Carceri, riforma fallita. Indignarsi non basta, noi scioperiamo di Beniamino Migliucci* Il Manifesto, 17 aprile 2018 L’indignazione, che nella vita privata è un nobile sentimento, in politica conta pressoché zero se non si accompagna a una reazione concreta. Non si tratta, dunque, di mostrarsi indignati di fronte a questo disastro della politica ma di dire qualche semplice verità circa il perché del fallimento della riforma penitenziaria. Una riforma voluta dal ministro Orlando che aveva avuto, esattamente due anni fa, il 18 aprile del 2016, la sua celebrazione, simbolicamente collocata nell’Auditorium della Casa circondariale di Rebibbia a Roma. Lì si concludevano, alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano, gli “Stati Generali dell’Esecuzione penale”, che avrebbero dovuto realizzare la più importante riforma del governo, attraverso la nomina di un Comitato di esperti e l’organizzazione di Tavoli tematici. Uno sforzo di ampio respiro che rispondeva, a distanza di quarant’anni dalla prima riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, a un’esigenza assai avvertita. Ma che era divenuta una assoluta urgenza a seguito della condanna inflitta dall’Europa con la sentenza Torreggiani, per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo, norma che vieta pene “inumane o degradanti”. Le condizioni nelle quali si trovavano le carceri italiane costituivano un peso insopportabile per l’intera collettività, imponendo di dedicare al riscatto dell’intero universo penitenziario uno sforzo corale. Già in quel contesto, alla presenza di ministri e sottosegretari, della stampa e delle televisioni, si era fatto riferimento ai dati raccolti sul fenomeno della recidiva che imponevano quella riforma: inutile insistere sulla centralità del carcere come rimedio alla delinquenza, risultando oramai evidente che solo l’applicazione di pene alternative e lo svolgimento di un lavoro riducono a limiti minimi (2%) il tasso di recidiva che raggiunge, nel caso in cui invece la pena venga scontata interamente in carcere, tassi superiori al 40%. A distanza di due anni quel progetto, sia pure parzialmente tradotto in decreti attuativi, non è ancora legge. Il ministro ha difatti inspiegabilmente disatteso, dapprima gli inviti a “stralciare” la riforma penitenziaria (che vedeva il consenso degli operatori, dell’avvocatura, dell’accademia e della magistratura), dalla controversa riforma del processo penale e, successivamente, le richieste di una rapida approvazione di quel testo in Consiglio dei ministri, prima che la legislatura si esaurisse e che la politica nazionale finisse stritolata nel tritacarne elettorale e nel conseguente timore di perdere consensi. I detenuti in Italia, fra definitivi e in attesa di giudizio (che costituiscono oltre il 30% cento del loro numero complessivo), sono nuovamente saliti a limiti insopportabili (58.300), tali da determinare situazioni di sostanziale illegalità e di impraticabilità di ogni seria forma di trattamento, così come drammatico e insostenibile è il numero dei suicidi che si susseguono oramai ad un ritmo costante di uno alla settimana. Ciò non è sembrato sufficiente ai presidenti dei gruppi parlamentari per ritenere l’urgenza dell’approvazione. Ed ora si assiste a un triste epilogo, una dissolvenza incrociata nella quale nessun politico (al di fuori dell’oramai tardivo intervento del ministro) difende le ragioni della riforma, e nessuno più ha voglia di diffondere quei dati che dovrebbero essere invece il viatico di ogni politica seria che, facendosi strada fra populismi e demagogia, avesse davvero a cuore la sicurezza dei cittadini e la dignità della persona. Ecco perché i penalisti italiani si asterranno dalle udienze il 2 e il 3 maggio prossimi. *Presidente Unione Camere penali italiane Avvocati in trincea: “il carcere va riformato” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 aprile 2018 Astensione il 2 e 3 maggio. Un appello a governo, istituzioni e all’intera classe politica affinché venga approvata quanto prima, “abbandonando ogni forma di ostruzionismo”, la riforma dell’ordinamento penitenziario: è ciò che è stato illustrato ieri in una conferenza stampa convocata dall’Unione Camere penali, durante la quale è stata resa nota anche l’astensione dalle udienze e da ogni attività nel settore penale per i giorni 2 e 3 maggio. Qualora gli organi parlamentari non provvedessero a inserire nell’ordine del giorno delle Commissioni Speciali il decreto legislativo già approvato due volte in esame preliminare dal Consiglio dei ministri, si terrà anche una manifestazione nazionale il 3 maggio per “sensibilizzare l’opinione pubblica e l’informazione” sulla situazione in atto, e a cui sono invitati tutti i parlamentari e gli esponenti di governo. “Come Ucpi abbiamo inviato lettere ai presidenti delle Camere e ai capigruppo: la politica è senza pudore, se non si accorge che per le carceri potrebbe finire nel nulla tutto il lavoro fatto finora e che questa riforma va nel senso della sicurezza dei cittadini”, ha dichiarato il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci. Che non ha risparmiato critiche al governo: “Sono convinto della buonafede del ministro Orlando, ma trovo disgustoso che non ci sia stato il coraggio di far approvare questa riforma prima del voto. Gentiloni aveva dato rassicurazioni, poi è venuto meno alla parola data. Se fossi il ministro della Giustizia e il mio governo non mi facesse approvare una riforma su cui c’è stato tanto lavoro, mi dimetterei e me ne andrei. In ogni caso, tranne Orlando, non ho sentito nessuno del governo ribattere a chi sosteneva che questo provvedimento è uno svuota-carceri”. La strada, secondo Rita Bernardini, potrebbe essere anche quella tracciata a Radio Radicale dal professore di Diritto parlamentare della Luiss Nicola Lupo: “Il governo è giuridicamente autorizzato ad adottare il decreto legislativo, a prescindere dal parere parlamentare, ove questo non sia stato espresso nel termine previsto”, ossia i dieci giorni intercorsi dalla trasmissione nelle commissioni competenti: ma come ricordato in altro servizio del giornale, l’indiscutibile assunto è stato aggirato, dalla Camera, con la limitazione delle competenze attribuite alla commissione speciale. Il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin denuncia una “omissione che trovo sia politicamente che giuridicamente molto discutibile, anzi censurabile” e sugli anatemi di Lega e Movimento 5Stelle secondo cui con questa riforma i criminali uscirebbero di galera, Mascherin ha ribattuto: “Le misure previste in realtà alzano la soglia di sicurezza: la personalizzazione delle misure alternative, molto marcata in questo provvedimento, finisce in realtà col rendere più complicata la concessione. Da un lato la misura, proprio perché personalizzata, sarà più difficile da ottenere, dall’altro lato sarà più efficace proprio perché ritagliata sul singolo detenuto”, chiarisce Mascherin. “Fanno male i calcoli, coloro che confidano nel presunto consenso assicurato da posizioni giustizialiste o dalla negazione di misure costituzionalmente orientate. Credo che la maggioranza della nostra società condivida l’idea di una esecuzione della pena come trattamento mai inumano, quindi come recupero oltre che inevitabile retribuzione. L’altro ieri ho letto sul Dubbio che qualcuno (il questore della Camera, Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia ndr) ha chiesto di abolire il regime delle celle aperte: è dato molto indicativo. Ed è molto pericoloso: siamo in presenza di una corsa al rialzo delle istanze populistiche e demagogiche”. Secondo il presidente dell’Autorità garante dei detenuti, Mauro Palma, “nessuno può comunque ritoccare il provvedimento che è stato trasmesso alle Camere per il secondo parere solo per cortesia istituzionale, e, trascorsi 10 giorni senza che il parere arrivi, il Cdm è comunque autorizzato a emanare il decreto. Non bisogna considerare la porta completamente chiusa, ci sono spiragli, ma spetta a tutti noi farli diventare un’apertura per superare l’attuale stop’ al decreto sulle carceri”. Al termine dell’incontro con i giornalisti, il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi, Riccardo Polidoro, ha lanciato la pagina Facebook “Sì alla riforma penitenziaria”, “uno spazio pubblico per raccogliere interventi a favore del provvedimento. La volontà politica va recuperata con una corretta informazione e con una educazione dei cittadini, bisogna far comprendere come il detenuto che riesca a fare un percorso rieducativo e ad avere un rapporto familiare completo sicuramente è un detenuto più tranquillo. Lo dimostrano anche i dati sulla recidiva: tornano a delinquere il 70% dei reclusi che hanno scontato tutta la detenzione in carcere, mentre tra quelli che hanno avuto accesso alle pene alternative lo fa solo il 10%”. Presenti alla conferenza stampa anche Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, e l’avvocato Emilia Rossi, componente dell’Autorità garante dei detenuti. C’era Pannella. E Orlando lanciò gli Stati Generali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 aprile 2018 Era 19 maggio del 2015. La riforma dell’Ordinamento penitenziario rischia di non passare più, mettendo un sigillo definitivo a un cambiamento che avrebbe riportato l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovranazionale dopo le umilianti condanne europee. La riforma, partorita dopo un lungo percorso che ha come inizio una data ben precisa: il 19 maggio del 2015, quando, presso il carcere milanese di Bollate, il ministro della Giustizia Andrea Orlando presentò gli Stati generali dell’esecuzione penale con l’obiettivo, in un semestre, di giungere all’elaborazione di un articolato progetto di riforma dell’esecuzione penale. Marco Pannella, invitato, vi partecipò con l’esponente radicale Rita Bernardini alla quale le venne affidato il coordinamento di uno dei 18 tavoli, quello sull’affettività in carcere. A settembre del 2015 la Camera approvò il disegno di legge “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi nonché all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della penà. Il 18 e 19 aprile del 2016 si concludono gli Stati generali al carcere di Rebibbia. Il 6 novembre 2016 - giorno del Giubileo dei carcerati - il Partito Radicale tiene la Marcia per l’Amnistia dedicata a Marco Pannella e Papa Francesco da Regina Coeli a Piazza San Pietro. Nell’occasione oltre 20.000 detenuti digiunano per sostenere gli obiettivi della marcia compreso quello della messa all’ordine del giorno dell’assemblea del Senato del provvedimento di riforma dell’ordinamento penitenziario, stralciandolo dal resto del disegno di legge sul penale. Il 12 novembre 2016 Mattarella telefona a Rita Bernardini per il lungo sciopero della fame e ringrazia il Partito Radicale per l’impegno sulle carceri e la giustizia. Il 15 marzo 2017, finalmente, anche il Senato approva il disegno di legge trasmessogli dalla Camera il 23 settembre 2015 modificando oltre al testo anche il titolo che diviene “Modifiche al c. p., al c. p. p. e all’ordinamento penitenziario”. Il 14 giugno del 2017, la Camera, con il voto di fiducia, approva definitivamente il disegno di legge (legge 23 giugno 2017, n. 103). La legge, oltre all’allungamento dei termini di prescrizione e processi telefonici senza la presenza dell’imputato, contiene anche la delega riguardante il nuovo Ordinamento Penitenziario, delega che, a differenza di quella riguardante le intercettazioni telefoniche (tre mesi), ha come scadenza per il suo esercizio un anno, cioè oltre la fine della legislatura. I termini per l’esercizio della delega sono chiari e indicati nella legge: dal momento in cui il Consiglio dei ministri emana i decreti e li trasmette alle Commissioni giustizia di Camera e Senato (trattasi di parere obbligatorio ma non vincolante) queste hanno tempo 45 giorni per emanare i pareri; il governo, poi, può uniformarsi o ritrasmetterli alle Commissioni con le sue controdeduzioni; le Commissioni, a loro volta, hanno altri 10 giorni di tempo per replicare alle osservazioni del Governo; a quel punto, il Consiglio dei Ministri può decidere liberamente il testo da varare. Il 19 luglio 2017 il ministro Orlando istituisce tre Commissioni di studio per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento penitenziario alle quali viene data la scadenza del 31 dicembre 2017 (successivamente verrà prorogata al 31 marzo 2018) per elaborare le bozze. Il 16 agosto del 2017 parte un’altra fase del Satyagraha del Partito Radicale per chiedere al governo l’immediato esercizio della delega ricevuta dal Parlamento per riformare l’Ordinamento Penitenziario. Oltre 10.000 detenuti prendono parte al Satyagraha. Rita Bernardini intraprende un altro lungo sciopero della fame che al 25° giorno la porterà in ospedale per un infarto e una colecistite acuta. Il 18 settembre 2017, in un incontro di Rita Bernardini e Massimo Bordin, il ministro Orlando afferma che i decreti delegati sull’Ordinamento Penitenziario sarebbero stati in un’unica soluzione entro il 30 settembre. Ma non è andata così. Il 16 ottobre 2017 Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli riprendono il Satyagraha nella forma dello sciopero della fame per chiedere al ministro Orlando di mantenere la parola data. Si arriva finalmente alla data che ha avviato l’iter di approvazione: il 22 dicembre 2017 il Consiglio dei ministri licenzia in via preliminare il decreto delegato principale della riforma, quello relativo alle pene alternative, l’assistenza sanitaria e modifica del 4bis e lo trasmette alle commissioni giustizia di camera e senato per il parere obbligatorio ma non vincolante. Il 7 febbraio del 2018 entrambe le camere concludono l’esame dei decreti. Il 22 febbraio, a sorpresa, il Consiglio dei ministri licenza preliminarmente i decreti lasciati indietro in precedenza e mette in stand by quello principale, già visionato dalle Camere. Protestano in molti, dai Garanti regionali e locali agli avvocati delle Camere penali che si sono mobilitati con due giornate di astensione dalle udienze. Seguono numerosi appelli indirizzati al governo, che vedono in campo alte personalità del mondo giuridico, accademico, forense, con il Cnf in testa, e di parte della magistratura. Il 16 marzo - due settimane dopo le elezioni politiche - il Consiglio dei ministri licenzia finalmente il decreto principale già visionato. Per avere però il via libera definitivo deve passare per le commissioni speciali. Il 4 aprile, al Senato, si è insediata la Commissione speciale per esaminare il Documento di Economia e Finanza (Def) e i decreti legislativi, compresi quelli della riforma. Dopo una settimana si riuniscono i capigruppo della Camera per istituire la commissione speciale e arriva l’annuncio che è stato come un fulmine a ciel sereno: non assegnare il decreto della riforma e inviare alle commissioni giustizia che si costituiranno con la formazione del nuovo governo. Iter bloccato da un trucco: la Commissione “mutilata” di Errico Novi Il Dubbio, 17 aprile 2018 Secondo il Ddl penale l’ultimo esame spetta alla commissione giustizia. che però alla camera non può essere “surrogata” da quella speciale, depotenziata apposta. Non c’è modo. Tecnicamente l’iter del decreto attuativo della riforma penitenziaria è stato bloccato con uno stratagemma insuperabile. Questo: all’atto di costituire la “Commissione speciale per l’esame di Atti del Governo” (si noti intanto la preposizione semplice “di” anziché “degli”), la conferenza dei capigruppo di Montecitorio ha attribuito all’organismo solo una ben limitata competenza: esaminare il Def e altri provvedimenti minori, ma non il testo sul carcere. In questo modo si è impedito che potesse cominciare a decorrere il famoso termine dei dieci giorni trascorso il quale “i decreti possono comunque essere emanati”. È così proprio in virtù di quanto previsto dalla legge delega, ossia la riforma penale di Orlando (la legge 103 del 23 giugno 2017) all’articolo 1 comma 83: “I pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia e per i profili finanziari sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione”. Ma le “Commissioni competenti per materia” sono le commissioni permanenti Giustizia, che non sono state ancora costituite, né alla Camera né al Senato. Ecco perché non può partire il countdown dei dieci giorni: manca il terreno di gioco. È vero che, in teoria, le due commissioni speciali di Montecitorio e Palazzo Madama avrebbero potuto essere il surrogato di quelle permanenti: ma tale circostanza si sarebbe potuta verificare solo qualora nessuno dei due organismi fosse stato limitato, nella propria competenza, dal relativo atto istitutivo. E alla Camera, come detto, le limitazioni sono state previste eccome: la commissione può esaminare solo il Def e altri decreti in scadenza, punto. E l’attribuzione di competenze limitate è consentita dall’articolo 22 del regolamento di Montecitorio. Ora, è ormai chiaro che le commissioni permanenti saranno istituite solo quando si sarà individuata una maggioranza e, dunque, solo nel momento in cui un governo si formerà: per quanto tale contestualità non sia obbligata, è il quadro generale che tende a un simile scenario. E vista l’egemonia di Cinque Stelle e Lega, un governo espressione del nuovo Parlamento, diversamente dall’esecutivo Gentiloni, non emanerebbe mai un decreto come quello sulle misure alternative al carcere. Seac: abbandonare la riforma penitenziaria è un anacronistico salto indietro Comunicato stampa, 17 aprile 2018 122 volontari di tutta Italia a Roma per il convegno sulla riforma penitenziaria. Si è svolto, il 13 e 14 aprile scorsi, tra Regina Coeli e l’Istituto Maria SS. Bambina, il 51esimo convegno nazionale Seac (Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario) sul tema “La riforma penitenziaria: lo stato della pena”, al quale hanno partecipato 122 volontari provenienti da tutta Italia. L’occasione è stata utile per fare il punto sulla riforma penitenziaria, ma anche per presentare il progetto nazionale Seac “Volontari per le misure di comunità”, finanziato da Fondazione “Con il Sud”. La legge penitenziaria in Italia risale a 43 anni fa, parla di un mondo, di una società e di un carcere che hanno subito profonde trasformazioni. Il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario (n. 501, primo di una serie) con cui a dicembre il governo Gentiloni ha dato seguito alla delega ricevuta dalla legge 103/2017, ha portato una ventata di modernità nel quadro normativo aprendo alle pene alternative o di comunità, già largamente applicate nel mondo occidentale in luogo della detenzione in carcere e introducendo importanti disposizioni volte al miglioramento della vita penitenziaria e al rispetto della dignità umana. Non è chiaro se l’attuale contingenza politica consentirà la definita approvazione quantomeno di questo primo fondamentale atto legislativo. “Disperdere il frutto di questi sforzi condivisi significherebbe fare un anacronistico salto indietro oltre che rischiare sanzioni mortificanti da parte delle autorità europee - dichiara Laura Marignetti, presidente Seac - si continua a pensare che la pena, una volta inflitta, non debba subire modifiche affinché non perda il carattere di certezza. È questo il pensiero che va fermamente contrastato sostenendo le ragioni di questa riforma. La certezza della pena non significa necessariamente pena immutabile”. Numerosi gli interventi di magistrati, docenti universitari e responsabili delle amministrazioni penitenziarie, tutti concordi nell’affermare che attuare le misure di comunità non significa garantire meno sicurezza ai cittadini e che si può partire anche da quello che c’è senza aspettare una riforma, sfruttando meglio le risorse e avviando alleanze territoriali tra enti pubblici e privato sociale per supportare le persone dentro e fuori dal carcere. Per Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, nel nostro Paese, è necessario pensare ad una vera e propria ricostruzione culturale. Secondo Lucia Castellano, dirigente generale Esecuzione penale esterna del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità non bisogna lavorare sui detenuti, ma con i detenuti con l’obiettivo di prevenire la recidiva e allontanare le persone dal crimine, coinvolgendo il volontariato. Le associazioni di Cagliari, Cosenza, Isola Capo Rizzuto, Palermo, Milano e la Caritas di Avellino hanno presentato le attività portate avanti, sui diversi territori, nell’ambito del progetto che ha visto un primo ciclo formativo con 150 volontari coinvolti e che adesso darà il via alla seconda fase caratterizzata dai gemellaggi. L’obiettivo dell’iniziativa progettuale è attribuire al volontariato penitenziario un ruolo di facilitatore dell’inclusione sociale e sensibilizzatore dei cittadini alle misure di comunità. Infermieri Penitenziari. Tagliata l’indennità rischio ambientale di Emilio Benincasa Il Fatto Quotidiano, 17 aprile 2018 Nasce Movimento a difesa di una categoria dimenticata. Da quando le competenze della Sanità penitenziaria sono passate dal Ministero della Giustizia a quello della Salute, diversi sono stati i cambiamenti per il personale sanitario e, non tutti a favore. L’indennità economica (L. 436/87), percepita fino al 2008 da tutti i lavoratori delle carceri per eventuali rischi legati all’ambiente, è sparita, non essendo riconosciuta nel settore sanitario. Il 18 marzo scorso a Trani, alcuni rappresentanti dell’ambito sanitario carcerario pugliese si sono incontrati per dare vita al movimento di protesta “Infermieri Penitenziari”, per quella che ritengono essere l’ennesima ingiustizia compiuta a loro discapito, e perché ritengono di essere considerati professionisti di serie B. Lavorare in un carcere non è facile - affermano i lavoratori -. Una volta entrati nella struttura siamo perquisiti a campione col metal detector. Poi c’è la consegna del cellulare e degli effetti personali. C’è l’angosciante chiusura dell’enorme cancello alle spalle. Senza parlare delle sbarre alle finestre. Questo per sei ore al giorno, tutti i giorni. Il burnout è dietro l’angolo e i casi di suicidio tra noi sono in ascesa”. “La qualità della nostra vita lavorativa, rispetto ai colleghi che operano nelle strutture sanitarie pubbliche - fanno notare - è decisamente degradante. Senza parlare dei rischi legati al contagio di malattie infettive o all’incolumità personale. I tentativi di aggressione, che il più delle volte diventano aggressioni vere e proprie, non si contano più. Con l’aggravante, poi, che il detenuto è sempre sotto i nostri occhi. Mentre l’eventuale assalitore di un pronto soccorso o di un qualsiasi altro reparto, una volta guarito, va via” Chi sono gli Infermieri che operano nei Penitenziari? La presenza del personale sanitario negli Istituti Pentenziari viene prevista per la prima volta nel 1931 dal Regolamento Carcerario scaturito dal Regio Decreto n°787 del 18.06.1931. Solo nel 1970 con la Legge n°740, si inizia a delineare una sommaria disciplina dei rapporti di lavoro del personale sanitario che rappresenta la radice iniziale del servizio sanitario e della continuità assistenziale all’interno degli Istituti di pena. È questo il periodo in cui l’assistenza e la tutela della salute era affidata e gestita dalle Casse Mutue e dalle IPAB, fino al ‘78 quando con la Legge n° 833 fu istituito il SSN, unico organismo pubblico preposto alla tutela del diritto costituzionale alla salute, mentre ancora la Sanità Penitenziaria rimane separata e sotto il controllo della Amministrazione Penitenziaria. Con la legge di riforma dell’Ordinamento Penitenziario ossia la n°354/75 finalmente viene superato il Regolamento applicato sin dal 1931 e come disposto dall’art. 11, le Amministrazioni Penitenziarie hanno facoltà di avvalersi dei pubblici servizi, pertanto, vengono introdotti il servizio di psichiatria e il medico specialista. In questa fase la tutela della salute così come il personale dipende dal Ministero di Giustizia tramite il D.A.P. (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). In sostanza si dovrà attendere la Circolare n° 3337/5787 del 1992 da parte del Ministero di Giustizia, la quale rappresenta l’embrione iniziale di un percorso e un approccio integrativo nel considerare la garanzie delle cure e della sicurezza, in detta circolare, si stabilisce che in ogni carcere debbano essere presenti due aree sanitarie (medica-infermieristica) ad integrazione con quella educativa. Dal 1 gennaio 2000, così come disposto dal D. Lgs. N°230/99 inizia un periodo di sperimentazione da attuarsi in alcune regioni, sia in ordine alla cura e l’assistenza dei detenuti tossicodipendenti, sia per il trasferimento di specifiche funzioni sanitarie, tale periodo risulterà pieno di difficoltà soprattutto per la resistenza di tanti operatori della sanità, tra l’altro, a complicare tale percorso, in maniera indiretta, concorre anche la riforma Costituzionale del Titolo V del 18.10.2001, che trasferisce alle Regioni tutte le competenze in tema di salute, ma lascia ancora il permanere della Sanità Penitenziaria sotto il controllo del Ministero della Giustizia. Inizia cosi un settennato nel quale, con Decreto Interministeriale del 16.05.02 viene istituita dapprima la c.d. Commissione Tinebra, una commissione di studio per indicare un modello organizzativo della Sanità Penitenziaria, lavori che saranno conclusi solo parzialmente nel 2005, con risultati poco convincenti, poi nel bienno 2005/07 lo Stato e le Regioni mettono in campo una commissione tecnica con lo scopo di redigere le Linee Guida e una proposta di legge per il definitivo passaggio di competenze in ambito di Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia a quello dalla Salute. Con il DPCM del 1 aprile 2008, finalmente in tema di Sanità Penitenziaria le due Istituzioni cionvolte si devono e si possono confrontare in modo paritetico, ed il personale sanitario che ivi opera, finora obbligati a rispettare solo l’Ordinamento Penitenziario, sono riconosciuti non come singoli professionisti ma come figure professionali organizzate ed integrate con la rete assistenziale territoriale. Operare come Infermiere all’interno delle strutture carcerarie riserva aspetti peculiari unici e complessi, che prescindono da altri contesti. In primo luogo, l’architettura è conformata a criteri di sicurezza con lunghi e stretti corridoi, così come gli altri ambienti di servizio comprese le infermerie, dotate anch’esse di sbarre, in secondo luogo la tipologia di “assistiti”, i quali, privati della libertà, molto spesso attuano meccanismi di difesa, simulazione, aggressività nei confronti del personale infermieristico. La salute viene strumentalizzata dal recluso e il valore della salute viene distorto, non essendo più il fine, ma il mezzo per riacquistare la libertà. Il rapporto con il vissuto della malattia si manifesta con due fenomeni principali: uno, la simulazione dei sintomi ad esempio precordialgia, sincopi, crisi epilettiche, dolore; due, con autolesionismo ad esempio, ferite da taglio, ingestione di corpi estranei, inalazione di gas, contaminazione delle ferite, tentativi di impiccagione, omissione volontaria di assunzione di farmaci salvavita, ingestione volontaria di farmaci in dosi tossiche, sciopero della fame e della sete. All’infermiere che si occupa di sanità penitenziaria, vengono richieste una serie di competenze, concilianti con il detenuto che ha bisogno di cure e il sistema di sicurezza previsto dal regime penitenziario. Trovare il giusto equilibrio tra queste due culture non è una cosa facile, ma fa parte di un vasto progetto di interazione-integrazione e cooperazione che ha come unico scopo la cura del malato/detenuto. Altre competenze richieste sono la gestione organizzativa assistenziale; gestione dell’assistenza infermieristica nell’ambito della medicina generale e specialistica; gestione dell’assistenza infermieristica nell’ambito psichiatrico e delle dipendenze; Assistenza infermieristica transculturale. L’ambiente carcerario è un mondo a sé stante, eterogeneo, in cui, chi è recluso è costretto a condividere poco spazio e a rivedere e adattare continuamente il proprio concetto di vivibilità, ebbene, esercitare la professione infermieristica in questi luoghi, significa confrontarsi con un contesto lontano dal proprio vissuto valoriale ed educativo. Sia il vissuto di malattia dei detenuti che l’assistenza infermieristica in carcere sono destinate ad alterarsi, rivestendosi di significati diversi. La quotidianità negli istituti penitenziari, svela dinamiche che solo operando all’interno si rendono comprensibili, come dimostrano alcuni indagini descrittive realizzate con questionari in alcuni istituti. L’infermiere è percepito come un dispensatore di medicamenti. Le regole, a cui l’infermiere deve sottostare sono rigide, infatti, in carcere non è configurabile un rapporto che vada oltre la professionalità e l’empatia, ciò generalmente viene percepito dal recluso come mancanza di umanità. L’ambiente ostacola la costruzione di una relazione terapeutica: se non si dispone di meccanismi, che impediscono lo stress emotivo, diventa un ambiente molto difficile in cui lavorare. Comunque l’infermiere è una presenza indispensabile nel contesto penitenziario poiché è la figura che sta più a contatto con il detenuto per quanto riguarda gli aspetti della somministrazione della terapia, l’educazione alla salute e tutto ciò che riguarda la clinica e la professionalità infermieristica. È necessaria una lettura di tutti i fattori ambientali e umani quali il sovraffollamento, la carenza di risorse, le relazioni tra soggetti. Tali condizioni, evidenziano che all’interno degli istituti penitenziari l’obiettivo di una sanità efficace ed efficiente ha componenti parzialmente ma significativamente diverse da quelle in uso nella libera società. A dieci anni dal Dpcm, i due Sistemi stanno ancora cercando un equilibrio che metta al riparo la Riforma da ipotesi di nuovi cambiamenti che potrebbero vanificare la strada comunque percorsa, opportunamente consolidata dalla nuova riforma introdotta con legge n° 9 del 17.02.2012 di conversione del d.l. n° 211 del 22.12.11. In conclusione, per la professione infermieristica, si può ragionevolmente affermare che le limitazioni ambientali, organizzative e strutturali presenti in carcere limitano fortemente la possibilità per un infermiere di esprimere pienamente il proprio ruolo, complessivamente comunque l’esperienza è stimolante sotto il punto di vista professionale e umano. Solo il difensore di fiducia può dare l’ok alla modifica della messa alla prova di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 16 aprile 2018 n. 16711. Il sostituto del difensore di fiducia, sprovvisto di procura speciale, non può dare il suo assenso alla sospensione della messa alla prova. In caso contrario non ha nessun effetto l’adesione alla decisione presa dal giudice in udienza. La Corte di cassazione, con la sentenza 16711, accoglie il ricorso dell’imputato contro l’ordinanza con la quale il tribunale aveva disposto la sospensione del procedimento con messa alla prova per sei mesi, obbligandolo anche a versare alla parte civile 1500 euro. Una decisione presa nel corso di un’udienza in assenza dell’imputato e del difensore di fiducia, che aveva mandato il suo sostituto. La Suprema corte ricorda che secondo l’articolo 464-quater comma 4 bis del Codice di procedura penale, il giudice può integrare o modificare il programma di trattamento previsto con la sospensione del processo per messa alla prova (articolo 464-bis del Codice penale) con il consenso dell’imputato. Nel caso esaminato queste condizioni mancavano, non c’era l’imputato e il sostituto del “dominus” non era munito di procura speciale, e quindi non poteva esprimersi su un programma che non prevedeva, tra l’altro, alcuna forma di risarcimento. Nello specifico, in effetti, il sostituto aveva insistito per l’ammissione alla messa alla prova sulla stessa base del programma presentato, rimettendosi poi al giudice per un’eventuale decisione in merito al risarcimento. Ma la Cassazione chiarisce che anche volendo interpretare la condotta del legale come un consenso, questo non avrebbe avuto alcuna efficacia. I poteri che derivano dalla procura speciale, sono infatti - precisa la Cassazione - strettamente legati alla persona e non sono estensibili al sostituto processuale. A dare il via libera doveva essere lo stesso imputato o il suo procuratore speciale. Frode, rischio-aggravante per gli studi di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 1999/2018. La consapevolezza della partecipazione a una frode fiscale del proprio cliente può comportare al consulente la responsabilità in concorso nel reato tributario, a nulla rilevando che non sia l’ispiratore degli illeciti. Per far scattare invece la nuova aggravante nei confronti del professionista dedito alla predisposizione di modelli seriali di evasione occorre l’abitualità e la ripetitività della condotta illecita affinché possa essere riproducibile anche in futuro. Sono questi in estrema sintesi i più recenti orientamenti della Corte di cassazione in tema di responsabilità del professionista per i reati tributari commessi dai propri clienti. Il dolo - In via generale la responsabilità del consulente, ricorre sicuramente quando egli sia l’ispiratore della frode commessa dal cliente. Più di recente i giudici di legittimità (da ultimo, la sentenza n. 1999/2018, si veda “Il Sole 24 Ore” del 19 gennaio) hanno ritenuto sussistente il concorso nel reato del contribuente da parte del consulente anche quando questi sia soltanto consapevole di porre in essere l’attività delittuosa poiché il dolo si riscontra anche nella semplice conoscenza. Nella specie si trattava di indebite compensazioni certificate dal commercialista e i giudici hanno ritenuto che tale certificazione provasse la conoscenza del reato da parte del professionista. I “modelli seriali” - Il Dlgs 158/2015 di riforma del regime penale tributario ha inserito un nuovo comma (il 3) all’articolo 13-bis del Dlgs 74/2000: così ora è prevista un’ipotesi di aggravamento della pena fino alla metà, se il delitto è commesso dal compartecipe nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione di modelli seriali di evasione fiscale. La norma non è particolarmente chiara lasciando così dubbi sul significato di “modelli seriali di evasione fiscale”. Il rischio è che un determinato comportamento evasivo ripetuto e a beneficio di vari clienti, possa rappresentare un “modello seriale” per un ufficio, ma non per un altro. I due presupposti - Secondo le prime pronunce della Suprema corte per la ricorrenza di questa aggravante occorre un presupposto soggettivo e uno oggettivo. Sotto il profilo soggettivo i giudici hanno rilevato (confermando una prima interpretazione fornita nella relazione n. III/5/2015 del Massimario della Suprema corte) che la nozione di “professionista” va intesa in senso sostanziale e quindi chiunque, nell’esercizio della professione, svolge attività di consulenza fiscale (commercialisti, consulenti, avvocati ecc.). Inizialmente invece era stato sostenuto che la norma facesse riferimento solo ai professionisti abilitati dall’agenzia delle Entrate alla trasmissione delle dichiarazioni e non a tutti i soggetti (come ora affermato dalla giurisprudenza) che svolgono attività lato sensu di consulenza fiscale. Per quanto concerne il profilo oggettivo la norma richiede la “serialità” nell’elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione. Occorre così una certa abitualità e ripetitività della condotta incriminata, assumendo carattere di riproducibilità anche in futuro. Nei casi esaminati dalla Suprema corte l’aggravante è stata riconosciuta in capo a un commercialista il quale aveva attivamente predisposto delle modalità di compensazioni effettuate a fronte di crediti inesistenti poi poste in essere da numerosi clienti del professionista stesso. Da evidenziare che nella direttiva per il piano dei controlli emanata dall’agenzia delle Entrate per l’anno 2016 (circolare 16/2016) l’Amministrazione finanziaria, dopo aver segnalato l’entrata in vigore dal 22 ottobre 2015 dell’aggravante, ha invitato gli uffici a valutare la sussistenza di ricorrenze nelle irregolarità riscontrate in più soggetti che si avvalgono di uno stesso consulente/intermediario e quindi, a riscontrare la presenza di elementi che possano dimostrare il ruolo di “ideatore/facilitatore” del professionista stesso. Facebook, diffamazione aggravata se il “post” o il “commento” lede la reputazione altrui di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2018 Tribunale di Campobasso - Sezione penale - Sentenza 2 ottobre 2017 n. 396. Pubblicare un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, in quanto l’utilizzo del social network consente di pubblicizzare e diffondere l’espressione denigratoria tra un gruppo di persone apprezzabile per composizione numerica. E il reato scatta anche nei confronti di chi semplicemente pubblica un commento della stessa portata offensiva al post diffamatorio, poiché in tal modo si determina una maggior diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati. Questo è quanto si desume dalla sentenza del Tribunale di Campobasso 396/2017. Il caso - Principale protagonista della vicenda è un uomo chiamato in qualità di teste a comparire dinanzi al Tribunale di Teramo in un procedimento penale. Era accaduto che il giudice del dibattimento era stato designato dal Presidente del Tribunale a svolgere funzioni di Presidente dell’Ufficio Centrale Elettorale, sicché per ben due volte l’udienza nella quale il teste era chiamato a comparire veniva differita. Alla nuova udienza, tuttavia, l’uomo decideva di non presentarsi, non adducendo alcuna giustificazione nonostante avesse regolarmente ricevuto la notifica dell’intimazione a comparire. Di conseguenza, il giudice lo condannava al versamento della somma di 250 euro in favore della cassa delle ammende e ne disponeva l’accompagnamento coattivo per l’udienza successiva. Dopo aver finalmente reso la sua testimonianza, l’uomo non adduceva alcuna giustificazione in merito alla sua assenza, sicché il giudice confermava la sanzione pecuniaria. Terminata la vicenda, il teste pubblicava sulla bacheca del proprio profilo Facebook un suo personale riassunto di quanto accaduto con tanto di insulti nei confronti del giudice e di tutta la categoria dei magistrati, ricevendo più di cento “Mi piace” da parte di “amici virtuali” come segno di apprezzamento, nonché diversi commenti, specie da parte di altre due persone, offensivi e lesivi della reputazione della persona del giudice. Di qui il processo a carico dei tre per il reato di diffamazione aggravata. La diffamazione - Il Tribunale, una volta accertata la riferibilità soggettiva dei profili in questione agli imputati, non può far altro che dichiarare la loro responsabilità penale per il reato di cui all’articolo 595 c.p., aggravato dall’aver commesso il fatto tramite internet e, solo per il teste, per aver offeso anche il corpo giudiziario, come previsto rispettivamente dai commi 3 e 4 della norma penale. Ebbene, il giudice ricorda come ormai pacificamente in giurisprudenza si ritiene che “la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone”, sicché è configurabile il reato di diffamazione qualora lo stesso commento sia offensivo o lesivo della reputazione di taluno. Nel caso di specie, afferma il Tribunale, è certa la riferibilità delle espressioni denigratorie al giudice del processo nel quale l’autore del post era chiamato a testimoniare. Il commento ha la stessa portata lesiva del post - In particolare, poi, quanto alla posizione degli due imputati che si sono “limitati” a commentare il post del teste, il giudice ricorda che “la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati”. In sostanza, chiosa il giudice, nulla cambia sul piano dell’offesa al bene giuridico tutelato se l’espressione diffamatoria sia contenuta nel post principale o nei commenti ad esso sottostante: la nitidezza, la volgarità e la disinvoltura delle frasi utilizzate da tutti gli imputati nell’esprimere le proprie considerazioni nei confronti del giudice e della sua categoria professionale, nonché la pubblicazione delle stesse frasi sul noto social network, con ampia portata diffusiva, sono elementi che confermano la volontà degli stessi imputati di “denigrare agli occhi dell’intera platea virtuale di utenti Facebook la reputazione del magistrato”. Toscana: il crimine? si batte col lavoro... di Angela D’Arrigo Corriere della Sera, 17 aprile 2018 Sul modello di Prato, la Regione finanzierà con i fondi europei progetti per il reinserimento dei detenuti. Appello a coop e imprese, tutte le statistiche lo confermano: chi ha una occupazione non torna a delinquere. Il carcere è più che una Casa circondariale, è una abitazione vera e propria. Si chiama Casa Jacques Fesch e accoglie i detenuti in permesso premio, quelli che pur potendo uscire di prigione non hanno un posto in cui stare, un posto da cui ripartire. La casa è stata ristrutturata e ampliata qualche mese fa grazie all’iniziativa della Caritas Diocesana con i fondi dell’8 x Mille, in collaborazione con il carcere La Dogaia di Prato, la Cna Toscana Centro ed Estra Spa, una società che si occupa anche dell’Emporio della solidarietà. Il tutto è stato realizzato nell’ambito del progetto “Non solo carcere”, grazie al quale i detenuti in fase di fine pena possono seguire corsi di formazione per il reinserimento lavorativo e frequentare tirocini formativi in piccole aziende del territorio, dove la dimensione familiare può ancor più agevolare processi di accoglienza e inclusione. Al centro del progetto c’è infatti il lavoro come condizione imprescindibile per un sano reinserimento in società, dando ascolto non alla paura e ai pregiudizi ma alle cifre ufficiali che dicono come la recidiva sia più bassa per gli ex detenuti che provengono da percorsi di riavvicinamento al lavoro. La Regione Toscana torna su questo tema con un bando dedicato all’attivazione di servizi di inclusione socio - lavorativa e accompagnamento al lavoro per chi si trova in situazione di limitazione o restrizione della libertà individuale. Il bando è finanziato con 2 milioni e 600 mila euro del Fondo sociale europeo, nell’Asse strategico del Programma operativo regionale dedicato all’inclusione sociale e alla lotta alla povertà (materiale o come situazione di svantaggio familiare e sociale). L’obiettivo del bando è di implementare un sistema diffuso sul territorio regionale di servizi destinati a detenuti, a persone che godono di misure alternative alla pena o di sua attenuazione. 11 bando si suddivide in due azioni fra le quali scegliere per la presentazione proposte. Nell’avviso si precisa che le due azioni sono complementari, ma i progetti devono focalizzarsi su una sola tipologia. Lo stesso soggetto però può partecipare a più progetti, con limitazioni che vengono dettagliate nel testo. L’azione i, per la quale c’è un budget di 600 mila euro, è dedicata ai servizi interni alle carceri, da realizzarsi attraverso la creazione di sportelli per le tutele sociali delle persone detenute. Questi uffici dovranno avere ruolo non puramente informativo ma pienamente operativo, di supporto nella preparazione e monitoraggio delle pratiche amministrative relative a pensioni, documenti dell’anagrafe, permessi di soggiorno, servizi socio-sanitari, insomma nel disbrigo di tutte quelle pratiche necessarie ad avere le carte pronte per iniziare a lavorare una volta usciti dal carcere. L’azione 2, dedicata ai servizi esterni, riguarda invece le 6 mila persone che in Toscana si trovano in condizioni alternative alla detenzione: per loro ci sono due milioni di euro da utilizzare in progetti di accompagnamento al lavoro come ricerca di opportunità, contatti con aziende disponibili alla collaborazione, supporto nei primi periodi di inserimento e anche per la copertura di una indennità mensile di massimo 50o euro a persona. La valutazione dei progetti, che possono durare fino a due anni, sarà fatta sulla base del numero di persone che saranno prese in carico, dell’innovazione proposta e del partenariato che si è attivato. Trattandosi di un bando del Fse, la presentazione della domanda avviene sul portale dedicato, mentre tutte le info si trovano sul sito della Regione Toscana. Abruzzo: la Regione contrasta il fenomeno del suicidio in carcere Corriere Peligno, 17 aprile 2018 Al fine di fronteggiare la piaga sociale dei detenuti dei suicidi in carcere, la Giunta regionale ha approvato in questi giorni il Piano regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti. Già nel dicembre del 2012 la Regione Abruzzo aveva adottato il Programma per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale, nel quale era stato disposto che in ciascun Istituto Penitenziario andava realizzato un piano di accoglienza che prevedesse una valutazione multi-professionale e la individuazione di un percorso interno, per tutti i detenuti nuovi giunti, in particolare per i soggetti che risultavano a rischio di suicidio. Nel documento approvato è previsto che la Regione si doti di un proprio Piano di prevenzione regionale, affidando all’Osservatorio Regionale Permanente di Sanità Penitenziaria il compito di elaborare uno specifico Piano Regionale per la prevenzione delle Condotte suicidarie contenente le linee di indirizzo utili per rendere operativi quelli locali in modo omogeneo. Sarà cura dell’Azienda Sanitaria territorialmente competente, in collaborazione con le strutture dell’istituto penitenziario, attuare il Piano di Prevenzione che ha i seguenti obiettivi: attenzione e sostegno tecnico-clinico, rientrando in tale area quelle figure clinico - professionali che venendo a contatto col detenuto possono cogliere sintomi o richieste di attenzione e dare corso ad un primo sostegno ed alla segnalazione del caso; attenzione e sostegno tecnico, rientrando in tale area la figura del funzionario giuridico pedagogico; attenzione a-tecnica, rientrando in tale area tutti coloro che in ragione delle loro funzioni (polizia penitenziaria, detenuti, volontari, docenti, avvocati) possono venire a contatto del detenuto e rilevare situazioni di criticità; decisione, riservata a chi riveste funzioni apicali e di governo, quali il Direttore dell’Istituto, il Comandante di Reparto, gli addetti alla Sorveglianza Generale. Nel provvedimento approvato, viene inoltre stabilità di nominare i Responsabili delle Unità Operative di Medicina Penitenziaria delle Usl quali componenti del Nucleo dei Referenti Regionali, con il compito di: eseguire e verificare la redazione e l’aggiornamento periodico dei Piani locali; programmare la formazione degli operatori locali; pianificare le attività di audit clinico; raccogliere le prassi valutate più rispondenti agli obiettivi ed inviarle al livello centrale; svolgere o delegare azioni conoscitive e/o inchieste amministrative ritenute opportune o dovute. Roma: le imprese a Rebibbia per il lavoro dei detenuti di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2018 Le imprese di Roma e del Lazio scendono in campo per aiutare i detenuti nel reinserimento lavorativo. Ieri, presso la Casa di Reclusione di Rebibbia di Roma, Roberto Santori, presidente sezione Consulenza, attività professionali, formazione di Unindustria, e direttore generale Challenge Network (società internazionale di formazione manageriale), ha tenuto una lezione davanti a una trentina di detenuti del penale maschile. L’obiettivo: presentare una simulazione pratica di un colloquio per agevolare, a fine pena, il reinserimento nella società civile e nel mondo del lavoro. L’iniziativa si inserisce nell’ambito della decima edizione del Progetto Arte Dentro (che già aveva avuto l’Altro patrocinio dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini) di Roma Capitale, in collaborazione con Zetema progetto cultura. “Il mondo del lavoro non è facile - ha detto Santori - cambiano le leggi e sono aumentati i canali attraverso cui è possibile farsi conoscere. Diventa fondamentale la capacità di comunicare le proprie abilità”. Una situazione ancor più difficile per chi ha una esperienza di detenuto alle spalle, hanno sottolineato in molti tra i presenti alla lezione. Tuttavia Santori ha voluto sottolineare come nessuno parte sconfitto: “Per chi assume ex detenuti ci sono delle agevolazioni. Inoltre le aziende lamentano la mancanza di alcune figure professionali, che si possono trovare invece anche tra i detenuti. L’handicap della reclusione può essere superata trovando i propri punti di forza in grado di compensare i punti di debolezza”. Non è un caso che tra le principali richieste venute dai detenuti ci sia stata proprio quella di aumentare la formazione in carcere. Sartori ha evidenziato l’attenzione di Unindustria, con la possibilità in futuro di pensare a nuovi progetti. “Noi siamo lieti di offrire queste iniziative”, ha commentato Stefano Ricca, direttore della Casa di Reclusione di Rebibbia, una struttura che a fine marzo aveva 324 detenuti. “Abbiamo già - ha proseguito Ricca - una falegnameria, una officina, una impresa agricola, una lavanderia e una carrozzeria che occupano poco meno di venti detenuti nel carcere. Altri 25 lavorano fuori dal penitenziario. E chi riesce a trovare un impiego ha meno probabilità di ricommettere un reato una volta fuori”. Proprio per questo in Italia negli ultimi anni la percentuale di lavoranti sul totale dei detenuti è aumentata in maniera costante, arrivando a fine 2017 al 32% (di questi l’86,5% è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria). Nel secondo semestre 2017, sempre in Italia, sono stati attivati 165 corsi professionali, con un totale di 2.184 partecipanti. Trento: per la Garante dei detenuti più di duecento colloqui in 5 mesi di Erica Ferro Corriere del Trentino, 17 aprile 2018 Oltre duecento colloqui in cinque mesi e almeno lo stesso numero di richieste ancora pendenti. Di fronte a questi numeri è facile intuire il motivo per cui, secondo Antonia Menghini, “il rapporto con le persone ristrette sia l’attività che deve avere il peso maggiore”. Nominata garante dei diritti dei detenuti nel giugno dell’anno scorso, insediatasi a ottobre, la docente dell’università di Trento ha tracciato ieri un primo bilancio della sua attività all’interno della casa circondariale di Spini di Gardolo: “Ci sono delle situazioni oggettive che fanno sì che nei confronti degli stranieri irregolari alcuni diritti non trovino piena attuazione - spiega - e anche quell’ideale percorso trattamentale che dovrebbe sfociare in un progressivo reinserimento nella società trova difficoltà a essere applicato”. Non a torto, del resto, Spini di Gardolo viene definito “atlante carcerario”: delle 305 persone attualmente detenute al suo interno, infatti, 211 sono straniere. “È dal 1992 che nella struttura di Trento la percentuale di presenze straniere oscilla fra il 70 e il 75%” chiosa Tommaso Amadei, responsabile dell’area educativa della casa circondariale. “Molte volte mi trovo a dover spiegare al detenuto che per quanto riguarda la vicenda giudiziaria il garante non è competente, ma lo sono gli avvocati e gli organi giudicanti - continua Menghini - diversi mi hanno chiesto di poter cambiare cella e far capire loro che questo rientra nella discrezionalità dell’amministrazione penitenziaria, dunque non lede un diritto, non è facile”. Lo stesso dicasi per le richieste di trasferimento: “Le domande sono moltissime, in primis per avvicinarsi al proprio nucleo familiare e poter effettuare i colloqui che sono importanti per il mantenimento delle relazioni-evidenzia la garante-ma oggi come oggi non c’è un vero e proprio diritto e vedersi riconoscere il trasferimento non è facile”. “In Trentino - aggiunge - ci sono voluti otto anni per arrivare all’approvazione della legge istitutiva del garante e i detenuti si sono trovati ad avere una figura di riferimento nuova che prima non esisteva: questo giustifica il numero consistente di richieste di colloquio che ho ricevuto”. Che quella di Spini sia una delle strutture con la maggior presenza di stranieri è dovuto, secondo la garante, anche al “ritocco verso l’alto” della capienza del carcere da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: un paio di anni fa, i posti disponibili sono stati decretati 418, “quindi è una delle poche realtà italiane a risultare non sovraffollata”. Sulla carta. Gli stranieri sono le persone più frequentemente oggetto di trasferimento. Non solo. “Non si può non prendere atto che siano discriminati” sostiene Menghini. “A causa della ridotta conoscenza della lingua italiana - sottolinea -della difficoltà nel definire un percorso trattamentale adeguato, per la mancanza del permesso di soggiorno e dei collegamenti sul territorio fondamentali, ad esempio, per accedere alle misure alternative, concedere un permesso premio o lavorare all’esterno. Il diritto alla rieducazione deve valere per tutti”. All’incontro di ieri ha partecipato anche l’avvocato Giuliano Valer, che ha illustrato ruolo e peculiarità del difensore. Ascoli Piceno: chiusa sezione del 41bis; da Riina a Cutolo, tanti i criminali passati picenonews24.it, 17 aprile 2018 Non c’è più nessun detenuto nella sezione del 41bis, il cosiddetto carcere duro, nella casa circondariale di Ascoli Piceno, a Marino del Tronto. Già da qualche settimana era iniziata a circolare la voce che la sezione fosse in fase di smantellamento e proprio in questi giorni è stato completato il trasferimento di tutti i detenuti che vi erano rinchiusi. Resta aperta la sezione che ospita i detenuti per reati comuni. Si chiude così un’epoca iniziata nel 1980 quando l’istituto a Marino del Tronto venne aperto e divenne presto carcere di massima sicurezza per volere del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ospitando detenuti che hanno segnato e sono stati punti di riferimento della storia criminale italiana ed internazionale. Tra questi Alì Agcà, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II, i boss della mafia Totò Riina, Pippo Calò, Leoluca Bagarella, il rapinatore Renato Vallanzasca. Vi sono stati detenuti anche diversi brigatisti rossi, tra i quali l’ideologo Giovanni Senzani. Con alcuni di loro il boss della camorra Raffaele Cutolo nel 1981 imbastì, proprio nel carcere ascolano, una trattativa per liberare l’allora assessore regionale ai lavori pubblici in Campania, il democristiano Ciro Cirillo sequestrato dalle Brigate Rosse. Padova: appello del parroco ai fedeli “ospitate a casa un detenuto” di Luca Marin Il Gazzettino, 17 aprile 2018 “Caro parrocchiano se hai del coraggio ti invito ad ospitare un carcerato albanese di 42 anni ai domiciliari. Lo farei io stesso ma sono combattuto perché da pochi mesi ho allontanato dalla canonica un marocchino che non si stava comportando bene. Sinceramente, mi verrebbe la voglia di passare per le case di Rustega dove vive un uomo solo e fare il postino e chiedergli di “fidarsi” e accogliere cristianamente un carcerato che deve scontare il residuo di due anni di pena al Due Palazzi a Padova per spaccio di droga”. Don Marco Scattolon, parroco a Rustega di Camposampiero, nella sua settimanale cartolina inviata alle famiglie, ha sorpreso tutti con la decisione di pubblicare sul bollettino parrocchiale la sua corrispondenza con M.B., albanese di 42 anni, detenuto per motivi di droga, desideroso di venir ospitato in canonica per scontare ai domiciliari i restanti due anni di detenzione. “Caro padre - aveva scritto una lettera lo scorso febbraio il detenuto a don Scattolon - le chiedo di accogliermi nella sua parrocchia. Se da parte sua c’è la possibilità di darmi ospitalità, mi concederebbero i domiciliari e così potrei reinserirmi nella società recuperando anche i rapporti con mia moglie e mio figlio che non ho potuto vedere da quando è nato. Potrei fare del volontariato senza retribuzione; sono giovane e con tanta voglia di fare, disposto a qualsiasi lavoro, vedrà che non la deluderò”. Ferita - Ma don Marco si dice “costretto” a dire di no. Troppo fresca è la ferita dell’allontanamento d Mohammed Taoufik, 33 anni, marocchino ospitato per due anni nella canonica della parrocchia di Rustega dove stava scontando gli arresti “domiciliari”. Una convivenza diventata nel tempo difficile e sempre più complessa. Il tribunale di sorveglianza aveva deciso di riportare l’uomo in carcere Il carcerato albanese M.B., però, al primo diniego, non si è perso d’animo e ha scritto a fine marzo una seconda lettera a don Marco. “Del suo no ne ha anche ragione, vista la delusione con un’altra persona che ha avuto - sostiene nuovamente il detenuto - È vero che ho commesso degli errori e non ne vado fiero, anzi mi pento di aver spacciato droga facendo del male, ma come la penso oggi non lo rifarei più. Nella mia vita ho ricevuto solo no, non sono mai stato aiutato, ho sempre dovuto arrangiarmi, soffrendo molto. Mi dia la sua disponibilità o anche magari di un suo parrocchiano. Potrei dare una mano per qualsiasi tipo di aiuto”. Il 42enne arrestato per spaccio ha nuovamente “toccato” il cuore di don Marco che nell’ultima cartolina ha ammesso le sue titubanze ed ora chiede ai parrocchiani un gesto d’amore, di fraternità e di accoglienza. Venezia: il Sindaco Brugnaro “no inasprimento pene, ma renderle certe” Ansa, 17 aprile 2018 Non serve un inasprimento delle pene, ma renderle certe e farle scontare in carceri capienti che siano in sintonia con la dignità dei detenuti. È il pensiero del sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro. “Inizierei a fare 10-20 grandi carceri di massima sicurezza, nel senso che poi vengano garantiti i principi fondamentali dell’uomo, cosa che probabilmente oggi questo non succede a causa del sovraffollamento - ha spiegato. Carceri col rispetto delle regole di convivenza, con la garanzia che siano offerti tutti i servizi per una detenzione dignitosa. Che ci siamo posti di lavoro nelle strutture penitenziarie e non più pagati con l’assistenza pubblica, ma magari con lo sconto di pena”. “Credo che vada cambiata anche la politica della pubblica amministrazione relativa alla polizia penitenziaria, che deve essere più pagata” ha aggiunto Brugnaro, secondo il quale c’è “da rivedere un certo approccio anche dal punto di vista tecnico. Un cittadino che si prende una denuncia non dorme la notte e resta implicato nella macchina della giustizia. Poi ci sono dei delinquenti cronici che si muovono liberamente con 15-20 denunce a piede libero e quando vengono giudicati quei reati sono già stati prescritti”. Per il sindaco di Venezia “rischiamo così di attirare i delinquenti di tutto il mondo. Va fatto un cambio di rotta, c’è la necessità di un segnale di inversione e non serve a nulla intensificare le pene”. Pescara: “La Città”, progetto di architettura partecipata per il carcere di Francesca Latini architetturaecosostenibile.it, 17 aprile 2018 ViviamolaQ è un’associazione di giovani ragazzi che da anni si impegna per diffondere l’architettura partecipata e l’autocostruzione sul territorio abruzzese, al fine di contribuire alla rinascita dei territori segnati dal sisma del 2009. I progetti di ViviamolaQ, come quello nel carcere di Pescara, mostrano sempre un grande interesse verso il sociale e sono un importante esempio di come l’architettura possa essere al servizio della società per creare luoghi migliori e di come questi influiscano sui rapporti sociali e umani. È importante che i cittadini si sentano parte del loro territorio e dei loro luoghi. L’architettura partecipata permette di raccogliere le esigenze, i problemi, di chi vive in un territorio e poter proporre un progetto mirato che crei luoghi migliori. Inoltre i cittadini, partecipando attivamente alla fase di costruzione e realizzazione di un’opera, possono sentirsi parte attiva di un cambiamento positivo e della ricostruzione dei propri luoghi. Il nuovo intervento “La Città”, il cui nome racchiude già il concetto alla base del progetto, interessa la Casa Circondariale di Pescara. L’idea è quella di riportare materiali naturali, ciò che c’è fuori all’interno e di coinvolgere i detenuti nella realizzazione. Dai progettisti di ViviamolaQ: “Il progetto si è basato, in primis, sul prestare ascolto alle voci, ai desideri e alle esigenze di chi cerca di recuperare agli errori commessi, di chi aspetta un’occasione per dimostrare il cambiamento a cui si sta faticosamente rieducando. I detenuti coinvolti nei primi laboratori di partecipazione espressero il sogno di dare spazio ad un loro preciso obiettivo: una città nel carcere. Un dentro che potesse apparire un fuori, un luogo se non vero, almeno verosimile dove poter dialogare su una panchina, passeggiare lungo un corso fatto di colore, natura, e veri materiali, tangibili da poter davvero toccare. In quel mondo fatto di chiavi, barriere, porte, sbarre”. Catanzaro: studiare la Costituzione in carcere di Mario Vallone* patriaindipendente.it, 17 aprile 2018 Le ragioni e i contenuti del progetto in partenariato tra la Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro e il Comitato provinciale Anpi della città calabrese. Ci misuriamo qualche volta con cose più grandi di noi. Di sicuro più grandi di chi scrive; forse proprio per questo è meglio parlarne. La questione delle carceri si presta bene come paradigma di vari discorsi: dalla democrazia-sicurezza-libertà alla possibilità reale di fare i conti con la Carta costituzionale e la salvaguardia dei diritti umani. Lontano da noi l’idea di inoltrarsi in discorsi che hanno bisogno di altre e alte conoscenze. Certo non sarebbe male comprendere meglio il significato di alcuni provvedimenti - peraltro ancora in discussione - come il testo di riforma dell’ordinamento penitenziario e chiedersi perché qualsiasi aspetto riguardante la vita dei detenuti scateni sempre il peggio in tanta parte della politica e dell’opinione pubblica. Proposte indirizzate a rendere dignitosa la vita, già senza libertà, diventano immediatamente nel discorso pubblico provvedimenti svuota-carceri, strade piene di delinquenti; ladri e assassini in libera uscita, la sicurezza dei cittadini a rischio, e il solito florilegio di assurdità. Inutile spiegare, solo per fare un esempio, con studi attendibili alla mano, come il miglioramento della vita detentiva comporti il calo, meglio sarebbe dire il crollo, della recidiva dal 60 al 19%, scendendo addirittura all’1% per chi lavora. Insistere sull’idea di misure alternative alla carcerazione, privilegiando il percorso rieducativo e riabilitativo, fa subito gridare allo scandalo. A ben vedere, invece, si tratta di scelte complesse che per intanto escludono chi ha commesso delitti di mafia e terrorismo. Sarà sempre la magistratura di sorveglianza a stabilire caso per caso chi può eventualmente accedere alle pene alternative. Potrebbe forse aiutare la lettura di un bel libro di Gherardo Colombo laddove dice: “Continuavo a pensare che il carcere fosse utile; ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?”. Forse in molti ricorderanno la legge che porta il nome del nostro Presidente emerito Carlo Smuraglia, legge 22 giugno 2000, n° 193 “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti”, meglio conosciuta come “legge Smuraglia”, che già alla fine degli anni 90 poneva uno sguardo diverso sul mondo carcerario. Come dicevamo all’inizio sono questioni più grandi di noi. Ecco perché, allora, realizzare un progetto in carcere sulla Costituzione nel suo 70° anniversario dall’entrata in vigore e perché allargare la visione sulla Resistenza e la lotta di Liberazione. Ne abbiamo parlato su Patria del 22 febbraio con “Resistenza e Sopravvivenza”. Nella Casa circondariale di Catanzaro si è tenuto il primo corso a livello nazionale di Sociologia della sopravvivenza. Vi è stato un ottimo riscontro da parte dei detenuti coinvolti e l’apprezzamento della dirigenza dell’Istituto. Se si vuole dare un senso profondo ad ogni singolo articolo della Carta costituzionale non bisogna dimenticarne nessuno. A partire dall’art. 27, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, strettamente legato all’art. 13 e poi all’art. 3, col suo famoso comma sulla rimozione degli ostacoli per rendere effettiva l’uguaglianza dei cittadini. Ci pare dunque davvero necessario prendere le distanze da ogni concezione punitiva. Dai pensieri di quanti si sentono sollevati nel vedere il male rinchiuso in carcere, senza porsi minimamente il problema di quante vite si potrebbero salvare se non si agitasse come una clava lo spirito vendicativo delle pene. Si deve, in buona sostanza, secondo noi, riconoscere che i luoghi di detenzione ci appartengono. Stanno nelle città alla pari con tutto il resto. Bisogna prenderne atto. Questo ci dice la Costituzione, e agire di conseguenza nel migliore dei modi. Per una maggiore comprensione delle finalità di quanto si potrà fare col progetto richiamato, si rimanda al documento stipulato tra la Casa circondariale “Ugo Caridi” e il Comitato provinciale dell’Anpi di Catanzaro. Vogliamo solo richiamare la particolarità di alcune scelte, come la lettura delle “Lettere dei condannati a morte nella Resistenza italiana” unitamente alla conoscenza del Campo di internamento di Ferramonti. Letture e studio di periodi storici finalizzati alla conoscenza della deportazione, delle leggi razziali volute dal regime fascista. Insomma è un tentativo di far entrare la Costituzione e la Storia per la porta principale di un carcere. Far rivivere - per quanto possibile - la tensione dei partigiani e poi dei Padri costituenti nella stesura della Carta costituzionale è un modo per avvicinare persone che hanno sbagliato a valori forti e idealità smarrite ancora recuperabili nella speranza di una nuova vita. Per questo ci sentiamo davvero onorati per il contributo che riusciremo a portare come Anpi. *Presidente Comitato provinciale Anpi Catanzaro Roma: “Il cielo in una stanza”, progetto del Soroptimist per il carcere di Francesco Litrico Caruso oltrelecolonne.it, 17 aprile 2018 “Il cielo in una stanza” fa parte di un più ampio progetto del Soroptimist International d’Italia, volto alla tutela dei diritti umani, e che, in questa ottica, ha l’obiettivo di creare nelle carceri di varie città del nostro Paese uno spazio di tranquillità e di serenità, dove i figli possano essere accolti per incontrare i genitori detenuti. quindi, rendere meno duro l’impatto con il carcere. Il Club Roma Tiber del Soroptimist International ha realizzato il progetto nel carcere Regina Coeli di Roma, grazie alla disponibilità della direttrice, d.ssa Silvana Sergi. Qui una delle stanze è stata decorata con delle pitture murali: dolci, delicate, quindi tali da rendere il posto accogliente ed avvolgente. Sono stati affidati agli studenti del corso di decorazione dell’Accademia di Belle Arti di Roma, coordinati dalla prof.ssa Sabina Alessi, che hanno realizzato le pitture murali nella stanza, facendola diventare un luogo per un sogno di libertà. Studenti: Veronica Pellegrini, Luca Pontassuglisa, Michele Ladu. La sala d’attesa è stata abbellita, infine, con dei dipinti del Maestro Carlo Cupini, donati dalla presidente del Club Roma Tiber Maria Grazia Di Filippo. La presentazione avverrà a cura di Maria Grazia Di Filippo e Sabina Alessi presso il carcere Regina Coeli di Roma, sabato 21 aprile 2018, ore 11. Milano: il dolce suono degli strumenti dei detenuti di Zita Dazzi La Repubblica, 17 aprile 2018 Usciranno dal carcere in dieci per fare uno spettacolo in un teatro, e già questa è una notizia, perché da Bollate non è facile ottenere il permesso di “evadere”, anche solo per un giorno. Si porteranno dietro il loro “Sgiansa”, che nel gergo del penitenziario, è il mitra. Un mitra pacifico, però. Uno strumento musicale alto tre metri, una specie di totem costruito artigianalmente in prigione, fatto di vari tipi di percussioni, che producono suoni e ritmi simili a quelli delle tribù. I dieci detenuti partecipano a un progetto partito in autunno con le scuole secondarie inferiori e superiori coinvolte negli incontri dell’Associazione sulle Regole di Gherardo Colombo. Una cinquantina di ragazzi dell’Einaudi di Varese, del musicale Quasimodo di Magenta e dell’istituto comprensivo Munari di Milano, accompagnati da un quintetto di ottoni, da un pianista, impegnati a mettere in scena l’opera del compositore Sebastiano Cognolato. Un musicista, che a 48 anni, dopo gli studi al Conservatorio, è diventato un nome della classica contemporanea affiancando compositori come Lorenzo Ferrero, Ludovico Einaudi (di entrambi è stato assistente in diverse produzioni), Giovanni Sollima, Filippo Del Corno e Carlo Galante. Sul palco del teatro Bruno Munari di via Bovio 75, sabato prossimo, alle 17.30, oltre ai bizzarri ed ecologici strumenti musicali costruiti dai detenuti con materiale di riciclo sotto la guida di un esperto musicista e costruttore di strumenti, Ulisse Garnerone, ci saranno i carcerati del gruppo rock di Bollate e i giovani delle scuole che lavorano sulla legalità. Tutti assieme suoneranno e con le loro voci canteranno, bisbiglieranno e declameranno i versi di una jail-opera che inizia così: “Sasta grillo lustri pacco/Varta musa fanghe zao/Cucca pula faca scabio/ Stildo rapa stua”. “Si chiamano “strumenti idiofoni” e producono suoni tipici della musica regionale, etnica, anche italiana delle origini, sono strumenti popolari, costruiti a mano e modificati nel tempo - spiega il compositore Sebastiano Cognolato. Gli studenti leggono sottovoce testi legati alla giustizia e alla prigionia selezionati in classe: il bisbiglìo è inserito in diverse sezioni della partitura come voce espressiva da eseguirsi con diverse dinamiche: dal pianissimo, una sorta di rumore bianco che alimenta gli altri suoni, a un fortissimo assordante”. Sarà una ben strana rappresentazione quella in scena sabato - per il momento non sono previste repliche - al teatro Munari (ex Buratto), con i detenuti che cantano un testo originale costituito esclusivamente da fonemi del gergo carcerario, intervallato da un’elaborazione originale del soggetto e del controsoggetto della prima fuga da L’arte della fuga di Johann Sebastian Bach. La performance sarà arricchita da un coro di voci bianche e da un intervento della poetessa Gaia Formenti. Entusiasta del progetto anche il direttore del carcere di Bollate. Massimo Parisi: “Noi diverse volte portiamo all’esterno della struttura i detenuti per iniziative di diverso genere. Questo ha un effetto duplice. Lo facciamo sia per rendere conto alla collettività di come il carcere può essere anche una risorsa per il territorio, sia per incidere sulla cultura dell’esecuzione penale e anche per un discorso di reinserimento sociale. Chi è dentro a questi progetti ha la possibilità di rimettersi un po’ in gioco, è un aspetto del percorso “trattamentale”. In effetti Bollate è da sempre un penitenziario dove si sperimentano i progetti più innovativi di attività laboratoriale e per consentire le misure alternative alla detenzione in articolo 21, cioè anche con il lavoro esterno. “Voglio sottolineare anche - aggiunge Parisi - il contributo fondamentale del nostro personale che accompagna all’esterno i detenuti in una logica non solo di controllo e di sicurezza ma anche di reinserimento sociale. Questo incide anche sull’identità della polizia penitenziaria”. Caso Facebook. La privacy è libertà dunque non negoziabile di Carlo Nordio Il Messaggero, 17 aprile 2018 Tra poco più di un mese entrerà in vigore il nuovo Regolamento Europeo sul trattamento dei dati personali. Il testo è stato approvato due anni fa, ma la sua applicazione è stata rinviata al prossimo 25 maggio per consentire agli interessati di studiarlo e di uniformarsi ai suoi precetti. Tuttavia qui non ci occupiamo delle conseguenze giuridiche di questa complessa normativa. Ci interessa piuttosto spiegarne la natura e gli obiettivi: perché questi riguardano tutti noi, i nostri diritti e le nostre libertà. Coincidenza vuole che questa disciplina stia per entrare in vigore proprio in concomitanza con il caso Facebook, che ha crocifisso il geniale Mark Zuckerberg davanti alla Commissione americana. Lui ha promesso di rimediare: ma intanto il danno era stato fatto. Probabilmente, se questo regolamento fosse entrato in vigore prima, il pasticcio sarebbe stato evitato, almeno per noi europei, ma questa è una congettura: l’efficacia intimidatrice della legge spesso cede alla convenienza di un guadagno certo, ingente ed immediato, come quello conseguito dall’intraprendente giovanotto. Ma riepiloghiamo il problema. Esso può essere ricondotto a un consolidato principio militare: ciò che vola può esser abbattuto, ciò che naviga può essere affondato, ciò che è fisso può essere aggirato. Con l’aggiunta che tutto ciò che va in rete può essere conservato e rielaborato. Qui tuttavia occorre distinguere: ci sono notizie assolutamente segrete, che né oggi né ieri potevano essere divulgate. Sono i dati protetti in quanto tali, come il conto corrente della banca, il numero della carta di credito o la prenotazione fatta in hotel: essi possono essere acquisiti, senza il consenso del titolare, solo dal magistrato. Naturalmente un hacker può captarli fraudolentemente, come un ladro può entrare in casa mia o aprirmi la corrispondenza. Ma commetterebbe un reato e finirebbe in galera, anche senza il nuovo regolamento. Ci sono invece dati che volontariamente comunichiamo al pubblico: per vanità, interesse, noia, curiosità o semplicemente per emulazione gregaria: cosi fan tutti. La captazione di questi dati è ovviamente lecita, anzi è auspicata da chi li diffonde. E allora dove sta il problema? Il problema sta nel fatto che questi dati, che diffondiamo in modo gratuito come massima manifestazione della nostra libertà espressiva e apertura sociale vengono raccolti, elaborati, analizzati e incrociati e, attraverso opportuni algoritmi, costruiscono il cosiddetto profilo del soggetto, di cui si individuano i gusti e le tendenze gastronomiche, sessuali, politiche, estetiche ecc. Questo pacchetto confezionato viene quindi venduto a società che acquisiscono potenziali clientele mirate, alle quali indirizzare, apertamente o addirittura in via subliminale, messaggi di ogni tipo: da quelli pubblicitari a quelli elettorali. Detta così potrebbe sembrare una bufala: chi è tanto fesso da farsi influenzare da questi telematici venditori di tappeti? Ahimè, più di quanto non si creda. Schiere di psicologi sanno come sfruttare al meglio le nostre intime oscillazioni per intervenire al momento giusto e venderti un prodotto che non avresti comprato neanche con una pistola alla nuca. Chiedo scusa ai professionisti del settore se sono stato un po’ sommario: ma il problema è davvero serio, e il Regolamento europeo arriva appena in tempo. Esso introduce per le aziende obblighi di monitoraggio e di analisi dei flussi informativi, e vincoli nell’utilizzo dei dati, sanzionandone la violazione con multe severe. Afferma il principio che queste dati hanno anche un valore economico, assimilabile al diritto d’autore, e quindi non si può farne un utilizzo gratuito traendone profitto. E infine definisce i limiti di compatibilità tra libertà e privacy, tra iniziativa commerciale e doveri civili. L’importante, ora, è che venga attuato con procedure rigorose attraverso organi altamente competenti. Anche se l’ultimo avvertimento va rivolto al cittadino, che deve diventare il primo difensore di se stesso, come quando sbarra la porta di casa: meno informazioni divulga, meno rischi corre. Sia meno spericolato, ma più prudente: perché, come diceva un saggio, la conoscenza è potere, ma solo la saggezza è libertà. Gino Strada: “Il movimento pacifista? Finito” di Maurizio Giannattasio Corriere della Sera, 17 aprile 2018 Il fondatore di Emergency: “Il movimento pacifista è finito dopo che i politici del centrosinistra sono saltati sul carro. Poi sono andati al governo e hanno rifinanziato le missioni di guerra”. Gino Strada, fondatore di Emergency, lei è stato sempre molto critico nei confronti di Salvini. Poi se ne esce con queste parole: “Sono contento di vedere che anche lui dice qualcosa di intelligente. Molto meglio questa posizione contro la guerra che non quelle contro i migranti”. Ha cambiato parere? “Condivido quello che ha detto sulla Siria per una ragione molto semplice. Perché sulla guerra vale l’articolo 11 della Costituzione: l’Italia ripudia la guerra. Poi, certo non basta perché detta così, senza spiegarlo, lascia la possibilità di sguazzare da ogni lato. A mio avviso bisogna uscire da tutte le alleanze militari, demilitarizzare il nostro Paese, togliere le basi altrui, non partecipare a nessun conflitto, richiamare i soldati italiani. Cerchiamo di fare un passo in avanti”. Le ricordo quando diceva che l’Europa doveva preoccuparsi più dell’avanzata del razzismo delle destre incarnate da Salvini che dell’Isis. “Non prendiamo le frasi fuori dal loro contesto. Mi sa dire che danni ha fatto finora l’Isis in Italia? Che crimini ha compiuto l’Afghanistan nel nostro Paese visto che i nostri militari sono lì da quindici anni? Perché queste domande non le fa nessuno?”. Insomma, Strada ha cambiato parere o no su Salvini? “Non ho mai cambiato parere. Mi fa piacere il suo giudizio sulla guerra. Ma sui migranti ha posizioni razziste e disumane. Mi piacerebbe invitare tutti quelli che gridano all’invasione ad andare per una volta alla tendopoli di Rosarno dove opera Emergency tutti i giorni. Vi assicuro che non farei mai vivere i miei figli o i figli di Salvini in quella porcheria che chiamano accoglienza. Lì ci sono persone che hanno vissuto tragedie che non ci immaginiamo neanche. Ci vuole senso di altruismo, bisogna sentirsi società e non solo conto in banca e portafoglio”. Lei non ha usato parole tenere neanche nei confronti del Movimento. Teme un governo Lega-5 Stelle? “Non temo nessun governo e non c’è una formula di governo che mi fa paura anche se non credo si possa andare avanti senza. Per quanto mi riguarda il ripudio della guerra è il mio argomento principale, quello con cui ho deciso di convivere. E sulla guerra ho visto fare le stesse porcate da una parte e dall’altra. Prendiamo il programma dei Cinque Stelle che riporta pari pari l’articolo 11 della Costituzione. Ma il programma non può essere il ripudio della guerra tout court, deve articolare questo ripudio con le cose che ho detto prima”. Porcate a destra e sinistra. Che rimane? Il movimento pacifista? “Il movimento pacifista è finito dopo che i politici del centrosinistra sono saltati sul carro. Poi sono andati al governo e hanno rifinanziato le missioni di guerra. Altra porcata in Libia dove sono andati a dare il pizzo ai torturatori che è come pagare i narcos. E l’hanno fatto con i soldi della cooperazione per gli aiuti umanitari”. Strada, la sensazione è che lei farebbe un’alleanza anche con il diavolo basta che ripudi veramente la guerra. “Assolutamente sì. Se fosse serio e non truffaldino, se avesse il potere di far cessare le guerre e lo facesse in modo ampio, farei fatica a chiamarlo diavolo. Guerre nel nome del buon Dio ne abbiamo fatte pure troppe”. Caporalato. La rivolta dei braccianti sikh, i nuovi schiavi dell’Agro Pontino di Niccolò Zancan La Stampa, 17 aprile 2018 Nelle campagne del Lazio negli ultimi due anni si sono suicidati dieci braccianti. Ripiegata in quattro dentro la sua carta d’identità, tiene una vecchia busta paga. È l’ultima busta paga di Zulfqar Ahmed, bracciante agricolo nato in Pakistan il 10 giugno 1961, codice fiscale HMDZFQ61… “Lavorava tutti i giorni della settimana, compresa la domenica mattina. Ma il padrone lo pagava solo 20 ore al mese. Totale: 164 euro. Zulqfar era disperato. Ma non si lamentava. Pensava che qui fosse la regola. Solo che non riusciva letteralmente a vivere. Un giorno, durante il passaggio da un campo di lavoro all’altro, si è staccato dal gruppo e si è impiccato alla trave di una serra”. Negli ultimi due anni nelle campagne dell’Agro Pontino, fra cocomeri, meloni, stelle di Natale e mozzarelle di bufala, si sono suicidati dieci braccianti. Ma nello stesso tempo, altri 150 lavoratori sono riusciti a denunciare le condizioni di sfruttamento nei campi e le violenze subite all’interno delle aziende agricole. Hanno chiesto aiuto. Firmato verbali. Trovato più di 450 testimoni. Se questo tentativo di alzare la testa è stato possibile, è grazie al lavoro di un sociologo italiano di 43 anni. Il suo nome è Marco Omizzolo, origine venete, casa a Sabaudia. È lui ad aver organizzato il primo sciopero della storia dei braccianti sikh. Quattro mila persone radunate in Piazza della Libertà, davanti alla prefettura di Latina. Era il 18 aprile 2016. Una giornata mai vista. Da quel momento, le condizioni dei braccianti dell’Agro Pontino forse sono un po’ migliorate. La vita di Marco Omizzolo, in compenso, è peggiorata. E molto. Il 3 marzo 2018, per la quarta volta, ha ricevuto un avvertimento. La sua auto è stata presa a mazzate. “La cosa che mi ha inquietato di più, è che non avevo detto a nessuno del mio ritorno a casa”, racconta adesso. “Ero stato a Venezia per una lezione all’Università, sono rientrato di sera. Ho cenato dai miei genitori. Quando sono uscito, ho trovato la macchina con le quattro ruote squarciate, la carrozzeria completamente rigata e il parabrezza in frantumi”. C’erano già stati altri avvertimenti. Insulti per strada. Uno striscione allo stadio. Un volantino anonimo in cui lo accusavano di fare soldi sulla pelle degli indiani, perché violenza e delegittimazione colpiscono sempre insieme. “Non posso dire che la situazione mi lasci indifferente”, dice Omizzolo. “Vivo un’ansia continua. Non so da chi devo guardarmi le spalle. Ma non saprei fare altro che questo lavoro. E voglio continuare a farlo”. A ben guardare, l’inizio di tutta questa storia era stata una semplice domanda. Cosa sta succedendo, qui, davanti a casa mia? “Fra Terracina, Sabaudia e Latina, vedevo questi ragazzi in bicicletta al mattino presto, ricomparivano a sera inoltrata. Erano tutti di religione sikh. Un comunità di cui non sapevamo nulla. Mi sono detto che l’unico modo per conoscerli era stare un po’ con loro, vivere la loro vita”. Così il figlio di emigrati si cala nei panni dei migranti indiani. Si fa assumere da un caporale, inforca la bici. E quello che trova nei campi, non è soltanto sfruttamento. Tutti devono chiamare il datore di lavoro “padrone”. Stanno in ginocchio nella terra anche per quattordici ore al giorno. Chi protesta, viene preso a bastonate e scaricato davanti al pronto soccorso con l’avvertimento di stare zitto. Il ricatto è sempre perdere il lavoro. Ci sono referti. Ossa spezzate. Silenzi. La paga oscilla da un massimo 4,50 euro l’ora a un minimo di 50 centesimi. Per sostenersi, soprattutto i braccianti più vecchi, fanno uso di sostanze dopanti: metanfetamina, scarti dell’oppio, farmaci antispastici. E da poco, nei campi del Basso Lazio, è arrivata anche l’eroina. Omizzolo scopre un’organizzazione internazionale che parte dal Punjab e finisce a 70 chilometri da Roma: “I braccianti vengono fatti arrivare da un intermediario che si occupa di tutto. Devono pagare 8 mila euro prima del viaggio, altri 4 mila euro al caporale. Vengono arruolati sulla base di un racconto totalmente falsato della realtà. Pensano di venire a lavorare nel Paese del Bengodi. Il datore di lavoro li chiama attraverso il sistema delle quote, quindi hanno anche un permesso di soggiorno. Sono in regola, apparentemente. Ma appena atterrano, precipitano all’inferno”. Aver denunciato tutto questo non porta amici. “Restano in pochi”, dice Omizzolo. Il Gruppo Abele di Don Ciotti si è schierato dalla sua parte. Come l’ex procuratore Giancarlo Caselli, che gli ha scritto una lettera in qualità di presidente dell’Osservatorio sulle agromafie: “Conosciamo molto bene, e da sempre apprezziamo, il coraggio e la serietà assoluta con cui Ella si dedica ad un problema rischioso, complesso e difficile come quello del caporalato. Ora, nel modo peggiore ma al tempo stesso perversamente significativo, ne abbiamo avuto conferma attraverso la prepotenza e protervia di chi vorrebbe continuare a vivere nell’illegalità sfruttando i più deboli”. Tremila braccianti abitano al “Residence Bella Farnia Mare”. Costruito negli Anni Ottanta, doveva essere un gioiello turistico ma è fallito. Un posto letto costa 150 euro al mese. È una piccola città indiana nel Lazio. Sono loro che domani mattina andranno ancora ad inginocchiarsi nei campi. “Il problema è l’indifferenza delle istituzioni e della politica”, dice Marco Omizzolo. “Su 21 comuni della zona, solo tre hanno preso posizione contro il caporalato. Il fatto è che qui lavorano 10 mila aziende. È un sistema che fa comodo a molti. Parliamo di guadagni enormi. Ecco perché tengo nel portafoglio l’ultima busta paga di Zulfqar. Come poteva sopravvivere, lui, da solo, con 164 euro al mese?”. “Libia non sicura per i migranti”. Dissequestrata la nave Open Arms di Leo Lancari Il Manifesto, 17 aprile 2018 Per il Gip di Ragusa il comportamento della ong legittimato dallo stato di necessità. A prescindere dall’esistenza o meno di una zona Sar (ricerca e salvataggio) attribuibile a Tripoli, la Libia non può essere considerata un porto sicuro per i migranti viste le condizioni in cui vengono trattenuti. Inoltre non si ha nessuna certezza che Malta avrebbe acconsentito allo sbarco dei migranti tratti in salvo il 15 marzo scorso dalla nave Open Arms. Sono le due motivazioni principali che hanno portato il gip di Ragusa Giovanni Giampiccolo a rigettare ieri la richiesta di sequestro della nave della ong spagnola ferma nel porto di Pozzallo dal 18 marzo scorso su ordine della procura distrettuale di Catania, sequestro in seguito mantenuto dal gip della città etnea che ha però fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere contestata al capitano della nave Marc Reig Creus, alla capo missione Ana Isabel Montes Mier e al coordinatore generale della ong Gerard Canals. I tre restano comunque indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E infatti l’avvocato Alessandro Gamberini, uno dei legali che assiste l’ong, si dice soddisfatto della decisone del gip ma, spiega, “abbiamo vinto una battaglia, credo che la guerra legale non finisca qui ma continuerà e sarà lunga”. Una guerra che sembra riguardare più in generale l’attività delle ong impegnate nel salvataggio dei migranti nelle acque antistanti la Libia. L’avventura giudiziaria della Open Arms comincia il 15 marzo, quando alla nave arriva dalla sala operativa della Guardia costiera a Roma un allarme riguardante tre gommoni carichi di migranti. Le imbarcazioni si trovano in acque internazionali ma l’intervento di una motovedetta libica, alla quale Roma attribuisce per la prima volta il coordinamento dei soccorsi, fa salire la tensione. I militari minacciano infatti con le armi gli attivisti della ong per farsi consegnare i migranti già tratti in salvo. La situazione si sblocca solo quando la motovedetta retrocede dalle sue intenzioni e si allontana. Proprio la decisione di non consegnare uomini, donne e bambini ai libici viene contestata dalla procura distrettuale di Catania, convinta che la ong spagnola abbia fatto in modo di portare i migranti in Italia a tutti i costi. Accusa che i difensori della Opens Arms contestano, convinti che consegnare i migranti ai libici sarebbe equivalso a condannarli a subire maltrattamenti e torture. Una tesi condivisa dal gip di Ragusa Giampiccolo: le operazioni di soccorso, è scritto nel decreto, “non si esauriscono nel mero recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in un luogo sicuro” come previsto dalla Convenzione di Amburgo del 1979. Condizione fondamentale che non corrisponde però al paese nordafricano. Le informazioni disponibili, argomenta infatti il gip nelle 16 pagine del decreto - “indicano ancora la Libia come luogo in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani (con persone trattenute in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento, senza accesso a cure mediche e ad un’adeguata alimentazione e sottoposte a maltrattamenti, stupri e lavori forzati)”. Il dissequestro della nave spagnola è vista come una vittoria. “Il ritorno in mare di Proactiva sarà fondamentale per salvare vite nel Mediterraneo centrale, è stato ad esempio il commento di Sos Mediterranee. Soddisfazione anche da parte di Emma Bonino. Sulla vicenda della ong il segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi ha presentato un’interrogazione parlamentare. Ora la senatrice di +Europa si dice convinta che la decisione del gip di Ragusa rappresenti “un tassello molto importante nel percorso di assoluzione delle ong dopo quella che è stata una vera e propria campagna di attacchi forsennati”. Stati Uniti. Maxi rissa nel carcere di massima sicurezza: 7 detenuti morti blitzquotidiano.it, 17 aprile 2018 Nel carcere di massima sicurezza Lee Correctional Institution, in South Carolina, sette detenuti sono morti e altri 17 sono rimasti feriti nella violentissima lite. L’incidente è scoppiato domenica sera: le guardie carcerarie hanno impiegato ore prima di riuscire a riprendere il controllo della struttura. La prigione, rinomata per essere una delle più violente degli Stati Uniti, ospita 1600 carcerati. Non è la prima volta che si verificano episodi simili: è di qualche settimana fa la notizia di una guardia presa in ostaggio dai detenuti, anche in quel caso ci sono volute ore per liberarla. E ancora: lo scorso luglio un detenuto è morto al culmine di una lite sanguinosa. Mentre uno degli incidenti più gravi risale agli anni scorsi, quando un detenuto è riuscito ad avere la meglio su un secondino e dopo avergli strappato le chiavi dalla cintura, ha liberato gli altri detenuti. Spagna. 750mila indipendentisti catalani in piazza per chiedere il rilascio dei dirigenti jobsnews.it, 17 aprile 2018 Le strade di Barcellona ieri si sono tinte di giallo, con circa 315.000 persone, secondo le autorità, 750.000 secondo le organizzazioni, che hanno manifestato insieme e pacificamente per chiedere la liberazione dei leader indipendentisti. Lo riferisce il quotidiano “La Vanguardia” secondo il quale la lunga lista di ex consiglieri imprigionati o costretti all’esilio in Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Germania abbia portato partiti ed entità a dire basta, come sottolineato dallo slogan gridato a gran voce dai manifestanti: “Per i diritti e le libertà, per la democrazia e la coesione, vi vogliamo a casa!”. Intanto l’ex presidente della Generalitat catalana, Carles Puigdemont, ha chiesto “la fiducia” dei cittadini per affrontare la “grave anomalia democratica che la Catalogna sta vivendo” e si è detto favorevole alla ricerca di modi per “evitare nuove elezioni”. L’ex presidente ha anche sottolineato la possibilità di proporre un altro candidato, nonostante ammetta che questa via potrebbe non portare alla fine dell’applicazione dell’articolo 155 imposto dallo Stato. Alla manifestazione, organizzata dai principali movimenti secessionisti riunti in una piattaforma creata alal fine di marzo per la “difesa delle istituzioni catalane”, hanno aderito i due maggiori sindacati della regione: Comisiones Obreras e Ugt, spaccati al proprio interno tra chi ha scelto la strada indipendentista e chi invece ritiene che la Catalogna debba rimanere nella Spagna. La manifestazione arriva dieci giorni dopo il rilascio su cauzione di Carles Puigdemont in Germania, dove era stato arrestato: la giustizia tedesca non aveva ritenuto imputabile il reato di ribellione all’ex presidente della Generalitat. Resta aperta la materia dell’estradizione di Puigdemont, che Madrid vuole processare per sovversione e attentato allo Stato. Brasile. I vescovi si battono per un mondo senza carceri vaticannews.va, 17 aprile 2018 Nel corso della loro 56.a Assemblea generale, i 400 vescovi della Conferenza episcopale brasiliana riunita ad Aparecida, affrontano le sfide della missione e le questioni sociali del Paese tra cui il dramma delle carceri. Nel corso della loro riunione i presuli sono chiamati a preparare un documento sulla formazione dei nuovi presbiteri e la necessità di una formazione permanente. Ma l’assise ecclesiale è anche un’occasione per far sentire la voce della Chiesa sui problemi sociali che affliggono il Brasile tra cui il clima di violenza, la repressione della polizia e la questione carceraria. Preoccupazione dei vescovi per il cima di odio nel Paese - Padre Gianfranco Graziola, responsabile della Pastorale carceraria del Brasile, ha espresso la preoccupazione dei vescovi per il clima di odio che sta investendo il Brasile. “Una preoccupazione - ha detto - perché nel Paese non c’è più il confronto delle idee ma un odio viscerale per chi pensa differentemente da me il quale diventa un nemico da eliminare”. I problemi del Brasile non si risolvono con la forza e la violenza - Davanti alla crisi sociale ed istituzionale che attraversa il Paese - continua il responsabile della Pastorale carceraria del Brasile - il governo non risponde alle esigenze del popolo brasiliano ma solo alle esigenze della Banca Mondiale. Purtroppo nel governo centrale c’è chi pensa che i problemi si risolvono solo con la forza e con la violenza e non si affrontano le grandi questioni sociali come il narcotraffico che si combatte solo a livello poliziesco”. La pastorale brasiliana si batte per un mondo senza carcere - “Il carcere in Brasile è sovraffollamento, fonte di violenza - osserva padre Graziola - ed oggi non serve. La nostra pastorale si batte per un mondo senza carcere. Per questo abbiamo elaborato un documento, che abbiamo consegnato anche a Papa Francesco, nel quale affermiamo che il carcere deve essere superato da altre forme. Non è chiudendo una persona in una prigione che si risolvono i problemi. Perché il principio del carcere è che la persona non è più padrona di niente. La prigione svuota le persone e gli toglie qualsiasi volontà diventando un essere che deve solo obbedire. Diventa così un luogo di punizione e di controllo delle masse povere, negre e giovani delle periferie”. Bangladesh. Tra i Rohingya che sfidano i monsoni: “meglio nel fango che perseguitati” di Francesco Moscatelli La Stampa, 17 aprile 2018 Nei campi del Bangladesh i venti minacciano 150 mila profughi: “Lottiamo contro il tempo”. “I monsoni spazzeranno via tutto. Lottiamo contro il tempo”. Manuel Pereira, coordinatore per il Bangladesh dell’agenzia Onu per le migrazioni (Oim), sta insegnando ai Rohingya che vivono nel campo profughi più grande del mondo a costruirsi una baracca di plastica e bambù. “Fate una croce alla base dei pali, saranno più stabili” dice guardando preoccupato il nuvolone che fa sembrare la sottozona di Balukhali (“sabbia vuota”) una colonia lunare: gli uomini fanno su e giù dalle colline con la legna, i bambini inseguono i venditori di ghiaccioli, le donne, avvolte in lunghi chador, si aggirano silenziose con la spesa acquistata nei negozi del Wfp. Da mesi sopravvivono in un limbo giuridico ed esistenziale. Ma quello che si sono lasciati alle spalle nello stato del Rakhine, in Myanmar, è peggio. “I soldati hanno bruciato la mia casa” racconta Abdur Arfat, 20 anni, che proviene da Maungdaw. “Meglio morire nel fango che farsi ammazzare dal Tatmadaw (l’esercito birmano, ndr) com’è successo a mio padre” aggiunge Mohammed Rahman, 17 anni. L’esodo di questa minoranza musulmana in fuga dalle discriminazioni dei monaci buddisti più integralisti e dalle violenze ha avuto due picchi: nei primi anni Novanta (la legge sulla cittadinanza del 1982 non la riconosce fra le 135 etnie del Myanmar), e nell’autunno scorso, con 682 mila nuovi arrivi. “È la crisi peggiore dai tempi del Rwanda” sintetizza Suranga Mallawa del dipartimento di Protezione civile e assistenza umanitaria della Ue (Echo). Oggi nel distretto di Cox’s Bazar, famoso per la sua lunghissima spiaggia, ci sono 865 mila migranti: 33 mila registrati come rifugiati e altri 832 mila “contati” dal governo di Dacca, che li accoglie definendoli “cittadini birmani senza documenti”. La maggioranza vive nel megacampo cresciuto attorno a Kutupalong scacciando gli elefanti: è grande come Lisbona e per attraversarlo a piedi ci vogliono sette ore. Gli altri sono ospiti delle comunità locali con le quali condividono la religione e il 70% della lingua. La vita nei campi scorre fra code per le razioni di riso e monotonia. Seduto sotto una pianta di akashmoni nell’accampamento di Jadimura, Sirajul Islam, 40 anni, non trattiene le lacrime: “Voglio tornare a casa”. Corre nella capanna a prendere i documenti che dimostrano la sua storia: il foglio blu consegnato dal governo di Naypyidaw nel 2014 che lo definisce “ospite straniero” e una fotocopia del documento d’identità bianco che invece gli aveva permesso di votare alle elezioni del 2010. Oggi nel Parlamento del Myanmar non ci sono musulmani. I motivi delle persecuzioni, e dello speculare crollo dell’immagine di Aung San Suu Kyi, vanno cercati nel cortocircuito fra buddismo theravada, identità nazionale e rapporti con le minoranze che fa da sfondo al processo di democratizzazione dell’ex Birmania. Fra le baracche la paura per i 200 mila Rohingya rimasti nel Rakhine convive con quella di affrontare i monsoni. Sono attesi per maggio e l’Onu ha calcolato che 150 mila profughi potrebbero sparire sotto 2,5 metri d’acqua. “I rifugi sono costruiti su colline dove anche i fili d’erba sono stati sradicati per cucinare - spiega Caroline Gluck dell’Unhcr. L’altro pericolo sono le epidemie di difterite e colera. Qui non c’è più spazio”. Eppure il flusso prosegue. “Quelli che hanno arrestato mio marito mi ripetevano: “Sei bengalese e musulmana, qui non puoi stare”. Dove altro potevo andare?” si interroga Masuma, arrivata a fine marzo con tre figli. Il primogenito è già da mesi con uno zio a Balukhali, dove frequenta una madrassa. Nei campi l’istruzione è affidata per lo più agli imam e i monsoni sono il problema principale solamente a breve termine. Ce ne sono altri che rimangono stagnanti: l’analfabetismo e il rischio radicalizzazione. I cooperanti confermano che nei report sulla sicurezza si parla dell’Arsa (Arakan Rohingya Salvation Army) e di focolai jihadisti. “Più andrà avanti la crisi più la minaccia potrebbe concretizzarsi” ammette Mohammad Abdul Kalam, commissario del Bangladesh per l’assistenza e il rimpatrio dei rifugiati. E poi c’è la bomba demografica: secondo “Save the children” nei prossimi mesi ci saranno fra i 60 e i 100 mila parti. Molti sono i figli degli stupri commessi dai militari birmani. Come uscirne? La Marina del Bangladesh ha ufficializzato il progetto da 280 milioni di dollari che a giugno prevede di trasferire 100 mila Rohingya sull’isola disabitata di Bhasan Char, nel golfo del Bengala. La comunità internazionale spinge invece perché i Rohingya tornino nelle loro terre in modo “sicuro, volontario e dignitoso”. Il 12 aprile c’è stata l’unica visita di un ministro birmano (Affari sociali) nei campi profughi, seguita dall’annuncio di un primo rimpatrio: 5 persone. I tempi della diplomazia sono lunghi. Intanto migliaia di Rohingya potrebbero sfidare il Mar delle Andamane, finendo come schiavi sui pescherecci thailandesi e nelle case di Kuala Lumpur, mentre il mondo si gira dall’altra parte. Non è un caso che il governo di Sheikh Hasina sottolinei con ogni mezzo che Cox’s Bazar deve tornare a essere una località turistica: nei campi è vietato utilizzare materiali di costruzione duraturi e i Rohingya non hanno libertà di movimento. “Ieri è arrivato un uomo con un cancro che altrove sarebbe curabile - confessa Karin Smo della Croce Rossa, direttrice dell’unico ospedale con una sala operatoria -. L’abbiamo dovuto mandare nella sua capanna a morire”.