sociale, 19 aprile 2018 Presentato oggi a Governo e Parlamento un documento in cui rappresentanti del mondo accademico, giuridico e forense chiedono l’inserimento dello schema di decreto nell’ordine del giorno delle Commissioni Speciali. “Le gravi condizioni in cui versa il mondo penitenziario meritano di essere considerate tra le più pressanti urgenze civili”. Il primo nome, a spiccare su tutti, è quello di Glauco Giostra, presidente della Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario e, nei due anni precedenti, coordinatore di quella rivoluzione culturale che passerà alla storia col nome di “Stati generali sull’esecuzione penale”: il profondo e complesso lavoro di ricerca pensato dal ministro della Giustizia, Andra Orlando, per ridisegnare il volto delle carceri italiane e l’intero sistema dell’esecuzione delle pene. Segue un lungo elenco di firme, 130 in tutto, di professionisti e alte personalità del mondo giuridico, forense e accademico che arrivano direttamente dai Tavoli degli Stati generali: da Gherardo Colombo a Stefano Anastasìa, da Paolo Borgna a Lucia Castellano, da Adolfo Ceretti a Rita Bernardini, da Franco Corleone a Riccardo Polidoro: tutti uniti nel chiedere con forza, in un appello inviato questa mattina a Governo e Parlamento, l’approvazione definitiva di una riforma che non può più aspettare. Né in Italia, né in Europa. “Come componenti degli Stati Generali dell’esecuzione penale - scrivono i 130 firmatari - chiediamo al Parlamento ed al Governo di adoperarsi affinché lo schema di decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario completi al più presto il proprio iter normativo, a fronte di una situazione penitenziaria che richiede interventi particolarmente urgenti e non più ulteriormente differibili. Lo schema di decreto legislativo, attuando una parte fondamentale della delega a tale scopo conferita dal Parlamento al Governo, consente di riportare l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale e costituisce l’adempimento di un impegno assunto dall’Italia in sede europea dopo l’umiliazione della condanna subita nel 2013 nel caso Torreggiani”. In due anni di lavoro, esperti da tutta Italia e da diversi settori della società civile avevano scandagliato il mondo penitenziario alla ricerca di soluzioni che garantissero dignità e sicurezza, dentro e fuori gli istituti di pena. Puntando molto sulle misure alternative al carcere e su una vita detentiva il più vicina possibile a quella reale, per favorire il delicato momento del reinserimento. “Gli Stati Generali dell’esecuzione penale - prosegue l’appello - hanno impegnato in lavori complessi e laboriosi oltre duecento esperti tra magistrati, avvocati, docenti universitari, medici, psichiatri, direttori penitenziari, funzionari di polizia penitenziaria, esponenti del volontariato e della società civile nell’obbiettivo di accompagnare il percorso della riforma penitenziaria, ritenuta coralmente necessaria, ad oltre quaranta anni da quella del 1975, a fronte delle drammatiche carenze riscontrabili in un settore così sintomatico della civiltà di un paese democratico”. “Basterebbe ricordare - proseguono gli esperti - l’alto numero di suicidi e di gesti autolesionistici, gli episodi di violenza e di sopraffazione, le carenze igieniche e la sostanziale inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, il sovraffollamento, l’endemica mancanza di lavoro intra ed extra-murario, la frequente de-territorializzazione della pena, l’ancora insoddisfacente ricorso alle misure alternative, le carenze dell’assistenza post-penitenziaria, l’elevata percentuale dei casi di recidiva. Su questi temi della massima urgenza l’Italia si è impegnata dinanzi al Consiglio d’Europa a fornire risposte efficaci che, nello schema di decreto legislativo, sono ormai da tempo pronte per essere sperimentate, come primo fondamentale passo per rendere il nostro sistema di esecuzione penale maggiormente conforme alla Costituzione ed offrire così a tutti i cittadini più efficaci garanzie di sicurezza, che risiedono nell’individualizzazione dei percorsi di trattamento e nella tutela piena della dignità delle persone”. L’hanno chiamata “salva-ladri”, affiancando la definizione all’altrettanto infelice “svuota-carceri” ma la riforma va esattamente nella direzione opposta e “non contiene - sottolinea l’appello - nessuna liberatoria per pericolosi delinquenti, tanto meno per mafiosi e terroristi espressamente esclusi dall’intervento riformatore, e nessun insensato ed indulgenziale svuota-carceri, ma una semplice e razionale rimeditazione sulla funzionalità della risposta sanzionatoria al reato, secondo le linee che gli Stati Generali dell’esecuzione penale hanno elaborato in anni di lavoro intenso e disinteressato”. “Per queste ragioni - concludono gli esperti - esprimiamo tutta la nostra preoccupazione per il mancato inserimento della discussione sullo schema di decreto legislativo in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario all’ordine del giorno delle Commissioni Speciali e chiediamo al Parlamento ed al Governo che, nell’ambito delle competenze loro specificamente assegnate in materia dalla legge delega, agiscano tempestivamente. Le gravi condizioni nelle quali versa il mondo penitenziario meritano di essere considerate, infatti, tra le più pressanti urgenze civili di cui la Politica è chiamata ad occuparsi”. Ieri “l’apertura” del presidente della Camera, Roberto Fico, che ha invitato i Capi Gruppo a ripensarci e a inserire la discussione sullo schema di decreto nei lavori della Commissione Speciale. Oggi l’appello degli Stati generali. Il 2 e 3 maggio l’astensione dalle udienze dei penalisti e la manifestazione nazionale delle Camere Penali. Si infittisce il calendario degli eventi pro-riforma e si moltiplicano, di ora in ora, gli appelli per il sostegno del cambiamento di un sistema penitenziario che è di nuovo sull’orlo del collasso. Carceri, anche il Csm si appella al Parlamento: “Si approvi la riforma” di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 aprile 2018 Dopo il presidente Fico, anche l’organo di governo dei magistrati si rivolge a Camera e Senato. Il vice presidente Legnini chiede alle Commissioni speciali di analizzare e varare il decreto legislativo. Ora anche il Consiglio superiore della magistratura chiede al Parlamento di permettere alle Commissioni speciali di occuparsi della riforma dell’ordinamento penitenziario, giunta all’ultimo passo prima della definitiva approvazione da parte del governo. In realtà, l’organo di rilievo costituzionale che rappresenta uno dei tre poteri dello Stato va perfino oltre, rispetto all’appello “tecnico” rivolto il giorno prima dal presidente della Camera Roberto Fico ai gruppi parlamentari sulla base delle indicazioni del Garante dei detenuti, Mauro Palma. Il Csm chiede esplicitamente di approvare il primo decreto attuativo licenziato in seconda lettura dal governo, il 16 marzo scorso, e che attende solo il parere - non vincolante - delle Commissioni. Il primo a sollevare la questione all’interno dell’organo di governo dei magistrati è stato ieri mattina il consigliere togato di Area, Piergiorgio Morosini, che in apertura del Plenum ha difeso la riforma. Il suo invito è stato poi raccolto dalla maggioranza delle toghe e dal vice Presidente Giovanni Legnini, che si è rivolto al legislatore per sostenere le ragioni del governo: “Rivolgiamo un appello al Parlamento sulla necessità di approvare la riforma dell’ordinamento penitenziario, frutto - ha sottolineato Legnini - di un lavoro lungo e partecipato che ha coinvolto le migliori competenze del Paese e che ha visto fortemente impegnato anche il Csm in sede consultiva”. Durante il Plenum si è svolto un dibattito sul tema che, al di là delle posizioni politiche, apre una questione di “garbo istituzionale” tra poteri dello Stato. “Alla luce dell’invito alla riflessione del Presidente della Camera, penso che anche il Csm possa rispettosamente formulare un appello per l’approvazione di questa riforma dell’ordinamento - ha affermato Morosini - ispirata dalla pronuncia della Corte europea del 2013 che condannava l’Italia per le condizioni delle nostre carceri e che ci ha imposto di intervenire non solo con soluzioni tampone ma con interventi strutturali. Credo che oggi più che mai - ha concluso il magistrato di Area democratica - il mondo politico istituzionale abbia bisogno di terreni su cui riconoscersi ed incontrarsi. L’Italia conosce forme molto feroci di criminalità ma ai detenuti non si può togliere l’opportunità di cambiare vita e il lungo lavoro del Csm, partito nel 2015, ci legittima oggi a sollecitare, nel pieno rispetto delle prerogative degli organi istituzionali competenti, l’approvazione dell’ordinamento penitenziario”. Una posizione del tutto condivisa dai laici di sinistra e da chi ha lavorato sul tema delle carceri nella Commissione mista del Csm. Molto meno dai magistrati più distanti dallo spirito della riforma, come il togato Aldo Morgigni (Autonomia e Indipendenza) e il laico di centro-destra Antonio Leone, preoccupati però soprattutto di non esercitare troppa “pressione” sul Parlamento con un appello che avrebbe potuto sembrare “un’ingerenza”. La decisione di reinserire o meno il primo decreto legislativo all’Odg della Commissione speciale spetta alla capigruppo che si riunirà la prossima settimana. La questione su cui dibattere però - almeno stando allo spirito con il quale il presidente della Camera ha lanciato il suo appello - non è tanto politica quanto piuttosto “tecnica”. Infatti, in mancanza delle commissioni permanenti, e stante il fatto che il loro parere sarebbe in ogni caso non vincolante ai fini della definitiva approvazione del provvedimento, spetta - così sostengono l’esecutivo e il giudiziario - all’organismo temporaneo istituito per gli affari correnti, analizzare il testo della riforma trasmesso dal Consiglio dei ministri. Stranamente dal centrodestra si è sollevata un’unica voce, quella della leader di FdI, Giorgia Meloni, che ha usato toni altisonanti per ribattere a Fico che no, “se ne faccia una ragione: quella non è una materia da Commissione speciale”. Di contro invece, a mobilitarsi per l’approvazione del decreto attuativo sono stati almeno 130 tra gli esperti chiamati dal ministro Orlando a lavorare per gli “Stati generali sull’esecuzione penale”. Carceri, la riforma mancata e il suicidio dei diritti di Francesco Petrelli* Il Mattino, 19 aprile 2018 Ha infilato la testa in un sacchetto di plastica e utilizzato il gas di una piccola bombola da campeggio, di quelle che i detenuti usano per farsi da mangiare, per darsi la morte. È solo l’ultimo caso di suicidio in carcere che, finito già fra le notizie prive di rilievo, contribuisce tuttavia a mantenere la statistica sui drammatici livelli di un morto a settimana. Il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della Riforma penitenziaria nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari è, in questa luce, un pessimo segnale. Non solo perché tale decisione dimostra che leggi frutto di una faticosa e approfondita meditazione, e di ampia condivisione politica, giuridica e culturale, possano essere agevolmente dimenticate come si trattasse di un prodotto scaduto. Ma anche perché dimostra quale sia il metro con il quale le questioni della giustizia penale vengono utilizzate dalla politica. È oramai da tempo, infatti, che le riforme del processo sono divenute oggetto di veti incrociati e strumento di lotta politica. Con l’introduzione di parole d’ordine e di temi semplificati che mirano ad attivare risposte emotive dell’elettorato. Temi che divengono, tuttavia, scomodi e ingombranti quando viene il tempo della riflessione e dei contenuti. Quando si vedono i disastri che nel frattempo il background populista ha generato, producendo quella oramai incontenibile deriva mediatica che ha travolto il processo penale, sconvolgendone i prudenti tratti liberali ed attribuendogli aspettative improprie. E diventano scomodissimi quando tutte le scorciatoie che si sono proposte al pubblico, fatte di pene certe e sommarie, di misure patrimoniali rapide e punitive, di processi senza lacci e lacciuoli, di abolizione della presunzione di innocenza, e di tutte quelle “ridicole” garanzie borghesi che invitano alla delinquenza, finiscono con il delegittimare il potere giudiziario che le applica e la democrazia parlamentare che le produce. E sarà tardi quando ci si avvedrà di come sia difficile riparare i guasti prodotti dalle proclamate virtù del “gettate via le chiavi”, del “più carcere più sicurezza” e colmare la distanza che oramai separa la ragionevole lungimiranza dei padri costituenti, da quel sentire comune che si è dissennatamente ovunque inoculato. Leggi di grande respiro come quella “accantonata” dal Parlamento, dovrebbero al contrario, in un Paese maturo, trovare la convergenza di interi schieramenti, di quello che una volta si chiamava arco costituzionale. E non essere usate da una parte contro l’altra. Le riforme della giustizia dovrebbero avere al fondo una lingua comune, indifferente alle pulsioni partigiane, e alle spinte della demagogia. Se è ovvio che su singoli istituti e su specifiche questioni (legittima difesa, innalzamento delle pena, introduzione di nuovi reati...) la diversa prospettiva ideologica e partitica possa sviluppare pressioni identitarie, non dovrebbe essere così laddove le riforme coinvolgono la tutela ed il rafforzamento delle basi costituzionali delle garanzie di ogni cittadino. Nel caso della riforma penitenziaria si tratta non solo di una occasione storica di ammodernamento e di adeguamento dell’istituzione penitenziaria al principio costituzionale, ma dell’obbligo di rispondere ad una domanda dell’Europa ed a stringenti vincoli convenzionali. Con la mancata assegnazione dei decreti alle Commissioni speciali, si finge irresponsabilmente che non vi siano ragioni di urgenza, di umanità e di civiltà, che impongano di intervenire e che non siano invece drammatiche le condizioni di un sistema nel quale i suicidi non fanno più notizia, nel quale la salute non è garantita, l’opera di osservazione, di trattamento e di risocializzazione sostanzialmente interdetta dal sovraffollamento e da numeri oramai tornati a limiti tali da riproporre complessivi profili di sicurezza oltre che di decenza. La politica dovrebbe dunque riflettere seriamente sulla questione delle garanzie connesse alla legalità del processo e dell’ esecuzione della pena. Perché le libertà, i diritti e le garanzie dei cittadini, nello statuto garantista, si tengono tutte assieme: o stanno in piedi tutte, quelle dei nostri amici e dei nostri nemici, quelle dei potenti e quelle degli ultimi, o cadono tutte insieme. E se non si ha cura di utilizzare quotidianamente, dentro e fuori dal Parlamento, questo prezioso gadget fornitoci da quella, troppo spesso dimenticata, comune radice europea democratica e liberale, inutile poi piangere e protestare quando le disavventure del processo e della pena ci toccano da vicino. *Segretario Unione Camere penali Riforma del sistema penitenziario: l’importante apertura di Fico di Barbara Alessandrini L’Opinione, 19 aprile 2018 Dopo la mobilitazione di Rita Bernardini e del Partito Radicale, dell’Unione Camere Penali e di altri settori dell’Avvocatura, di un vasto mondo di operatori del settore penitenziario e di molti esponenti di spicco della società civile, sembra proprio che si sia aperta una finestra sui decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario solo pochi giorni fa sottratti all’esame della Commissione speciale da una conferenza dei capigruppo in cui avevano votato di fatto per lo stop ai decreti Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e Movimento 5 Stelle. Inaspettatamente è stato il presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, a chiedere un’ulteriore riflessione sul decreto ai capigruppo della Camera durante una nuova riunione degli stessi capigruppo. Indubbiamente un notevole segnale di apertura nei confronti di una riforma così importante, scaturito, a detta dello stesso Fico, anche dalle notazioni che il Garante nazionale per i detenuti aveva espresso nei giorni scorsi commentando con delusione l’insensato e dannoso blocco dell’iter del decreto sulla riforma penitenziaria. La precedente capigruppo aveva scelto di evitare di far decorrere il limite dei dieci giorni dal momento della trasmissione del testo in commissione parlamentare oltre i quali il governo, senza un parere della stessa, è autorizzato ad adottare il decreto ricorrendo all’espediente di limitare le competenze della Commissione speciale. Ora questo sasso nello stagno destinato forse, dopo la deludente prova offerta non soltanto dal M5S e dalle due forze politiche più giustizialiste della coalizione del centrodestra (c’era da attenderselo) ma anche da FI, persa improvvisamente per strada la sua vocazione garantista, a muovere le forze politiche a un ripensamento sulla necessità di non gettare al macero, sull’altare del rassicurante mantra leghista e di Fdi “buttar le chiavi” delle celle, gli anni di lavoro che il governo ha messo in campo per favorire un allineamento del nostro Paese alle prescrizioni venuteci dall’Europa in materia di riforma del sistema penitenziario. Ora è possibile un rewind, utile a riflettere appunto, su alcuni punti da collegare tra loro con estrema facilità: a) il sistema penitenziario presenta una nuova e progressiva impennata di sovraffollamento, problemi igienici, di mancato rispetto delle condizioni umane e dignitose entro cui si deve scontare la pena b) impedire che i decreti attuativi, con la loro efficacia deflativa, vedano la luce non significa garantire la sicurezza ma incoraggiare irresponsabilmente una situazione carceraria letteralmente fuori controllo e illegale in aperta violazione con la Costituzione, la Cedu e la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo d) che tali disinvolte infrazioni si tradurranno in nuove salatissime multe da parte dell’Europa che, dopo la sentenza Torreggiani del 2013 e la sanzione che l’Italia fu costretta a pagare, ci aveva chiesto di cambiare il nostro sistema penitenziario nella direzione del recupero e della rieducazione e nel rispetto della dignità dei detenuti, e di un ricorso alle pene alternative proprio al fine di correggere una realtà dell’esecuzione penale fuori del dettato costituzionale e delle prescrizioni della Cedu in termini di rieducazione di divieto di trattamenti inumani e degradanti. Davvero quella sentenza che ci ha condannato per trattamenti inumani e degradanti non ha insegnato nulla? Certo, non v’è peggior orecchio di chi non vuol sentire e confidando che Forza Italia torni presto sulle sue posizioni di difesa delle garanzie, l’ostacolo della sovrana sordità di Fdi e Lega dovrebbe cedere alla necessità di far quadrare i conti evitando ulteriori inutili e dannose perdite economiche alle casse dello Stato. E chissà che non si comprenda che politiche ancor più restrittive e ostili alle misure alternative al carcere richiesteci dall’Europa, siano destinate ad attirarci una pioggia di altre multe milionarie che cadrebbero sui cittadini. Chi è sordo alle istanze rieducative che la Costituzione assegna alla pena, alla dignità e umanità che le impongono i trattati europei e alle ragioni di decenza, di civiltà giuridica e democratica e di umanità che le politiche penitenziarie dovrebbero avere, si sintonizzi almeno sull’urgenza di dar compimento ai correttivi su una situazione carceraria incivile per mere ragioni economiche. Le sanzioni che graveranno sull’Italia a causa di un sovraffollamento che impedisce qualsiasi garanzia alla salute, un puntuale monitoraggio dei singoli detenuti e trattamento di risocializzazione, morti e suicidi in carcere, ormai una a settimana, rende irrealizzabile qualsiasi profilo di sicurezza negli istituti penitenziari. Si potrebbe suggerire alle forze politiche più avverse alla riforma del sistema penitenziario l’accoglimento di qualche dato ufficiale, ormai ripetuto all’infinito, ma di cui l’informazione mainstream dà scarse notizie a un pubblico le cui illusorie aspettative tanto incidono sull’azione politica: i reclusi sono saliti a marzo a 58.223 su 50.613 posti disponibili con 70 minori costretti a vivere in cella e che su 57.608 detenuti di dicembre scorso 19.853 sono in custodia cautelare in attesa di giudizio (magari per indagini mal condotte) o senza una condanna definitiva. Appare evidente che il divieto della Cedu di far scontare la pena con trattamenti inumani e degradanti è ampiamente di nuovo violato. Dopodiché si prenda atto delle statistiche: assicurare ai detenuti un percorso di reinserimento e di rieducazione e risocializzazione anche familiare, con misure alternative per i reati fino ai 4 anni incide sull’abbattimento della recidiva e quindi sull’incremento della sicurezza: il 70 per cento dei reclusi in carcere torna a delinquere mentre solo il 10 per cento di coloro che hanno avuto accesso alle pene alternative. Tanto più che l’accesso alle misure alternative non è frutto di una valutazione personalizzata di ogni detenuto quindi incompatibile con presunti largheggiamenti nelle concessioni. Insomma, la sentenza Torreggiani ci prescriveva un cambio di rotta nelle politiche di esecuzione della pena, un maggiore ricorso alle pene alternative, più responsabilizzanti e in grado di avere un’azione deflativa. E la chiusura del monitoraggio è stato un atto di fiducia da parte europea proprio a fronte dello sforzo dell’Esecutivo per sanare una situazione del sistema penitenziario lesiva della dignità della persona e ricondurla della Costituzione. Uno sforzo compiuto attraverso interventi normativi frutto di un percorso di condivisione, coinvolgimento di esperti, accademici, avvocatura ed esponenti della società civile, confluito negli stati generali delle carceri per migliorare le condizioni della detenzione. Il risultato è stato una temporanea flessione delle presenze carcerarie, un aumento di oltre il 100 per cento degli ammessi alle misure alternative, e l’incremento dei posti disponibili, il miglioramento delle condizioni del sistema penitenziario. Se la nuova, inaspettata richiesta del presidente della Camera Fico sia un riconoscimento effettivo dell’irresponsabilità e dell’autolesionismo politico con cui era arrivata l’improvvisa chiusura del Parlamento a quel percorso utile, umano ed economicamente vantaggioso, si vedrà. Ma è certo che la granitica e rassicurante politica carcero-centrica ancorata solo alle aspettative, di sicurezza, legittime ma prive di conoscenza, dell’opinione pubblica, si è sempre rivelata inefficace e le salate sanzioni dell’Europa sono nuovamente in agguato. E non sarà invocando restrizioni ulteriori e chiusura delle celle sovraffollate, cioè imboccando la scorciatoia di scambiare la causa con la soluzione, come fatto da Fdi, che si risolveranno gli episodi di violenza e la situazione di invivibilità nelle carceri. Un tagliando costituzionale del sistema dell’esecuzione penale andrà fatto. Seguitare ad ostacolarlo significa assumersi anche la responsabilità dei costi delle future sanzioni da parte dell’Europa che ricadranno sui cittadini. Quando ci occupiamo di carceri stiamo parlando anche di conti pubblici. Riforma penitenziaria: il rischio di anacronistici salti indietro di Valter Vecellio lindro.it, 19 aprile 2018 Il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico chiede ai capigruppo di Montecitorio una “riflessione” sul decreto legislativo che attua la riforma delle carceri. L’abbia fatto strumentalmente, per “spiazzare” il compagno di partito Luigi Di Maio che su questo è piuttosto tiepido; l’abbia fatto perché una volta che si ricopre un incarico di responsabilità istituzionale “l’abito” costringe a volte a fare il “monaco”; sarà per un’intima convinzione, fatto è che il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico chiede ai capigruppo di Montecitorio una “riflessione” sul decreto legislativo che attua la riforma delle carceri, “sulla base delle notazioni del garante nazionale per i detenuti”. Fico ricorda che il Governo ha insistito per l’assegnazione di questi due decreti legislativi all’esame della commissione speciale, e annuncia di avere ricevuto una nota dalle Camere Penali nella quale si fa riferimento ad una astensione dall’udienza come forma di protesta in ragione della mancata assegnazione alla commissione speciale dei decreti legislativi; lo stesso Presidente della Repubblica, riferisce, “ha chiesto notizie sull’andamento dei lavori”. C’è questo “lavorio”, dietro l’appello alle forze politiche che solo qualche giorno fa si sono espresse in maniera contraria (Lega, Movimento 5 Stelle, Forza Italia); ai “colleghi” Fico dice di non esprimere adesso la loro posizione, “ma di riflettere in vista della prossima conferenza dei capigruppo nella quale questo tema verrà affrontato”. Palla al balzo prontamente raccolta dal ministro per i rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro. Intervistata da “Radio Radicale”, Finocchiaro di aver “molto apprezzato questo intervento del Presidente Fico, non solo personalmente ma in quanto rappresentante di questo governo che ha molto lavorato su questi temi”. Sulla stessa linea d’onda il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Intervistato da “Un giorno da pecora”, dice: “Ho apprezzato molto l’appello del presidente della Camera, la riforma delle carceri è provvedimento urgente”. Posizione condivisa dal neo capogruppo dei deputati del Partito Democratico Graziano Delrio: “Accogliamo con favore l’invito del presidente della Camera ai gruppi di riconsiderare quella scelta per approdare ad una nuova decisione che consenta il via libera in tempi brevi dei decreti già nella prossima conferenza dei capigruppo”. Una cauta soddisfazione traspare anche dalla presa di posizione della radicale Rita Bernardini, da anni impegnata sul fronte giustizia, e animatrice di mille iniziative nonviolente con l’obiettivo di approvare la riforma. “Ci sento tutta la presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, senza alcuna esternazione ma lavorando in silenzio, richiama tutte le istanze politiche all’obbligo di servire la Costituzione per affermare Stato di diritto e democrazia. Ne abbiamo più che mai bisogno proprio in questo momento della vita istituzionale del nostro Paese”. Si tratta di una riforma “sentita”, e da tempo attesa, dall’intera comunità penitenziaria. “La legge penitenziaria del nostro Paese risale a 43 anni fa, parla di un mondo, di una società e di un carcere che hanno subito profonde trasformazioni. Il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, con cui a dicembre il governo Gentiloni ha dato seguito alla delega ricevuta dalla legge, ha portato una ventata di modernità nel quadro normativo aprendo alle pene alternative o di comunità”. È la valutazione del Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario (Seac). Disperdere il frutto di questi sforzi condivisi, valuta Laura Marignetti, presidente del Seac, “significherebbe fare un anacronistico salto indietro oltre che rischiare sanzioni mortificanti da parte delle autorità europee. La certezza della pena non significa necessariamente una pena immutabile. Le nuove disposizioni portano una ventata di modernità nel quadro normativo aprendo alle pene alternative o di comunità, già largamente applicate in altri Paesi occidentali”. Il destino della riforma penitenziaria “è incerto, ma la classe politica non deve essere ostaggio del consenso e non deve aver paura di approvare un testo che non è uno svuota carceri, ma una riforma di civiltà”, è l’accorato appello di don Raffaele Grimaldi, per 25 anni cappellano a Secondigliano, e da un anno ispettore generale dei cappellani italiani. “Nessuno può essere escluso da un processo di recupero e ravvedimento”. Dal proprio vissuto trae, senza retorica, un’esortazione alle istituzioni e alla società: “Il carcere non deve essere inteso come unica strada per rassicurare l’opinione pubblica in tema di sicurezza. La riforma può essere un valido strumento per dare una chance a chi ha sbagliato. Le misure di comunità aiutano nel reinserimento delle persone detenute nella società”. I magistrati di sorveglianza e quanti sono chiamati quotidianamente ad amministrare le carceri “sul terreno” non nascondono le difficoltà del momento, col sovraffollamento in crescita: 58.223 detenuti su 50.613 posti disponibili al 31 marzo (più 51.042 “misure di comunità”, per un totale di 109.265 persone sottoposte ad esecuzione penale). Alcune situazioni strutturali sono irrisolte da decenni. Nel carcere romano di Regina Coeli, nota il presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia Giovanni Pavarin, “manca ancora il refettorio, obbligatorio dal 2000. E se il volontariato sparisse dalle carceri, il sistema imploderebbe qualche giorno dopo”. Il provveditore regionale per l’Amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Cinzia Calandrino si dice “molto triste per questa mancata riforma”. Il suo omologo per la Puglia e la Basilicata, Carmelo Cantone, la ritiene “necessaria” anche se “il problema sono i fondi: bisogna investire in modo intelligente. Come si fa a pensare che il taglio di 4mila agenti penitenziari non avrà ripercussioni?”. Emilio Santoro, giurista e docente di Filosofia del diritto a Firenze, segnala episodi paradossali, “come un concorso per mediatori culturali verso i detenuti stranieri, aperto solo a chi ha la cittadinanza italiana”. Marcello Bartolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, osserva: “Io la speranza nella riforma non la perdo, ma oggi sembra arrivata al capolinea. Le commissioni speciali hanno scelto di occuparsi di altri temi urgenti”. Questa la situazione, questi i fatti. C’è tutto questo, dietro l’iniziativa del presidente Fico. La mossa di Fico spiana la strada alla riforma Orlando di Salvatore Dama Libero, 19 aprile 2018 Il problema è sempre lo stesso. L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per il sovraffollamento carcerario. Qual è allora la ricetta di Andrea Orlando, Guardasigilli uscente del Pd? Non costruire nuove galere, ma svuotare quelle esistenti. E sarà questo l’effetto del nuovo ordinamento penitenziario. Lo schema di decreto è in Parlamento, in attesa del parere delle Commissioni speciali. Lega e la parte legalitaria dei Cinque Stelle hanno già detto no (“È uno svuota-carceri”). Ma, a sorpresa, il presidente della Camera Roberto Fico ha sposato il testo chiedendone la rapida approvazione. Una mossa che è stata interpretata anche in chiave governativa. Per favorire l’intesa M5S-Pd. Ma cosa c’è scritto in questo nuovo regolamento? Si parte da un dato: il 65% di chi espia tutta la pena in carcere ci ricasca. Mentre è recidivo solo il 19% di chi usa misure alternative. La soluzione allora sono le galere con le porte girevoli. La sospensione della pena vana per le condanne fino a 4 anni. Eliminati gli automatismi che impediscono ai delinquenti abituali i benefici. Niente galera per gli ultrasettantenni. Anche gli ergastolani potranno godere di permessi dal quinto anno (finora ne dovevano passare dieci). Cambiano le regole per i piantonamenti in ospedale. Non più obbligatori. Anche se per i tecnici della Camera il regolamento fa confusione su chi deve decidere: il tribunale o il diretto re dell’istituto penitenziario? Sospeso anche il tema del “diritto all’affettività” (la possibilità di avere rapporti sessuali). Previsto dalla legge delega, non c’è nel regolamento. È certo invece che le ispezioni delle cavità corporee spetteranno al personale sanitario. Trans e gay saranno detenuti in un braccio dedicato. I colloqui saranno anche via Skype. L’ora d’aria passa da 2 a 4 giri d’orologio al giorno. Nuove regole per gli stranieri: lezioni di italiano, libertà di culto e niente maiale per i musulmani. Decreto carceri. Finalmente finiscono le torture ai carcerati di Filippo Facci Liberi, 19 aprile 2018 Si accelerano i tempi per l’approvazione del decreto: più misure alternative, colloqui via Skype e corsi di italiano. Meglio tardi che mai: ma va detto che è tardi davvero. Quello che viene volgarmente definito “decreto svuota-carceri” (definizione miope e da destra forcaiola) in realtà è un adeguamento a minimi criteri di civiltà che prendono il nome di “ordinamento penitenziario”, una riforma attesa da 40 anni e resa necessaria, prima di altro, anche dalle condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, oltreché dalle note condizioni subumane di molte nostre carceri. Per dirla male, non si tratta di un chiudere i cancelli quando i buoi sono già scappati, ma di evitare di serrare pure le finestre una volta che i buoi sono già dentro. Il nuovo ordinamento è stato disegnato da circa duecento esperti durante gli “Stati generali dell’esecuzione penale” organizzati dallo scorso governo, ma ora che succede, visto che il governo non c’è? Qui la sorpresa: il neo presidente della Camera Roberto Fico (grillino) ha fatto un appello affinché il decreto approvato dal governo Gentiloni torni nella “Commissione speciale” che discute gli atti di governo, e quindi veda la luce quanto prima. Il gesto potrebbe rappresentare un bel caso politico, visto che sia l’intero centrodestra (Salvini in primis) sia il candidato Guardasigilli dei Cinque Stelle, Alfonso Bonafede, avevano parlato di “affronto che non può essere accettato” e avevano promesso di fare carta straccia del decreto. A invocarlo però ci sono le Camere Penali (gli avvocati) che già annunciavano scioperi e c’è pure, così risulta, il presidente della Repubblica, che aveva chiesto notizie sull’andamento dei lavori. Più, ovviamente, qualche piddino e una residua trasversalità di garantisti. Va da sé che il centrodestra, in parte ancora inceppato e sorpreso, si prepari a dare battaglia. Ma su che cosa? Di che parla, in concreto, questo neo-ordinamento? Parla di cose facili da spiegare, di altre più difficili da spiegare e di altre che paiono inspiegabili perlomeno a noi. In ordine sparso: 1) Colloqui con i parenti anche via Skype. Ossia tramite videotelefono, via internet. Perché no? Non c’è spesa aggiuntiva e vedere i figli crescere, e il padre ingrigire, resta un buon diritto. 2) Ora d’aria da 2 a 4 ore al giorno. Che problema c’è? All’estero ci sono carceri dove l’ora d’aria dura praticamente tutto il giorno: si va, si rientra, si passeggia. Può essere un problema solo se l’interazione tra certi detenuti fosse un problema, ma questo è ovvio e si deve prevederlo. 3) Gay e trans in un braccio a loro dedicato. Per alcuni aspetti è un privilegio contraddittorio: sarebbe come mandare Rocco Siffredi in un carcere femminile. Il problema non pare il riunirli, ma evitare i problemi che talvolta nascono dalla loro interazione con altre categorie alle quali sono attualmente associati: i cosiddetti sex offender, gli agenti delle forze dell’ordine (autori di reato) e i collaboratori di giustizia, insomma gente che potrebbe a sua volta essere sbranata dagli altri detenuti, ma per motivi diversi. Il problema è che, a fronte di infinite categorie di condannati, non tutte le carceri hanno infiniti bracci. 4) Integrazione dei detenuti stranieri con corsi di lingua italiana. La parlata carceraria media, in effetti, non risulta essere in linea con l’Accademia della Crusca, ma, fosse per noi, i corsi di lingua italiana dovrebbero farli anche agli immigrati non detenuti. 5) Ispezioni nelle cavità corporee solo da parte di personale sanitario. È una delle prime cose che tendiamo ad associare al carcere: un tizio che indossa un guanto con certa disinvoltura e ci si avvicina. E siccome la cosa riguarda anche i detenuti preventivi (possibili innocenti) e siccome i passaggi da un carcere all’altro costringono a una penosa ripetizione del rito, niente di male se a officiarlo fosse qualcuno che sapesse come si fa: altrimenti diventa una pena aggiuntiva, sebbene lo Stato, in forma metaforica, ce la imponga con certa regolarità. 6) No al piantonamento obbligatorio in ospedale: non dev’essere un automatismo (peraltro costoso) ma una misura che il magistrato decida quanto necessaria. 7) Alimentazione degli stranieri rispettosa del loro credo religioso. Su questo ci si è sempre arrangiati facilmente e si potrebbe anche continuare a farlo, anche perché alla fine stiamo parlando degli islamici e basta. Ma l’eccezione potrebbe aprire le porte ad altre eccezioni che in nessun carcere del mondo (soprattutto islamico) conoscono reciprocità. 8) Detenuti over 70 ai domiciliari anche se sono delinquenti abituali ò pluri-recidivi. A meno di ritenere il carcere una forma meramente punitiva (in contrasto con la Costituzione) non c’è ragione di opporsi a questa misura, perché gli arresti domiciliari rimangono arresti e quindi non si dovrebbe ricevere visite né ovviamente “evadere”. Ci sono detenuti, stufi della moglie, che hanno chiesto di tornare tra le sbarre. La misura, anche in caso di sorveglianza, consente di risparmiare. Se ci fosse l’annunciatissimo braccialetto elettronico a disposizione - ma non c’è - sarebbe ancora meglio. 9) I trans avranno la possibilità di proseguire il percorso di transizione sessuale in carcere. Questa, se anche non l’approvano, non ci strappiamo i capelli. Tutto deriva dal fatto che il disturbo dell’identità di genere è ormai ritenuto una patologia come un’altra, addirittura rimborsabile dallo Stato. Ma la “transizione sessuale” in fin dei conti consiste in una o più operazioni chirurgiche: ci dicano da che punto in poi il detenuto dovrebbe essere trasferito in un carcere femminile o maschile. 10) Revisione (in senso permissivo) dell’accesso alle misure alternative ed eliminazione degli automatismi che impediscono ai recidivi benefici e permessi premio; inoltre, per gli ergastolani, permessi premio dopo i primi 5 anni di detenzione (ora è dopo 10) e semilibertà dopo 20 anni. Sono misure, queste, che non piaceranno a chi considera il carcere come un impedimento fisico a delinquere (funzione retributiva) o un posto dove si deve star male e basta, ma sinché ci teniamo l’articolo 27 sulla funzione rieducativa della pena, beh, dobbiamo partire dal principio che l’obiettivo sia scoraggiare le recidive e convincere che di delinquere non vale la pena. Per questo esistono gli sconti di pena, le semilibertà, le condizionali, i permessi vari, persino le perizie psichiatriche: strumenti che non piacciono a chi parla di insicurezza “percepita” anche se le leggi garantiste in concreto funzionano: le evasioni sono al minimo e i vari benefici si sono rivelati il miglior modo di ripulire le strade dalla delinquenza. Impedire gli sconti di pena a priori, oltretutto, presto a tardi farebbe esplodere le galere, che in Italia restano una fabbrica o un corso di perfezionamento per delinquenti. Dopo lo ius soli anche la riforma carceraria viene bloccata womenews.net, 19 aprile 2018 A rischio la riforma del sistema penitenziario. Intanto le carceri sono sempre più sovraffollate. L’appello del garante dei detenuti al governo: “Basta ostruzionismi, si vada avanti” Così i penalisti e le penaliste entreranno in sciopero il 2 e il 3 maggio per protesta contro la mancata attuazione della riforma. Scopo della protesta è ribadire la centralità delle finalità rieducative e di reinserimento sociale di chi è stato condannato. (art. 27, comma 3, Cost.) per la compiuta riaffermazione dello stato di diritto e per la ricollocazione del nostro sistema penitenziario nell’ambito dei principi comunitari. La mancata approvazione della riforma, nonostante i suoi limiti e le sue carenze, blocca l’avvio per lo sviluppo di una moderna politica penitenziaria. Durante i primi tre mesi dell’anno si sono registrati circa dieci suicidi. Intanto nelle carceri italiane il numero dei detenuti continua a crescere. Oggi restano dietro le sbarre in 58.223. Quasi diecimila in più rispetto ai 50mila posti disponibili. E così il sistema torna a vivere condizioni drammatiche. Se il 35 per cento delle e dei reclusi è ancora in attesa di giudizio, il sovraffollamento ha nuovamente raggiunto “limiti tali da riproporre problemi di sicurezza oltre che di decenza”. L’ultima denuncia è dell’Unione camere penali, che ha confermato lo sciopero in programma all’inizio di maggio per protestare contro la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Mentre la politica si incarta sulla nascita del nuovo esecutivo, in Parlamento succede anche questo. La legislatura appena conclusa ha lasciato irrisolto il grande tema delle carceri come quello dello ius soli.. La riforma carceraria, frutto di un lungo lavoro con la partecipazione di numerose realtà del settore - è ancora in attesa del definitivo via libera. La scelta politica del governo di non approvare il testo prima delle elezioni ha finito per complicare tutta la vicenda. E così la scorsa settimana è arrivato l’ennesimo stop. Con il voto di Cinque Stelle e del centrodestra, la capigruppo di Montecitorio ha deciso di non assegnare il documento alla commissione speciale per il definitivo parere. Un intervento formale, non vincolante, che pure adesso rischia di bloccare il percorso della riforma. “Il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della riforma penitenziaria nei lavori delle commissioni speciali - denuncia adesso l’Unione delle camere penali - si pone nettamente in contrasto con la proclamata centralità del Parlamento, dimostrando come in verità leggi frutto di una faticosa e approfondita meditazione e di ampia condivisione politica, giuridica e culturale possano essere agevolmente accantonate e dimenticate”. La decisione di posticipare la riforma agli ultimi mesi della legislatura - e la scelta di non approvare il decreto prima del voto - ha creato le condizioni per lo stallo attuale. “Trovo disgustoso che non ci sia stato il coraggio di far approvare questa riforma prima delle consultazioni elettorali” denuncia adesso il presidente dell’Ucpi Beniamino Migliucci. Una situazione resa ancora più difficile dagli attuali veti politici. Un’evidente impronta giustizialista, denunciano in molti, ha spinto Lega, M5s e Fratelli d’Italia a complicare ulteriormente il cammino della riforma. La scorsa settimana si è scelto di non assegnare il testo alle commissioni speciali “Una scelta sbagliata e rischiosa” come confermato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che pochi giorni fa ha contattato i presidenti di Camera e Senato chiedendo di riconsiderare la decisione. “Anche perché la mancata attuazione delle riforma rischierebbe di pregiudicare gli importanti passi compiuti, che hanno determinato la chiusura del monitoraggio al quale il nostro Paese era stato sottoposto a seguito della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo nel gennaio 2013”. Ecco perché gli avvocati penalisti, insieme al Consiglio nazionale forense e all’Associazione Antigone, adesso chiedono al governo Gentiloni di andare avanti in ogni caso. Il parere delle commissioni parlamentari è solo un atto formale, spiegano. “Passati dieci giorni, il Consiglio dei ministri è comunque autorizzato a emanare il decreto”, racconta Palma nella sede dell’Unione Camere Penali. “Adesso il governo Gentiloni ha la possibilità di riscattarsi da quello che a molti è apparso come un atto di viltà” insiste la leader radicale Rita Bernardini, da sempre in prima linea nelle battaglie per i diritti dei detenuti. La speranza non è ancora finita. E da qui all’inizio di maggio, quando è stato fissato lo sciopero, la situazione potrebbe sbloccarsi. “Speriamo che qualcosa accada - insiste Migliucci - speriamo di poter revocare questa nuova astensione dalle udienze”. Intanto in Italia la popolazione carceraria torna a crescere in maniera preoccupante. “La riforma - così le parole degli esperti - non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, nessun insensato e indulgenziale “svuota-carceri”. Semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo”. Nessun colpo di spugna, insomma. “Anche perché la personalizzazione delle misure alternative prevista dalla riforma - come racconta il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin - rende più complicata la loro concessione, i detenuti dovranno meritarsela”. Semmai, l’intervento legislativo punta a garantire maggiore sicurezza per i cittadini E Scafarto svelò: la giustizia è tutta in mano alla polizia di Errico Novi Il Dubbio, 19 aprile 2018 L’uomo del caso Consip: i pm non sentono i nastri, i giudici copiano i nostri report. Ma allora in nome di chi, con quale obiettivo, si è mosso Gianpaolo Scafarto, il capitano oggi maggiore dei carabinieri che avrebbe manipolato gli atti per incastrare Tiziano Renzi? L’intervista al militare del Noe pubblicata da Annalisa Chirico sul Foglio di ieri, rafforza l’impressione acquisita già un anno fa, dopo che la Procura di Roma fece emergere le prime anomalie dell’ormai celebre informativa su Consip, predisposta proprio da Scafarto. Già allora si era avuto il sentore di un’alacrità non del tutto riconducibile alle sollecitazioni dei pm napoletani inizialmente titolari dell’indagine, Woodcock e Carrano. Si era intuito come la mobilitazione di quel reparto potesse essere ricondotta a tensioni tutte interne all’Arma, e che quasi i bersagli grossi, Tiziano Renzi ma anche Matteo, fossero semplicemente finiti sulla traiettoria che puntava ad altri obiettivi, posti ai vertici dell’Arma stessa. Adesso, a leggere Scafarto e le sue rimostranze su Woodcock che “non sento da un anno”, si rafforza l’idea di quella divaricazione: da una parte i carabinieri, dall’altra la Procura di Napoli. Sia chiaro: lo stesso maggiore, appena reintegrato in servizio dal Riesame e subito intercettato da Annalisa Chirico, in attesa che la Cassazione decida sul ricorso dei pm romani, ricorda che l’informativa gli era stata commissionata proprio da Woodcock. E che però neppure quest’ultimo si fosse accorto della sua presunta, più grave manipolazione (Romeo che dice di aver incontrato Renzi laddove nel nastro originario è Italo Bocchino a parlare). “Mi sono rotto le palle di questi pm che ti scaricano tutto addosso”. Cioè anche di Woodcock, che pure in questa telenovela è spesso passato per un magistrato inquirente legato al Noe da un rapporto di collaborazione troppo esclusivo. Sono segnali: possono spiegarsi col fatto che, come ricorda la giornalista del Foglio, l’accusa di falso è stata archiviata per Woodcock ed è invece tutt’ora in piedi sia per Scafarto che per il suo vicecomandante Alessandro Sessa. Eppure resta l’impressione di una diversità di obiettivi esistita fin dall’inizio: i carabinieri determinati nello svelare presunte responsabilità dei loro vertici, i pm napoletani concentrati su quelli che per i militari costituivano solo passaggi intermedi, ovvero i politici. A chiarire l’intrigo sarà l’indagine del procuratore Giuseppe Pignatone e dei pm Paolo Ielo e Mario Palazzi. O meglio, dovranno farlo il processo e i giudici che in quel processo valuteranno le accuse avanzate sulla base dell’indagine. Ma dalla lunga e straordinaria conversazione di Scafarto col Foglio si traggono conferme su ben altro. Su dati di fatto gravissimi, sconvolgenti per la giustizia, per le condizioni in cui versa il sistema penale. Non tanto perché non fossero noti, ma perché fa impressione sentirli denunciare proprio da quella polizia giudiziaria che quelle preoccupazioni suscita. Due aspetti colpiscono: i pm che “ti scaricano tutto addosso”, dunque la giustizia che è davvero nelle mani della polizia giudiziaria, non dei magistrati come vorrebbe la Costituzione; e l’allarme lanciato sulle intercettazioni, in particolare sul decreto che ne riforma la disciplina, lo stesso allarme emerso da un convegno delle Camere penali a cui hanno partecipato i capi delle più importanti Procure d’Italia. La frase chiave: “Ho lavorato con pm che ti facevano fare le inchieste intercettattive, e io dicevo: dottò, è meglio che la leggete pure voi. Ma no, siete bravi, rispondevano loro”. Confermato il vizio fatale, denunciato dagli avvocati: i pm non sentono i nastri, non verificano il lavoro della polizia, non sapranno mai se sono stati scartati elementi che potevano servire alla difesa, tanto per cominciare. Non tutti i pm fanno così. Ma nel campione acquisito da Scafarto con la sua sola personale esperienza, la percentuale dei pm che lasciano le bobine nelle mani degli ufficiali pare rilevantissima. E infine: “Se tu confronti un’informativa di polizia giudiziaria con la richiesta di misura di custodia firmata dal pm e con l’ordinanza del gip, ti rendi conto che i testi sono identici per il sessanta per cento. Insomma, si passano i file per fare prima”. Lo aveva scritto sul Dubbio Nicola Quatrano, da poco passato dalla magistratura alla professione forense: “Le informative dei carabinieri diventano sentenze di Cassazione”. Scafarto lo conferma. Forse è il caso di scagionarlo per il solo fatto di aver compiuto un’operazione verità da brividi, ma che rende, alla giustizia di questo Paese, un servizio assolutamente incalcolabile. Censura per la toga che trascura le garanzie della difesa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 18 aprile 2018 n. 9557. Censura per la toga, che trascura le garanzie difensive. La Corte di Cassazione chiarisce che se il magistrato, nell’interrogare un teste, si accorge che la sua posizione è mutata, e ci sono elementi sufficienti per iscriverlo nel registro degli indagati, deve farlo invitandolo a nominare un difensore di fiducia, nel rispetto dei principi del giusto processo. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno confermato la sanzione disciplinare inflitta dal Consiglio superiore della magistratura ad un procuratore aggiunto, nell’ambito di una vicenda, che aveva riguardato il suicidio di una farmacista che prima di uccidersi aveva fatto alla madre un’iniezione letale, avvenuto pochi giorni dopo essere stata ascoltata dal Pm. La donna era stata sentita come testimone in un’indagine su un furto di gioielli e, nel corso dell’interrogatorio, erano emersi indizi del reato a suo carico. La Sezione disciplinare del Csm aveva contestato al Pm di non aver interrotto l’interrogatorio e iscritto la teste nel registro degli indagati, chiedendo alla “teste” di nominare un difensore. La Cassazione ricorda, infatti, che quando una persona non sottoposta ad indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità che procede deve interrompere l’esame avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti invitandola a nominare un difensore. La Suprema corte premette che la sezione disciplinare non ha addebitato al Pm le soggettive ricadute psicologiche della signora né il suo gesto estremo. La contestazione era di aver trascurato le garanzie difensive dovute da una persona “di fatto” indagata, proseguendo ad interrogarla come persona informata sui fatti. Linea dura sul commercialista di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 17235/2018. Linea dura della Cassazione sul commercialista che agevola l’auto-riciclaggio. Deve essere infatti sanzionato non tanto a titolo di concorso, ma a titolo autonomo e per il reato di riciclaggio. Lo chiarisce la Corte di cassazione, intervenendo per la prima volta sul punto, con la sentenza n. 17235della Seconda sezione penale depositata ieri. Viene così confermata la condanna inflitta dalla Corte d’appello di Napoli a Stefania Tucci, ex moglie di Gianni De Michelis, che, secondo l’accusa, aveva contribuito a realizzare una serie di operazioni commerciali, finanziarie e societarie, attraverso le quali erano state fatte rientrare in Italia somme considerevoli e di provenienza illecita che Luigi Bisignani deteneva all’estero. La difesa aveva sostenuto che i fatti contestati e accertati dovevano essere riqualificati come concorso nel nuovo reato di auto-riciclaggio e che di conseguenza andava dichiarata l’insussistenza del fatto perché le somme di denaro non erano state impiegate in attività economiche o finanziarie oppure la non punibilità perché le somme sarebbero state utilizzate solo per godimento personale, o, infine, l’estinzione del reato per prescrizione. La Cassazione, nell’affrontare la questione, sottolinea innanzitutto, facendo riferimento anche ai lavori parlamentari, come l’introduzione nel Codice penale del reato di auto-riciclaggio è stata la conseguenza di un vuoto normativo evidenziato anche in sede internazionale. In precedenza, infatti, il Codice prevedeva solo il riciclaggio, che punisce chi ricicla denaro o altre utilità provenienti da un reato commesso da un altro soggetto. Non era invece punito il riciclaggio in prima persona e cioè la condotta di sostituzione o di trasferimento di denaro, beni o altre utilità ricavate commettendo un altro delitto doloso. Una premessa che serve alla Corte per farne discendere l’impossibilità di un’interpretazione che avalli un trattamento sanzionatorio più favorevole di quello precedente per chi non ha preso parte al reato presupposto e, in seguito, ha posto in essere una condotta di riciclaggio agendo in concorso con chi è chiamato direttamente a rispondere di auto-riciclaggio. Del resto, differenziare i titoli di reato con riferimento a condotte concorrenti non deve stupire, sottolinea la sentenza, visto che il sistema penale già ricorre a questa soluzione in alcuni casi. Con riferimento al delitto di evasione, per esempio, il concorso di terzi estranei non detenuti è incriminato autonomamente a titolo di procurata evasione. Stesso discorso per quanto riguarda l’infanticidio, dove si prevede un trattamento sanzionatorio diverso per la madre che procura la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale. Anche la previsione di sanzioni più lievi per l’auto-riciclaggio “trova giustificazione unicamente con la considerazione del minor disvalore che anima la condotta incriminata, se posta in essere (non da un extraneus, bensì) dal responsabile del reato presupposto, il quale abbia conseguito disponibilità di beni, denaro ed altre utilità ed abbia inteso giovarsene, pur nei modi oggi vietati dalla predetta norma incriminatrice, risultando responsabile di almeno due delitti (quello non colposo presupposto e l’auto-riciclaggio) non necessariamente in concorso ex articolo 81 Codice penale”. Per la Corte, poi, non è d’ostacolo alla conclusione raggiunta, il comma 7 dell’articolo 648 ter.1 del Codice, con la previsione che le disposizioni materia di auto-riciclaggio, come quelle sulla ricettazione, si applicano anche quando l’autore del delitto da cui provengono il denaro o le cose non è imputabile o punibile oppure quando manca una condizione di procedibilità. Resiste la prescrizione sulle frodi Iva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 17401/2018. Resistono le norme sulla prescrizione per le frodi Iva. Non vanno cioè disapplicate per effetto della sentenza della Corte Ue Taricco per reati commessi prima dell’8 settembre 2015 (data del deposito della pronuncia comunitaria). Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza n. 17401della Quarta sezione penale depositata ieri. La Cassazione prende atto della situazione venutasi a creare per effetto della successiva sentenza della Corte Ue, del dicembre scorso, Taricco bis. Conclusione peraltro confermata dalla Corte costituzionale che la scorsa settimana, con un comunicato, ha precisato che con la sentenza Taricco bis la disapplicazione della normativa italiana sulla sospensione dei termini di prescrizione non è possibile né per i fatti anteriori all’8 settembre 2015 né quando il giudice nazionale individua un contrasto con il principio di legalità in materia penale. Il procedimento nel quale è tornata a pronunciarsi ieri la Cassazione, nasce a sua volta da un precedente intervento della stessa Cassazione che nel settembre 2015, a pochi giorni dalla sentenza, aveva disapplicato le norme sulla prescrizione, rinviando per la determinazione della pena alla Corte d’appello che, di fronte a un giudizio che altrimenti si sarebbe prescritto, aveva proceduto alla condanna. La Cassazione, nell’affrontare adesso una questione - cioè la forza dissuasiva della nostra disciplina della prescrizione in materia di frodi Iva, che ha visto due sentenze della Corte di giustizia europea, chiamata in causa da ultimo dalla nostra Consulta - ha precisato che ci si trova davanti a una particolare forma di diritto sopravvenuto “rispetto al quale deve constatarsi anche d’ufficio, ex articolo 609, comma 2, Codice procedura penale, l’incompatibilità delle statuizioni della giurisprudenza nazionale che, sulla base della prima sentenza Taricco, avevano disapplicato le disposizioni del Codice penale in materia di prescrizione dei reati di frode fiscale commessi prima dell’8 settembre 2015”. Il rischio cioè, Taricco bis alla mano, è il possibile assoggettamento a un regime di punibilità più severo di quello in vigore al momento della commissione del reato. Oristano: muore suicida agente di Polizia penitenziaria in forma al Gom Ansa, 19 aprile 2018 Un poliziotto penitenziario di 31 anni effettivo alla Casa Circondariale di Aosta e di origini sarde, sposato da pochi mesi, in forza al Gruppo Operativo Mobile e in questo periodo operativo in Sardegna, si è tolto la vita a Oristano. Ne dà notizia il segretario del sindacato Sappe, Donato Capece: “Sembra davvero non avere fine - afferma - il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti alla polizia penitenziaria. Non sappiamo - aggiunge - se vi siano correlazioni con il lavoro svolto. Ma è luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese”, mentre colpisce anche le “cosiddette professioni di aiuto, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni di stress. Il riferimento è, ad esempio, a tutti coloro che nell’ambito dell’Amministrazione di appartenenza spesso si ritrovano soli, demotivati e sottoposti ad innumerevoli rischi”. “L’Amministrazione penitenziaria non può continuare a tergiversare su questa drammatica realtà - conclude Capece - servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo”. Bologna: “lavanderia Dozza”, detenuti al lavoro di Francesca Blesio Corriere di Bologna, 19 aprile 2018 Anche oggi, con un po’ di fantasia, guardando il mondo dall’oblò delle quattro lavatrici istallate nell’ala maschile della Dozza, si riesce a intravedere un futuro diverso per chi è costretto tra le mura grigie e invalicabili del carcere bolognese. I cestelli non girano ancora, cominceranno tra poco meno di un mese quando tutto nella nuova lavanderia industriale sarà pronto per “Lavo & Lavoro”, progetto che garantirà ai detenuti una remunerazione e una prospettiva di impiego futuro. La nuova lavanderia, nata nella sezione maschile del carcere e dalle ceneri della precedente, utilizzerà detergenti biologici, avrà un depuratore per riciclare il 60% dell’acqua e sarà attrezzata con asciugatrici, ferri da stiro, tre lavatrici a barriera sanitaria e una per rilavaggi: potrà nettare fino a 10 quintali di panni sporchi al giorno. Quando andrà a regime vi saranno impiegati 6 detenuti, con un part-time di 35 ore per una retribuzione intorno ai 900 euro al mese. Contratto a tempo determinato, per la gioia di tutti. Non verranno impiegati ergastolani, infatti, ma persone da formare (quindi con una pena certa e non breve) che però potranno, una volta lasciatisi i cancelli della Dozza alle spalle, utilizzare la nuova professionalità nel mondo dei liberi. “Sei possono sembrare pochi, ma se aiutiamo anche solo una persona a cambiare vita per noi è un traguardo importantissimo” fa presente la direttrice della casa circondariale Claudia Clementi. “Quello stipendio li aiuterà a saldare il debito con lo Stato e a sostenere le famiglie a casa”, spiega Nicola Sandri, presidente della Quattro Castelli, la cooperativa che ha proposto “Lavo & Lavoro” ed è già impegnata nell’inserimento al lavoro di soggetti svantaggiati. “Se uno esce dal carcere ed è bravo, potremmo assumerlo anche noi”, aggiunge. L’azienda Servizi Ospedalieri, titolare del contratto per il lavaggio della biancheria di Asp Città di Bologna (456 posti letto tra case di riposo e residenza), ha deciso di avvalersi della collaborazione della cooperativa per la pulizia degli indumenti degli anziani quindi del lavoro dei carcerati scelti. La biancheria di Asp non rimarrà l’unica a venire lavata e stirata dai detenuti della Dozza. “Ci auguriamo che altri soggetti raccolgano questa sfida”, fa sapere Sandri. L’investimento complessivo del progetto è stato di 450 mila euro, coperto da un finanziamento di 35 mila euro da parte della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna a cui va aggiunto un prestito a tasso agevolato di 300 mila euro da parte di Banca Etica (il resto è stato coperto dalla cooperativa). “Lavo & Lavoro” è il terzo progetto imprenditoriale nato nella sezione maschile, dopo “Fid” e “Liberiamo i sapori”. Oggi i detenuti che lavorano alla Dozza sono circa 250 su 800. Lecce: è Maria Mancarella la Garante dei diritti dei detenuti pugliain.net, 19 aprile 2018 La Professoressa Maria Mancarella è stata nominata Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Già docente di Sociologia della famiglia e politiche sociali presso l’Università del Salento, la Garante si occuperà di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale, con particolare riferimento ai diritti fondamentali alla casa, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, e allo sport. Promuoverà iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva anche attraverso la sottoscrizione di protocolli d’intesa con le amministrazioni interessate e la realizzazione di iniziative congiunte con il Comune di Lecce e con altri soggetti pubblici. L’incarico è a titolo gratuito e avrà la durata di cinque anni. “Una nomina importante che si inserisce all’intero di un progetto di collaborazione più ampio con gli Istituti penitenziari presenti nel Comune di Lecce - dichiara l’assessore ai Diritti Civili e Pari Opportunità Silvia Miglietta - una collaborazione che abbiamo avviato già lo scorso gennaio con la sigla del Protocollo d’intesa con la Casa Circondariale di Lecce finalizzato a promuovere l’inserimento di detenuti in percorsi di volontariato e lavoro esterno. Oggi, con la nomina del Garante a cui auguro buon lavoro, arriva un altro importante impegno che ribadisce la volontà e la necessità di collaborare per garantire i diritti e la dignità di tutte le persone private della libertà personale, che più di altre vivono una condizione di vulnerabilità e che, proprio per questo, richiedono il nostro impegno e la nostra attenzione”. Alessandria: corso per aspiranti assistenti volontari penitenziari con l’Associazione Betel telealessandria.it, 19 aprile 2018 La città di Alessandria ospita due Istituti penitenziari ed è quindi toccata in modo diretto dal mondo carcerario, una realtà complessa ed articolata, dalle molteplici sfaccettature. Spesso i riflettori della cronaca o della politica sono puntati su questa realtà, che però risulta quasi sempre oscura e sfuggente. In questo ambito, l’Associazione Betel Onlus organizza un corso per aspiranti volontari penitenziari: Betel, infatti, rappresenta una realtà di volontariato consolidata sul territorio con oltre trent’anni anni di attività, sia all’interno degli Istituti Penitenziari (attività di supporto ai detenuti), sia all’esterno, con il supporto al reinserimento sociale, in collaborazione con diversi Enti del territorio (tra essi, Uepe, Caritas e Enti Locali). Il corso, che prevede 5 incontri rivolti alla popolazione con l’obiettivo di aiutare a conoscere e comprendere meglio la realtà del sistema carcerario, alla luce del fatto che essa è appunto parte integrante del nostro territorio, è realizzato in collaborazione con la gli Istituti Penitenziari “Cantiello e Gaeta”, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Alessandria, il Garante per i detenuti, il Seac, la Crvg, il Coordinamento Avp Piemonte Valle d’Aosta, la Caritas Diocesana, le Acli e il Csvaa. Da questo percorso, la Betel auspica possano “svilupparsi” nuove energie che contribuiscano a dare continuità al servizio che l’Associazione svolge a favore dei detenuti, ex detenuti e alle loro famiglie. Gli incontri si svolgeranno ad Alessandria in via Vochieri 80, presso la Sala Formazione del Csvaa, in orario 9:30 - 12:30, per 5 sabati, a partire da sabato 28 aprile. Diversi saranno i temi trattati: verranno evidenziati gli aspetti motivazionali e strutturali del volontariato penitenziario, così come le collaborazioni attivate con altri attori sociali del territorio (Caritas, le Acli); saranno illustrate le attività svolte da Betel e il contesto normativo in cui opera; verranno altresì illustrati gli aspetti base dell’Ordinamento Penitenziario, della struttura organizzativa del carcere e del ruolo di Volontari ed Educatori. Il corso, inoltre, prevede un ulteriore ed ultimo incontro non in “aula”: è infatti prevista una visita guidata al museo dell’ex carcere “Le Nuove” di Torino e un incontro con Seac e Crvg. Per chi fosse interessato a partecipare al corso e mettere a disposizione parte del proprio tempo per questa delicata e importante attività di volontariato, i contatti dell’associazione sono i seguenti: mail betelonlus@libero.it, tel. 3388756225. Terni: docu-film “Fuori fuoco”, in sala anche i registi detenuti quotidianodellumbria.it, 19 aprile 2018 Il film documentario sarà proiettato al Cityplex Politeama giovedì 19 aprile alle ore 21. Sarà proiettato al Cityplex Politeama di Terni, il film-documentario “Fuori fuoco”. In sala anche i registi detenuti. Storie raccontate con l’anima di sei detenuti, che fissano le immagini e i suoni di una quotidianità di sofferenza e di rinascita. E sono racconti non filtrati quelli usciti dal carcere di vocabolo Sabbione, perché ai sei registi-detenuti è stata lasciata la libertà di girare tra le mura e le celle del penitenziario con la telecamera in spalla h24. Senza filtri. “Ho preteso solo che venissero rispettati” - dice la direttrice del carcere Chiara Pellegrini. Il documentario “Fuori fuoco” realizzato dai registi Rachid Benbrik, Erminio Colanero, Rosario Danise, Alessandro Riccardi, Slimane Tali e Thomas Fischer, dal filmmaker Oreste Cristdsomi e dal compositore, Alessandro De Florio, entrambi ternani, è l’istantanea di una realtà difficile che regala speranze. Che mostra la poesia di un padre detenuto, che chiede al figlio di crescere lentamente per non perdere quei momenti di lontananza forzata. È una storia vera e anche quella che nel film sembra una messa in scena è il racconto di una cosa successa davvero. Nel documentario, girato in tre anni, dominano i suoni e i rumori del carcere e si evidenzia una realtà parallela, fatta di sofferenze e di forti emozioni, che spesso viene ignorata dalla società civile che la circonda. La versione ridotta del film è andata in onda su Rai1 sempre domenica 15 aprile all’interno di Speciale Tg1, a mezzanotte. E una clip è stata postata sul portale online di Repubblica. Alba (Cn): “il teatro è una cura”, detenuti-attori fra le mura del carcere di Isotta Carosso La Stampa, 19 aprile 2018 Il teatro è tornato fra le mura del carcere di Alba. A meno di un anno dalla parziale riapertura, ieri, la casa circondariale ha permesso a un piccolo pubblico di assistere alla prima messa in scena dello spettacolo realizzato dai detenuti nei laboratori di teatro, arte e musica. “Un’occasione - ha detto uno degli attori - per tirare fuori un’inedita parte di noi”. Sono 44 le persone recluse in quella che, prima della chiusura per l’epidemia di legionella nel gennaio 2016, era l’ala più nuova del carcere, uno spazio da 35 posti, con già i primi problemi di sovraffollamento, vista l’inagibilità di gran parte della casa di reclusione, in attesa di un progetto definitivo per la completa riattivazione. Le docenti del Cpia di Alba vi insegnano una volta alla settimana. “Prima della chiusura soprattutto corsi di alfabetizzazione - racconta la coordinatrice Maurizia Bazzano. Ora, visti i numeri più contenuti, ho coinvolto le colleghe di arte, musica e inglese, che hanno accettato la sfida. L’obiettivo non è il risultato finale, ma il percorso. Una possibilità di mettersi in discussione e ritrovare un po’ di positività dentro di sé e nelle relazioni umane”. “Il teatro è una cura” conferma la docente Fulvia Roggero del Teatro delle Dieci di Torino. Ad aprire lo spettacolo ieri, per la Giornata nazionale del teatro in carcere, il gruppo di canto con una versione de “Il leone si è addormentato” tra piemontese, siciliano e bergamasco; poi è stata la volta degli attori, anche qui con un confronto tra due racconti legati alle terre di origine, il piemontese “Giacomino senza paura” e il siculo “Giufà”. “Con la speranza di poter metter in scena la versione finale nel giardino del carcere”. Uno spazio verde curato dai detenuti, dove due di loro hanno appena realizzato una nicchia votiva. “Le attività artistiche e teatrali - spiega il garante comunale dei detenuti Alessandro Prandi, presente con il collega regionale Bruno Mellano - aiutano la riscoperta delle capacità e sensibilità personali e una modalità di espressione positiva di emozioni negative, sperimentando ruoli diversi e sostituendo i meccanismi relazionali basati su forza, controllo e sfida con collaborazione, scambio e condivisione”. Le altre attività Proseguono anche il corso di operatore agricolo con la Casa di carità e mestieri per la gestione del frutteto e del vigneto (la produzione del vino Valelapena è in collaborazione con l’Istituto enologico), il laboratorio di lettura, la catechesi con due volontarie, lo sport con un professore di Educazione fisica. Si occupano dell’assistenza, invece, i volontari dell’associazione Arcobaleno guidata da Domenico Albesano, che segue anche le pratiche burocratiche in convenzione con il Patronato Acli. “A breve partiranno i corsi di pet therapy e primo soccorso per detenuti e operatori - spiega l’educatrice Valentina Danzuso. Tutto con un unico obiettivo: il migliore reinserimento sociale del detenuto”. Trapani: carcere, concluso il corso di pittura promosso dal Rotary Club di Ornella Fulco trapanioggi.it, 19 aprile 2018 Conclusa la seconda edizione del progetto “Espiazione dell’arte” promosso dai club Rotary di Castelvetrano, Marsala, Trapani e Trapani-Birgi che ha coinvolto 18 detenuti della Casa Circondariale di Trapani. L’attività tende a valorizzare l’inespresso potenziale artistico degli ospiti del carcere con un percorso emozionale - così lo ha definito l’artista trapanese Giovanna Colomba che ha tenuto il laboratorio insieme a Rosadea Fiorenza. Diversamente dall’edizione dello scorso anno, i detenuti si sono cimentati con la creazione di opere originali e soggetti inediti, forti delle capacità tecniche acquisite. Sarà anche realizzato un catalogo e le opere saranno esposte in una mostra che sarà inaugurata il prossimo 12 maggio al palazzo della Vicaria di Trapani. I detenuti che hanno partecipato al progetto sono Semeh Ben Salem, Pietro Bonafede, Giuseppe Cannavò, Giuseppe Ciuni, Alessandro Di Majo, Andrea Gambero, Salvatore Licari, Alessandro Longo, Michele Marfia, Salvatore Marino, Alì Mohamed Mohamed, Andrea Nicolosi, Simone Pretin, Njim Ramzi, Giuseppe Rizzuto, Daniele Spampinato, Ignazio Speranza e Giuseppe Valenti. I “quaderni” dal carcere firmati da Pino e i suoi fratelli di Gianluca Modolo La Repubblica, 19 aprile 2018 “Perché questo nome, Via Nizza 26? Perché era il vecchio indirizzo del carcere, qui a Trieste”. Pino Roveredo - garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia, unico in Italia ad essere stato anche un ex carcerato, è il promotore del periodico Via Nizza 26. Nato all’interno del carcere di Trieste, non ha un carattere amatoriale: vuole puntare a essere un vero giornale. Un punto d’incontro tra la società libera e quella reclusa. Ma soprattutto un’occasione per far uscire dalle celle racconti, storie, temi, vicende e personaggi. Si presenta come un foglio A3 di quattro facciate, esce ogni due mesi. La redazione vera e propria è composta da dieci-dodici detenuti, che appartengono alle sezioni maschile e femminile e sono seguiti da sei operatori. “Nelle carceri si legge molto di più che nel mondo dei liberi. Non c’è un numero fisso di “giornalisti” dietro le sbarre - precisa Roveredo. L’esperimento nasce sulla scia de L’aquilone, il giornale che stiamo facendo nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Ogni numero non ha un tema preciso: si va dalle condizioni degli istituti di pena fino a questioni come quella dell’affettività dietro le sbarre”. Distribuito negli ospedali e nelle scuole, il giornale “rappresenta un pretesto. Grazie a questo strumento si cercano di tirare fuori delle voci che di solito non hanno il coraggio di esprimersi. È un gancio di salvezza: molte delle persone che incontro mi raccontano che riescono a sopravvivere dentro grazie alla cultura”. In Italia sono una sessantina i giornali realizzati in carcere. A partire dal primo esperimento, rappresentato da La grande promessa, fondato nel 1951 all’interno del carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. La Federazione nazionale dell’informazione dal e sul carcere voluta da Ristretti Orizzonti, il giornale del carcere Due Palazzi di Padova, coordina e riunisce i vari progetti. “Anche per me la scrittura in carcere è stata salvifica: un ottimo esercizio per entrare negli umori, nelle storie, negli stati d’animo degli altri”, racconta ancora Roveredo, che con Mandami a dire tredici anni fa vinse il Campiello. “Per gli altri ero Pino “il letterato”, il ragazzo che scriveva le lettere e le vendeva per pacchetti di sigarette. Quelle alle madri e alle fidanzate ne valevano due, quelle al magistrato cinque perché ne andava della mia incolumità”. Adesso insegna agli altri che dal carcere si può uscire anche solo con le parole. Guerra. Bombe fabbricate in Italia sullo Yemen: la denuncia penale delle associazioni di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 19 aprile 2018 La Rete Italiana per il Disarmo e il berlinese Centro europeo per i diritti umani e costituzionali Ecchr si sono rivolti alla Procura di Roma perché sia avviata un’indagine sulle responsabilità penali dell’Uama, l’Autorità italiana che autorizza le esportazioni di armamenti e degli amministratori di Rwm Italia, produttrice degli ordigni. Sul cappuccio metallico con le sigle tecniche e i numeri di matricola il sangue non si vede. Ma i resti rintracciati fra le macerie della casa di Husni Al-Ahdal dicono comunque che si tratta di una MK83, ordigno prodotto in Italia da un’azienda di proprietà tedesca. E se i frammenti bastano per risalire alla provenienza, grazie a essi si può ricostruire anche le responsabilità: di chi l’ha lanciata, ovviamente, ma anche di chi l’ha assemblata, di chi l’ha venduta, di chi ne ha autorizzato l’esportazione. Il sangue di Husni Ali Ahmed Jaber Al-Ahdal, di sua moglie Qaboul e dei figli Taqia, Fatima, Sarah e Mohammed è stato versato al di là di ogni esigenza militare. Le MK83 GBU Paveway sganciate dai caccia sauditi sul villaggio di Deir al-Hajari, Yemen, alle tre del mattino dell’8 ottobre 2016 erano ordigni teleguidati, moderni e precisi: molti, sfidando la logica e l’esperienza, li definiscono bombe intelligenti. Il margine di errore, dicono gli esperti, è nell’ordine di un metro se sono guidate dal laser, dieci metri se a guida satellitare. Eppure hanno distrutto una famiglia di civili, molto lontani dai militari più vicini, che erano impegnati in un posto di blocco a oltre 300 metri. Di chi è la responsabilità? Non è solo un problema politico: secondo la Rete italiana per il Disarmo e il berlinese Centro europeo per i diritti umani e costituzionali Ecchr, è anche una questione da Codice penale. Le due organizzazioni hanno affiancato l’associazione yemenita Mwatana - che da mesi ricostruisce le violazioni dei diritti umani nel paese e raccoglie le testimonianze - presentando assieme una denuncia alla Procura di Roma perché sia avviata un’indagine sulle responsabilità penali dell’Uama, l’Autorità italiana che autorizza le esportazioni di armamenti, e degli amministratori di Rwm Italia, produttrice degli ordigni. L’ipotesi di reato è ovviamente l’omicidio, colposo o magari anche doloso. La scelta di una denuncia penale per casi specifici, dice il portavoce della Rete Disarmo Francesco Vignarca, si affianca a un’iniziativa analoga che sta per partire in Germania. Le leggi europee vietano l’export di armamenti in Paesi con rischio di violazione dei diritti umani, l’Europarlamento auspica un embargo totale ai Paesi coinvolti nella guerra dello Yemen, le Convenzioni di Ginevra proibiscono in modo esplicito gli attacchi ai civili. Ma poi ogni Paese decide autonomamente, e con gli interessi commerciali in ballo, gli scrupoli sembrano pochi. “Per noi yemeniti l’Europa era un luogo fiabesco, abitato da gente buona. È stata una delusione terribile scoprire invece che ha una parte nei massacri”, dice Bonyan Jamal, attivista di Mwatana. I Paesi della coalizione anti-sciita che agisce in Yemen, e l’Arabia Saudita soprattutto, sono dei grandissimi acquirenti di armi. L’Italia vi esporta bombe, anche se l’anno scorso le vendite di armamenti a Riad sono crollate, con un calo dell’88 per cento nel 2017, come ha detto all’Ansa il direttore dell’Uama Francesco Azzarello. Altre bombe arrivano da Spagna, Regno Unito, e Usa, ma per i venditori la famiglia Saud è un cliente favoloso: secondo i dati dell’istituto Sipri di Stoccolma, compra il 5 per cento di tutte le armi vendute nel pianeta ed è al secondo posto nel mondo come acquirente, subito dietro l’India. Molte sono utilizzate proprio in Yemen, nella guerra ai ribelli sciiti Houthi, ma con gravissime perdite fra i civili. Gli analisti lo considerano uno scontro “fra proxies”, cioè la lotta tra due potenze regionali, Sauditi sunniti e iraniani sciiti, attraverso protagonisti locali. “Dunque il mio Paese dovrebbe essere un campo dove si combattono i rappresentanti di Riad e Teheran. Bene, non è necessario che muoiano gli yemeniti: abbiamo un sacco di zone desertiche, sono i benvenuti per battersi lì”, taglia corto Bonyan Jamal. “La situazione umanitaria in Yemen è disastrosa. Una guerra feroce e senza regole va avanti nel quasi totale silenzio internazionale. Invece di altre armi, le parti in causa dovrebbero garantire il rispetto dei civili e degli operatori umanitari. Ci aspettiamo che l’Italia dia il buon esempio”, dice Francesco Rocca, presidente della Federazione internazionale della Croce Rossa. Intanto il flusso di armi continua. Finora non esiste una prassi che permetta di considerare responsabili produttori ed esportatori, soprattutto se c’è un’autorizzazione di Stato, per cui, dice Linde Bryk dell’Ecchr, “i mercanti si nascondono dietro le licenze”. Ma l’azione avviata è solo il primo passo: “Chi lavora in settori così delicati, ha doveri di diligenza in più”, sottolinea l’avvocato Francesca Cancellaro, che segue la campagna in Italia. E ipotizza anche richieste di risarcimento per le vittime. Come dire: se non basta la coscienza, si può colpire il portafoglio. Guerra. Un mondo di bombe (anche italiane) che nessuno vede di Emanuele Giordana Il Manifesto, 19 aprile 2018 Ogni giorno esplodono altre centinaia di bombe in un altrove che rumore, non ne fa. Sono le bombe silenziose di guerre “secondarie”, di stragi che non bucano il video. Un centinaio di missili sulla Siria fanno rumore. Tutti i giornali e le tv del globo li hanno mostrati, descritti, analizzati. Eppure ogni giorno esplodono altre centinaia di bombe in un altrove che rumore, non ne fa. Sono le bombe silenziose di guerre “secondarie”, di stragi che non bucano il video, di conflitti apparentemente dormienti e ormai derubricati a non notizie. Eppure i numeri sono importanti. E gli effetti nefasti così come nulli sono i risultati sul piano militare. Molte bombe, molte vittime e un’unica vittoria: quella di chi le fabbrica e le vende, più o meno apertamente. Lo Yemen e l’Afghanistan sono un utile esercizio. Ci sono dati ufficiali o desunti, operazioni segrete (come per i droni), conti fatti da organismi indipendenti e da chi, è il caso dell’Us Air Force, ne fa un titolo di merito. Cento bombe si sganciano in Afghanistan in meno di dieci giorni. In Yemen il conto è quasi impossibile ma dal marzo 2015 al marzo 2018, in tre anni, il Paese è stato attraversato da 16.749 raid aerei con una media di 15 al giorno. In silenzio. Tranne per chi ci sta sotto. Stabilire quante bombe ha sganciato al coalizione a guida saudita (una decina di nazioni musulmane sostenute da diversi Paesi, dagli Stati Uniti alla Turchia) è assai complesso anche se il numero di raid non lascia molti dubbi. Quel che interessa notare è che questo conflitto (che produce una “catastrofe umanitaria” secondo l’Onu, che ha bollato i raid come una “violazione del diritto internazionale”) viene foraggiato indirettamente anche dall’Italia: Giorgio Beretta (che ne ha già scritto su il manifesto) ricorda che da Roma, nel 2016, “sono state autorizzate esportazioni di armamenti all’Arabia Saudita per 427 milioni di euro, la maggior parte delle quali, e cioè più di 411 milioni di euro, era costituita da bombe aeree del tipo MK82, MK83 e MK84 prodotte dalla Rwm Italia. Le stesse bombe i cui reperti sono stati ritrovati dalla commissione di esperti dell’Onu nelle aree civili bombardate dalla Royal Saudi Air Force in Yemen. Stiamo parlando di 19.900 bombe, la più grande esportazione fatta dall’Italia”. E gli effetti? Il Legal Center for Rights and Development (Lcrd), un’organizzazione della società civile locale con sede a Sanàa, stimava a oltre 12.500 le vittime civili nei primi 800 giorni della guerra. Secondo Yemen Data Project - un progetto indipendente e no profit di monitoraggio del conflitto - la coalizione a guida Saud (ottimo alleato di Trump, Macron e May) ha colpito obiettivi per quasi un terzo non militari: 456 raid aerei hanno bombardato aziende agricole, 195 mercati, 110 siti di erogazione di acqua ed elettricità, 70 strutture sanitarie, 63 luoghi di stoccaggio del cibo. La profondità del monitoraggio dà luogo anche ad altri dati impressionanti. Il Lcrd ha documentato negli obiettivi colpiti: 593 mercati e quasi 700 negozi alimentari, 245 aziende avicole e 300 industrie, oltre a 300 centri medici e 827 scuole… Una lista infinita. Tutta civile. Se cento bombe in Siria vi sembran tante, lo stesso numero di ordigni viene lanciato dal cielo in meno di dieci giorni in Afghanistan. Secondo i dati diffusi dall’United States Air Force, nel 2017 sono state sganciate in Afghanistan 4.300 bombe, con un ritmo di una dozzina al giorno, il triplo che in passato. I risultati di questa nuova strategia di Trump sono sotto gli occhi di tutti: la guerra va avanti, gli attentati non diminuiscono, le vittime civili aumentano. Quanto agli afgani, secondo il ministero della Difesa di Kabul, ogni giorno l’aviazione nazionale conduce una quindicina di raid ma non è dato sapere quanti ordigni hanno sganciato i piloti addestrati da Stati Uniti e dalla missione Nato, di cui l’Italia rappresenta il secondo contingente nel Paese. Se si obiettasse che la potenza degli ordigni è mediamente assai minore rispetto a quella di un missile tomahawk, si può però ricordare che, proprio nell’aprile dello scorso anno, gli americani hanno sganciato in Afghanistan la “madre delle bombe”, un ordigno con la potenza di 11 tonnellate di esplosivo (GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast o Moab), in grado di disintegrare tutto fino a 300 metri di profondità e con un raggio d’azione di oltre un chilometro e mezzo. Doveva tramortire lo Stato islamico, sempre però molto attivo nel Paese. Le vittime civili in Afghanistan sono in costante aumento (3.438 morti e 7.015 feriti l’anno scorso secondo la missione Onu a Kabul). Anche se sono in gran parte da attribuire ad attentati e scontri di terra, il rapporto di Unama (la missione Onu in Afghanistan) osserva un aumento delle vittime dovute a raid aerei (295 morti e 336 feriti nel 2017), il numero più alto in un singolo anno dal lontano 2009. Migranti. L’ultima beffa per Lampedusa: l’hotspot vergogna non chiude di Laura Anello La Stampa, 19 aprile 2018 I residenti: l’annuncio per ora è un bluff, basta migranti sull’isola. Il centro chiuso in realtà è aperto, con il solito schieramento di polizia e di vigili del fuoco davanti al cancello, con il consueto buco nella rete da cui sono entrati e usciti migliaia di migranti. Basta aspettare qualche minuto davanti all’ingresso per vederli inerpicarsi, uno dopo l’altro, lungo il sentiero che corre a fianco dei padiglioni, sotto lo sguardo delle forze dell’ordine. Per legge potrebbero entrare e uscire dal cancello principale - questo è un centro aperto - ma il patto per non allarmare Lampedusa alla vigilia della stagione turistica è che vengano scoraggiati a girare per le strade. Certo è che la chiusura di questo hotspot - annunciata il 13 marzo scorso dal ministero dell’Interno con un “progressivo e veloce svuotamento” in vista dei prossimi lavori di ristrutturazione - non è mai avvenuta. E che questo luogo simbolo della tragedia delle migrazioni continua a essere una trincea, seppure silenziata. Sbarchi finiti - È vero, non arrivano più i subsahariani dalla Libia ma si è riaperto il fronte tunisino, con decine di ragazzi che arrivano alla spicciolata con proprie barche, “migranti economici” per lo Stato, da avviare ai centri per il rimpatrio. Ne sono arrivati più di cento nell’ultimo mese, e gli sbarchi si susseguono a ritmo pressoché quotidiano. Lo ammette anche Totò Martello, il sindaco che ha chiuso l’era di Giusi Nicolini, il sindaco che si augura di “avere un’isola dove vivere in santa pace”: “Come da patti con il governo, le motovedette non portano più qui i migranti salvati in mare, ma non si può dire che l’emergenza sia finita”, dice mentre si appresta a inviare una lettera al presidente del Consiglio dei ministri scongiurando di prorogare la sospensione delle tasse concessa come “risarcimento” dal governo Berlusconi dal 2011 al 2017. La crisi dell’isola - Il tempo è scaduto e le cartelle esattoriali sono diventate esecutive. “Tra una quindicina di giorni arriveranno - spiega - morte sicura per molte imprese del turismo e della pesca”. L’emergenza ha portato con sé anche i risarcimenti ai pescatori delle cento barche dell’isola (trentamila euro per le grosse, 6.500 per le più piccole), i ventisei milioni di euro dispensati al Comune da Berlusconi e i venti da Letta come compensazione per i disagi. Oltre che una candidatura per l’Isola al Nobel per la Pace, un film vincitore dell’Orso d’oro, il primo viaggio di Papa Francesco dopo l’elezione al soglio pontificio, era il 28 luglio 2013. E, secondo qualcuno, anche il boom turistico di Lampedusa, diventata comunque celebre nel mondo: più 30 per cento a ogni stagione dal 2015 a oggi. Il futuro - Ma qui, oggi, c’è solo voglia di archiviare quella pagina. Per questo il sindaco chiede che il centro - dopo la ristrutturazione che partirà a maggio - diventi un Cpr da dove non si possa uscire, per questo i tunisini che arrivano con le proprie barche sono ombre che escono da un buco nella rete. A meno che qui non siano trattenuti per mesi, anziché per le 48 ore previste dalla legge, e allora finiscano per diventare un allarme sociale, tra genitori che scortano i figli al catechismo, denunce di furti, paure diffuse. Nessuno, o quasi, pensa che la tragedia degli sbarchi dalla Libia non arriva più su queste sponde ma si ferma qualche decina di miglia più a sud, tra naufragi e rimpatri nelle prigioni. “Quel che accade a Lampedusa esiste, quel che non accade non esiste”, sintetizza don Carmelo La Magra, 37 anni, il parroco dell’isola, mole imponente e barbone rosso, venuto qui a piantare la bandiera dell’accoglienza senza se e senza ma. È lui a offrire il wi-fi ai tunisini, è lui ad avere collaborato - poche settimane fa - a una sorta di blitz solidale messo in atto da un gruppo di attivisti che è riuscito a fare avanzare a decine di tunisini la richiesta di asilo. È piombata qui la commissione ministeriale, consapevole del rischio di aprire una maglia pericolosa. Due tunisini lo hanno ottenuto, gli altri hanno fatto ricorso - assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini - e sono comunque usciti dai centri per il rimpatrio in cui erano stati rinchiusi. Pietro Bartòlo, il medico-eroe in prima fila negli sbarchi sulla cui storia si sta per girare un film, si aggira sul molo e guarda il mare: “Rimpiango i tempi in cui dalla Libia si sbarcava qui, la rimpiango perché adesso muoiono e non lo sappiamo neanche. L’Italia è complice di un genocidio, e prima o poi sarà chiamata a risponderne”. Siria. Cronologia di una strage annunciata di Lorenzo Cremonesi Milena Gabanelli Corriere della Sera, 19 aprile 2018 La forza della dinastia degli Assad nel regime risale al 1970, quando Hafez al Assad, padre di Bashar - emerso come uomo chiave dopo il golpe militare del 1966 - allora ministro della Difesa, con un colpo di Stato quasi indolore prese le redini del Paese, indebolito dalla guerra persa contro Israele nel 1967. Da subito marginalizza il partito socialista Baath, rafforza i suoi circoli alawiti (una setta sciita) e promuove minoranze come quella cristiana a scapito della maggioranza sunnita. Poi da inizio alla politica repressiva delle opposizioni: arresta i militanti dei Fratelli musulmani ma anche liberali e comunisti. Nel febbraio 1982 a Hama, la rivolta popolare islamica fu spianata dalle cannonate. Agli osservatori indipendenti fu impedito l’accesso. Si ipotizzano oltre 20.000 morti. 2000: Bashar al potere, la primavera di Damasco. A succedere a Hafez era stato designato il figlio Bassel, ma morì in un incidente d’auto nel 1994. Hafez sceglie allora l’altro figlio Bashar che stava studiando oftalmologia a Londra. Alla morte del padre nel 2000 Bashar diventa presidente e confermato con elezioni farsa con il 99,7 per cento delle preferenze. Parla inglese meglio dell’arabo e solleva grandi speranze nel Paese e in Occidente. Per alcuni mesi soffia un vento nuovo: crescono i circoli intellettuali, si affievolisce la censura sui media, vengono liberati diversi prigionieri politici. 2001: tornano i tribunali speciali. Ma già nel 2001 i potenti apparati di sicurezza riprendono il controllo, le carceri e i tribunali speciali si riattivano, la dittatura torna a imporre silenzio e disciplina in nome dell’”unità nazionale”. L’assassinio del leader sunnita libanese Rafiq Hariri nel 2005, assieme a quelli di diversi intellettuali libanesi critici del monopolio siriano, segnano per sempre la restaurazione. Su quell’omicidio la commissione d’inchiesta Onu punta il dito sui servizi siriani e hezbollah (i miliziani sciiti libanesi). Alle elezioni del 2007 Assad viene riconfermato con il 97,6% delle preferenze. 2010: Napolitano lo nomina Cavaliere di Gran Croce. Nel corso del 2009 l’Associazione Huma Rights Watch segnala le sistematiche violazioni dei diritti umani, ma Bashar resta benvoluto in Occidente. Viene ricevuto a Parigi, a Londra, al Quirinale e Campidoglio con tutti gli onori. Tra i vari riconoscimenti e premi che gli arrivano dall’Europa c’è anche quello italiano. Nel 2010 il presidente Napolitano è in visita ufficiale a Damasco e lo nomina Cavaliere di Gran Croce “per i suoi impegni per la pace”. Due anni dopo la Commissione Affari Esteri della Camera cancella l’onorificenza per “indegnità”. 2011: la rivolta. Il 15 marzo 2011 a Damasco iniziano le prime marce di protesta sull’esempio delle “primavere arabe”, che negli ultimi mesi hanno scosso Tunisia, Egitto e Libia. Sono eventi pacifici: si chiedono la fine del monopolio alawita sulla dirigenza del Paese, dei nepotismi del regime, della corruzione, riforme democratiche, libere elezioni con osservatori stranieri indipendenti e il rilascio dei prigionieri politici. Ma la situazione degenera nella cittadina di Daraa, dove i servizi segreti gettano in carcere alcuni ragazzini che scrivono graffiti rivoluzionari sui muri. La tortura e l’assassinio di uno di loro scatena le folle. Il regime reagisce sparando ad alzo zero. Alla fine di maggio si contano già oltre 1.000 morti. 2012: nasce l’Isis. Molti soldati disertano e si uniscono alle folle. Nell’estate 2012 è piena guerra civile. Poco dopo appariranno le foto dei cadaveri torturati di migliaia di prigionieri politici uccisi in carcere (collezione foto Caesar). I servizi segreti siriani reagiscono liberando migliaia di detenuti militanti di Al Qaeda dal carcere di Saydnaya, vicino a Damasco. Hanno il compito di “criminalizzare” le opposizioni: se i loro militanti passano tutti come pericolosi jihadisti l’Occidente non correrà in loro aiuto. A loro si aggiungono a migliaia i volontari stranieri della jihad, che, con i finanziamenti diretti e indiretti dall’Arabia Saudita, Qatar e Paesi del Golfo, diventano le colonne combattenti di Isis. 2013: il silenzio di Obama e l’intervento russo e iraniano. Mentre il regime e i suoi alleati elimina i capi moderati della rivoluzione, i ribelli diventano bande anarchiche, in lotta tra loro, con la crescente presenza di Isis. Quando Bashar ricorre alle armi chimiche contro la sua popolazione in rivolta, Barack Obama, tradendo la sua promessa di intervento in caso di uso di armi non convenzionali, non muove un dito. Tra le considerazioni Usa trionfa una domanda: “Che fare? Se eliminiamo Bashar, il Paese cadrà nel caos e preda degli islamici come l’Iraq dopo Saddam o la Libia del post-Gheddafi”. A metà del 2013 gli iraniani e i russi capiscono che possono continuare a sostenere l’alleato Bashar. Putin non intende abbandonare le basi russe in Siria, che presidiano il Mediterraneo dai tempi della guerra fredda. 2015: l’aviazione russa bombarda. Nel 2014, senza l’ombra di un osservatore internazionale, Al Assad è rieletto con l’88,7% dei voti. Intanto l’Iran invia migliaia di “volontari”, Putin le forniture d’armi, soldati, e i caccia. Il regime ha ripreso forza e dove non ci sono i soldati lealisti intervengono Hezbollah e i contractors russi. Senza di loro Assad sarebbe stato eliminato da un pezzo. 2018: Assad ha vinto. Il 7 aprile 2018 il regime sta eliminando l’ultima sacca di resistenza a Duma: circa 1.900 morti, su almeno 60 vittime si sospetta l’uso di armi chimiche. Il 14 Aprile il blitz americano con gli alleati franco-britannici, e il lancio di 105 missili contro gli impianti di armi chimiche siriane non cambia l’equilibrio delle forze. Dopo oltre mezzo milione di morti e circa 12 milioni tra profughi emigrati all’estero e sfollati interni, Bashar al Assad, per il momento, dorme sonni tranquilli. Turchia. Dalle strade di Istanbul ad Ankara: ecco la milizia armata di Erdogan di Marta Ottaviani La Stampa, 19 aprile 2018 Sette le città dove le autorità stanno addestrando formazioni di civili. A capo dell’organizzazione un ex generale e consigliere del presidente. Che la piazza turca stesse diventando sempre più potenzialmente violenta, lo si era capito dalla notte del golpe fallito il 15 luglio 2016. Migliaia di persone si erano riversate in strada, con l’obiettivo di difendere la democrazia. Altre, però, non certo una minoranza, ne avevano approfittato anche per linciare i militari coinvolti, manifestare sotto vessilli islamici, invocare la Sharia, minacciare chi non la pensava come loro e sancire la nascita di una nuova Turchia, non solo per quanto riguarda lo strapotere di Recep Tayyip Erdogan, ma anche nelle strade e nella vita di tutti i giorni. La brutta notizia è che adesso una parte di questa società civile potrebbe essere organizzata e utilizzata come una milizia invisibile, garante del nuovo ordine costituito nelle città della Mezzaluna, opportunamente (e militarmente) addestrata a questo scopo. Le voci si rincorrono da oltre un anno, il Partito repubblicano del Popolo, di orientamento laico e principale voce dell’opposizione, ha chiesto l’apertura di una commissione parlamentare, che al momento, però, non ha avuto nessun seguito, se si escludono le dichiarazioni delle opposte fazioni e le reciproche accuse di voler trascinare il Paese in una guerra civile. La bomba l’ha fatta esplodere lo scorso gennaio Meral Aksener, nuova, fino a un certo punto, Lady di ferro della politica turca, che, uscita dal Mhp, il partito nazionalista, dove ha militato per anni, ha fondato l’Iyi Parti, una formazione che mira ad attrarre i voti della destra nazionalista e che mal tollera sia la deriva islamica imposta da Erdogan sia l’alleanza che il Mhp ha stretto alle prossime elezioni con il Presidente della Repubblica. “Abbiamo saputo - ha detto Aksener - che nel Paese ci sono almeno due campi che addestrano militarmente civili. In uno dei due opera una struttura chiamata Sadat. Credo che dovrebbe essere aperta un’inchiesta su questo tema e i risultati condivisi con tutte le forze politiche”. La presidentessa dell’Iyi Parti ha anche aggiunto di avere ricevuto diverse segnalazioni di persone che si aggiravano per le principali città turche armate. La polemica è stata enorme, anche se ampiamente taciuta dalla stampa mainstream della Mezzaluna, ormai nella quasi totalità filogovernativa. Ad avere dato più fastidio è il nome Sadat. Sul suo sito ufficiale, l’organizzazione offre diversi servizi di addestramento militare e per la sicurezza interna. Il suo fondatore è il generale in pensione, Adnan Tanriverdi, che, da dopo il golpe fallito del 2016 è diventato niente meno che il consigliere più importante per la difesa del presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan e l’uomo più importante della Turchia in Qatar, dove Ankara possiede una base militare. Sadat è stata fondata nel 2012 da Tanriverdi e altri 23 ex ufficiali che avevano terminato il loro servizio nelle Forze Armate turche. Il generale è sempre stato noto per la sua vicinanza agli ambienti islamici del Paese, tanto che, secondo il quotidiano Sozcu, lo Stato maggiore ha cercato di pensionarlo il prima possibile. Mesi fa, alcuni quotidiani turchi avevano ipotizzato che fosse proprio l’organizzazione Sadat ad addestrare miliziani del Free Syrian Army, inclusi sospetti elementi jihadisti. Tutte accuse alle quali Tanriverdi ha risposto con una denuncia per diffamazione ai danni di Aksener. “Chiederemo una compensazione - ha spiegato l’ex generale -. Ci hanno dato dell’organizzazione paramilitare che addestra i civili. Non c’è nulla di vero”. Intanto però la Turchia si avvia verso una campagna elettorale infuocata, dove mancava solo questo scenario inquietante. Anche se i numeri che circolano sono solo stime e le denunce dell’opposizione sono cadute nel vuoto, al momento le persone coinvolte in questi addestramenti sarebbero dalle 400 alle 2800. I campi operativi almeno sette. Il più importante si trova a Konya, il cuore religioso del Paese e dove è stata più volte segnalata la presenza di militanti e simpatizzanti dello Stato Islamico. Seguono poi Istanbul e Kocaeli, dove le reclute riceverebbero un addestramento una volta alla settimana. Ci sono poi Kayseri, Duzce, Tokat e Kocaeli, dove l’addestramento avviene ogni due settimane. Nei campi ci sarebbe anche la presenza di alcune formazioni islamo-nazionaliste, come gli Osmanli Ocaklari, nostalgici di un passato idealizzato e contrari alla Turchia moderna sognata da Mustafa Kemal Ataturk, della quale, stavolta, potrebbero non rimanere più nemmeno le statue o le commemorazioni formali. Peggio di questo, c’è solo l’ombra della violenza di una milizia organizzata.