Le carceri sono un’emergenza, ma il vuoto politico ha bloccato la riforma di Marco Sarti linkiesta.it, 18 aprile 2018 Ipocrisie e convenienze politiche mettono a rischio la riforma del sistema penitenziario. Come deciso in Parlamento, la commissione speciale non esaminerà il testo. Intanto le carceri sono sempre più sovraffollate. L’appello del Garante dei detenuti al Governo: “Basta ostruzionismi, si vada avanti”. Solo durante i primi tre mesi dell’anno si sono registrati circa dieci suicidi. Intanto nelle carceri italiane il numero dei detenuti continua a crescere. Oggi restano dietro le sbarre in 58.223. Quasi diecimila in più rispetto ai 50mila posti disponibili. E così il sistema torna a vivere condizioni drammatiche. Se il 35 per cento dei reclusi è ancora in attesa di giudizio, il sovraffollamento ha nuovamente raggiunto “limiti tali da riproporre complessivi profili di sicurezza oltre che di decenza”. L’ultima denuncia è dell’Unione camere penali, che ieri ha confermato lo sciopero in programma all’inizio di maggio per protestare contro la mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Mentre la politica si incarta sulla nascita del nuovo esecutivo, in Parlamento succede anche questo. La legislatura appena conclusa ha lasciato irrisolto il grande tema delle carceri. E l’intervento di riforma - frutto di un lungo lavoro con la partecipazione di numerose realtà del settore - è ancora in attesa del definitivo via libera. La scelta politica del governo di non approvare il testo prima delle elezioni ha finito per complicare tutta la vicenda. E così la scorsa settimana è arrivato l’ennesimo stop. Con il voto di Cinque Stelle e del centrodestra, la capigruppo di Montecitorio ha deciso di non assegnare il documento alla commissione speciale per il definitivo parere. Un intervento formale, non vincolante, che pure adesso rischia di bloccare il percorso della riforma. “Il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della riforma penitenziaria nei lavori delle commissioni speciali - denuncia adesso l’Unione delle camere penali - si pone nettamente in contrasto con la proclamata centralità del Parlamento, dimostrando come in verità leggi frutto di una faticosa e approfondita meditazione e di ampia condivisione politica, giuridica e culturale possano essere agevolmente accantonate e dimenticate”. Parte della responsabilità è sicuramente del governo Gentiloni. La decisione di posticipare la riforma agli ultimi mesi della legislatura - e la scelta di non approvare il decreto prima del voto - ha creato le condizioni per lo stallo attuale. “Trovo disgustoso che non ci sia stato il coraggio di far approvare questa riforma prima delle consultazioni elettorali” denuncia adesso il presidente dell’Ucpi Beniamino Migliucci. Una situazione resa ancora più difficile dagli attuali veti politici. Un’evidente impronta giustizialista, denunciano in molti, ha spinto Lega, M5s e Fratelli d’Italia a complicare ulteriormente il cammino della riforma. La scorsa settimana si è scelto di non assegnare il testo alle commissioni speciali. Rimandando tutto l’iter in capo alle commissioni permanenti, che al momento non sono state neppure costituite. È una decisione che potrebbe creare più di un problema al nostro Paese. Non dimentichiamo che solo pochi anni fa l’Italia è stata sanzionata per le condizioni detentive degradanti e inumane all’interno delle nostre carceri. “Una scelta sbagliata e rischiosa” come confermato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che pochi giorni fa ha contattato i presidenti di Camera e Senato chiedendo di riconsiderare la decisione. “Anche perché la mancata attuazione delle riforma rischierebbe di pregiudicare gli importanti passi compiuti, che hanno determinato la chiusura del monitoraggio al quale il nostro Paese era stato sottoposto a seguito della condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo nel gennaio 2013”. Solo durante i primi tre mesi dell’anno nelle carceri italiane si sono registrati circa dieci suicidi. Intanto il numero dei detenuti continua a crescere. Oggi restano dietro le sbarre in 58.223. Quasi diecimila in più rispetto ai 50mila posti disponibili. Nel 35 per cento dei casi si tratta di persone ancora in attesa di giudizio. E così il sistema torna a vivere condizioni drammatiche. Parla apertamente di manovre ostruzionistiche il garante dei detenuti Mauro Palma. “È duro spiegare a 58.300 detenuti che non si fa un provvedimento che porterebbe a migliorare il sistema perché si fanno giochetti cercando di arrivare al fischio finale dell’arbitro, ossia allo scadere dei tempi previsti dalla delega”. Il rischio, denunciato anche dal garante, è che il lavoro svolto finora per migliorare il sistema carcerario finisca su un binario morto. Ecco perché gli avvocati penalisti, insieme al Consiglio nazionale forense e all’Associazione Antigone, adesso chiedono al governo Gentiloni di andare avanti in ogni caso. Il parere delle commissioni parlamentari è solo un atto formale, spiegano. “Passati dieci giorni, il Consiglio dei ministri è comunque autorizzato a emanare il decreto”, racconta Palma nella sede dell’Unione Camere Penali. “Adesso il governo Gentiloni ha la possibilità di riscattarsi da quello che a molti è apparso come un atto di viltà” insiste la leader radicale Rita Bernardini, da sempre in prima linea nelle battaglie per i diritti dei detenuti. La speranza non è ancora finita. E da qui all’inizio di maggio, quando è stato fissato lo sciopero, la situazione potrebbe sbloccarsi. “Speriamo che qualcosa accada - insiste Migliucci - speriamo di poter revocare questa nuova astensione dalle udienze”. Intanto in Italia la popolazione carceraria torna a crescere in maniera preoccupante. La riforma potrebbe intervenire proprio su questo aspetto. L’estensione delle misure alternative avrebbe il duplice effetto di diminuire il sovraffollamento e allinearsi al dettato costituzionale e alla finalità rieducativa della pena. Eppure la portata dell’intervento legislativo è stata spesso male interpretata. In molti hanno erroneamente presentato la riforma al pari di un “salva ladri”. Lo hanno spiegato bene alcuni giuristi, avvocati e magistrati, in una lettera aperta che poche settimane fa auspicava un rapido intervento del governo. “La riforma - così le parole degli esperti - non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, nessun insensato e indulgenziale “svuota-carceri”. Semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo”. Nessun colpo di spugna, insomma. “Anche perché la personalizzazione delle misure alternative prevista dalla riforma - come racconta oggi il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin - rende più complicata la loro concessione, i detenuti dovranno meritarsela”. Semmai, l’intervento legislativo punta a garantire maggiore sicurezza per i cittadini. E la spiegazione è nelle statistiche presentate dall’Unione camere penali. Oggi chi sconta la pena interamente in carcere torna a delinquere nel 70 per cento dei casi. La recidiva diminuisce invece al 30 per cento per chi accede alle pene alternative. Ma scende fino al 3 per cento per i detenuti che imparano un mestiere e possono lavorare durante l’esecuzione penale. “Chi sconta la pena solo in carcere torna a commettere tanti reati - spiegava qualche giorno fa Migliucci - Ma chi è ammesso a pene alternative e chi impara un lavoro non ne commette più”. Carceri, appello pro-riforma. Fico rompe il fronte M5S-Lega di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 aprile 2018 Ordinamento penitenziario. Il presidente della Camera chiede ai capigruppo di assegnare il decreto legislativo alla Commissione speciale. Coerente con l’obiettivo di ridare nuova centralità al Parlamento, dichiarato nel suo discorso di insediamento, il presidente della Camera Roberto Fico ha chiesto ieri ai gruppi parlamentari di ripensarci, sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, permettendo alla Commissione speciale di Montecitorio di esprimere un parere sul testo del primo decreto legislativo licenziato dal Consiglio dei ministri il 16 marzo scorso. Una pausa di “riflessione” che Fico ha auspicato “sulla base delle notazioni del Garante nazionale dei detenuti”. E il garante Mauro Palma lo ha ringraziato, soddisfatto di aver aperto un “corretto dialogo” tra istituzioni. Il parere della Commissione non è vincolante per il governo che, attesi dieci giorni dal momento in cui ha trasmesso gli atti alla Camera, può in ogni caso dare il via libera definitivo alla norma che ridisegna dopo 40 anni il profilo dell’esecuzione penale, secondo la delega ricevuta dal parlamento il 23 giugno 2017. Finora però l’esecutivo non aveva potuto neppure trasmetterli, quegli atti, perché la conferenza dei capigruppo di Montecitorio aveva deciso di escludere la riforma dal novero dei provvedimenti di cui si potrà occupare la Commissione speciale. Ora la porta potrebbe riaprirsi. Una mossa, quella del presidente pentastellato, per certi versi inattesa, perché rompe fragorosamente l’asse di intesa con la Lega sulla questione carceri. Il M5S infatti è stato finora in prima fila, insieme a quasi tutta la coalizione di centrodestra (esclusa solo una parte di Forza Italia), nell’ostruzionismo alla riforma dell’ordinamento penitenziario messa a punto, dopo le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, da oltre duecento esperti chiamati al lavoro dal ministro Andrea Orlando nell’arco di una lunga stagione riformatrice iniziata nel 2015 con gli “Stati generali dell’esecuzione penale”. Tanto contrario, il M5S, che il suo candidato ministro di Giustizia, Alfonso Bonafede, aveva accolto il decreto attuativo approvato dal governo Gentiloni con le stesse parole di Salvini, gridando all’”affronto che non può essere accettato” e promettendo di farne carta straccia. Eppure ieri qualcosa deve essersi mosso, tra i grillini (qualcuno ipotizza perfino un intervento del presidente Sergio Mattarella). Perché, dopo l’appello di Fico, anche il senatore Vito Crimi, che ora presiede la Commissione speciale di Palazzo Madama, ha mostrato segni di apertura dicendosi disposto a inserire immediatamente nell’ordine del giorno dei lavori il decreto legislativo, qualora venisse assegnato al Senato come richiesto ieri dal Pd. Una presa di posizione, questa del M5S, che ha stranamente ammutolito perfino il centrodestra, dal quale ieri non si solo levate le solite grida di allarme contro il così chiamato “svuota-carceri”. Forse, a consigliare un atteggiamento più riflessivo da parte di tutte le forze politiche deve essere stato anche il monito dell’Associazione nazionale magistrati che in una nota ha auspicato di vedere “al più presto ripreso e completato l’iter legislativo” della riforma, con un “testo definitivo che tenga conto della necessità dello stanziamento di adeguate risorse per la sua attuazione e dei rilievi critici già più volte evidenziati”. Il Guardasigilli Orlando se n’è rallegrato: “Ho molto apprezzato l’appello del Presidente della Camera perché credo che sia un provvedimento assolutamente urgente - ha detto dai microfoni di Rai Radio1 Un “Giorno da Pecora” - noi abbiamo lavorato per questa riforma che serve ad abbattere la recidiva, serve quindi a creare più sicurezza, ma anche a far fronte, sulla base di criteri oggettivi, al rischio di sovraffollamento e al rischio di condanne della Corte di Strasburgo nei confronti del nostro Paese”. Più tardi, in Transatlantico, il ministro ha poi spiegato che se l’appello di Fico non venisse ascoltato, con il conseguente affossamento del decreto legislativo, “non c’è il rischio di scadenza della delega per la riforma delle Carceri (che scade ad agosto), ma c’è il rischio di svuotamento del provvedimento”. E si è riproposto di “verificare la posizione dei vertici istituzionali”, in particolare del presidente Mattarella che, dice, “ha sempre mostrato grandissima attenzione su questi temi”. Sul ruolo del capo dello Stato, la ministra dei Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro, spiega: “Il presidente Fico è stato molto chiaro - ha riferito a Radio Radicale - ha ricordato che il governo aveva insistito per l’assegnazione di questi due decreti legislativi all’esame della commissione speciale, ha annunciato di avere ricevuto una nota dalle Camere Penali nella quale si faceva riferimento ad una astensione dall’udienza come forma di protesta in ragione della mancata assegnazione alla commissione speciale dei decreti legislativi e ha riferito che lo stesso Presidente della Repubblica aveva chiesto notizie sull’andamento dei lavori”. Carceri, ora Fico apre al Pd di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 18 aprile 2018 Scricchiola l’asse M5S-Cdx. Il ministro Orlando apprezza. I due decreti di riforma del sistema penitenziario messi a punto dal ministro della giustizia Andrea Orlando, che si occupano tra l’altro delle pene alternative al carcere, sono visti come fumo negli occhi da Lega e Fdi. E alla prima riunione dei presidenti dei gruppi parlamentari della camera centrodestra e M5s si erano espressi con una sola voce: la riforma cara alla sinistra non deve essere esaminata dalla commissione speciale che fa le veci di quelle permanenti, la cui costituzione è rinviata all’indomani della formazione del governo. Una decisione tutta politica: vietando alla commissione speciale di esprimersi sui decreti (il parere è obbligatorio anche se non vincolante) si pongono gli stessi su un binario morto, rimettendo di fatto il dossier in mano al prossimo governo. Ieri il cambio di passo dei grillini: il presidente della camera, il pentastellato Roberto Fico, nel corso della nuova capigruppo da lui presieduta, ha invitato i vari partiti a ripensarci. Serve un supplemento di “riflessione” sulla riforma, ha detto Fico citando come fatti nuovi l’appello giunto dal garante nazionale per i diritti dei detenuti perché la riforma non sia affossata, ma anche la richiesta di informazioni “sull’andamento dei lavori” intanto pervenuta dal presidente della repubblica, Sergio Mattarella. Fico ha chiesto ai suoi interlocutori di non esprimersi subito, ma di riflettere bene in vista della prossima conferenza dei capigruppo. Il pressing di Fico perché ci sia un cambio di orientamento è evidente, anche se non è detto affatto che riesca nel suo intento, anzi. Per decidere le materie di cui deve occuparsi la commissione ponte serve l’unanimità e mai la Lega potrà essere favorevole. Ma i grillini ora possono ben dire che non hanno preclusioni, che da parte loro non c’è una chiusura ideologica e che dunque sui decreti si può lavorare. Anche magari per un parere con richieste di correttivi. L’apertura è stata subito salutata con favore dal ministro Orlando, “ho molto apprezzato”. Una nota ufficiale è giunta anche dal presidente dei deputati democratici, Graziano Delrio: “Avevamo già chiesto che si procedesse su questi due decreti, viste anche le richieste che giungono dagli operatori. Accogliamo dunque con favore l’invito del presidente Fico”. Parla di “grande sensibilità” da parte di Fico, Francesco Boccia, il dem vicino al governatore Michele Emiliano. “Noi siamo favorevoli da subito”, precisa Federico Fornaro, presidente dei deputati di LeU. La riforma “è una priorità”, rimarca Riccardo Magi di +Europa. Ora che il capo politico di M5s, Luigi di Maio, minaccia di chiudere uno dei due forni, quello con la Lega, l’apertura di Fico sulla riforma penitenziaria in ambienti parlamentari è stata commentata come il segnale di un avvicinamento non più solo formale ai dem. E se nelle retrovie Pd e M5s si confrontano già da un po’ sui punti programmatici di un governo a due, sul fronte dell’ufficialità sempre ieri il reggente del partito democratico Maurizio Martina ha ribadito le priorità imprescindibili: povertà e famiglia. Se è il forno giusto lo si vedrà. Riforma del carcere, Fico apre uno spiraglio per il via libera definitivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 aprile 2018 Il Presidente della Camera invita la capigruppo a una riflessione sul decreto. Si riaccende la speranza per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Il decreto principale, già visionato dalle Commissioni giustizia e licenziato dal Consiglio dei ministri, potrebbe essere assegnato alla commissione speciale della Camera. Nel corso della conferenza dei capigruppo, il presidente Roberto Fico ha invitato i rappresentanti dei gruppi a una riflessione sul provvedimento del governo e sui decreti attuativi della riforma. Il presidente della Camera ha riaperto la discussione dopo aver recepito la raccomandazione del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma con il quale ha condiviso momenti di discussione proprio all’interno del carcere di Rebibbia l’anno scorso. Il Garante, ricordiamo, si era rivolto a Fico affinché “le forze politiche siano invitate a rivedere l’ordine del giorno della Commissione speciale e a dare la possibilità che l’ultima tappa per l’adozione del provvedimento sia compiuta”. Oltre a Palma, lo stesso ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva sollecitato il presidente Fico a invitare le forze politiche ad evitare lo stop. Infatti, a proposito dell’esito della capigruppo della Camera, il guardasigilli ha dichiarato: “Colgo un segnale molto positivo che segnala una sensibilità istituzionale del presidente Fico che raccoglie alcuni appelli venuti da più parti e che interpreta un tema reale. Alle forze politiche chiedo: valutino il provvedimento come credono ma lo analizzino e deliberino, altrimenti il rischio è quello di vanificare un provvedimento che tenta di affrontare queste tematiche. Il mio appello non è a cambiare idea ma a evitare ostruzionismi per impedire l’approvazione del provvedimento, sarebbe una grave sottovalutazione del problema”. Plauso da parte di Anna Finocchiaro, ministra per i Rapporti con il Parlamento, che ricorda come “solo il Pd e Leu erano favorevoli all’assegnazione dei decreti attuativi alla Commissione speciale, al pari di altri atti del governo”. Fico incassa apprezzamenti anche da Graziano Delrio, capogruppo del Pd alla Camera: “Accogliamo con favore l’invito del presidente della Camera ai gruppi di riconsiderare quella scelta per approdare ad una nuova decisione che consenta il via libera in tempi brevi dei decreti già nella prossima conferenza dei capigruppo”. Federico Fornaro, capogruppo di Leu, che si dice “favorevole all’assegnazione del provvedimento alla Commissione speciale”. Ricordiamo che il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci e il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin si erano appellati a governo, istituzioni e all’intera classe politica affinché venga approvata quanto prima, “abbandonando ogni forma di ostruzionismo”, la riforma dell’ordinamento penitenziario. Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, spiega che nella giornata di ieri si sono verificati due fatti significativi: il primo riguarda la posizione del presidente della Camera, l’altro fatto è sapere che oggi il Parlamento in seduta comune è chiamato ad eleggere il giudice mancante al plenum della Corte Costituzionale. “Ci sento - spiega Bernardini, in queste due questioni istituzionali, tutta la presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, senza alcuna esternazione ma lavorando in silenzio, richiama tutte le istanze politiche all’obbligo di servire la Costituzione per affermare lo Stato di diritto. Ne abbiamo più che mai bisogno in questa fase della vita del nostro Paese: sulla tenuta democratica, Mattarella c’è”. Anche Riccardo Magi, deputato di +Europa e segretario di Radicali Italiani, accoglie positivamente l’intervento di Fico, augurandosi che la capigruppo ritorni sui suoi passi: “Ribadiamo questo appello alle forze politiche, affinché trovi finalmente attuazione una riforma fondamentale per riconquistare credibilità in Europa - dove l’Italia ha subito pesanti condanne per le condizioni delle carceri - per il rispetto dello stato di diritto, della legalità costituzionale e per le vite di migliaia di persone, reclusi e non, della comunità penitenziaria”. La scelta politica del governo di non approvare il testo prima delle elezioni ha finito per complicare tutta la vicenda. E così, ricordiamo, la scorsa settimana era arrivato l’ennesimo stop. Con il voto di Cinque Stelle e del centrodestra, la capigruppo di Montecitorio ha deciso di non assegnare il documento alla Commissione speciale per il definitivo parere. Un intervento formale, non vincolante, che pure adesso rischia di bloccare il percorso della riforma visto che è stato deciso di rimandare il passaggio finale in capo alle commissioni permanenti. La questione, però, grazie all’intervento di Roberto Fico, sarà affrontata in una prossima riunione della capigruppo. Come già denunciato da Il Dubbio, la popolazione carceraria torna a crescere in maniera preoccupante e il decreto principale della riforma interviene proprio su questo aspetto. L’estensione delle misure alternative ha il duplice effetto di diminuire il sovraffollamento e allinearsi al dettato costituzionale e alla finalità rieducativa della pena. Eppure la portata dell’intervento legislativo è stata spesso male interpretata. In molti hanno erroneamente presentato la riforma al pari di un “salva ladri”. Lo hanno spiegato bene alcuni giuristi, avvocati e magistrati, in una lettera aperta che poche settimane fa auspicava un rapido intervento del governo. “La riforma - così le parole dei giuristi - non contiene nessun afflato buonista, nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, nessun insensato e indulgenziale “svuota-carceri”. Semmai preserva la comunità da gravi forme di recidiva criminale attraverso la proposta di un impegnativo cammino di rientro rivolta a chi voglia e sappia intraprenderlo” Carcere: è una buona riforma, sarebbe assurdo lasciarla cadere di Renata Polverini* Il Dubbio, 18 aprile 2018 Il prezioso e puntuale lavoro di contro-informazione (perché il mainstream è, purtroppo, quello dello “svuota carceri”) che sta facendo Il Dubbio e l’incalzante mobilitazione portata avanti da Rita Bernardini e Sergio D’Elia per sensibilizzare tutte le forze politiche e sociali, stanno mantenendo viva la speranza di portare a casa nonostante le enormi difficoltà che sappiamo - la riforma dell’ordinamento penitenziario. Lo dico, e lo spero, perché proprio in queste ore dal vertice della Camera dei Deputati è giunta la disponibilità, mi sembra abbastanza chiara, da parte del Presidente Fico, a riportare nella competenza della Commissione speciale di Montecitorio - nella quale sono Capogruppo per Forza Italia - l’esame dei decreti legislativi che il Governo Gentiloni, purtroppo con grave ritardo, aveva adottato sulla riforma carceraria. Si tratta di superare un impedimento “tecnico” alla discussione - che nella Commissione “gemella” del Senato non è stato posto ma, soprattutto, di “convincere” un Parlamento rinnovato per almeno i due terzi dell’ottimo lavoro fatto dagli Stati generali dell’esecuzione penale al quale si sono dedicati tutte le parti in causa; dai magistrati agli avvocati fino ai rappresentanti della Polizia penitenziaria. Nella recente campagna elettorale ho visitato più di un carcere e posso testimoniare che questa riforma è fortemente attesa non solo dai detenuti, ma anche da tutti gli operatori che, anzi, chiedono di portarla avanti nelle non poche questioni che i due decreti hanno tralasciato. Non possiamo lasciare sessantamila persone - di cui un terzo in attesa di giudizio! nelle condizioni spesso indecorose che tutti sappiamo, né possiamo continuare ad ignorare - qualcuno persino a mistificare - gli indubbi benefici sulla “recidiva” che una esecuzione meno burocratica e meramente amministrativa della pena può assicurare, rendendo più “sicura” la società e meno afflittiva la detenzione. La riforma in discussione, “personalizzando” i provvedimenti di reinserimento (è un magistrato che deve decidere, caso per caso, se concederli), non dà vita a nessun tipo di automatismo (come dicono coloro che parlano di “svuota carceri”) ma, anzi, offre la garanzia di un vaglio puntuale della situazione e delle singole persone. Su questi delicati anche se per me chiari aspetti, credo sia giusto dare la possibilità ai nuovi parlamentari di documentarsi e farsi una opinione precisa, magari chiedendo al Ministro Orlando la disponibilità ad approfondire i temi sui quali ci sono più perplessità ed eventualmente ad accettare suggerimenti ed eventuali integrazioni. Mi auguro che Forza Italia faccia proprio questo lavoro nel rispetto di una tradizione di garantismo che non può certo venire meno per i postumi (speriamo non i prodromi) della campagna elettorale. *Parlamentare di Forza Italia Trattativa Stato-mafia, sentenza bomba in arrivo di Errico Novi Il Dubbio, 18 aprile 2018 Niente repliche dei pm, Corte d’Assise di Palermo da ieri in camera di consiglio. La battuta c’è tutta: “Iniziano le mie prigioni”, si lascia scappare uno dei 7 giudici popolari un attimo prima di chiudersi in camera di consiglio. Ecco: ma quanto durerà? “Quattro giorni è la prognosi più attendibile”, sussurra uno dei difensori. Quindi il giorno della verità potrebbe essere il 19 aprile, al massimo il 20 aprile 2018. Quel giorno dovrebbe essere pronunciata la sentenza del processo “trattativa”. Sarà una camera di consiglio faticosa e suggestiva: finirà entro la settimana o il viaggio a ritroso nel tempo potrebbe avvitarsi su stesso, come in un film di Robert Zemeckis? C’è un’aria strana, nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Non solo perché l’ultima delle 210 udienze celebrate in 4 anni- 4 di dibattimento (tutto ebbe inizio il 27 maggio 2013) ha il tono esasperato delle scene madri. Nicola Mancino, tra gli imputati, accusato di falsa testimonianza, spiega che sul suo incontro con Borsellino “sono state avanzate illazioni per distruggere la mia immagine”. I pubblici ministeri, anzi uno, Vittorio Teresi, dei due presenti ieri in aula (l’altro è Roberto Tartaglia) sui quattro rimasti in servizio (Nino Di Matteo e Francesco Del Bene non hanno ottenuto l’”applicazione” dalla Dna dove intanto sono andati a lavorare) si lamenta per le espressioni “estreme e inopportunamente polemiche da parte delle difese che hanno travalicato la dialettica processuale” e fa capire che anche per questo, “abbiamo deciso di rinunciare alle repliche”. Uno dei legali, il difensore di Mario Mori, Basilio Milo, che si scusa con lo stesso magistrato della Procura di Palermo. Il presidente della Corte d’assise Alfredo Montalto che chiama infine la camera di consiglio e vi si rinchiude con i 7 componenti laici del collegio e la giudice a latere Stefania Brambille. Ma il tratto drammatico, da sospensione della storia, è nell’ombra che non compare tra i 9 imputati sopravvissuti (due, Totò Riina e Bernardo Provenzano, nel frattempo sono morti, uno in realtà ha visto stralciata da tempo la propria posizione ed è Calogero Mannino). Quell’ombra, nella visione dei pm, deve fattezze simili a Silvio Berlusconi. È a lui o non è a lui, che la Procura pensa quando, nel corso della requisitoria (una lunga staffetta in 8 udienze tra i 4 del pool) cala sulla scena il fantasma di “un comprimario occulto, una intelligenza esterna che premeva per la linea della distensione”? Così pare. Se no non si spiegherebbe per quale ragione, fra i quattro ex rappresentanti delle istituzioni alla sbarra, compaia, con gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, anche Marcello Dell’Utri. Cosa c’entra Dell’Utri, che sarebbe arrivato in Parlamento solo nel 1994, quando ormai Totò Riina era da tempo in carcere e le stragi cessate? Quale sarebbe la sua funzione, nello scenario immaginato dalla Procura, se non quella di fare da tramite con un futuro premier già sicuro di vincere le elezioni prima ancora di scendere in campo, ovvero il Cavaliere? E perché mai, se Berlusconi non fosse l’imputato virtuale di questo processo “Stato- mafia”, in limine mortis la Procura stessa ha preteso e ottenuto di includere tra gli atti anche le trascrizioni dei celebri dialoghi tra il boss Giuseppe Graviano e il suo compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi? In quelle conversazioni peripatetiche, il nome di Berlusconi ricorre eccome, anche se il difensore di Dell’Utri, Giuseppe Di Peri, ha contestato con più di una ragione, non accolta da Montalto, che in alcune frasi chiave il mafioso dicesse davvero “Berlusca”. Sullo sfondo del decreto di Conso, della revoca e degli annullamenti del 41 bis dell’allora capo del Dap Capriotti, degli esponenti delle istituzioni che, secondo la requisitoria, “hanno ceduto, per paura o incompetenza, illudendosi che una attenuazione del 41 bis potesse far cessare le bombe”, sullo sfondo di tutti i segni del presunto cedimento da parte dello Stato, ci sarebbe evidentemente quel “comprimario occulto”, che aveva capito tutto: e cioè che avrebbe vinto le elezioni e che nel frattempo serviva la pacificazione tra lo Stato e Cosa nostra. È il presunto male assoluto fondativo della Seconda Repubblica, la leggenda nera del Cavaliere avanzato tra le ceneri dell’Italia devastata per indirizzarla verso il più scellerato dei patti. Una teoria senza ragione, senza logica, che però richiede un viaggio nel tempo. E infatti quel giudice popolare che si paragona a Silvio Pellico pare si sia portato il trolley, in conclave. Qualcun altra ha pensato al beauty case. E magari davvero si deve decidere non tanto sulla “minaccia a corpo politico dello Stato”, il reato contestato a i tre ufficiali del Ros e a Dell’Utri: ma sulla leggenda nera di cui sopra. E poniamo che da questo conclave, a più di 6 anni dall’inizio delle indagini, Dell’Utri ottenga l’assoluzione, poniamo che la Corte d’assise fra due o tre giorni, smentisca la leggenda nera: siano proprio sicuri che il frantumarsi dell’orribile retro-pensiero sarebbe irrilevante, rispetto al quadro politico attuale? Se ci si accorgesse che i quattro anni dello “Stato mafia” sono serviti a cancellare la leggenda nera, forse i pm del pool, compreso quell’Antonio Ingroia che se n’è andò in Guatemala un mese dopo l’inizio del processo, avranno reso un incalcolabile servizio alla Nazione. Avranno fatto pulizia della spazzatura tenuta bene o male in circolo da tanti, in questi anni. Dal loro punto di vista avranno fallito. Ma senza accorgersene avranno finalmente fatto giustizia. “La nostra lotta alla criminalità organizzata è un modello da esportare” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 aprile 2018 Marco Del Gaudio, vice capo del Dap, illustra il programma europeo “el paccto”. “Il progetto si regge su tre pilastri: la cooperazione di polizia internazionale, giudiziaria e penitenziaria. L’Italia ha ottenuto la leadership sul sistema penitenziario”. Per fronteggiare un crimine organizzato sempre più transnazionale, la risposta è unire le forze e le esperienze in un patto operativo. Ed è con questo spirito che nasce El Paccto, il programma europeo a guida di Francia, Spagna, Italia e Portogallo che offre assistenza tecnica nel campo del contrasto al crimine in 18 Paesi dell’America Latina. El Paccto perciò si presenta come un patto d’azione in cui polizia, magistratura e polizia penitenziaria lavorano effettivamente insieme, dando un appoggio alla strategia di sicurezza già avviata in Sud America. Il programma è stato già avviato da qualche tempo e l’Italia gioca un ruolo importante, visto che proprio al nostro Paese è stato affidato il compito di dirigere le attività nel settore penitenziario. A seguire le fasi di lancio, come rappresentante del nostro Paese, è il vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Marco Del Gaudio. Lei, in rappresentanza dell’Italia, ha il compito di dirigere le attività nel settore penitenziario. Perché è stato scelto proprio il nostro Paese per dare questa assistenza tecnica? Innanzitutto per ottenere questo riconoscimento c’è stato un grande lavoro dietro, iniziando dalla sinergia tra il ministero degli Esteri - il nostro punto di accordo per le relazioni internazionali - e il ministero della Giustizia attraverso l’Ucai (Ufficio centrale affari internazionali ndr) e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i quali hanno sviluppato una linea programmatica di intervento molto accurata. Il progetto El Paccto si regge su tre pilastri: la cooperazione di polizia internazionale, giudiziaria e penitenziaria. L’Italia ha ottenuto la leadership del terzo pilastro perché il nostro Paese è stato in grado di fronteggiare la criminalità organizzata anche attraverso il nostro sistema penitenziario. In Sudamerica è la criminalità organizzata a comandare all’interno delle prigioni, l’Italia che indicazioni ha dato per arginare questo fenomeno? Ci tengo a precisare che non bisogna generalizzare. Il programma coinvolge ben 18 Paesi sudamericani e quindi esistono diverse realtà differenziate tra loro. Le scelte penitenziarie non sono tutte quante in linea dal punto di vista organizzativo. Ci sono paesi che come noi hanno una polizia specifica che si occupano della gestione delle carceri, altri che invece affidano la gestione alla polizia territoriale. Quindi in alcuni paesi può verificarsi un sistema autonomo, dove le organizzazioni criminali possono prendere il sopravvento. Molti paesi si stanno confrontando con un problema molto serio, ovvero la proliferazione di un gruppo che io definirei di stampo mafioso, nel senso che ha delle caratteristiche molto simili alla criminalità organizzata nostrana. Parlo de il Primeiro Comando da Capital, il quale riesce a prendere il controllo di varie carceri e se dovessi fare un paragone, lo equiparerei alla Nuova camorra organizzata ai tempi di Raffaele Cutolo. Questa organizzazione sudamericana riesce a controllare le dinamiche interne al carcere, ma anche a coordinare le attività criminali esterne. Abbiamo qualcosa da insegnare per arginare questo problema? Sì, i paesi sudamericani sentono particolarmente la necessità di comprendere il nostro approccio, ovvero il sistema di giustizia penale nel suo complesso che comprende l’attività investigativa, la collaborazione con la giustizia fino, appunto, ai regimi penitenziari differenziati che vanno dal 41 bis ai regimi di alta sicurezza, con tanto di agenti specializzati come i Gom. Quindi esportiamo il nostro modello? I singoli Stati hanno formulato delle richieste specifiche di sostegno sia per quanto riguarda l’edilizia carceraria che per quanto riguarda gli aspetti particolari della gestione penitenziaria. Quindi abbiamo risposto con una progettazione. Per farle un esempio, in Paraguay, noi del Dap abbiamo inviato il provveditore Antonio Fullone per l’individuazione delle dinamiche di gestione carceraria nei singoli istituti e - congiuntamente con la dottoressa Elisabetta Pugliese della direzione antimafia - per le politiche penitenziarie di contrasto al crimine. Questo tipo di progetto, quindi, ci consente di presentare ai vari Paesi la nostra realtà penitenziaria - in perfetta correlazione con il sistema investigativo - come modello di contrasto alla criminalità organizzata. A proposito dell’edilizia, gli uffici del Dap hanno già realizzato una prima collaborazione tecnica inviando un architetto italiano per la realizzazione di un nuovo carcere in Argentina. Qual è la tipologia carceraria che si vuole realizzare? L’istituto penitenziario progettato è un modello simile a quello italiano di Nola. Quindi con le stesse caratteristiche di modernità e funzionalità relative alle attività trattamentali. Noi, come sistema penitenziario, puntiamo molto alla riabilitazione e tendiamo alla carcerazione solamente quando è strettamente necessaria. In Argentina ho avuto un colloquio bilaterale con il sottosegretario alla giustizia e ha dimostrato molta attenzione al nostro sistema trattamentale, con una visuale complessiva che tenda a limitare la carcerazione alle sole ipotesi realmente necessarie. Mafie. Quella chiesa contro i “sovrani” di Brancaccio di Rosaria Cascio La Repubblica, 18 aprile 2018 A Brancaccio governavano alcuni “sovrani” ed ognuno aveva in mano quel potere di vita e di morte che un cristiano riconosce solo a Dio. E in quei luoghi dimenticati dagli amministratori cittadini, la mafia era l’unica a decidere le sorti di ognuno. Ed aveva deciso, per esempio, che non dovessero esserci la scuola, i servizi e nemmeno fogne e case civili. Il degrado e la promiscuità decisero altro per quegli uomini condannati alla miseria ed alla negazione dei diritti minimi. Essere parroco in quel quartiere controllato dalla mafia significava scegliere da che parte stare. Padre Puglisi, nel settembre del 1990, non ha tentennamenti e decide di mantenere fuori dalla sacrestia il fulcro della sua azione evangelica trasformando Brancaccio nel tempio in cui portare il Vangelo della carità. La Parrocchia si apre ai bisogni delle persone e le incontra nei luoghi in cui nessuno li va a trovare. Riconosce nella deprivazione culturale ed economica i mali del territorio e gli basta questo sguardo d’insieme per definire disumane le condizioni di quelle persone. Cristo non può rimanere chiuso dentro alle sacrestie, la sua incarnazione deve continuare. Così realizza una Parrocchia non più semplice erogatrice di sacramenti ma attenta lettrice dei bisogni dell’uomo e sua compagna nella crescita umana. Sostiene il “Comitato Inter-condominiale” nella rivendicazione alle amministrazioni preposte dei servizi mancanti. In parrocchia vengono creati nuovi gruppi di volontari che supportano Padre Puglisi nell’attività missionaria. Tutti prestano il loro servizio ma in modo competente e secondo le linee del volontariato maturo che insegna a pescare e non si limita a dare il pesce. Carità attrezzata, agape cristiana modernamente espressa e non quel semplice buonismo in voga in una certa Chiesa. Puglisi dà vita ad una struttura parallela a San Gaetano: il Centro polivalente di accoglienza e servizio “Padre Nostro”. Le sue attività caritative si integrano con quelle liturgiche e di catechesi della Parrocchia. Le scelte di vita, a Brancaccio, non prescindono dall’ambiente in cui si vive e dai condizionamenti in esso presenti. Prima, fra tutte, la mafia. Essa è presente in modo capillare, si prende cura dei bisogni della gente ma è lei stessa a determinarli. Controlla le vittime di cui è, essa stessa, la carnefice. L’azione di 3P - Padre Pino Puglisi - è diretta a promuovere l’uomo attraverso l’incarnazione del Vangelo nella storia personale di tutti e la mafia, questo, non lo accetta. Egli si propone come alternativo al sistema clientelare e prepotente poiché restituisce ai residenti di Brancaccio la dignità di uomini e donne amati da Dio. Il bisogno in cui la mafia tiene i cittadini viene configurato come diritto negato al quale la criminalità risponde con meccanismi clientelari. Padre Puglisi, invece, risponde con la lotta per i loro diritti. 3P si rivolge ai bambini a cui propone il gioco piuttosto che il furto, il sostegno scolastico anziché la pistola. Con loro, dice, si può ancora avanzare una controproposta di amore che si ponga come alternati va a quella del fascino della mafia. I giovani passeranno dalla sua parte, seguiranno il suo progetto abbandonando definitivamente i sogni di mafia che li affascinavano. 3P diventa pericoloso. E alza il tiro. Modifica il percorso della processione di San Gaetano portando il Santo tra i vicoli. Il folklore religioso lascia il campo ad una spiritualità vera. Mafia e Vangelo sono incompatibili. Niente finanziamenti pubblici per essere liberi di denunciare le inadempienze delle Istituzioni; niente amicizie politiche perché Cristo sta con la gente e non fa accordi politici. La sua, è davvero una controproposta di amore cristiano. Deve morire. L’incarico è dato a Salvatore Grigoli. La mafia uccide Padre Puglisi per riaffermare sé stessa, per affermare il predominio su un territorio e sulle persone di quel territorio. Qui 3P aveva trasformato la sua Chiesa in una prima linea nella promozione umana con lo strumento del Vangelo ma fu interpretata come una lotta, una sfida alla mafia. 3P è andato verso le periferie dell’esistenza umana e lì è rimasto fino alla fine. Come cambia la Polizia: agenti con la pistola a impulsi elettrici e manette in velcro di Francesco Grignetti La Stampa, 18 aprile 2018 Inizia la sperimentazione di nuove dotazioni per le pattuglie di polizia. Se vedrete una pattuglia di polizia con strane attrezzature, niente paura. A Milano, Brindisi, Caserta, Catania, Padova e Reggio Emilia sta per cominciare la sperimentazione del “taser X2”, ossia la pistola a impulsi elettrici che da tempo è dotazione ordinaria per gli agenti negli Stati Uniti. L’apparecchio in esame funziona con un puntatore laser e due dardi che rimangono collegati all’arma, ma può lanciare anche una scarica di avvertimento senza sparare alcun colpo. Il Dipartimento di Ps ha deciso di sperimentare l’arma, con l’avvertenza che si tratta appunto di una arma, e che quindi il suo uso va ricondotto alle esigenze di servizio. In pratica, la pistola a impulsi elettrici è considerata una alternativa alla pistola tradizionale e va sfoderata solo quando l’agente deve immobilizzare temporaneamente un soggetto. Come tutte le armi (anche se questa è efficace a una distanza tra i 3-7 metri) la pistola dovrà essere estratta dall’agente di polizia solo quando necessario. In alternativa, va mostrata come forma di deterrenza a fronte di un soggetto che si mostri aggressivo. Va anche usata - si legge nelle circolari che accompagnano l’avvio della sperimentazione - con l’accortezza di mantenere le linee di tiro e le distanze di sicurezza. Siccome i dardi sono due, teoricamente è possibile sparare il primo e il secondo colpo a due soggetti diversi. In ogni caso, rimarca ancora il Dipartimento, l’agente dovrà considerare “i rischi associati con la caduta della persona” dopo che la stessa è stata colpita dal dardo. Infine, a scanso di problemi legali, ad ogni utilizzo del “taser” dovrà seguire l’intervento di un medico che dovrà rilasciare un certificato sugli effetti che la scarica elettrica ha prodotto sull’arrestato. Ma non solo il “taser” va in sperimentazione. Cambiano anche le manette, sostituite da una fascia in velcro, robusta quanto è più dell’acciaio, ma meno dolorose per i polsi del soggetto. La fascia, inoltre, potrà essere utilizzata anche per bloccare le caviglie o le braccia. Teoricamente un arrestato che si divincola potrà essere bloccato a terra con mani e piedi legati. Meglio che trattenerlo a terra a forza di braccia o montandogli sopra di peso, come anche è accaduto, e con esiti fatali per l’arrestato. Caso Cucchi, modificate le relazioni dei carabinieri sul suo stato di salute Il Manifesto, 18 aprile 2018 Le rivelazioni nel corso del processo bis per la morte del geometra romano. Le relazioni di servizio redatte dai carabinieri sullo stato di salute di Stefano Cucchi nelle ore immediatamente successive al suo arresto sono state modificate e per una c’è addirittura il sospetto che sia stata falsificata. Una manomissione della quale i vertici dell’Arma sarebbero stati a conoscenza ma sulla quale non sarebbe però mai stata aperta un’inchiesta. La rivelazione arriva nel corso del processo bis per la morte del giovane geometra romano deceduto all’ospedale Pertini il 22 ottobre del 2009, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. A parlare sono due militari dell’Arma, Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano, estensori dei due verbali. Colicchio è il carabiniere presente nella caserma di Tor Sapienza al momento dell’arrivo di Cucchi il 16 ottobre di nove anni fa accompagnato dal personale della stazione Roma-Appia. “Trascorsi circa venti minuti - annota Colicchio - Cucchi suonava al campanello di servizio presente nella cella e dichiarava di avere forti dolori al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia”. La relazione ha lo stesso numero di computer di una seconda versione, decisamente più leggera, nella quale si spiega che “Cucchi dichiarava di soffrire di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio”. Sentito dal pm Giovanni Musarò, il carabiniere ha riconosciuto la firma in calce ai due verbali, ma ha ammesso che la seconda versione non corrisponde al vero. Stessa cosa per quanto riguarda le annotazioni firmate dal carabiniere Di Sano. Nella prima il militare scrive: “Alle 9.05 circa giungeva presso questa stazione personale della Casilina addetto ai ritiro del detenuto. Cucchi riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non poter camminare, veniva comunque aiutato a salire le scale”. Un verbale troppo dettagliato, stando a quanto riferito in aula da Di Sano, che per questo sarebbe stato invitato a modificarlo. La versione finale afferma che “Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto (privo di materasso e di cuscino) ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza”. Da sottolineare, infine, quanto dichiarato nel 2009 ai magistrati dal carabiniere scelto Pietro Schirone secondo il quale “era chiaro che Cucchi era stato menato”. Versione confermata ieri in aula da Schirone. I big tech dovranno fornire dati ai magistrati di altri Paesi Ue di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2018 La Commissione europea ha presentato questo pomeriggio un progetto di legge che dovrebbe permettere ai magistrati nazionali di recuperare indizi elettronici direttamente presso i fornitori di servizi Internet in tutta Europa, anziché passare dal magistrato locale. L’iniziativa riflette la difficoltà della magistratura ad ottenere prove nel grande mondo digitale senza frontiere. In campo giudiziario, la proposta è innovativa perché fa a meno della collaborazione tra autorità nazionali. “Le autorità di polizia continuano a usare metodi di lavoro troppo complessi, mentre i criminali per operare usano tecnologie moderne e rapide”, ha detto durante una conferenza stampa a Strasburgo la commissaria alla Giustizia Vera Jourová. “Dobbiamo garantire alle autorità di polizia metodi del XXI secolo per lottare contro i crimini, nello stesso modo in cui i criminali usano metodi del XXI secolo per commettere gli stessi crimini”. Per la class action è pronto l’abito a misura Ue - La proposta legislativa, che deve essere approvata dal Consiglio e dal Parlamento, prevede che un magistrato possa chiedere a un fornitore di servizi digitali di trasmettergli prove elettroniche: messaggi telefonici, posta elettronica e anche scambi su particolari applicazioni informatiche. La società privata avrà 10 giorni di tempo per rispondere alla richiesta; addirittura solo sei ore nei casi più urgenti. Attualmente la cooperazione giudiziaria in Europa prevede tempi tra i 120 giorni e le 10 ore. La novità, spiega un esponente comunitario, è di poter saltare l’anello di congiunzione, che finora è stato il magistrato nazionale del paese coinvolto nella richiesta. Nel contempo, il giudice potrà chiedere al fornitore di servizi di non eliminare eventuali prove elettroniche. Ogni società dovrà dotarsi di un proprio rappresentante legale presso l’Unione europea. Nella sua proposta, la Commissione europea prevede salvaguardie giuridiche e la difesa dei diritti delle imprese. Nella documentazione pubblicata oggi, l’esecutivo comunitario ha ricordato un recente caso che ha visto le autorità belghe chiedere senza successo alla controparte americana di mettere a loro disposizione le email Yahoo di particolari cittadini sotto inchiesta. Con l’attuale proposta, non solo le autorità belghe potranno chiedere i dati direttamente alle società ma queste saranno obbligate di fornirli perché la nuova legge riguarderà tutte le aziende che offrono un servizio nell’Unione. Nella sua proposta legislativa, la Commissione precisa differenze tra i dati relativi ai sottoscrittori, alle transazioni, al contenuto, e all’accesso al servizio. Nei quattro casi, diritti, doveri e salvaguardie saranno diversi. Sempre secondo la documentazione pubblicata oggi dall’esecutivo comunitario, le richieste delle autorità giudiziarie alle principali società Internet sono aumentate del 70% tra la prima metà del 2013 e la seconda metà del 2016. Sempre sul fronte della sicurezza, l’Italia era nel 2017 tra i primi tre Paesi europei in tema di contraffazione delle carte d’identità. A rivelarlo è uno studio dell’agenzia Frontex, che pone l’Italia al secondo posto, preceduta dalla Romania, e seguita dalla Grecia. Il rapporto è stato pubblicato in occasione della presentazione di una serie di proposte della Commissione europea in vista dell’introduzione entro cinque anni di carte d’identità più sicure (157 milioni di euro il costo per l’Italia, un paese che continua a fare uso di documenti di carta e non di plastica). Intercettazioni idonee a giustificare il carcere preventivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 17 aprile 2018 n. 17158. Le intercettazioni se “chiare” e “non ambigue” sono sufficienti a giustificare la misura cautelare del carcere quando fondano l’accusa di partecipazione ad una associazione mafiosa. La II Sezione penale della Cassazione, presieduta da Piercamillo Davigo, con la sentenza n. 17158 del 17 aprile 2018, a due mesi e mezzo dalla entrata in vigore (il 26 gennaio scorso) del Dlgs n. 216/2017 recante “Disposizioni in materia di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni” (in attuazione della delega contenuta nella legge 103/2017), conferma il ruolo chiave delle captazioni come strumento di indagine. I giudici, confermando la decisione del Gip del Tribunale di Caltanissetta, hanno così respinto il ricorso dell’indagato che aveva sostenuto la natura “neutra” delle conversazioni registrate. In sede di riesame, il Tribunale aveva invece accolto l’istanza contro il secondo capo di imputazione - possesso di un’arma da sparo - “ritenendo il quadro indiziario, fondato su una sola conversazione intercettata, insufficiente a ritenere sussistente l’ipotesi di reato”. Nel provvedimento - scrive la Corte - sono riportate “analiticamente” intercettazioni telefoniche che danno atto del contributo dell’indagato alla infiltrazione dell’associazione nel tessuto legale per riciclare i proventi della droga, ma anche nell’attività di riscossione di crediti “con metodi estorsivi”, oltre che dello “stretto legame” con una famiglia mafiosa. Così ricostruito il quadro, prosegue la decisione, “va rammentato che, in tema di intercettazioni telefoniche, la interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione dei giudice di merito, e si sottrae a sindacato di legittimità se tale valutazione è motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza”. Per cui con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, “il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati, assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del contenuto delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo dei colloqui intercettati; in questo caso, ben potendo il giudice di merito fondare la sua decisione sul contenuto di tali conversazioni”. Seguendo queste linee interpretative, il Collegio ha dunque ritenuto che le censure del ricorrente “si risolvono in una richiesta di incursione nel meritum causae, non consentito - come tale - in sede di legittimità”. Delitti associativi: per il giudice incompatibilità a maglie strette di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 17 aprile 2018 n.17142. In caso di delitti associativi l’imputato può ricusare il giudice che, in un precedente giudizio, ha considerato sussistente l’aggravante del numero degli associati nei confronti di coimputati per lo stesso reato. La Cassazione chiarisce che il giudice ha l’obbligo di fare un “passo indietro” quando si è già espresso, sulla rilevanza penale di un fatto e sulla sua qualificazione giuridica. Nello specifico il giudice - che in realtà aveva presentato un’istanza di astensione rigettata dal presidente della Corte d’Appello - aveva in qualche modo “anticipato” un giudizio nel contestare l’aggravate del numero superiore a dieci, uno dei quali era il ricorrente. La corte di cassazione con la sentenza 17142, accoglie il ricorso contro il no all’istanza di ricusazione contro un componente del collegio che doveva giudicare per il reato associativo, avendo già valutato i coimputati in un precedente giudizio. La Suprema corte accoglie il ricorso supportando la sua decisione con l’autorevole giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza 371 del 1996). In quell’occasione, ricorda la Suprema corte, la Consulta aveva affrontato il tema proprio in relazione ai reati a concorso necessario affermando l’esistenza di una incompatibilità a maglie strette per il giudice. La Corte costituzionale ha, infatti, chiarito che l’incompatibilità “sussiste non solo quando nel primo giudizio la posizione sia stata valutata a seguito di un puntuale ed esauriente esame delle prove raccolte a suo carico, ma anche quando abbia formato oggetto di una delibazione di merito superficiale e sommaria, apparendo anzi, in questa seconda ipotesi, ancor più evidente e grave la situazione di pregiudizio nella quale il giudice verrebbe a trovarsi”. Nel caso esaminato la posizione del ricorrente era stata di fatto già valutata nel merito: la corte d’appello aveva infatti contestato l’aggravante del numero di persone superiore a dieci, essendo l’associazione composta oltre che dai quattro imputati giudicati con rito abbreviato, anche da altri soggetti specificamente menzionati, tra i quali c’era il ricorrente. Se costituire una new company provoca la bancarotta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 17163/2018. Anche una classica scissione, con la separazione delle passività lasciate in una bad company e dalle attività che vengono trasferite in una good company, può condurre alla bancarotta fraudolenta, se organizzata per far fallire la prima e provocare un grave danno ai suoi creditori. Per la Cassazione, sentenza n. 17163 della Quinta sezione penale, è così penalmente rilevante la cessione di un ramo d’azienda da una società già esistente, ma in considerevole calo di fatturato (indotto dall’informativa atipica antimafia e da accertamenti fiscali per omesse contribuzioni) a una newco. A quest’ultima venivano ceduti forza lavoro, macchinari e contratti di appalto, a condizioni del tutto sfavorevoli: non era previsto un termine per effettuare i pagamenti, dei quali peraltro neppure venivano individuate le modalità, e neppure erano state stabilite garanzie da parte della newco stessa. “Condotte che - chiosa la Cassazione -, all’evidenza, hanno comportato un distacco di beni e di attività senza adeguata contropartita, con conseguente compromissione dell’integrità del patrimonio sociale della fallita e della garanzia dei creditori”. In termini generali, la Cassazione ricorda che, in caso di scissione attraverso la costituzione di una nuova società, l’assegnazione a quest’ultima non rappresenta di per sé un fatto di distrazione. Serve piuttosto una valutazione in concreto, richiama la Cassazione, che tenga conto della effettiva situazione debitoria che interessava la società poi fallita al momento della scissione. Uno schema civilisticamente lecito come la scissione infatti, può essere utilizzato per realizzare uno scopo penalmente illecito. Quanto alle singole operazioni, rileva la Corte, va tenuto presente come queste, anche se astrattamente riconducibili a una categoria di atti gestionali leciti e disciplinati dall’ordinamento (è il caso, per esempio, dell’affitto di azienda con oggetto l’intero complesso aziendale della fallita, in maniera tale da privarla della possibilità di proseguire l’attività), possono tuttavia essere realizzate con modi e tempi che di fatto possono portare a effetti di sensibile impoverimento del patrimonio, con conseguente pregiudizio a danno dei creditori. Questi ultimi infatti sono sì tutelati dall’ordinamento, ma in una maniera che la sentenza considera non idonea a escludere interamente il danno: possono infatti rivalersi sui beni conferiti alle o alla società beneficiaria, ma prima devono trovarli e poi potrebbero essere in concorrenza con altri creditori, quelli delle società beneficiarie. L’export irregolare in Svizzera del dipinto costa il carcere di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 17 aprile 2018 n. 17116. I Supremi giudici hanno confermato il carcere per l’esportazione in Svizzera senza apposita licenza del dipinto a olio “Ritratto di Isabella d’Este” attribuito a Leonardo da Vinci. È quanto emerge dalla sentenza della Cassazione n. 17116/18. La Corte si è trovata alle prese con una vicenda in cui - a fronte del passaggio transalpino - del celebre dipinto la Corte d’appello di Ancona si era pronunciata per la condanna di chi aveva progettato e messo in opera il disegno alla pena di un anno e due mesi di carcere, ritenendoli responsabili del reato ex articolo 174 del Dlgs 42/2004 (Codice dei beni culturali). I due imputati hanno proposto ricorso in Cassazione. La sentenza, tuttavia, ha evidenziato come l’opera si fosse trovata in Italia per essere poi trasportata in Svizzera e non come riteneva la difesa che si fosse trovata nel Paese elvetico e che quindi si sarebbe trattato di una trattativa tra privati all’estero. A dimostrazione di ciò i giudici hanno richiamato la perizia effettuata da un professionista e storico dell’arte residente a Modena. Il tutto poco tempo prima che l’opera fosse rinvenuta in un caveau di una banca di Lugano. I soggetti peraltro si erano recati diverse volte presso l’istituto bancario proprio per consentire la visione dell’opera. Da evidenziare poi come sia stato precisato che l’operazione di export non poteva costituire nemmeno un tentativo di sottrarre la somma incamerata dalla vendita al prelievo del Fisco. Questo perché il vigente ordinamento non prevede alcuna tassazione per la vendita di beni personali a meno di non esser oggetto di attività imprenditoriale. Questo perché l’articolo 67 del Tuir che disciplina la tassazione dei cosiddetti redditi diversi non prevede fra questi quelli provenienti da realizzo di plusvalenze per la vendita di opere d’arte. L’imputazione e la condanna hanno quindi un’origine diversa legata al trasferimento all’estero - senza apposita licenza - di un bene avente rilevante interesse storico, il tutto (immaginano i Supremi giudici) ritenendo la Svizzera un Paese ove poter realizzare una somma maggiore rispetto all’Italia. La Cassazione ha così posto un’ulteriore tassello alla vicenda a seguito della sentenza n. 9156/2017 con la quale era stata disposta la confisca sul celeberrimo dipinto leonardesco. La precedente decisione aveva ricostruito la storia ricordando come il dipinto fosse stato sequestrato in Svizzera, perché ritenuto illecitamente esportato dall’Italia. La Cassazione perciò aveva confermato il blocco del bene disposto dal Tribunale di Pesaro. Il quadro della situazione ora sembra essere davvero completo. La sentenza odierna ha condannato i due imputati al carcere mentre il dipinto di Leonardo resta confiscato in Italia. Sardegna: dalla Regione 170 mila euro per il reinserimento dei carcerati regione.sardegna.it, 18 aprile 2018 Accordo tra Regione e tribunale di Cagliari: detenuti al lavoro per la dematerializzazione dei fascicoli. Offrire un’opportunità lavorativa a persone sottoposte a misure detentive e allo stesso tempo aiutare l’amministrazione giudiziaria a snellire il funzionamento dei suoi uffici: è il cuore dell’accordo tra l’Aspal (Agenzia sarda per le politiche attive per il lavoro) e il Tribunale di Cagliari, siglato alla fine dello scorso anno e integrato nei giorni scorsi con ulteriori risorse. In totale 170 mila euro che l’Aspal ha già cominciato a erogare ai lavoratori, detenuti autorizzati al lavoro esterno, impegnati in particolare in attività di dematerializzazione dei fascicoli processuali. Al momento i destinatari del progetto sono cinque e, di questi, tre sono stranieri. “È un accordo importante, un esempio concreto dell’attenzione che stiamo dando all’inclusione e al reinserimento sociale e lavorativo dei soggetti più deboli della nostra società”, dice il presidente della Regione Francesco Pigliaru. “Un buon progetto che replicheremo con altri tribunali della Sardegna”. “Non vogliamo che nessuno sia lasciato indietro - aggiunge l’assessore regionale al Lavoro Virginia Mura - per questo pensiamo anche a questa fascia particolarmente fragile di soggetti, sapendo che il lavoro rappresenta fonte di dignità e occasione di riscatto”. Le attività previste dall’accordo, siglato dal direttore generale dell’Agenzia, Massimo Temussi, e dal presidente del Tribunale di Cagliari, Mauro Grandesso Silvestri, sono affidate alla Comunità La Collina, come gestore individuato dal Tribunale di Cagliari. L’Agenzia si occupa della gestione dei progetti di inserimento personalizzati e provvede a erogare le risorse destinate ai lavoratori che durante le ore in tribunale potranno acquisire importanti competenze in materia digitale, spendibili una volta terminato il periodo detentivo, nel mercato del lavoro. L’accordo non è l’unico che vede la collaborazione stretta tra l’assessorato regionale del Lavoro e l’Aspal con il ministero della Giustizia: in campo ci sono anche i tirocini destinati a giovani laureati nelle discipline giuridiche ed economiche per la verifica e ottimizzazione dei processi lavorativi degli uffici giudiziari e altre collaborazioni, come quella con il Centro di Giustizia minorile, che hanno riguardato l’inclusione socio-lavorativa, rivolgendosi a soggetti particolarmente fragili come i giovani detenuti. Milano: in carcere entra il design, architetti e detenuti progettano spazi e arredi Redattore Sociale, 18 aprile 2018 Mostra nell’ambito del Fuorisalone di Milano. Gli arredi, pensati per essere più adatte alla vita dei reclusi e alla mancanza di spazio, verranno montati in una cella del carcere di Bollate per testarli e arrivare a produrli in serie. Dopo la libertà e gli affetti, quel che manca di più a ogni detenuto è lo spazio. In cella non c’è spazio. Uomini, arredi e oggetti di vita quotidiana devono stringersi in pochi metri quadrati. E allora la grata della finestra diventa la dispensa dei cibi che, almeno in inverno, possono stare al freddo. Il bagno è l’unico angolo in cui ci si può sedere. Dato che gli armadietti sono ridotti al minimo, ogni altro arredo (come per esempio la rete del letto) diventa un punto a cui agganciare qualcosa. Un gruppo di architetti e designer, insieme ad alcuni detenuti del carcere di Bollate, ha provato però a immaginare una cella diversa. Stessi metri quadrati, ma con arredi diversi, più funzionali. È nato così il progetto “FornitureforAll!”. E la prima tappa di questo progetto è la mostra, “Stanze sospese”, che è visitabile alla Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri (in via Santa Marta) a Milano, nell’ambito delle iniziative del Fuorisalone. Designer e detenuti hanno lavorato insieme per sei mesi e sono arrivati a progettare una cella in cui il letto a castello riserva preziosi angoli per il guardaroba, alle pareti ci sono “barre multiuso” che possono trasformarsi in mensole, appendi abiti o possono sostenere anche un tavolino smontabile e le sedie. Il tutto in plastica dura riciclata. Nella mostra “Stanze sospese” il visitatore trova tre celle: una che riproduce una vera cella del carcere di Bollate, una riprogettata con le soluzioni alternative e la terza con alcuni arredi pensati per le stanze dell’Icam, l’Istituto di custodia attenuata in cui sono rinchiuse le detenute con figli piccoli fino a cinque anni d’età. Per i bambini è stata progettata una sedia che si può modificare man mano che cresce e uno sgabello che include anche un gioco da tavolo. “FurnitureforAll!” è un progetto di design sociale nato dal dialogo tra la Fondazione Allianz Umana Mente. La produzione dei prototipi è stata realizzata dal Polo formativo Legno Arredo, mentre il laboratorio di falegnameria Arteticamente della Fondazione Sacra Famiglia ha prodotto alcuni arredi del progetto e una serie di gadget da distribuire a giornalisti e avventori. Gli arredi prototipati per la mostra “Stanze sospese” verranno montati nel carcere di Bollate per essere testati e modificati con l’intento arrivare a produrli in serie. Pistoia: reinserimento dei detenuti, nuovo bando della Società della salute lavocedipistoia.it, 18 aprile 2018 Nuovo bando della Società della Salute Pistoiese per la costituzione di una associazione temporanea di scopo (Ats) rivolto ad imprese e cooperative sociali, e soggetti pubblici e privati. Requisito per la partecipazione all’avviso è operare nel settore del recupero socio-lavorativo e dell’accompagnamento al lavoro di persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. La SdS selezionerà un massimo di sette soggetti fra quelli che presenteranno la manifestazione d’interesse, singolarmente o in raggruppamento. Alla stesura del progetto dovranno partecipare tutti i soggetti che a vario titolo hanno competenze e funzioni correlate alle attività progettuali di reinserimento socio-lavorativo di detenuti, condannati e messi alla prova (quali ad esempio: l’autorità penitenziaria, l’Uepe, la Sds Pistoiese e della Valdinievole, Centri per l’Impiego, Sert, Dipartimento della salute mentale). Le manifestazioni di interesse dovranno pervenire alla Società della Salute pistoiese tramite casella di posta elettronica certificata (Pec) all’indirizzo sdspistoiese@postacert.toscana.it entro le ore 12 di venerdì 20 aprile. Le domande in carta libera dovranno contenere la manifestazione d’interesse redatta secondo il modello che potrà essere reperito sul sito della stessa Società della Salute all’indirizzo www.sdspistoiese.it. Alba (Cn): per il carcere i milioni raddoppiano, ma i lavori ritardano di Francesca Pinaffo Gazzetta di Alba, 18 aprile 2018 Nel piano per l’edilizia penitenziaria valido dal 2018 al 2020, pubblicato sul sito del Ministero della giustizia il 22 marzo, c’è una novità: i fondi preventivati per la completa ristrutturazione della casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba sono passati da due milioni a quattro milioni e mezzo. E ci sarebbe anche un progetto, come testimonia l’incarico affidato l’anno scorso alla Magicom ingegneria di Roma, per un importo di 21mila e 500 euro. Peccato che nulla venga detto sulla data di inizio dei lavori, che secondo l’ultimo cronoprogramma reso noto dal ministro della giustizia Andrea Orlando avrebbero dovuto essere aggiudicati nei primi mesi del 2018, in modo da riaprire tutta la struttura entro la fine del 2019. Per fare chiarezza sulla questione, il garante comunale per i detenuti Alessandro Prandi ha scritto una lettera ai deputati e ai senatori cuneesi che sono stati appena eletti in Parlamento. Sono diversi gli aspetti sottolineati nella missiva, a partire dalla situazione di precarietà in cui versano le 116 persone che lavorano nella parte riattivata del Montalto, a rischio continuo di essere trasferite viste le dimensioni ridotte dell’attuale struttura, che non le occupa in modo sensato. L’attuale sistemazione degli spazi impedisce anche di svolgere a pieno le attività socializzanti a favore dei detenuti, che al momento sono 42, ospitati in 22 celle. Senza dimenticare il continuo deperimento di edifici, terreni e impianti, ormai abbandonati da più di due anni. L’ultimo aspetto riguarda le attività sociali, imprenditoriali, educative sui temi di legalità e di volontariato che sono nate attorno al carcere albese e che meritano di proseguire a pieno il loro impegno. Per questi motivi, il garante invita i parlamentari a “occuparsi della questione che interessa l’istituto penitenziario, le persone che ci lavorano, quelle che vi sono ospitate e in ultima analisi l’intera collettività”. Brescia: il carcere non basta di Luciano Zanardini lavocedelpopolo.it, 18 aprile 2018 Il 70% dei detenuti in assenza di misure alternative cade nella recidiva, in pratica esce dalla sua cella angusta e sovraffollata ma torna a delinquere. A Brescia torna, per la seconda edizione, la Giornata dell’esecuzione penale socialmente responsabile. L’obiettivo è quello di ribadire l’importanza dei percorsi risocializzanti. C’è un clima culturale in Italia che legge il carcere come l’unica soluzione e anzi pensa che inasprire le pene sia la sola strada percorribile. Quando, invece, semmai il problema è dato dalla certezza della pena e non dalla durata. Siamo figli di una generazione social dove il tema della sicurezza è all’ordine del giorno anche se i dati (furti, omicidi…) vanno in un’altra direzione. Siamo, poi, così sicuri che la nostra sicurezza è davvero garantita se le persone restano in carcere? I numeri sembrano dirci altro. Oggi nelle carceri italiane ci sono 58mila detenuti, 7.500 in più rispetto ai posti disponibili. Il 70% di questi in assenza di misure alternative cade nella recidiva, in pratica esce dalla sua cella angusta e sovraffollata ma torna a delinquere. Chi sconta, invece, la pena con sanzioni di comunità ha una recidiva del 19%. È facile comprendere le ricadute sociali. Lo Stato non deve privare il reo della dignità e della speranza. In Parlamento giace in fase di stallo la riforma dell’ordinamento penitenziario che di fatto ha il merito di aumentare i reati per i quali è possibile accedere alle misure di comunità (un tempo misure alternative alla pena). Qualcuno l’ha chiamata, a fini elettorali, una legge svuota carceri, ma le motivazioni sono chiaramente altre. È bello riflettere sul termine (“misure di comunità”) che chiama in causa tutti a una prova di responsabilità: la società civile rieduca e reinserisce il reo. Da questo punto di vista anche le parrocchie possono fare certamente qualcosa di più per allontanare lo stigma che accompagna il carcerato visto come un appestato dal quale tenersi alla larga. Molto probabilmente, dopo la sanzione del 2013, il Governo italiano sarà nuovamente oggetto delle attenzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Gli avvocati hanno annunciato due giorni di astensione dalle udienze per sollecitare la politica a un atto di coraggio. Nel frattempo giovedì 19 aprile a Brescia torna, per la seconda edizione, la Giornata dell’esecuzione penale socialmente responsabile. L’obiettivo, come sottolinea la garante dei detenuti Luisa Ravagnani, è quello di ribadire l’importanza dei percorsi risocializzanti. Sarà l’occasione anche per presentare il neonato Gruppo Verziano per i diritti umani al quale possono iscriversi tutti i detenuti, anche reclusi nei penitenziari degli altri Stati. Roma: detenute transessuali, l’esperienza dell’Associazione “Libellula” a Rebibbia di Rosario Murdica gaynews.it, 18 aprile 2018 Leila Pereira Daianis: “La vita delle detenute trans è segnata da particolari sofferenze”. Svolgere attività di volontariato nelle carceri italiane è sempre difficile soprattutto a causa di problemi legati al sovraffollamento e all’assenza di moltissimi servizi. Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia al 31 marzo 2018 i soggetti detenuti (compresi quelli in attesa di giudizio) sono 58.223, di cui 19.811 stranieri. Per le persone trans, poi, non abbiamo un numero preciso. Ma per loro il carcere è un luogo di ulteriori sofferenze caratterizzato da ghettizzazione e maggiore discriminazione. Da tempo nel Paese alcune associazioni trans e non operano all’interno di queste strutture con esperienza e professionalità. A Roma nella casa di reclusione di Rebibbia porta il suo sostegno e il suo aiuto l’Associazione Libellula. A Leila Pereira Daianis, che ne è esponente di spicco, abbiamo fatto alcune domande per comprendere qualcosa di più al riguardo. Le problematiche carcerarie legate alle persone transgender sono moltissime. Spesso si sente parlare di assenza di diritti anche i più elementari: è cosi? Era così ma attualmente, grazie all’intervento delle associazioni come Libellula, la situazione è migliorata e i diritti sono più rispettati. Nel carcere di Rebibbia nel “reparto trans” vi erano molti problemi ma noi abbiamo lavorato molto soprattutto per controllare i disagi e la conseguente collera delle detenute trans soprattutto in riferimento alla ghettizzazione. Abbiamo lavorato molto con incontri ma anche attraverso l’esperienza teatrale come strumento di consapevolezza e autostima. Quale sono le vostre principali iniziative all’interno e all’esterno del carcere in sostegno delle persone trans? Tutti i mercoledì, dalle ore 16:00 alle ore 18:00, teniamo aperto uno sportello e cerchiamo di ascoltare le loro esigenze e richieste. La maggior parte delle persone transgender detenute, essendo straniere, ha bisogno di contatto con le autorità diplomatiche dei loro Paesi per contattare i propri familiari. Quando escono cerchiamo di dare sostegno con una ricerca di lavoro e c’impegniamo a inviarle, secondo le diverse necessità, ad altri servizi territoriali. Alcune vengono rimpatriate e altre, invece, chiedono dal carcere protezione internazionale. Molte purtroppo tornano a prostituirsi, perché rassegnate come ex detenute o prostitute. La prostituzione per queste persone è l’unico mezzo di sostentamento. Alta presenza di persone trans immigrate in carcere. Puoi dirci quali sono i Paesi maggiormente rappresentati a Rebibbia? Al carcere di Rebibbia la maggior parte delle persone detenute trans sono soggetti MtF e straniere: 80% brasiliane, 7% colombiane, 5% argentine, 2% ecuadoriane, 2% peruviane, 1% marocchine, 1% tunisine. E poi per il 2% italiane. Come è oggi il rapporto tra voi volontari e l’istituzione carceraria a Roma? Dopo tanti anni di attività sono aumentate le azioni e sono cresciute le associazioni che intervengono nel reparto carcerario delle persone trans. Ho iniziato a svolgere la mia azione di volontariato quando ancora facevo parte de Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Nel 1998 si è costituita presso il Comune di Roma una Consulta cittadina permanente per i problemi penitenziari. E da allora ad oggi abbiamo realizzato tantissimi progetti sia a livello locale che nazionale per la tutela dei diritti delle e dei detenuti. Il Circolo Mario Mieli e l’Associazione Libellula hanno sempre avuto un’attenzione importante verso le persone detenute transgender. Numericamente quante siete a lavorare a Rebibbia? Di Libellula siamo in quattro ad alternarci. Le altre associazioni hanno sempre due persone ciascuna. C’è qualche storia di successo, conseguito col vostro operato, che puoi raccontarci? Purtroppo è difficile parlare di successo. Nel carcere le donne trans sono isolate nel reparto maschile dagli altri detenuti e quando escono sono ancora più fragili. Più di una ha affermato che si sente più protetta all’interno del carcere che fuori. Molte sono dipendenti da alcool e droga. Una, ad esempio, era felicissima perché una comunità cattolica per tossicodipendenti aveva promesso di accoglierla. Quando hanno però saputo che si trattava di una persona trans e per di più Rom hanno rifiutato, affermando che non c’erano più posto. Non abbiamo una casa per accogliere le persone trans in misura alternativa al carcere. Con riferimento, soprattutto, a soggetti MtF alcune sono riuscite ad essere rimpatriate e non vogliono mai più tornare in Italia. Altre sono uscite dalla detenzione e hanno trovato un compagno. Avere precedenti penali significa non trovare un lavoro e regolarizzarsi. Posso però affermare che per noi la storia di una donna trans brasiliana, laureatasi, in carcere può definirsi un grande un successo. Come quella d’una detenuta trans di nazionalità argentina che, condannata a una pena molta lunga, ha deciso di riprendere i suoi studi. E quest’anno inizia il primo anno d’Università. Ma questi casi sono purtroppo molto rari. Napoli: a Poggioreale #Guerradiparole 2018, duello di retorica tra detenuti e universitari Ansa, 18 aprile 2018 Un duello di retorica tra detenuti e studenti dell’Università Federico II sul tema del reddito di cittadinanza: si chiama #GuerradiParole e si terrà il 4 maggio a Napoli, nel carcere di Poggioreale. L’iniziativa, giunta alla terza edizione, è sostenuta per il secondo anno consecutivo da Toyota Motor Italia e è organizzata da PerLaRe, Associazione Per La Retorica. Insieme a Toyota, sono partner del progetto la Crui, Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, la Casa Circondariale Napoli Poggioreale e l’Università Federico II, insieme all’Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere UCPI e Carcere Possibile Onlus. La #GuerradiParole è un confronto dialettico che ha l’obiettivo di premiare la squadra maggiormente in grado di difendere la propria tesi con argomentazioni credibili e sintetiche, senza perdere la calma o insultare l’avversario. Un sofisticato esercizio di auto-controllo e di civiltà, che consiste nell’affermare le proprie ragioni solo con lo strumento pacifico della parola. Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare la vita e il lavoro, contesti in cui è inevitabile confrontarsi con opinioni diverse. I detenuti e gli studenti non avranno la possibilità di incontrarsi prima del giorno del dibattito. Ogni squadra parteciperà a quattro incontri formativi sui temi dell’oratoria e del linguaggio del corpo. Nel corso della formazione i detenuti e gli studenti avranno modo di imparare a costruire le argomentazioni e a gestire il corpo e la voce, grazie alle tecniche del teatro. I partecipanti non sono stati scelti sulla base del talento naturale ma esclusivamente per la loro motivazione. La #GuerradiParole non è un talent show, ma un esercizio che si ispira a un principio chiave di PerLaRe-Associazione Per La Retorica: tutti, attraverso l’applicazione e la conoscenza di alcune strategie, possono diventare oratori migliori. Le due squadre, composte da 20 persone ciascuna, sceglieranno autonomamente i loro portavoce, che li rappresenteranno nel dibattito del 4 maggio, nel corso del quale dovranno sostenere posizioni opposte che riguarderanno lo stesso argomento di attualità. La gara si svolgerà in due round di 20 minuti ciascuno. Allo scadere del round, le posizioni da sostenere si invertiranno. Il tema del dibattito di quest’anno sarà il reddito di cittadinanza. La giuria della #GuerradiParole è composta da: Mauro Caruccio, amministratore delegato di Toyota Motor Italia; Valeria Della Valle, socia dell’Accademia della Crusca; Francesco Montanari, attore; Ludovico Bessegato, produttore creativo tv; Gaetano Eboli, magistrato di sorveglianza; Vincenzo Siniscalchi, avvocato penalista; Ema Stokholma, Dj e conduttrice radiofonica; Alessio Falconio, direttore di Radio Radicale; Francesco Piccinini, direttore di Fanpage. Per assistere alla #GuerradiParole, è necessario iscriversi inviando un’email a info@perlaretorica.it entro il 21 aprile 2018, specificando nome, cognome, luogo e data di nascita. Napoli: passione civile e solidarietà, un premio per Antonio Mattone di Ciriaco M. Viggiano Il Mattino, 18 aprile 2018 “Un bell’esempio di passione civile e umana solidarietà”: è con queste parole che la fondazione “Giuseppe Moscati Sorrento” ha deciso di premiare la Comunità di Sant’Egidio e il suo rappresentante Antonio Mattone, autore del libro “E adesso la palla passa a me” (Guida Editori). Il riconoscimento sarà assegnato giovedì nell’hotel Vesuvio, nel corso della giornata di apertura di Sorrento Breathing, il congresso cui fino a sabato parteciperanno illustri esponenti del mondo medico. Nata nel 2015 con l’obiettivo di supportare la ricerca medica, in particolare quella rivolta alle malattie toraciche, e di sostenere quanti sono considerati “figli di un Dio minore”, soprattutto nel mondo della sanità, la fondazione “Giuseppe Moscati Sorrento” premia quanti si siano distinti nella difficile arte dell’amore verso il prossimo. “Quest’anno - spiega il presidente Paolo Zamparelli - la scelta è ricaduta sulla celebre e universalmente stimata Comunità di Sant’Egidio e sul suo portavoce Antonio Mattone, autore di un toccante libro nato dalle sue esperienze al servizio dei carcerati con tutto il loro carico di solitudine e la loro voglia di riscatto”. Ai premiati, dunque, un encomio solenne e una targa celebrativa “per ciò che fanno in aiuto del prossimo”. Nel 2017, nell’ambito di Sorrento Breathing, era stata premiata l’associazione “Medici di Strada” fondata da don Gennaro Matino, nella persona di Bruno Casaretti, sempre in prima linea per i più bisognosi. Quest’anno, oltre a Mattone e alla Comunità di Sant’Egidio, saranno protagonisti Alessandro Sanduzzi Zamparelli, direttore della Clinica Pneumotisiologia dell’Università “Federico II” di Napoli, e Alessandro Vatrella, direttore di Malattie dell’Apparato Respiratorio dell’Università di Salerno, recentemente nominati professori ordinari dopo aver superato l’esame di abilitazione nazionale, che rappresentano un vanto per la pneumologia in Campania. Modena: metti il rock dietro alle sbarre di Sara Donatelli Gazzetta di Modena, 18 aprile 2018 Nel carcere modenese è nata una band di detenuti musicisti L’iniziativa grazie all’associazione Rock No War guidata da Giorgio Amadessi. La musica come forma di riscatto, come mezzo attraverso il quale ricostruire la propria vita, uno strumento di cui servirsi per reinserirsi all’interno delle dinamiche sociali esterne al carcere. È questo il principale obiettivo dell’iniziativa, giunta ormai al suo sesto appuntamento, che si svolge presso il carcere Sant’Anna di Modena e che ha come protagonisti i detenuti i quali, grazie all’impegno dell’associazione Rock No War, stanno divenendo passo dopo passo veri e propri musicisti. E ad aiutarli giovedì c’erano anche Marco Ligabue e Johnny La Rosa. La musica come forma di riscatto, come mezzo attraverso il quale ricostruire la propria vita, uno strumento di cui servirsi per reinserirsi all’interno delle dinamiche sociali esterne al carcere. È questo il principale obiettivo dell’iniziativa, giunta ormai al suo sesto appuntamento, che si svolge presso il carcere Sant’Anna di Modena e che ha come protagonisti i detenuti i quali, grazie all’impegno dell’associazione Rock No War, stanno divenendo passo dopo passo veri e propri musicisti. Ne hanno dato prova l’altro giorno durante l’incontro dal titolo “Rock is Free”: sono stati infatti proprio i detenuti, uniti in una band chiamata “Sing Sing” che debutterà ufficialmente il 21 giugno, ad esibirsi in nuovi e vecchi brani scritti proprio da loro. “Per me la musica è tutto- ha raccontato Cristian, uno dei membri del gruppo-. Mi trasmette tutta una serie di emozioni che non riesco a spiegare, colma i momenti vuoti e riempie il tempo perduto. Credo davvero che questo progetto sia il miglior strumento di reinserimento che ci è stato messo a disposizione”. A sottolineare l’importanza della musica in un contesto complesso come quello carcerario anche un altro detenuto, Vincenzo: “Tutto questo ci fa credere in noi e nella nostra forza, nonostante il mondo in cui viviamo la nostra quotidianità. È proprio la musica a darmi la speranza, una speranza che lotta ogni giorno contro la cattiveria del mondo, contro la depressione dentro la quale puoi sprofondare se vivi i tuoi giorni in carcere”. A seguire la band creata dai detenuti è Natalino Di Mezzo, volontario dell’associazione “Rock no War”, il quale ogni lunedì va al Sant’Anna per guidare i ragazzi nella stesura dei testi, nella cura delle melodie e nelle prove del gruppo. Tutti i detenuti che hanno suonato hanno ringraziato Natalino per il lavoro che sta svolgendo e a farlo è anche il presidente dell’associazione, Giorgio Amadessi: “Ogni volta che assistiamo a questi eventi è un’emozione nuova. Abbiamo compreso quanto questo progetto sia importante per i detenuti, lo leggiamo nei loro occhi che sono totalmente cambiati rispetto alla prima volta che li abbiamo conosciuti. Siamo contenti di questo, è la nostra più grande ricompensa”. Ospite dell’iniziativa il cantante Marco Ligabue che con la sua grinta ha coinvolto tutti i presenti; “Non è la prima volta che suono in un carcere - ha dichiarato - ma mi rendo conto di come ogni volta sia diverso, perché diverse sono le storie delle persone che ho davanti. Persone nei cui occhi leggo una grinta ed una voglia di rivincita che solo la musica ti sa dare. È questo il messaggio importante: trovare sempre la forza e il coraggio di affrontare le sfide”. Privacy. Gli utenti raggiunti da Cambridge Analytica potrebbero essere più di 87 milioni di Andrea Daniele Signorelli La Stampa, 18 aprile 2018 Prima 50 milioni, poi 87 milioni. E adesso si scopre che gli utenti coinvolti nello scandalo Cambridge Analytica potrebbero essere molti di più. Il sospetto - che, in relazione all’Italia, era già stato ventilato dal garante della Privacy - fa seguito alle dichiarazioni della ex dipendente di Cambridge Analytica Brittany Kaiser. Davanti a una commissione parlamentare britannica, Kaiser ha infatti affermato che il quiz This Is Your Digital Life - progettato da Aleksandr Kogan e attraverso il quale sono stati raccolti i dati personali degli iscritti a Facebook - era solo uno dei tanti utilizzati dalla società fondata da Alexander Nix. “I questionari e i dataset di Kogan non erano gli unici test collegati a Facebook utilizzati da Cambridge Analytica”, ha spiegato la ex dipendente. “Sono a conoscenza, in senso generale, di un’ampia gamma di sondaggi, che solitamente sfruttavano il login di Facebook, utilizzati da CA o dai suoi partner; tra cui il quiz del ‘sex compass’”. Come nel caso dell’ormai noto quiz sulla personalità, anche tutti gli altri questionari messi a punto per raccogliere dati avrebbero quindi raccolto informazioni attraverso l’account degli utenti di Facebook. Ed è per questa ragione che il numero di persone coinvolte potrebbe essere molto più alto degli 87 milioni di cui si è parlato finora: “Quando mi sono unita alla compagnia, il team creativo, quello psicologico e quello scientifico lavoravano assieme per progettare alcuni di questi questionari”, ha spiegato ancora Kaiser. “Per quanto ne so, esistono almeno altri due quiz: il sex compass e un altro a tema musicale, entrambi separati dal questionario di Aleksandr Kogan. Di conseguenza, si può dedurre o insinuare che gli utenti i cui dati sono stati compromessi sono molti più di quelli che hanno partecipato al test di Kogan”. Per suffragare questi sospetti, bisognerebbe però anche conoscere cosa fosse scritto nei “termini e condizioni” di queste altre app; come infatti sembra sottolineare Facebook in una risposta al Guardian: “Stiamo conducendo indagini su tutte le app che hanno avuto accesso a una grande massa di informazioni prima che cambiassimo la nostra piattaforma, nel 2014, in modo da ridurre drasticamente l’accesso ai dati. Condurremo un’attenta ispezione di ogni applicazione con attività sospette”. Ma i sospetti lanciati da Brittany Kaiser vanno oltre e coinvolgono direttamente la campagna elettorale in favore della Brexit svolta attraverso il sito Leave.eu; che avrebbe condotto azioni illegali sfruttando i dati personali dei clienti della società di assicurazioni Eldon (di proprietà di Arron Banks, magnate e finanziatore del Leave), del database dello UKIP (il partito in prima linea per la Brexit) e degli iscritti al sito Leave.eu. “Ho assistito in prima persona a delle possibili violazioni del Data Protection Act, riguardanti l’utilizzo di dati personali e commerciali”, ha spiegato ancora la ex dipendente. Questo utilizzo improprio dei dati, secondo Kaiser, sarebbe stato richiesto da Arron Banks in persona, che avrebbe anche utilizzato alcuni suoi dipendenti per svolgere il lavoro di raccolta dati utili a promuovere la campagna in favore della Brexit. Migranti. Lettera a un coetaneo razzista di Lala Hu Corriere della Sera, 18 aprile 2018 Leaticia Ouedraogo è una studentessa di 20 anni, originaria del Burkina Faso, che vive in Italia con la sua famiglia da quando ne aveva 11. Dalla provincia di Bergamo, due anni fa si è spostata a Venezia per studiare Lingue. Leaticia collabora anche, part-time, in una delle biblioteche dell’Università Cà Foscari di Venezia, alle Zattere. Ed è proprio in questo luogo di studio, ma anche di dibattiti e mostre, che all’indomani delle elezioni del 4 marzo 2018 sono apparse nei bagni dei maschi delle scritte, corredate da svastica e croce celtica, inneggianti al fascismo e alla violenza razziale: “W il Duce. Onore a Luca Traini. Uccidiamoli tutti sti negri”. Scritte non tollerabili in un ambiente di studio, di approfondimento e crescita personale e collettiva, e che fanno ancora più male se si pensa che possa averle scritte un tuo compagno di corso, oppure uno studente con cui hai interagito direttamente, magari per rinnovargli la tessera bibliotecaria. Lo sfregio ha turbato profondamente Leaticia perché lo stesso giorno, il 5 marzo 2018, è stato ucciso a Firenze di Idy Diene, ambulante senegalese. Gesto di un folle, Roberto Pirrone, di possibile matrice razzista. Scossa da questi eventi, Leaticia ha preso letteralmente carta e penna e ha scritto a mano una lettera all’autore delle scritte, lettera poi trascritta e pubblicata come post su un blog locale, divenuta in breve tempo virale. Leaticia domanda al coetaneo razzista: “Come puoi pensare di uccidere qualcuno solo per il colore della sua pelle? Cosa può distorcere così tanto da volere uccidere qualcuno perché non è bianco? Cosa otterresti dalla mia morte?”. E invita l’autore a venire parlare con lei, a spiegarle i motivi di questo odio, che non può essere giustificato solo dal colore della pelle. Leaticia sostiene che il valore più grande dell’umanità sia l’universalità “perché di umanità ve n’è una sola” e augura allo sconosciuto di vincere i suoi mostri oscuri che si nutrono delle sue paure, della sua ignoranza, ma anche della sua ingenuità. Parole cariche di umanità rivolte non solo all’autore della lettera, ma che invitano a riflettere tutti, affinché atti di odio come quello di Macerata e Firenze non avvengano più. La lettera di Leaticia ha suscitato molte reazioni da parte di coetanei, sconosciuti, persone che hanno voluto rispondere direttamente alla studentessa per esprimere la propria condanna alle scritte. Come per ogni contenuto virale, sono arrivate anche delle risposte polemiche, ma in numero limitato. Un clamore inaspettato da parte di Leaticia, ma che ha favorito il dibattito e il confronto in una società dove purtroppo l’odio razziale viene fomentato e si diffonde anche nei luoghi a noi più familiari. Nel futuro, Leaticia sogna di poter entrare alla Normale di Parigi e di lavorare nel campo delle relazioni internazionali tra Africa e Europa o tra Africa e Cina. Un secondo progetto riguarda invece la creazione di un’associazione in Italia che favorisca la diffusione della cultura africana, soprattutto fra i giovani di seconda generazione. Perché possano diventare più consapevoli della loro pluralità afro-italiana ed essere protagonisti dei cambiamenti nella società. Droghe. Lsd 75 anni dopo, la parola alla scienza di Bernardo Parrella Il Manifesto, 18 aprile 2018 Alle 16.20 del 19 aprile 1943 il Dr. Albert Hofmann, chimico svizzero allora 37enne, fu la prima persona al mondo a sperimentare intenzionalmente gli effetti psichedelici dell’Lsd nei Laboratori Sandoz di Basilea (ora Novartis). Ne ingerì 25 millesimi di grammo. Poco dopo le vertigini e le distorsioni visive lo convinsero a tornarsene a casa in bicicletta, accompagnato dal suo assistente. L’auto-esperimento voleva confermare quanto provato tre giorni prima, quando ne aveva assorbito accidentalmente una goccia via pelle. E intendeva riprendere certe intuizioni sulla sintesi iniziale, cinque anni prima, della dietilammide-25 dell’acido lisergico, un composto presente nell’ergot, un fungo parassita della segale. Le riflessioni di quella giornata storica e le potenzialità della sostanza come strumento d’indagine in neurologia e psichiatria, sono state poi raccolte da Hofmann nel libro-memoria Lsd il mio bambino difficile (1979). Nel saggio scriveva fra l’altro di aver “sperimentato un flusso ininterrotto di immagini meravigliose, forme straordinarie con un intenso gioco caleidoscopico di colori”, senza nascondere qualche momento d’ansia. Un’esperienza decisamente fuori dall’ordinario che lo convinse a dedicare il resto della vita allo studio dell’Lsd e alla promozione della cultura psichedelica. Il primo “trip” della storia, che aprì le porte (della percezione) a un’epoca nuova per la ricerca sugli allucinogeni. Nei 15 anni successivi l’editoria medico-scientifica pubblicò oltre un migliaio di studi per il trattamento di disturbi quali schizofrenia, autismo, depressione, alcolismo, con riscontri generalmente positivi, perfino ottimisti. Promesse bruscamente interrotte a metà degli anni ‘60, in gran parte per via della diffusione incontrollata dell’Lsd dopo gli esperimenti cognitivi di Timothy Leary ad Harvard. Il clamore legato a certi eccessi della controcultura e l’annessa campagna di disinformazione portarono a bandirne l’uso sia per scopi personali che scientifici. Con il Controlled Substances Act voluto da Richard Nixon (1971) gli psichedelici furono inseriti nella classificazione più restrittiva prima in Usa e poi nel resto del mondo. Fortunatamente negli ultimi tempi il fronte proibizionista va cedendo anche su questo terreno, con la ripresa degli esperimenti di 50 anni fa, dai test clinici con Mdma e psilocibina per la cura di Dpts, depressione e dipendenze, alle inedite scansioni hi-tech del cervello di soggetti sotto Lsd. Oltre a sviluppi artistico-creativi e studi interdisciplinari nel campo emergente dell’espansione della coscienza e dell’alterazione della mente umana. Un vero e proprio rinascimento psichedelico che va innervando il pianeta. Questo il contesto rimarcato dalla “giornata della bicicletta”, nata nel 1985 come un evento locale organizzata dal Prof. Thomas Roberts presso la Northern Illinois University e divenuta celebrazione annuale che oggi interessa molte città e situazioni. Sotto il titolo “75 anni di esperienze”, la Maps (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies) dedica all’evento l’intero mese di aprile, raccogliendo video-racconti (“1-2 minuti per dire al mondo qual è per te l’importanza dell’Lsd”) e proponendo dei webinar per saperne di più sul suo impatto in scienza, medicina, cultura, arte e politica. Su Twitter l’hashtag #bicycleday va popolandosi di rilanci per eventi previsti da Baltimora a Los Angeles a Melbourne, con un intero fine-settimana nel centro di Basilea. Il Dr. Hofmann, scomparso nel 2008 a 102 anni, va ringraziato per averci regalato una sostanza le cui potenzialità scientifiche meritano sempre più attenzione e rispetto. Austria. Vienna prepara l’ennesimo giro di vite contro i richiedenti asilo di Angela Mayr Il Manifesto, 18 aprile 2018 Controlli di polizia su cellulari e cure mediche e pagamento delle spese per il vitto. Secondo molti commentatori austriaci quelle che Vienna si accinge a varare sono le misure “più restrittive mai viste finora” nei confronti dei richiedenti asilo. Dopo averle promesse in campagna elettorale, la coalizione tra i popolari del premier Sebastian Kurz e l’estrema destra di Heinz-Christian Strache si prepara a varare nel consiglio dei ministri di oggi un nuovo giro di vite per quanto riguarda il diritto di asilo. A confermarlo, vantandosi per questo, è stato il ministro degli interni Herbert Kickl, ideologo e ala estrema della Fpoe. Se sprovvisti di documenti, i richiedenti asilo dovranno mettere a disposizione della polizia i propri telefoni o tablets in modo da poter ricostruire gli itinerari che li hanno condotti in Austria. Un modo per capire più facilmente se si tratta di “casi Dublino” in modo da poterli trasferire subito nel Paese di primo ingresso Ue. Secondo il ministro degli interni verranno controllati solo i geo-dati, gli indicatori di luogo e non le comunicazioni personali. Non è previsto però nessuna tutela dei dati personali. Un’altra forma di controllo dei rifugiati deriva dalle nuove regole che si vogliono prescrivere a ospedali e medici che in futuro potrebbero essere obbligati a comunicare alle autorità scadenze mediche e durata dei trattamenti sanitari ai quali i profughi sono stati sottoposti in modo di impedire che il ricorso a cure mediche venga utilizzato per sottrarsi alle autorità. L’informazione sulla durata dei trattamenti sarebbe un obbligo in primo luogo nei casi di richiedenti da espellere in seguito al rigetto della domanda di asilo. L’ordine dei medici austriaco si è riservato di esprimersi quando conoscerà il testo della nuova legge, ma ha comunque chiarito che anche per i dati sulla durata dei trattamenti dei pazienti o il rilascio dall’ospedale vale l’obbligo di segretezza. Ma non finisce qui: i richiedenti che portano con sé denaro verranno infatti obbligati a dare un proprio contributo economico per il sostentamento di vitto e alloggio fornito dallo stato pagando 840 euro a testa. “Per questo dovranno subire un’ispezione corporea come quelle in uso nelle carceri”, ha criticato la deputata Daniela Holzinger della lista Pilz (fondata dall’ex deputato verde Peter Pilz). Inoltre servirà più tempo per acquisire la cittadinanza austriaca, 10 anni, contri i sei necessari oggi- Guai poi se un rifugiato fa un viaggio nel paese di origine: in questo caso si innesca una procedura di perdita della protezione e al disconoscimento del diritto d’asilo. Rigide anche le norme di residenza. I richiedenti asilo hanno l’obbligo di residenza nella regione che fornisce la “Grundversorgung”, il sostentamento base. Nel caso di diniego definitivo o di prevista espulsione i richiedenti hanno l’obbligo di soggiorno nella zona. Non finisce qui, ce n’è anche per richiedenti asilo che sono stati condannati e finiti in prigione. Finita la pena in prigione al posto della libertà le nuove norme prevedono il passaggio a un centro di detenzione. In questo modo si vuole impedire che si perdano le tracce dei richiedenti asilo per i quali è prevista l’espulsione. Dal 2010 in Austria vi sono state dozzine di cambiamenti della legge d’asilo e migrazione e quattro riforme più grandi. “C’è un susseguirsi di emendamenti e rivisitazioni a ritmo frenetico che non può funzionare” aveva criticato il presidente uscente della Corte costituzionale austriaca Gerhart Holzinger in dicembre perché “l’apparato che dovrebbe eseguire queste leggi, a ritmo mensile o semestrale se ne trova delle nuove”. Sudan. Il Presidente ha ordinato il rilascio di tutti i prigionieri politici del Paese di Francesco Manta occhidellaguerra.it, 18 aprile 2018 Il Presidente della Repubblica del Sudan, Omar Hassan al-Bashir, ha emesso martedì un decreto repubblicano che libera tutti i detenuti politici nel Paese. La decisione è arrivata in risposta agli appelli dei partiti politici e delle forze del Dialogo Nazionale, riferisce l’agenzia di stampa nazionale sudanese Suna. Il decreto ha stabilito che il rilascio dei detenuti politici ha lo scopo di rafforzare lo spirito di accordo nazionale e di pace, determinato dal dialogo nazionale, politico e sociale, per creare il clima appropriato per il lavoro nazionale e aprire le porte per la partecipazione di tutte le forze politiche in deliberazione su questioni nazionali per il futuro, nonché sui passaggi per redigere la Costituzione permanente del Paese. Suna ha sottolineato che il Presidente della Repubblica ha fatto riferimento a tali questioni nella sua dichiarazione davanti all’assemblea nazionale, all’inizio di questo mese. Nel frattempo, il ministro dello Stato e il direttore degli uffici presidenziali, Hatem Hassan Bakheet, ha dichiarato che le autorità competenti hanno immediatamente adottato la decisione del presidente sul rilascio dei detenuti politici. Tale decisione viene da un regime, con a capo proprio al-Bashir, salito al potere nel 1989 in seguito ad un colpo di Stato islamista, accusato per decenni di aver perpetrato violazioni dei diritti umani sulla propria popolazione, specialmente nell’ormai autonomo ed indipendente Sudan del Sud, il Darfur. Per tale ragione, infatti, su Bashir pende un’accusa per crimini di guerra da parte della Corte penale internazionale. Tuttavia, da alcuni mesi, si intravede uno spiraglio di apertura democratica nel Paese, con la nomina di un vice presidente, e la volontà di Bashir di non presentarsi alle prossime elezioni presidenziali del 2020. Molti gruppi hanno tuttavia boicottato l’iniziativa, chiedendo a Bashir di abrogare prima quei provvedimenti che descrivono come sicurezza repressiva e leggi sulla stampa e liberare i detenuti politici. Suna non ha specificato quanti prigionieri politici la decisione avrebbe interessato, tantomeno i nomi di nessuno di quelli che dovrebbero essere rilasciati. Il mese scorso Bashir ha ordinato la liberazione di circa 80 detenuti politici, alcune settimane dopo essere stati arrestati a causa delle proteste in tutto il Paese per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e le misure di austerità in corso. I gruppi di opposizione hanno detto che circa 50 detenuti politici rimangono in prigione, tra cui il famoso politico Mohamed Mokhtar al-Khatib, il leader del Partito Comunista del Sudan. Centinaia di Darfuri sono tuttora detenuti in detenzione dal Servizio nazionale di intelligence e sicurezza (NISS), nonostante l’ordine emesso dal presidente Al Bashir lo scorso mercoledì. La prigione di Kober a Khartoum e il carcere di Port Sudan detengono ancora 61 detenuti del Maaliya che sono stati lì per più di nove mesi, insieme ad altri sette studenti dell’UPC che sono stati arrestati dopo aver organizzato discorsi nel mercato Bahri di Khartoum l’anno scorso. Da anni, tuttavia, le cancellerie occidentali collaborano con il regime di Bashir, nell’ottica di politiche bilaterali di prevenzione del terrorismo internazionale e di controllo dei flussi migratori che, attraverso l’Egitto e la Libia, giungono sulle coste meridionali dell’Europa. Trump ha infatti già rimosso una serie di sanzioni che pendevano in capo al Sudan, ed ha promesso di rimuoverlo dalla blacklist degli Stati sponsor del terrorismo internazionale di matrice islamista, anche se tuttavia non è stato ancora preso nessun provvedimento in tal senso. L’Unione europea, altresì, ha sottoscritto con Khartoum un memorandum d’intesa sulle politiche di cooperazione in materia di antiterrorismo e controlli delle migrazioni, sempre in un’ottica di revoca delle sanzioni. Myanmar. Perdono presidenziale per oltre 8mila detenuti asianews.it, 18 aprile 2018 Tra essi 6mila detenuti condannati per droga, 2mila membri delle forze armate e di polizia e 36 prigionieri politici. L’ufficio del neo-eletto presidente: “È per portare pace e gioia nel cuore della gente”. Il nuovo presidente del Myanmar ha annunciato questa mattina che più di 8mila prigionieri saranno liberati in un’amnistia. Fonti governative affermano che il perdono presidenziale, firmato dal neo-eletto Win Myint, rappresenta un gesto di pace ed è parte delle celebrazioni per il nuovo anno birmano. “Al fine di portare pace e gioia nel cuore della gente, e per il sostegno umanitario, 8.490 prigionieri nelle carceri riceveranno la grazia”, si legge in una nota diffusa dall’ufficio presidenziale. Attraverso un post su Facebook, il portavoce del governo Zaw Htay riferisce che sono interessati dal provvedimento oltre 6mila detenuti che sono stati condannati per reati legati alla droga. Ad essi si aggiungono quasi 2mila membri delle forze armate e di polizia del Myanmar, reclusi ai sensi della Legge militare o della Legge disciplinare di polizia. L’amnistia riguarderà anche un totale di 36 prigionieri appartenenti ad una lista fornita da un’organizzazione per i diritti umani, l’Assistance Association for Political Prisoners (Aapp). Negli ultimi anni, centinaia di prigionieri politici sono stati rilasciati dalle prigioni del Myanmar in occasione di amnistie; decine di essi nell’aprile 2016, giorni dopo che il partito del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha preso il potere, dopo quasi 50 anni di dominio militare. La leader democratica, che ha passato anni agli arresti domiciliari, ha affermato che liberare i restanti prigionieri politici resta una priorità assoluta. Prima della grazia annunciata oggi, secondo l’Aapp, erano 240 gli attivisti politici arrestati o in attesa di processo in Myanmar.