Progetto di confronto con le scuole. Il coraggio di non nascondere il passato Il Mattino di Padova, 16 aprile 2018 Potrebbero tornare nell’anonimato e non raccontare più di essere stati in carcere, e invece non nascondono nulla di quel passato: sono le persone che mentre scontavano una pena hanno partecipato al progetto di confronto con le scuole e ora, usciti a fine pena, invece di cancellare quella brutta esperienza decidono di continuare ad andare nelle scuole a portare la loro testimonianza, a spiegare ai ragazzi come è facile scivolare in comportamenti a rischio e rovinarsi la vita commettendo reati e finendo in carcere. Quelle che seguono sono le testimonianze di Lorenzo, che finita di scontare la pena va nelle scuole a fare prevenzione parlando dei suoi comportamenti di ragazzo irresponsabile, e quella di Giovanni, che uscito dal carcere vorrebbe esportare un progetto come quello di Padova anche al Sud del nostro Paese. Non ho più cercato alibi Il progetto con le scuole è un vero e proprio incontro con l’altro, un incontro caratterizzato dall’ascolto reciproco. In carcere ho sempre partecipato agli incontri con le scuole, ma non potendo uscire, non avevo mai incontrato gli studenti più giovani, quelli di terza media. Nel primo incontro ho sentito subito il peso delle mie responsabilità. Non che l’avessi perso, anche perché ora non sarei neanche dietro a questo computer a scrivere, ma il racconto di una professoressa mi ha dato una forza maggiore per continuare questo percorso di cambiamento. Credo di essere una persona profondamente cambiata, ma so che devo continuare a lavorare per rafforzarmi, per rafforzare la consapevolezza di ciò che sono stato per proseguire nella giusta via. Dopo la narrazione delle nostre storie, come sempre, abbiamo lasciato spazio ai ragazzi con le loro domande e molte riflessioni. Ero meravigliato dalla loro loquacità, dalla loro voglia di capire il perché da giovani noi eravamo attratti da cose molto superficiali, materiali, e non pensavamo alle nostre famiglie, alle persone che subivano il nostro reato. E proprio mentre riflettevamo tutti assieme sulle vittime di reato, una professoressa è intervenuta per raccontare una fase della sua infanzia, ci ha raccontato che il padre, direttore di banca, aveva subito svariate rapine mentre lavorava. Anche se tardi, io ho imparato ad assumermi le mie responsabilità e lo dimostro a me stesso e alla società rispettando le regole che non ho mai voluto rispettare, le regole per una buona convivenza sociale. Mi è capitato molte volte di ascoltare una storia di una persona che aveva subito un reato e tutte le volte il loro ascolto è stato pesante, ma come un atto dovuto, la consapevolezza che devo ascoltare. Fa riaffiorare i ricordi dei miei gesti violenti, mi riporta inevitabilmente il peso della mia colpa per aver segnato la vita dell’altro, non solo l’altro come persona che ha avuto a che fare direttamente con il mio reato, ma anche tutte le vittime indirette che il mio reato ha toccato. La professoressa raccontava che il giorno della rapina a casa non era stata la solita giornata e neanche quelle a seguire, qualcosa si era rotto nella loro quotidianità e una persona come me era stata la causa di quella rottura. Da quando ho iniziato questi incontri con le scuole, non ho mai cercato alibi, non me la sono mai sentita di avere lo stesso atteggiamento che mi aveva caratterizzato in tutta la mia vita, ho sentito che con gli studenti non potevo mentire. Certo il mio vissuto familiare è stato complicato, ma ciò non toglie che ho sempre fatto io delle scelte, scelte che sono riuscito a mettere in discussione proprio grazie agli studenti e a tutti i vissuti delle vittime che ho avuto il privilegio di ascoltare. L’incontro con la società è quello che mi ha permesso di iniziare un percorso di ricostruzione della mia persona, e a sua volta la società ha compreso che l’incontro con il reo non può altro che generare una messa in discussione di se stessi in maniera critica. Grazie alla redazione di Ristretti Orizzonti non sono l’unico che ha beneficiato di quella che mi piace identificare come una vera e propria rinascita, ci sono altri ex detenuti che hanno beneficiato di questo cammino. Ed è proprio questo che, a mio dire, non fa funzionare il sistema penitenziario: il fatto che si tratti di un beneficio o di un privilegio per pochi. L’ingresso della società in un istituto deve avvenire come una cosa normale, l’incontro che si viene a creare è l’unico strumento che può abbattere l’alta recidiva che il nostro Paese vive da anni. Questo progetto è il progetto che rispecchia appieno il senso della Giustizia Riparativa, una giustizia che cuce quello strappo che inevitabilmente un reato crea nei confronti della società. Ma si ha sempre a che fare con persone nelle quali la voglia di mettere in gioco le loro convinzioni è sempre minore e questo credo che sia perché cambiare mette paura. Vedere crollare quel muro di convinzioni e di rigidi credi spiazza. Crollano le sicurezze, ma crollate quelle se ne devono creare altre più forti perché basate sull’incontro reciproco e sull’ascolto dell’altro. Lorenzo Sciacca Insegnamento per i ragazzi del Sud Gli incontri tra studenti e detenuti sarebbero d’insegnamento anche per i ragazzi del sud Dopo oltre trent’anni passati in carcere senza avere nessuna certezza sul proprio futuro se non quella di essere condannato ad una pena senza “speranza”, ovvero l’ergastolo, ritrovarmi libero, per una sentenza della Corte europea, in un mondo del tutto nuovo per me, ha avuto un impatto stravolgente poiché i ritmi della vita reale sono per davvero frenetici e nello stesso tempo ti “catturano”, sono quelle sirene da cui è molto facile rimanere incantato. Quello che mi ha aiutato sono stati gli incontri con le scolaresche che si tenevano presso il carcere di Padova. Credo che quell’iniziativa abbia un valore umano e culturale di alto livello sociale, oggi proprio grazie a quella iniziativa capisco cosa sono i giovani o almeno ci provo a capirli. Capita di chiedermi, io che sono nato al Sud, quanto i nostri incontri sarebbero potuti essere d’insegnamento nell’affrontare la vita di tutti i giorni anche per i ragazzi del sud... non vorrei certamente semplificare il ragionamento ma esiste ancora una questione “culturale” nel meridione che potrebbe essere colmata con quelle iniziative di confronto con le realtà “lontane” come lo è il carcere rispetto alla società esterna. Riflettendo su quello che è stato il mio periodo di detenzione a Padova e rielaborando il senso di quei confronti spesso molto crudi in quanto i ragazzi non si limitavano alle sole domande di routine, mi viene da fare una riflessione, ovvero la ricchezza di quel piccolo bagaglio culturale, fatto di consapevolezza dei nostri errori e voglia di raccontarli, che siamo stati in grado di trasmettere a quei ragazzi, cosa del tutto assente nei ragazzi che ogni giorno incrocio o ho la possibilità di ascoltare qui al Sud. Sono certo che la differenza sia abissale tra le due realtà del Paese. Mentre a Padova venivo visto come un soggetto positivo per aver intrapreso quel percorso rieducativo con i ragazzi delle scuole, qui da quando sono uscito dal carcere sono un “oggetto” di attenzione continua e di curiosità, a volte non tanto sana. A quei ragazzi che si sono posti delle domande dopo gli incontri avuti devo la mia profonda riconoscenza anche per avermi fatto riflettere su quella che è stata la mia esperienza del carcere, e per avermi permesso di dare un piccolo contributo affinché si siano potuti porre delle domande, e questo mi ha aiutato a crescere insieme a loro. Oggi che sono libero comprendo quanto siano state importanti per me queste tappe, ci si deve passare per apprezzarne la vera essenza e poi quando sei fuori ti ritrovi con quegli strumenti che ti permettono di guardare il mondo con occhi diversi e cercare di ricostruire un’altra vita con nuovi orizzonti, nuove prospettive, dove anche in una società totalmente arida quel seme di umanità di quel confronto tra detenuti e giovani studenti non potrà non attecchire. Giovanni Donatiello Tutela dell’ambiente ai detenuti. Raccolta differenziata negli istituti balzata al 98% Italia Oggi, 16 aprile 2018 Un protocollo d’intesa sottoscritto dai comuni e dall’amministrazione penitenziaria. Incrementare le opportunità di lavoro e di formazione lavorativa dei detenuti per la tutela dell’ambiente e il recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi e, al tempo stesso, stimolare l’avvio di progetti che coinvolgano la popolazione carceraria nella corretta gestione dei rifiuti, favorendo lo scambio di buone prassi all’interno degli istituti penitenziari. Sono queste le finalità del Protocollo d’intesa sottoscritto nei giorni scorsi in Via Arenula dal presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro e dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo. L’accordo di collaborazione, spiega una nota, prevede la promozione e l’attuazione di un programma sperimentale per coinvolgere i detenuti in attività lavorative extra-murarie rivolte alla protezione ambientale e al recupero del decoro degli spazi e delle aree di verde pubblico. Inoltre, le comunità penitenziarie saranno sensibilizzate a incrementare i livelli di raccolta differenziata e coinvolte nella promozione di modelli di gestione del ciclo dei rifiuti. In virtù del protocollo, l’Anci si impegna promuovere i contatti nei comuni sedi di istituti penitenziari per il raggiungimento degli obiettivi condivisi, e di favorire insieme con il Dap sia la partecipazione a bandi europei che la promozione di progetti da finanziare anche attraverso la cassa delle ammende. Il protocollo ha durata triennale, è rinnovabile e partirà in via sperimentale dai comuni capoluogo delle città metropolitane. Il programma delle attività, da aggiornarsi annualmente, sarà demandato a una apposita Unità paritetica di gestione, composta da due componenti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dell’Anci: questa struttura si occuperà di fornire indirizzi, supporto e linee guida per l’attuazione delle attività previste dall’intesa, nonché di monitorare l’andamento della sua operatività e le convenzioni che saranno stipulate su tutto il territorio nazionale. “Con questo accordo”, ha dichiarato il guardasigilli Andrea Orlando, “vogliamo sottolineare una volta di più l’importanza del lavoro come leva fondamentale del trattamento penitenziario. Governo e parlamento hanno scelto di andare verso un nuovo modello penitenziario, finalmente e realmente aderente al dettato della nostra Costituzione: un modello finalizzato non soltanto al reinserimento sociale dei detenuti e al conseguente abbattimento del rischio di recidiva, ma anche allo svolgimento di attività gratuite in favore della collettività come finalità riparativa della pena. Ha valore particolarmente significativo che le attività in cui saranno impegnati i detenuti siano mirate alla protezione dell’ambiente, tema fondamentale per il nostro paese”. “Questa intesa, che rinsalda e attualizza una collaborazione avviata nel 2012 sui lavori di pubblica utilità”, ha affermato il presidente dell’Anci Antonio Decaro, “mette alla prova la capacità di tutti noi di saper offrire un’opportunità a chi ha deviato dalla legge. I sindaci sanno bene che spesso i detenuti non sono feroci criminali, ma persone che hanno sbagliato, per svariati motivi. Per queste, soprattutto per i più giovani, il carcere dev’essere un luogo dove scontare la pena, ma anche una occasione di recupero e reinserimento nella società. In particolare al Sud, gli amministratori delle città conoscono le lacerazioni delle famiglie che vivono l’esperienza del carcere. Per questo abbiamo sposato con convinzione l’idea di un protocollo con il ministero della giustizia”, conclude Decaro, “che non obbliga al lavoro forzato, ma dà ai detenuti la possibilità di imparare un mestiere, contribuire alla cura del bene pubblico e riabilitarsi socialmente, agli occhi delle loro famiglie e delle comunità”. “Il protocollo presta particolare attenzione all’ambiente”, ha dichiarato Santi Consolo, “e valorizza al contempo la formazione e l’impiego lavorativo delle persone detenute. Da oltre 18 mesi l’amministrazione penitenziaria ha intrapreso un percorso virtuoso per incrementare la raccolta differenziata negli istituti che è passata dal 59% del luglio 2016 al 95% del marzo 2018. I detenuti impiegati, ad oggi, sono circa 570 e 973 sono le sezioni detentive in cui operano. Grazie all’accordo con l’Anci puntiamo a raggiungere il 100% della copertura a livello nazionale coinvolgendo anche quei comuni che ancora non hanno attivato il servizio. Il protocollo Anci-Dap può essere considerato un esempio di buona prassi strutturata tra pubbliche amministrazioni, utile all’intera collettività. Puntiamo sul lavoro dei detenuti nel trattamento dei rifiuti che da “rifiuti” si trasformano in risorse e beni per la collettività e l’ambiente”. Certezza della pena e certezza della penna di Enrico Mauro* leccenews24.it, 16 aprile 2018 Secondo una visione del mondo, i problemi di delinquenza sono quasi sempre problemi di sola delinquenza, di malvagità innata o acquisita. Chi delinque vuole delinquere, sceglie di farlo, magari gode nel procurare danno alle altrui persone o cose. Se si osserva il mondo da questa prospettiva, è naturale volere forze dell’ordine sempre più consistenti e armate, carceri sempre più numerose e meno confortevoli, controlli sempre più numerosi e rigorosi dell’immigrazione. In quest’ottica la certezza della pena è non solo importante, ma prioritaria rispetto a tutto il resto. In quest’ottica la certezza della pena può essere considerata una formula riassuntiva di tutto ciò di cui una società ha bisogno per vivere serena. Un mendicante dorme su una panchina di un parco o chiede l’elemosina in metropolitana? Più certezza della pena! Un automobilista osa fare l’elemosina dal finestrino a un lavavetri? Più certezza della pena! Insomma, il senzatetto non ha un problema, il problema del tetto. Il senzatetto è un problema, perché puzza, sporca e, soprattutto, rovina il paesaggio urbano (per informazioni più dettagliate si può scrivere al sindaco di Como). Secondo un’altra visione del mondo, i problemi di delinquenza sono spesso problemi prima di tutto sociali, di inclusione sociale, dovuti a mancanza di lavoro, di opportunità, di soccorso familiare, di sistemi privati e pubblici di protezione sociale, a fame, sete, freddo, mancanza di una casa. Chi delinque non ha scelta, o perlomeno non ne vede. Se potesse, lavorerebbe. Se sapesse a chi chiedere aiuto senza perdere l’ultimo briciolo di dignità, lo farebbe. Se si osserva il mondo da quest’altra prospettiva, forze dell’ordine, carceri, controlli dell’immigrazione e certezza della pena restano argomenti politici di rilievo, ma non esauriscono più il discorso politico e anzi non sono nemmeno più prioritari rispetto a tutto il resto. In quest’ottica il senza-casa non è più un problema, ha un problema, e quel problema non è colpa sua. Non è nato per essere barbone e non ha scelto di diventarlo. Ha vissuto circostanze molto dolorose che lo hanno condotto dov’è. Probabilmente è stato molto sfortunato. E forse qualcuno è stato malvagio con lui. Insomma, la società gli deve qualcosa. E la sua presenza non rovina l’arredo urbano, ma è l’occasione per i privati e per le istituzioni pubbliche di fare qualcosa di umano, di giusto. Egli non è in colpa per essere un senza casa. Le istituzioni e la società sono in colpa per averlo lasciato scivolare in quella condizione e non averlo ancora tirato fuori. Non è un problema di ordine pubblico. È un problema di redistribuzione, di giustizia, di umanità. E l’umanità non fa differenza tra italiani e stranieri. L’umanità non sa che farsene dei documenti di identità. Ci si dovrebbe dunque preoccupare un po’ meno della certezza della pena e un po’ più di quella che con formula riassuntiva di ogni specie privata e pubblica di aiuto del bisognoso si potrebbe chiamare “certezza della penna”. Ci si dovrebbe preoccupare dell’istruzione dei più deboli prima di tutto, perché non si riesce nemmeno a chiedere aiuto se non si è capaci di esprimere i propri pensieri e sentimenti. E poi ci si dovrebbe preoccupare di tutti quegli “ostacoli” che, secondo la disposizione costituzionale più bella e importante (art. 3, c. 2), “è compito della Repubblica rimuovere” per abbreviare le distanze tra debole e forte, tra ricco e povero. Senza dimenticare che “Repubblica” vuol dire Comune, Provincia, Regione, Stato, ma anche ciascuno di noi. *Docente di diritto amministrativo presso l’Università del Salento Giustizialismo, l’anima illiberale del diritto che uccide le garanzie di Cecchino Cacciatore Il Mattino, 16 aprile 2018 Il giustizialismo è il contrario del garantismo e non mi piace. Trasforma - come il direttore del Mattino Alessandro Barbano argomenta nel suo ultimo saggio “Troppi diritti, l’Italia tradita dalla libertà” - la giustizia in totalitarismo, promettendo un riscatto morale da spacciare per catarsi. Assume il volto di un contro potere, subordinando e comprimendo i diritti individuali e, dal momento che è dannoso per le sue finalità considerare la libertà un’energia in continua espansione, esso deve sacrificare la persona in nome di una giustizia assoluta, senza compromessi, salvifica. In tal modo - aggiunge Barbano - la variabile giudiziaria insiste sul destino della politica o dell’amministrazione: sete di giustizia e china illiberale. In estrema sintesi, è questo il commento che si potrebbe fare alla lettura del programma di riforma del processo penale ideato dal Movimento Cinque Stelle. La tendenza che si coglie è quella di una ipertrofia della dimensione penale, facendone uno strumento di controllo pervasivo sulla politica e sulla vita dei cittadini. In verità, c’è da concordare con Barbano allorché sostiene con fondamento che il viatico perverso è anche da individuarsi in quella risposta alla piazza che consiste nel prevedere la sospensione dall’incarico di un amministratore pubblico, per un periodo di almeno diciotto mesi, per i condannati, anche solo in primo grado, per reati quali l’abuso in atti di ufficio e chiamata Legge Severino. Di lì, a cascata, quello che Barbano definisce pensiero securitario; per costruire - lo ha addirittura detto Violante - una città giudiziaria nella quale prevalga una concezione autoritaria della vita pubblica. Pensiero securitario, dunque, che impone in tutte le relazioni civili il ricorso al sospetto e nel processo penale la progressiva riduzione di spazi di garanzia propri del contraddittorio. Di conseguenza, sulla base dell’orrendo principio secondo cui in Italia non esistono innocenti, ma colpevoli da stanare, si grida populisticamente alla paura e ai bisogni che sia urgente estendere le intercettazioni a un catalogo di reati ancora più ampio ed effettuarle con modalità ancora più invasive; stabilire premi economici per coloro che siano venuti a conoscenza di irregolarità e che facciano la soffiata; provocatori che sollecitino reati; legittimare, come nel caso di sequestri e misure di prevenzione, la valorizzazione delle mere congetture tralasciando di acquisire prove piene. A coloro i quali credono che un tale programma per il futuro non sia portatore di nefasti approdi, vorrei proporre la seguente riflessione finale. Si tratta di un diritto penale mosso unicamente - come di recente ha scritto Insolera - dalla dismisura del male e che ha come logico scopo la realizzazione dell’idea di affrontare con lo strumento della giustizia una ricostruzione storica in cui non vi sia spazio per altro che non sia sanzione da infliggere da parte dei vincitori, dannando la memoria dei vinti. Solo che il diritto, e in particolare la giustizia penale - ancora Insolera - ha sempre interagito con i conflitti politici, sin dalle vicende della democrazia ateniese (il processo dopo la battaglia delle Arginuse è un esempio). E’ un rapporto antico e dunque arcinoto. E’ noto, cioè, che tutte le volte che la giustizia penale è stata condizionata da costruzioni esterne della memoria di un popolo (vedi il fascismo) per il sostentamento anche per via giudiziaria di ideologie politiche e per la ricerca del consenso, il risultato finale è stato un doloroso congedo dall’attenzione garantista nei confronti dei fondamentali diritti civili. Mettere alla sbarra per il reato di panico di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 16 aprile 2018 La tragedia di Piazza San Carlo a Torino: ora si è scoperto che il botto è opera di una banda di delinquenti, ma la cultura dominante esige la “responsabilità politica” di ciò che è accaduto dopo quel rumore. Purtroppo il nostro codice non contempla il reato di panico, altrimenti il sindaco di Torino Chiara Appendino sarebbe stato accusato anche di quello. La tragedia di Piazza San Carlo a Torino con lo schermo in piazza per la finale di Champions con la Juve? Tutti hanno visto la sequenza di ciò che è accaduto in quella piazza piena: piena perché in tanti volevano esserci, non perché qualcuno ha costretto la folla ad ammassarsi lì. Uno scoppio, la fuga disordinata, la calca dissennata, le urla, le gente travolta da una forza irresistibile e ingovernabile che si chiama panico. Ora si è scoperto che il botto è opera di una banda di delinquenti, ma la cultura dominante esige la “responsabilità politica” di ciò che è accaduto dopo quel rumore che ha generato il panico: gli attentati, le bombe, i camion lanciati sulla folla, coltellate inferte alla cieca non sono motivo sufficiente per spiegare cosa ha gettato quella folla nel caos? No, perché noi vogliamo che esistano solo e soltanto le colpe politiche: il capro espiatorio, non la banda di rapinatori che ha fatto iniziare tutto. E dunque la Appendino va messa alla sbarra. Un modo un po’ brutale e sbrigativo per dare all’opinione pubblica il volto di un responsabile quale che sia, di un mostro, di un colpevole, di un untore. Hanno appena condannato in appello l’ex sindaco di Genova del Pd Marta Vincenzi per omicidio colposo dopo l’alluvione che aveva sconvolto la città. Omicidio colposo è un’accusa tremenda: significa mettere sulle spalle di un amministratore la responsabilità diretta della morte di qualcuno, significa una cosa gravissima, cioè gettare addosso a una persona l’immagine della colpa incarnata, di chi ha permesso che si potesse morire solo (solo?) per un’alluvione, attribuendole pure i misfatti urbanistici e idrogeologici del passato. E del resto una sentenza, poi fortunatamente smentita, aveva accusato gli scienziati e i tecnici che con la Protezione civile si occupano dei terremoti di aver indirettamente causato la morte di tante vittime del sisma dell’Aquila, sebbene uno dei dati acquisiti della cultura scientifica è che i terremoti non siano prevedibili, e che l’unica cosa prevedibile è che se non si costruiscono edifici antisismici nelle zone a rischio, prima o poi le conseguenze saranno catastrofiche. Troppo semplice, meglio i processi spettacolari. Mediterraneo, terra delle schiave “dell’oro rosso” di Giovanna Pezzuoli Corriere della Sera, 16 aprile 2018 Viaggio da Agadir a Ragusa tra violenza, sfruttamento e omertà. L’oro rosso sono fragole, lamponi, mirtilli, ciliegie e pomodori raccolti e confezionati da lavoratrici che hanno nomi come Kalima, Rachida, Elena, Nadina, Gaia, Menna, Fatima… Attraverso le loro voci si snoda il racconto di una violenza che “fatica a essere nominata”, tra ricatti e ritorsioni, turni estenuanti e paghe ridotte, in un crescendo di soprusi che spesso arriva alla molestia sessuale e allo stupro. Da Palos de la Frontera, il paese dell’Andalusia da cui salpò Cristoforo Colombo con le sue tre caravelle, a Vittoria, cittadina in provincia di Ragusa; da Andria, sul pendio inferiore delle Murge, a Souss-Massa, sulla costa atlantica del Marocco, viene alla luce un mondo sommerso e dimenticato, dove la voglia di resistere e il coraggio sconfiggono la paura delle punizioni e l’inutilità delle denunce. Seguiamo passo passo i rischi corsi e gli ostacoli incontrati da Stefania Prandi, giornalista e fotografa, che ha realizzato questo coinvolgente e documentato reportage, con oltre centotrenta interviste a braccianti, sindacalisti ed esponenti di associazioni. Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo (Settenove edizioni) è la sintesi di un lavoro di ricerca e di inchiesta sul campo: prima tappa, Palos de la Frontera, il più grande giacimento di fragole e frutti rossi d’Europa con diecimila ettari di serre che si stendono a perdita d’occhio e un fatturato di oltre trecentoventi milioni di euro. A rompere il silenzio è Kalima, di origine marocchina, arrivata con il contratación en origen, il programma per importare manovalanza stagionale. Kalima è andata al vicino commissariato di Moguer per denunciare le ripetute violenze di Abed, il supervisore marocchino che dorme all’interno della proprietà, portando con sé il referto medico della ginecologa. Nessuno la protegge, né la scorta; le dicono che sarà un caso difficile da vincere perché non ci sono prove. Ora è tornata in Marocco, mentre Abed continua a lavorare nella stessa azienda agricola. Nelle serre c’è una dinamica da kapò: alcune donne, investite di responsabilità informale dai proprietari, controllano le altre: chi parla viene considerata una “spiona” e viene punita, mentre le istituzioni voltano la testa dall’altra parte, così come le Forze dell’Ordine (“ho trovato un muro di gomma”, scrive Stefania). Ma un dato che aiuta a inquadrare la situazione è l’aumento del tasso di interruzioni di gravidanza nella zona, con il 90% di richieste fatto da immigrate. Poi, ci sono i fumi chimici del polo industriale di Huelva: a ridosso delle fabbriche, nella “Casa con le mosche”, che per il tempo della raccolta ospita marocchine, polacche, rumene, bulgare. Rachida da undici anni va e viene dal Marocco alla Spagna. Mostra la patina scura, lo strato creato dall’inquinamento che ricopre ogni cosa. “Ce lo troviamo addosso, ci rovina… prendiamo quattro antiinfiammatori al giorno perché altrimenti non sopportiamo il mal di testa”. Dalla Spagna all’Italia, dove vivono le braccianti dei campi di Vittoria, una miriade di serre con i pomodori ciliegino prodotti da circa tremila piccole e medie aziende ed esportati nel Paese e all’estero. Vi lavorano cinquemila rumene che guadagnano tra i cinque e i dieci euro al giorno meno degli uomini, e basta una lamentela per essere cacciate, esattamente come a Palos de la Frontera. Elena, madre di un bambino di dieci anni, ha subito violenze terribili da parte del suo capo e, grazie a una volontaria della parrocchia, ha trovato il coraggio di denunciarlo e di andarsene da quell’inferno. Ma l’unica prova era la sua parola e così il suo ex padrone è ancora in giro e l’ha minacciata. Ora lei non si fida più di nessuno, neanche dei volontari delle associazioni che alla fine spariscono tutti. A spezzare l’omertà diffusa, rendendo pubblici i crimini e la dinamica del ricatto, è stato per primo il parroco don Beniamino Sacco, che vive da oltre trent’anni a Vittoria, ma il ritornello di sindacati e associazioni a cui si rivolge Stefania è sempre lo stesso: “non so come aiutarla!”. Finalmente, grazie a un operatore suggerito dall’associazione Prometeo di Ragusa, riesce a continuare l’indagine: incontra Nadina e Tulipa due ventenni sposate che lavorano senza contratto e sono state più volte molestate. La figlia è rimasta con la nonna in Romania, troppo rischioso portarla qui, del resto nessuno dei bambini incontrati da Stefania studia regolarmente e soprattutto le bambine, che restano sole mentre i genitori vanno al lavoro, non sono al sicuro. Sono poche le azioni intraprese per migliorare le condizioni delle lavoratrici; secondo i sindacati le donne rumene ricevono un terzo di quanto prevede il contratto collettivo nazionale. Dovrebbero guadagnare cinquantasei euro per otto ore di lavoro. Petra ha una figlia adolescente e vive a Scoglitti, poco distante da Vittoria: finalmente ha trovato un padrone corretto ed è rimasta otto anni con lui. “Peccato che quando sono rimasta incinta, mi ha licenziato. Adesso ho un bel bimbo e sono disoccupata. Non voglio essere triste ma per noi non c’è giustizia”. Anche Jasmina si è ribellata al suo datore di lavoro che le aveva messo le mani addosso, e si è ritrovata da un giorno all’altro sulla strada con il marito e i due figli. Chi reagisce, ne paga le conseguenze, in Sicilia come in Puglia, dove si coltivano il 68 per cento del totale italiano dell’uva da tavola, il 35 per cento di pomodori e olive e il 30 per cento di ciliegie. Qui ci sono i caporali a controllare le braccianti e a compiere loro stessi gli abusi. Alessia, sposata con due figli, da dieci anni vive ad Andria e fatica a trovare lavoro: “Se si sparge la voce che sei una persona seria, non ti cercano facilmente per un contratto. Io lavoro a periodi… Questo è il destino di chi non accetta di fare certe cose”. Denunciare le molestie è un miraggio: a Taranto nel 2011 si è svolto il processo Dacia, dopo che le Forze dell’Ordine avevano scoperto centinaia di rumene costrette a prostituirsi per lavorare con stupendi da fame. Ma nonostante il sindacato Flai Cgil Bat (Barletta Andria Trani) si sia costituito parte civile, i diciassette caporali arrestati sono stati in seguito rilasciati e l’inchiesta verrà probabilmente archiviata perché non sono più rintracciabili le testimoni. Annalisa, come molte altre italiane della zona, è diventata bracciante agricola giovanissima, a 17 anni. Sulla busta paga venivano dichiarati milleduecento euro, ma in realtà lei ne riceveva novecento, certi mesi anche meno. Quando viene licenziata, salta fuori che non le hanno pagato nemmeno i contributi. Decide di fare vertenza con altre colleghe e da allora non ha più trovato un posto con un contratto. “Il mio capo, oltre a essere un farabutto, che ci ha messo nei guai con i contributi, era un porco. Si avvicinava, mi metteva le mani addosso, mi diceva cose sporche…”, racconta. Secondo Maria Viniero, che è stata bracciante prima di diventare rappresentante sindacale, il problema è che le donne in agricoltura sono considerate tutte prostitute. La colpa ricade su di loro, soprattutto se sono single, separate o divorziate. “Su dieci datori di lavoro della nostra zona, non dico sette, ma cinque ci provano e pesantemente, più con le straniere che con le italiane perché lo ritengono quasi uno ius primae noctis odierno”, aggiunge Rosaria Capozzi, responsabile del progetto Aquilone di Foggia. Gaia, nata e vissuta in provincia di Bari, una figlia di ventidue anni che va all’università, non voleva diventare l’amante del padrone e ha pagato il rifiuto con anni di soprusi e ripicche. Ha imparato a difendersi adottando un comportamento mascolino, ma deve sempre lottare perché è una stagionale, undici ore di lavoro al giorno, e non ci si può permettere di stare male. Un passo contro lo sfruttamento è stato fatto con l’approvazione della legge penale contro il caporalato, nell’ottobre del 2016, che inasprisce le sanzioni per i caporali e introduce la responsabilità per i datori di lavoro. Il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro viene punito fino a sei anni di carcere, che possono diventare otto in caso di violenza o minaccia. Un provvedimento sollecitato anche dalla tragica morte di Paola Clemente nel luglio del 2015: prendeva l’autobus ogni notte alle tre e mezzo dal suo paese, San Giorgio Jonico, per raggiungere Andria, a centosessanta chilometri di distanza; lavorava fino alle tre e mezzo del pomeriggio, riprendendo l’autobus per altre due ore. È morta a quarantanove anni per un attacco di cuore: a lei sono stati dedicati un libro (Morire come schiavi. La storia di Paola Clemente nell’inferno del caporalato di Enrica Simonetti) e un cortometraggio (La giornata di Pippo Mezzapesa). Dopo la legge, sono state aperte varie inchieste, una delle quali partita grazie alla denuncia di una donna picchiata per avere chiesto la regolarizzazione del contratto: in una delle conversazioni registrate, un caporale dice che alle braccianti, definite femmine, mule e capre, “servono sesso e botte per essere messe in riga, altrimenti non imparano”. Ultima tappa di questo viaggio scioccante è Souss-Massa, a un’ora di distanza da Agadir, meta del turismo occidentale all inclusive. È la più grande area del Marocco coperta da serre, destinata alla raccolta di ortaggi e frutta per il mercato estero; ogni anno vengono prodotti seicentocinquantamila tonnellate di pomodori perlopiù in grandi aziende gestite da spagnoli, francesi e olandesi. Le lavoratrici, che provengono nella maggioranza dall’Atlante marocchino, sono preferite in quanto non sono esigenti e non si ribellano. In particolare le mère célibataire, ovvero coloro che hanno avuto un figlio al di fuori dal matrimonio, stigmatizzate dalla società. Hafida e Nasma hanno entrambe 25 anni e raccolgono pomodori e fagioli: raccontano di venire continuamente insultate e angariate, mentre ogni scusa è buona per licenziarle. Le molestie sono all’ordine del giorno. “Succede sempre, a tutte. I nostri mariti non lo sanno, non possiamo raccontarglielo. Forse penserebbero che è colpa nostra, forse ci proibirebbero di lavorare. Ma noi abbiamo bisogno di quei soldi”. Rispetto a dieci anni fa c’è stato un miglioramento, dice il segretario dell’Umt (Union marocaine du travail) e si comincia a parlare di congedo per maternità, differenze salariali con gli uomini, e aumento di donne in posizioni di comando. Denunciare è importante se si vogliono ottenere dei diritti: sui tavoli dell’ufficio dell’Amdh (Association marocaine des droits de l’homme) ci sono spugnette d’inchiostro che servono alle donne per firmare i documenti con l’indice. “Usiamo questo metodo - spiegano - perché, quando tornano la volta successiva, non possono ritrattare quello che hanno detto”. Menna è stata molestata dal suo supervisore, che era un sindacalista e ha sostenuto che lei si era inventata tutto. La polizia e il sindacato non hanno fatto nulla sostenendo che era un suo problema. Alla luce di questa esperienza, ha deciso che non metterà mai più piede in un campo: da pochi mesi ha iniziato ad andare ad Agadir due volte la settimana per fare disegni con l’henné alle turiste. Non ha un guadagno regolare, ma almeno non ci sono capi. Nonostante l’ingiustizia diffusa, le marocchine non restano silenziose e hanno anche avuto il coraggio di esporsi mediaticamente, come Hajar al-Korgi, un’ex raccoglitrice di fragole del Nord del Marocco, che ha raccontato in un video le condizioni delle braccianti costrette a lavorare oltre dodici ore al giorno e a nascondersi se arriva un’ispezione. Secondo un recente rapporto solo nel 2013 ci sono state mille novecento dieci violazioni del codice del lavoro, incluse molestie, stupri e licenziamenti senza giusta causa. Persino Fatma, che porta un niqab marrone per nascondere la nuca e il volto, è stata molestata. Lei, come tutte le altre braccianti, sogna un lavoro diverso per le figlie e si impegna per farle studiare, ma per la maggior parte lo scatto sociale resta un miraggio. In tutti i luoghi dell’inchiesta, conclude Stefania Prandi, è radicata l’idea che per ottenere e mantenere il posto di lavoro si debba accettare uno scambio sessuo-economico, come viene definito dall’antropologa Paola Tabet: si deve cioè offrire sesso in cambio di una ricompensa, che nei casi analizzati consiste semplicemente nel poter lavorare. “Una regola non scritta, sottesa, un tabù, una realtà reiterata e silenziosa, sotto gli occhi di tutti, spacciata per normale”. Il carcere di Parma e il “Protocollo farfalla”: il filo fra Sisde e mafia parmaquotidiano.info, 16 aprile 2018 Il carcere di Parma è stato una delle basi operative dei servizi segreti italiani deviati. Questo pare emergere da una serie di indizi - sempre più numerosi - che appartengono alla storia del misterioso “Protocollo farfalla”, un accordo segreto e illecito fra il Sisde e l’amministrazione penitenziaria, all’oscuro della magistratura, per tenere rapporti con esponenti mafiosi, forse legato anche alla cosiddetta patto trattativa fra Stato e mafia. Un accordo la cui portata si cerca di comprendere da quando, nel 2014 su cui si è iniziato a far luce dal 2014, i relativi documenti sono stati desegretati. Nuove conferme sul ruolo di Parma emergono dal caso di Umberto Mormile, un educatore che lavorava nel carcere di Opera a Milano, ucciso in un agguato nel 1990. In questi giorni, la famiglia ha chiesto di riaprire le indagini sul caso, in cerca di verità: la sua morte fu attribuita al rifiuto di scrivere una relazione favorevole al boss Domenico Papalia, per la quale gli era stata offerta anche una tangente, relazione utile al boss per avere un permesso di uscita. Per vendicarsi del rifiuto, la cosca di Papalia lo freddò in strada. Secondo la famiglia, però, non fu solo la mafia a decidere l’omicidio, ma anche il Sisde, forse perché Mormile aveva scoperto od ostacolava i rapporti fra il boss e gli agenti segreti. Prima di andare a Milano, Papalia era stato in carcere a Parma, dove aveva potuto tenere regolari contatti con il Sisde, scambiando chissà quali informazioni in cambio di trattamenti di favore. Il coinvolgimento dei servizi segreti, nell’ambito del Protocollo Farfalla, è emerso da dichiarazioni di tre pentiti ‘ndranghetani. Stando alle loro dichiarazioni, furono proprio agenti del Sisde a ordinare ai sicari di rivendicare l’omicidio dal gruppo Falange Armata, nome all’epoca sconosciuto, ma che sarebbe ben presto diventato noto all’opinione pubblica per una serie di delitti efferati, dagli atti terroristici della Uno Bianca alla strage di Capaci. Ma Parma - uno dei 23 penitenziari attrezzati per il regime 41bis - è emerso altre volte in relazione a questo inquietante patto segreto Penitenziari-Sisde-mafia. Ad esempio, fu proprio dopo una visita al boss Bernardo Provenzano a Parma che la parlamentare Sonia Alfano venne a conoscenza del Protocollo Farfalla, che all’epoca - così disse - coinvolgeva 250 uomini dislocati su tutte le carceri che hanno il compito di tenere sotto controllo i detenuti al 41 bis. E a Parma proprio Provenzano venne trovato più di una volta ferito alla testa nel periodo in cui in Sicilia si iniziava ad indagare sulla trattativa Stato-mafia, sempre con telecamere d’ordinanza inspiegabilmente spente. Persone senza fissa dimora, niente arresti domiciliari di Francesco Barresi Italia Oggi, 16 aprile 2018 Gli arresti domiciliari non si applicano se il condannato non ha una fissa dimora. Lo spiega la Cassazione nella sentenza 1176/2018, che ha respinto la richiesta di un uomo condannato per resistenza a pubblico ufficiale. La Corte d’appello dell’Aquila accolse l’appello del pm, contro l’ordinanza del gip del tribunale di Pescara che rigettò l’applicazione del carcere per il pregiudicato, “in considerazione della modalità della condotta posta in essere dall’indagato (il quale fuggiva ancora ammanettato dopo una violenta colluttazione con gli operanti) e della personalità dello stesso (il quale vanta precedenti per furto in abitazione, appare dedito al traffico di sostanze stupefacenti, avendo al momento dell’arresto gettato un sacchetto contenente 21 grammi di hashish ed è attualmente detenuto in carcere per tentato omicidio in relazione ad altro procedimento)”. Infine il tribunale del riesame ha ritenuto “ogni altra misura meno afflittiva inadeguata, essendo l’indagato senza fissa dimora”. Il condannato però propose ricorso: la sentenza, qualora emessa con rito abbreviato e con una pena inferiore ai tre anni, darebbe beneficio agli arresti domiciliari. Ma i porporati di piazza Cavour hanno rigettato il ricorso perché “anche nell’eventualità in cui la pena comminata al ricorrente sia inferiore ai tre anni di reclusione legittimamente i giudici del riesame, preso atto che l’indagato risulta senza fissa dimora hanno reputato non applicabile la misura degli arresti domiciliari”. Richiedenti asilo, il Garante dei detenuti smonta l’accordo di Venezia Italia Oggi, 16 aprile 2018 Violazione della riservatezza dei dati sensibili, violazione del diritto alla difesa, possibile grave discriminazione. Queste le criticità che il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha individuato nel protocollo tra il tribunale e l’Ordine degli avvocati di Venezia sulla gestione delle udienze di discussione dei ricorsi in materia di richiesta di asilo. Sollecitato dal ministero della giustizia, il garante nazionale ha esaminato il testo del protocollo siglato a Venezia il 6 marzo scorso sulla gestione dei ricorsi avanti alla “Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea”. Il garante, si legge in una nota, esprime estrema perplessità sul tenore complessivo del documento e ritiene alcuni aspetti non accettabili per la loro possibile interpretazione discriminatoria. In particolare, appare al garante in violazione dei diritti fondamentali della persona la clausola prevista al numero 7 del documento: l’obbligo del difensore di comunicare al giudice le eventuali malattie infettive del suo assistito e di richiedere a quest’ultimo la produzione di un certificato che attesti l’assenza di pericolo di contagio. “Colpiscono negativamente l’impostazione culturale che tale disposto esprime e la lesione della tutela dei dati sensibili garantita dalla legge, del diritto alla riservatezza, del rispetto della dignità della persona”, spiega il documento. Il Garante ritiene inoltre che questa disposizione “vìoli il rapporto di fiducia intrinseco all’esercizio del diritto di difesa e si ponga in insanabile contrasto con i doveri di riservatezza e di segretezza riguardo a tutte le informazioni ricevute nello svolgimento del mandato difensivo, che il codice deontologico impone agli avvocati. Infine, la norma di fatto genera una ingiustificabile disparità di trattamento dei migranti che compaiono di fronte alla sezione specializzata del tribunale di Venezia rispetto a tutti gli altri utenti della giustizia, con il rischio di connotati discriminatori: non risulta infatti che analoghe precauzioni siano disposte in tutti i procedimenti giudiziari e nei confronti di tutte le persone che vi partecipano”, conclude la nota. Stupefacenti, no lieve entità se la cessione rientra in un’attività organizzata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 12 febbraio 2018 n. 6722. In materia di sostanze stupefacenti, è legittimo il mancato riconoscimento della lieve entità, di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, qualora la singola cessione di una quantità modica, o non accertata, di droga costituisca manifestazione effettiva di una più ampia e comprovata capacità dell’autore di diffondere in modo non episodico, né occasionale, sostanza stupefacente. Lo chiariscono i giudici della terza sezione penale della Cassazione con la sentenza 6722/2018. Affermazione condivisibile in quanto la questione circa l’applicabilità o meno dell’articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, non può essere risolta in astratto, ma deve trovare soluzione caso per caso, con valutazione che tenga conto di tutte le specifiche e concrete circostanze della vicenda, e ciò vale anche allorquando ci si trova in presenza di una attività di spaccio non occasionale ma continuativa. Infatti, come l’occasionalità della condotta non può da sola comportare sempre il riconoscimento della fattispecie della lieve entità, allo stesso modo, il suo contrario non può sempre costituire indice sicuro di inapplicabilità dell’ipotesi, dovendosi verificare se la condotta, pur connotata dalla predisposizione dei mezzi e dalla programmazione delle modalità esecutive, cioè da un’organizzazione, presenti contorni che consentano di ritenere minima l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma connesso al rischio di diffusività delle sostanze stupefacenti (di recente Sezione VI, 6 dicembre 2017, Buono e altro). In questa prospettiva, quindi, correttamente la Corte ha inteso che anche l’unicità della cessione può non escludere il diniego della fattispecie attenuata, in presenza di altre circostanze deponenti per una condotta non lieve. Per l’imputato di evasione confisca del patrimonio anche se non è condannato di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2018 Chi trae proventi con continuità e sistematicità dall’evasione fiscale e dalle truffe in danno alla pubblica amministrazione espone il patrimonio così costituito al rischio della confisca, applicabile, anche a distanza di tempo, dal tribunale sezione misure di prevenzione. È quanto emerge dalla sentenza 11846della seconda sezione della Corte di cassazione depositata il 15 marzo scorso. Il caso - La vicenda riguarda un imprenditore calabrese che, tra il 1995 e il 2010, era stato coinvolto in diversi procedimenti penali che lo avevano visto indagato o imputato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (reato previsto dall’articolo 640-bis del Codice penale) o di condotte di false fatturazioni ed evasione fiscale per ingenti volumi di affari. Tuttavia, nessuno dei procedimenti si era concluso con una condanna passata in giudicato; ciò in quanto in alcuni si era verificata la prescrizione del reato in grado di appello dopo una condanna di primo grado e in altri erano mancate le condizioni di procedibilità anche prima dell’inizio del dibattimento. Il tribunale - Nel 2016 il Procuratore aveva inoltrato al Tribunale di Reggio Calabria una richiesta di applicazione della misura di prevenzione personale e patrimoniale a carico dell’imprenditore. Egli veniva ritenuto soggetto pericoloso abitualmente dedito a traffici delittuosi, che viveva anche in parte con i proventi di attività delittuose. Veniva così invocata una ipotesi di “pericolosità generica”, prevista dall’articolo 4, lettera c), del decreto legislativo 159/2011. Il Tribunale aveva ritenuto che dai vari fatti accertati nei procedimenti penali a carico dell’imprenditore, pur conclusi per lui favorevolmente, era emersa una sua stabile dedizione ad attività illecite che gli avevano consentito di acquisire ingenti capitali. Tuttavia, questa sua condotta risultava solo fino al 2010 e, in assenza di altri elementi a suo carico per il periodo successivo, la sua pericolosità non poteva essere ritenuta attuale. Per questo il Tribunale non aveva applicato la misura di prevenzione personale, ma aveva egualmente disposto la confisca dei beni dell’imprenditore che risultavano essere stati da lui acquistati nel periodo in cui si era manifestata la sua pericolosità. La Suprema corte - La Cassazione quindi si è trovata ad affrontare un’ipotesi di confisca senza condanna e senza pericolosità attuale del titolare dei beni, ma ha considerato legittimo il provvedimento. Secondo la Cassazione, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) “De Tommaso contro Italia” del 23 febbraio 2017, che ha censurato la carenza di previsioni dettagliate nel Codice antimafia sul tipo di condotta da considerare espressiva di pericolosità sociale, non costituisce né sentenza pilota né diritto consolidato. Sicché non può avere conseguenze sui giudizi in corso. In altri precedenti della Cedu, poi, l’applicazione delle misure di prevenzione è stata ritenuta legittima purché ancorata a elementi certi e provati. E tali erano quelli raccolti nei procedimenti penali conclusi con dichiarazione di prescrizione, di per sè non preclusiva della valutazione della pericolosità. La confisca si deve considerare giustificata dall’articolo 1, comma 2, del Protocollo addizionale 1 della Convenzione che salvaguarda le norme interne sull’uso dei beni in conformità all’interesse generale e che quindi consente le procedure che accertino la pericolosità soggettiva e la presumibile origine illecita dei patrimoni. E ciò vale anche quando il patrimonio abbia origine illecita seppur il suo titolare non sia più dedito ad attività illecite. La sua origine, infatti, rende il patrimonio antisociale e altera la concorrenza sul mercato. Confisca di beni acquisiti in epoca successiva alla cessazione della “pericolosità” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione II civile - Sentenza 27 marzo 2018 m. 14165. In tema di misure di prevenzione patrimoniali, la “ragionevole correlazione temporale”, tra l’acquisto del bene e il momento di accertato pericolosità qualificata del proposto (necessaria per evitare il rischio di rendere particolarmente problematico l’assolvimento dell’onere dell’interessato di giustificare la provenienza dei beni, come evidenziato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 33 del 2018, sia pure relativa alla c.d. confisca allargata di cui all’articolo 12-sexies del decreto legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992) non esclude affatto che possa procedersi alla confisca anche di beni acquisiti in epoca anche di gran lunga successiva alla cessazione delle condizioni di pericolosità soggettiva, allorquando il giudice dia conto di una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi che dette acquisizioni patrimoniali siano la diretta derivazione causale proprio della “provvista” formatasi nel periodo di illecita attività. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 14165/2018. Si tratta di una sentenza che correttamente affronta il tema della confiscabilità in sede di misure di prevenzione dei beni acquistati dal proposto dopo il periodo di pericolosità qualificata. La decisione non elude affatto il problema della necessaria “misura temporale” che mira a evitare automatici e ingiustificati interventi ablativi anche relativamente a beni acquistati in epoca di molto successiva alla accertata cessazione della condizione di pericolosità. È un problema, del resto, su cui anche se relativamente alla confisca allargata ex articolo 12-sexies del decreto legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992 (ora, articolo 240-bis del Cp) è intervenuta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 33 del 2018, evidenziando l’importanza della considerazione del momento dell’acquisto, onde evitare il rischio di rendere particolarmente problematico l’assolvimento dell’onere dell’interessato di giustificare la provenienza dei beni. La Cassazione non ha affatto dimenticato tale autorevole insegnamento, ma ha correttamente evidenziato, valorizzando l’inquadramento sistematico e la ratio delle misure ablative dei beni acquisiti con proventi illeciti, che l’apprezzamento dell’intervallo temporale tra l’acquisto e la cessazione della condizioni di pericolosità non può condurre automaticamente a escludere la confiscabilità del bene, se e in quanto si dimostri in positivo che il relativo acquisto è stato possibile proprio avvalendosi di provviste illecite acquisite nello svolgimento dell’attività illecita, pur se questa risultasse confinata in un tempo remoto del passato. Tale conclusione - si motiva convincentemente - è coerente con la ratio della legge, corrispondendo a un dato di comune esperienza quale è quello secondo il quale l’autore di reati destinati direttamente o indirettamente a generare un arricchimento patrimoniale evita di regola di provocare fenomeni di “appariscenza” del suo nuovo status economico, ontologicamente incompatibile con i redditi dichiarati o l’attività svolta; tanto che, e non a caso, il sistema non solo tende a prevenire e reprimere le intestazioni fraudolente e le altre manovre volte a rendere “etero-vestite” le disponibilità patrimoniali, ma espressamente fa riferimento (cfr. articolo 12-quinquies del decreto legge n. 306 del 1992, convertito dalla legge n. 356 del 1992: ora, articolo 512-bis del Cp) a condotte elusive, volte proprio a scongiurare l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale. Del resto, si tratta di decisione che non è in contrasto neppure con l’autorevole precedente delle sezioni Unite, 26 giugno 2014, Spinelli e altro, laddove si è affermato, proprio in tema di confisca di prevenzione, che: “la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla cosiddetta “pericolosità generica”, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla cosiddetta “pericolosità qualificata”, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato”. Infatti, il richiamo alla “misura temporale” effettuato dalle sezioni Unite, non sembra affatto escludere l’aggredibilità di beni acquisiti pur dopo la cessazione del periodo di “pericolosità qualificata” se e in quanto si dimostri la riconducibilità delle provviste all’epoca di svolgimento delle attività illecite. Misure cautelari: nell’ordinanza applicativa è sufficiente la descrizione sommaria del fatto Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2018 Processo penale - Misure cautelari - Ordinanza del giudice - Contenuti - Descrizione sommaria del fatto - Garanzia del diritto di difesa - Sufficienza. L’ordinanza che dispone la misura cautelare richiede, ai sensi di legge, soltanto la descrizione sommaria del fatto, cioè una sintetica e sommaria precisazione delle linee esterne della contestazione, atta a consentire all’indagato di conoscere il fatto nelle sue linee generali e di esercitare il diritto di difesa, a differenza del capo di imputazione che presuppone, venendo con esso esercitata l’azione penale, la puntuale indicazione dei termini dell’accusa che viene in tal modo cristallizzata. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 27 marzo 2018 n. 14058. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - In genere - Descrizione sommaria del fatto e indicazione delle norme di legge violate - Nozione - Fatto contestato in modo tale da fornirne all’interessato conoscenza chiara dell’addebito - Sufficienza. Nell’ordinanza con cui il giudice dispone, su richiesta del pubblico ministero, la misura cautelare è sufficiente una enunciazione dell’addebito tale da consentire all’incolpato di comprenderne il fulcro e le coordinate cronologiche, topografiche e modali essenziali, sì da poter esercitare il diritto di difesa. Non è dunque nemmeno necessario che le ipotesi di reato contestate siano formalmente trasfuse in autonomi e specifici capi di imputazione, potendo esse risultare anche dal contesto della motivazione. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 4 dicembre 2014 n. 50953. Misure cautelari - Ordinanza giudiziale - Contenuti ex art. 292, comma 2, lett. b), c.p.p. - Enunciazione sommaria degli addebiti contestati - Sufficienza. Nell’ordinanza con cui il giudice dispone, su richiesta del pubblico ministero, la misura cautelare è sufficiente anche un’enunciazione riassuntiva delle accuse all’imputato, senza che sia necessario specificare eventuali elementi di dettaglio, purché vengano precisati tutti gli elementi necessari per permettere all’indagato di difendersi adeguatamente in ordine agli addebiti contestati. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 9 giugno 2014 n. 23978. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - In genere - Descrizione sommaria del fatto - Indicazione delle norme di legge violate - Formulazione degli addebiti con tecnica riassuntiva - Contestazione idonea a garantire una adeguata conoscenza degli addebiti - Sufficienza - Fattispecie. Il requisito della “descrizione sommaria del fatto con la indicazione delle norme di legge che si assumono violate”, previsto a pena di nullità della ordinanza applicativa di misure cautelari dall’art. 292, comma secondo, lett. b), cod. proc. pen., può essere soddisfatto dal Pm con una enunciazione anche riassuntiva delle accuse, purché vengano precisati tutti gli elementi necessari per consentire all’indagato di difendersi adeguatamente in ordine agli addebiti contestati. (Fattispecie in cui il capo di incolpazione indicava cumulativamente una pluralità di episodi di spaccio di stupefacenti, evidenziando la qualità e le quantità delle sostanze oggetto di singole cessioni, i nomi di alcuni degli acquirenti e il periodo complessivo nel quale si collocavano le condotte). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 8 aprile 2014 n. 15671. Milano: corsi in carcere per operatori di canile e dog sitter Corriere della Sera, 16 aprile 2018 Etologi e istruttori cinofili insieme per avviare un innovativo progetto di “pet therapy”. Si tratta di interventi di pet therapy ben strutturati, in cui, accanto ai benefici psico-educativi della relazione uomo-animale, viene erogata una formazione specialistica nel settore della cinofilia, che contempla figure professionali oggi molto richieste, per il continuo aumento del numero di animali da compagnia e la crescente attenzione pubblica a essi riservata. Durante questi interventi, le interazioni vengono monitorate scientificamente attraverso la valutazione e lo studio del comportamento degli animali coinvolti e delle dinamiche comunicative con e tra i detenuti. Va sottolineato l’importante elemento rieducativo dell’offerta, relativa ad attività e tipologie di lavoro che richiedono un’assunzione di responsabilità da parte della persona, per lo svilupparsi di un rapporto personale e di fiducia con gli animali e con i loro proprietari. Nell’ambito del progetto sono già stati proposti un corso di formazione di base ed uno specialistico per “Operatore di canile e dog sitter”, che ha portando 11 detenuti della sezione maschile a ricevere, primi in Italia per questa doppia qualifica, il diploma ed il tesserino tecnico, con il connesso diritto all’iscrizione all’Albo tecnico nazionale Csen. La consegna ufficiale è avvenuta durante un convegno che si è svolto a fine gennaio presso l’Aula magna dell’Università Statale. Avviato e consolidato all’interno del Carcere di Bollate, il nostro modello di Eac qualificante potrebbe, con il supporto di idonei finanziamenti, non solo continuare, ma anche essere esteso ad altre realtà penitenziarie nazionali, e verso altri beneficiari, quali i giovani in età lavorativa. Tra gli obiettivi futuri del progetto, inoltre, rientrano l’ampliamento dell’offerta formativa ad altre figure del settore, quale quella dell’educatore cinofilo, e il coinvolgimento dei cani ex randagi, mediante la stipula di apposite convenzioni con le strutture ospitanti. Il loro inserimento in questi percorsi, infatti, ne promuoverebbe il benessere e le competenze relazionali, portando ad un aumento delle probabilità di questi animali di essere adottati, col vantaggio di restituire loro la libertà e il benessere di una vita in famiglia, e di alleggerire l’affollamento di canili e rifugi. Federica Pirrone ricercatrice ed etologa Università degli Studi. Viterbo: presentato il progetto “Semi liberi” di Fabio Menicacci tusciaweb.eu, 16 aprile 2018 Il segretario nazionale dell’Ancos - Confartigianato, Fabio Menicacci, ha presentato presso la sala conferenze della Cciaa di Viterbo il progetto “Semi Liberi” fortemente voluto da Confartigianato Viterbo e amministrazione carceraria e finanziato con il contributo del 5 per mille. Rieducare e riqualificare i detenuti attraverso la definizione di percorsi legati alla costruzione di salute, ma anche educare i consumatori a immaginare luoghi altri di produzione di benessere queste i concetti che hanno contraddistinto gli interventi di Fabio Menicacci e del presidente dell’associazione Orto Marco di Fulvio. Operare l’integrazione sociale dei detenuti della casa circondariale di Viterbo attraverso la condivisione di un aspetto fondamentale della nostra vita: l’alimentazione. E’ questo l’obiettivo che il progetto si è posto insieme all’amministrazione carceraria di Viterbo, accompagnata su questo cammino dall’associazione Orto (Organizzazione recupero territorio e ortofrutticole). Dopo la presentazione si è tenuta una tavola rotonda mirabilmente condotta dal Martirano, del Corriere della Sera alla quale hanno partecipato: il D’Andria, direttore della casa circondariale di Viterbo, Siddi, sostituto procuratore di Vierbo, Fanti, responsabile dei servizi educativi della casa circondariale di Viterbo, Ferranti, magistrato, già membro di commissione Giustizia del Parlamento, De Robertis, giornalista e Senni, docente dell’Unitus. Il focus del dibattito è stato incentrato su come portare e realizzare all’interno del carcere progettualità nuove per fornire opportunità diverse di rieducazione e anche di formazione. I partecipanti alla tavola rotonda hanno contribuito al dibattito con il loro punto di vista e con la propria esperienza rispetto all’opportunità e alle proprie esperienze in materia di diversificazione dei percorsi rieducativi ed hanno sottolineato l’aspetto innovativo di come e se un carcere (già luogo di rieducazione e di allontanamento dalla comunità), possa diventare luogo di costruzione di benessere, di rientro nella comunità e a servizio della stessa, attraverso prodotti che possano essere tranquillamente commercializzati. Quindi rieducare i detenuti attraverso la definizione di percorsi legati alla produzione di prodotti salutari ma anche educare i consumatori a immaginare luoghi altri di produzione di tali prodotti. La detenzione è un aspetto critico del sistema sociale Italia, una realtà che riveste un ruolo centrale nel sistema giudiziario e per ciò stesso merita attenzione e considerazione da parte di legislatori e amministratori, ma anche della società civile. Accogliendo e rielaborando i dettati dell’agricoltura sociale, secondo cui il valore del lavoro si ritrova non solamente e non tanto nella produzione di reddito individuale, ma anche e soprattutto nel riconoscimento di bisogni, identità e diritto di tutela di istanze di libertà, è stato ideato e avviato il progetto “Semi Liberi” che trova come luogo ideale di affermazione dei principi dell’agricoltura sociale la serra riscaldata della casa circondariale di Viterbo: detenuti e volontari sono impegnati a produrre e rendere disponibili per la vendita a ristoranti, negozi e privati germogli freschi per il consumo crudo. Il progetto intende operare su due distinti e finora mai associati versanti: fornire prodotti per una corretta alimentazione e al contempo riqualificare persone sottoposte a restrizione della libertà, ridefinendo la destinazione di una struttura vivaistica già presente all’interno di un carcere. Assume centralità, a fianco del reinserimento di detenuti nel mondo del lavoro, la produzione “dal basso” destinata a creare un punto di contatto fra la società civile esterna e le persone sottoposte a restrizione della libertà. L’opera dei detenuti, che non hanno avuto modo di presenziare all’incontro, è stata segnalata da un totem dove erano esposti i frutti della produzione già avviata. A conclusione gli intervenuti hanno partecipato ad una proposta di degustazione crudista di germogli per mettere alla prova la qualità di “Semi liberi”. Pavia: intitolare a Pannella la via del carcere, proposta depositata in Municipio giornaledipavia.it, 16 aprile 2018 La proposta intende dedicare al leader radicale il tratto viario che da Via Vigentina porta al Carcere di Torre del Gallo. La proposta passa attraverso 3 cittadini di Pavia - l’iscritto al Partito Radicale Filippo Cattaneo, Claudio Raschini e Daniele Bertoloni - che hanno depositato al municipio un’istanza per chiedere di dedicare al leader radicale il tratto viario che da Via Vigentina porta al Carcere di Torre del Gallo. “Questa strada non ha un nome” dichiara Filippo Cattaneo, membro della giunta della Associazione Radicale Myriam Cazzavillan “ed è considerata un’estensione laterale della stessa Via Vigentina. Quasi dimenticata, come rischia di essere dimenticato il carcere, i carcerati e coloro che vi lavorano.” Non dimenticare il carcere - “Per questo secondo anniversario del 19 maggio 2016 abbiamo attivato e stiamo attivando richieste simili a quella di Filippo Cattaneo in varie città lombarde e non solo” dichiara il Segretario della Associazione Radicale Myriam Cazzavillan “Siamo partiti dalla richiesta di dedica del futuro giardino accanto all’antico cimitero ebraico di Mantova, della strada di fronte al carcere di Pavia e dalla co-intitolazione a Pannella del parco Spinelli a Paderno Dugnano ora partiamo anche con Pavia e Roma e altre città sono in arrivo. L’appoggio dei liberali - L’iniziativa di Pavia ha il merito di chiedere di far riposare la memoria di Pannella accanto alle persone per cui ha dedicato tutta la sua vita: i detenuti e tutti i membri di quella che lui chiamava la “comunità penitenziaria”. Naturalmente non ci stiamo limitando alle iniziative puramente commemorative ma stiamo conducendo anche visite alle carceri lombarde, come a quella di Vigevano del 24 marzo scorso. L’obiettivo è salvare oltre al ricordo le lotte di Marco Pannella: per questo servono 3000 iscrizioni al Partito Radicale, altrimenti non solo non verrà convocato un nuovo congresso ma verrà chiusa la forza politica a cui lui ha dedicato tutta la sua vita” E’ subito giunto l’appoggio dei liberali all’iniziativa “Sosteniamo e appoggiamo quanto voluto da alcuni cittadini di Pavia a ricordo del lavoro svolto dall’amico Marco Pannella che ricordo è stato iscritto nella Gioventù Liberale Italiana” ha dichiarato Diego di Pierro segretario provinciale di Pavia del Partito liberale e iscritto al Partito Radicale. Roma: il Centro Astalli ha presentato il report annuale sui migranti felicitapubblica.it, 16 aprile 2018 Il Centro Astalli di Roma ha presentato il suo report annuale, lanciando un vero e proprio allarme riguardo i migranti che riescono a sbarcare in Italia provenienti dalla Libia. Padre Camillo Ripamonti, durante la presentazione, ha puntato il dito contro i gravi traumi e le importanti conseguenze psicologiche per i migranti che, al loro arrivo, raccontano esperienze drammatiche che segnano il corpo e la mente soprattutto di chi è stato detenuto nei campi libici e necessita di attenzione, valutazione e cura. Il responsabile del Centro ha aggiunto che il calo del numero delle persone che arrivano in Europa per cercare rifugio non è una buona notizia, dal momento che questa diminuzione indica come i migranti vengano trattenuti nei campi di prigionia in Libia in condizioni disumane, e siano soggetti a vessazioni e addirittura a torture. Parlando dell’Italia, nel 2017 sono arrivati oltre 62.000 migranti in meno, cioè circa 120.000 contro gli oltre 180.000 dell’anno precedente. Come se non bastasse, il report del Centro Astalli indica con numeri crudi ma veritieri che il 25% delle persone che si sono rivolte allo sportello di ascolto ha vissuto sulla propria pelle esperienze di tortura e violenza e coloro che sono ritenuti in condizione di particolare vulnerabilità rappresentano il 40% del totale e sono, per la maggior parte, giovani donne. Senza dimenticare il problema dei minori non accompagnati che spesso sono incapaci di affrontare la lontananza e la solitudine. Inoltre, il report del Centro Astalli pone l’accento sull’inadeguatezza del sistema di accoglienza e in particolare della rete Sprar di seconda accoglienza con cui il Centro prevalentemente lavora: infatti, viene sottolineato, nel luglio del 2017 la rete copriva meno del 15% degli oltre 200.000 posti previsti. Viene anche segnalato con grave rammarico: “Continuiamo a registrare un numero crescente di persone che restano escluse dal sistema di accoglienza e vivono per strada. Si tratta in molti casi di richiedenti asilo che hanno abbandonato i Centri di accoglienza straordinaria dove erano stati inizialmente accolti e che, avendo ricevuto la revoca delle misure di accoglienza, restano tagliati fuori da ogni forma di supporto, materiale e legale”. L’appello finale del Centro Astalli è quello di lavorare il più possibile sulla strada dell’integrazione, spiegando che è necessario costruire ponti - anziché ergere muri - in società che sempre più spesso sono lacerate e divise, in cui gli indifesi diventano capri espiatori di situazioni che non dipendono da loro. Pescara: al Circus l’atto unico messo in scena da volontari e detenuti ilpescara.it, 16 aprile 2018 Lunedì 16 aprile arriva al Circus di Pescara, alle 10.30 e alle 17, “Quando si spengono le luci, storie del Terzo Reich”, rappresentazione teatrale tratta da un libro di racconti di Erika Mann, edito da il Saggiatore, liberamente adattato da Carla Viola e con la regia di Alberto Anello. Patrocinata dal Comune di Pescara, dalla Fondazione PescarAbruzzo e dall’Anpi, è organizzata dalla Casa Circondariale di Pescara e dall’Associazione Voci di dentro, Onlus che da anni opera all’interno delle carceri. Sul palcoscenico, in un atto unico di circa un’ora e quindici minuti, un cast d’eccezione composto da undici detenuti della casa circondariale di Pescara e sette volontari; l’ingresso è gratuito, per prenotazioni scrivere all’Associazione Voci di dentro al seguente indirizzo: teatro@vocididentro.it. “Lo spettacolo è già andata in scena con gran successo nel carcere di Pescara il 24 febbraio - illustra il presidente dell’Associazione Voci di Dentro Francesco Lo Piccolo - e torna in città dopo la data in programma all’Università D’Annunzio a Chieti dove si svolgerà la mattina dell’11 aprile (saranno presenti tra gli altri l’Ambasciatore di Israele Ofer Sachs, i rettori delle Università di Chieti e di Teramo), è frutto di un anno di lavoro dell’Associazione Voci di dentro. Al centro di questa nuova iniziativa della Onlus c’è il tema della violenza e della soppressione della libertà ad opera del regime nazista. Ma soprattutto è un momento di studio e di riflessione, di incontro tra persone, di dialogo e di confronto alla scoperta dell’altro, del rispetto, della fiducia e della collaborazione, contro resistenze, pregiudizi e insicurezze che possono creare fratture e muri. Dunque teatro per conoscere, perché il passato sia davvero di insegnamento per il nostro presente perché non accada più che l’altro sia considerato il nemico da uccidere. Perché l’altro è parte di noi, e la vita degli altri è la nostra stessa vita. Emozione, tensione, paura, magia, illusioni: c’è questo e tanto altro in questo atto unico. Un lavoro non facile: molti degli interpreti sono stranieri con qualche difficoltà con la lingua italiana e tanti sono dovuti essere sostituiti in più occasioni per via di trasferimenti e uscite dall’Istituto per fine pena. Un lavoro non facile anche perché realizzato dentro un carcere, luogo dove regole e tempi non sono certo uguali a quelli che ci sono nella società esterna. Ma alla fine il risultato c’è stato. Ed è un successo. Un grande successo: per il tema affrontato, per le riflessioni che suscita, per l’emozione delle parole del testo e della musica, tra corse e danze, e improvvisi rallentamenti. Dove il fantastico è unito e confuso alla realtà dando luogo alla follia collettiva che investe uomini e donne sotto il regime. Sotto qualunque regime”. La storia - Tutto si svolge in una stazione di un piccolo paese della Baviera poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale: un uomo con una valigia scende dal treno e inizia a camminare nella confusione, in un via vai di gente che si muove come se fosse in cerca di un riparo o in fuga da quella città dove nessuno riesce a capire che cosa sta succedendo, che cosa è già successo e soprattutto quello che da lì a poco succederà. Sulle note di alcuni passi di J’y suis jamais allé di Yann Tiersen, sul palcoscenico si alternano un forestiero, un commerciante, la moglie militante nel partito, una coppia di fidanzati, un industriale, un giornalista, una cantante. I personaggi sono vittime, ma non mettono mai in discussione il regime direttamente, per manifesta incapacità di tener testa al delirio collettivo. Vittime che scopriamo di scena in scena, come scene sono anche i racconti di Erika Mann, racconti che sono quasi una cronaca giornalistica, storie vere che svelano la menzogna propagandistica, generalizzata e martellante del regime. Storie sul baratro di quella follia che riecheggia in tutti i momenti dello spettacolo e che si concludono in una immane tragedia. Tragedia che forse si sarebbe potuto evitare. Tragedia che oggi viene lasciata alle spalle come cosa passata ma nello stesso tempo, al contrario dei tanti buoni propositi, riproposta da movimenti che agitano svastiche, che si dichiarano razzisti e xenofobi, che rifiutano ed escludono sempre più apertamente opinioni e culture diverse. In una continua escalation all’interno di un ciclo cominciato da tempo dove l’esclusione di chi è povero, di chi viene dal sud del mondo è ormai norma. Norma “perché siamo a rischio invasione” e che ora viene disciplinata, organizzata e regolata secondo criteri che ci portano al passato: i diritti da universali e indipendenti, astratti, tornano ad essere delle regalie feudali, delle concessioni che chi ha concede a chi non ha. E soltanto se è “utile”, come una cosa, come mezzo. “A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario”, di Bianca Stancanelli La Repubblica, 16 aprile 2018 L’assassinio di don Pino Puglisi, venticinque anni fa, chiuse il ciclo dei grandi delitti palermitani degli anni Novanta del Novecento. Detto oggi, sembra un giudizio banale, ma ci sono voluti anni perché questa idea si imponesse alla coscienza collettiva. Sul finire del secolo scorso, don Pino era una vittima dimenticata e il suo assassinio sembrava consegnato alla storia come una di quelle morti minori che ricorrono purtroppo nelle insanguinate vicende della mafia. Fu appunto in quegli anni, nell’ottobre del 1998, che “Segno”, la bella rivista palermitana fondata da padre Nino Fasullo, pubblicò la sentenza di condanna in primo grado di alcuni componenti della cosca di Brancaccio coinvolti nel delitto. Io la lessi a Roma, dove ero andata a vivere e a lavorare. Appena nascosta dalla pesantezza della prosa giudiziaria, si svelava in quelle pagine la storia bellissima e tremenda di un uomo, un sacerdote che, nel microcosmo di un quartiere diseredato di Palermo, aveva capito alcune verità essenziali sulla natura della mafia e l’aveva combattuta, nel silenzio e nella distrazione della città, delle istituzioni, perfino della stessa chiesa, con un’intelligenza, uno slancio, una passione che è raro trovare riunite in una sintesi così perfetta. Dalle pagine della sentenza emergeva la figura di un prete che aveva dato la vita - sapendo di rischiarla, prima, e sapendo poi con certezza che l’avrebbe persa - per salvare i bambini di quella desolata borgata palermitana, sottraendoli al reclutamento di una Cosa nostra continuamente impegnata a rafforzare i propri ranghi militari. Figuravano nella sentenza deposizioni dei mafiosi diventati collaboratori di giustizia che accreditavano l’idea che il parroco fosse stato ucciso “perché si prendeva i bambini”, “per non farli cadere… per non darli, diciamo, nelle mani alla mafia”. Sembrava il ritratto di un paradossale pifferaio di Hammelin, tenacemente impegnato a salvare i piccoli di Brancaccio dalla rovina dell’arruolamento mafioso. Leggendo quelle pagine, pensai che era una storia troppo bella perché si potesse accettare che venisse dimenticata; per ricostruirla, però, bisognava andare a Palermo, cercare gli amici, i collaboratori, i ragazzi di don Puglisi, farsi raccontare da loro la storia di quest’uomo che non avevo mai conosciuto. Ci riuscii solo due anni dopo, grazie a un periodo di aggiornamento professionale. Mi bastarono pochi giorni per sapere che un collega del “Giornale di Sicilia”, Francesco Deliziosi, stava lavorando a un libro sulla vita di don Puglisi. Pensai che fosse più saggio rinunciare al mio progetto. Lo dissi al mio editore, Cesare De Michelis, che mi incoraggiò invece ad andare avanti nel lavoro, col buon motivo che i libri, come gli esseri umani, non si somigliano mai. In realtà, più che la biografia di don Pino, a me interessavano i suoi tre anni a Brancaccio; mi stava a cuore capire come quest’uomo gracile e mite, sempre sorridente, fosse riuscito ad allarmare i capi mafiosi del quartiere, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, allora nel pieno della stagione stragista di Cosa Nostra, fino a convincerli a ordinare, per la prima volta nella storia palermitana, l’assassinio di un parroco. E mi conquistava la figura di un uomo di Chiesa che aveva combattuto per fare dei poveri cristi di Brancaccio cittadini capaci di conoscere i propri diritti - la più laica delle battaglie, si direbbe - e per trasformare un “quartiere senza” in un luogo dignitoso per vivere. Non fu facile, allora, rintracciare i collaboratori di don Pino: l’assassinio del parroco li aveva dispersi, allontanati. E non fu facile, spesso, convincerli a raccontare la loro storia. I tanti anni da allora non sono passati invano, a Palermo. Proclamato beato dalla Chiesa, il parroco di Brancaccio sarà celebrato con entusiasmo e devozione quest’anno nell’anniversario del delitto. Venticinque anni dopo la voce di quest’uomo, assassinato da chi voleva ridurlo al silenzio, suona più alta e più forte che mai. La guerra dei robot: armi senza soldati e killer automatici di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 16 aprile 2018 Lo scenario “da Terminator” non è più fantasia: i grandi Paesi come Usa, Cina e Russia investono su armi letali del tutto autonome. La battaglia degli scienziati per fermarli. Missili lanciati con precisione chirurgica su obiettivi militari. Niente “boots on the ground”, soldati che avanzano coi loro scarponi in territorio nemico. Zero vittime da un lato e dall’altro. L’attacco lanciato da Usa, Francia e Gran Bretagna per punire Assad dopo il bombardamento chimico di Douma verrà forse archiviato come un avvertimento “muscolare” più che come un vero e proprio atto di guerra. Ma è anche un’azione che ci avvicina sempre di più allo scenario della “guerra automatica” verso il quale ci sta portando lo sforzo tecnologico delle principali potenze del Pianeta. Il futuro dopo i droni - Non solo missili e droni, gli aerei-robot che già oggi sono in grado di colpire ovunque: dagli arsenali e dai centri di ricerca delle industrie tecnologiche più avanzate escono in continuazione prototipi di droni sottomarini, navi da attacco in superficie e per la caccia ai sommergibili prive di equipaggio, carri armati automatici e, soprattutto, killer robot. Non siamo lontani dallo scenario di Terminator: automi da schierare in battaglia più rapidi e potenti della fanteria umana, destinata ad essere sbaragliata senza pietà. Il tutto gestito da un’intelligenza artificiale sempre più progredita che una volta impostata potrebbe prendere decisioni di vita e di morte in modo autonomo, senza più interventi umani. Nuovi interrogativi - Scenari agghiaccianti che pongono problemi inediti: dalla possibile perdita del controllo della tecnologia da parte dell’uomo a quello della valutazione in termini giuridici e anche politici delle responsabilità in un conflitto. Come reagire se vieni colpito non dalle armi di uno Stato che ti dichiara guerra, ma da un drone attivato in modo automatico da un sistema di sorveglianza “intelligente” al manifestarsi di certe condizioni di pericolo? Aumenterebbe esponenzialmente il rischio di scatenare un vero conflitto perché si reagisce con troppa durezza a un attacco partito per un errore. Ipotesi in parte ancora remote, in parte destinate a concretizzarsi entro pochissimi anni e rispetto alle quali già dal 2013 si è messo in modo un movimento che chiede la messa al bando delle cosiddette Laws, Lethal autonomous weapons systems, armi autonome letali. L’antipasto della guerra automatica - Ma il rischio di un abbassamento della soglia di deterrenza è già evidente: se vieni provocato, sarai più propenso a rispondere con le armi se sai di poter attaccare senza subire perdite. Sono in molti a ritenere che Londra e Parigi hanno deciso di non lasciare soli gli Stati Uniti in Siria perché c’era la possibilità di conseguire il risultato politico derivante da una dimostrazione di forza, senza rischiare praticamente nulla, almeno sul campo di battaglia. Un vero antipasto di guerra automatica. E anche un po’ virtuale, visto che dall’incrocio di razzi, fake news e manovre di disinformazione, è venuta fuori l’accusa dei russi secondo i quali i missili francesi non sono mai arrivati sul bersaglio. L’appello degli scienziati - Nonostante tutti gli sforzi di chi cerca di fermare la corsa verso la creazione di veri e propri eserciti robotizzati, le possibilità di successo sono minime. Lanciata cinque anni fa con un appello firmato da premi Nobel, scienziati come Steven Hawking e imprenditori come Elon Musk, Steve Wozniak e Mustafa Suleyman di Alphabet-Google, la campagna internazionale Stop Killer Robots ha obbligato le potenze a confrontarsi spesso su questo problema in sede Onu. Ma le cinque conferenze che l’Onu ha dedicato alla corsa verso la guerra automatica (l’ultima pochi giorni fa a Ginevra) non hanno dato risultati, anche se 22 Paesi si sono espressi ufficialmente contro. Il “no” dei Paesi - Tutti sono decisi a rifiutare ogni limite all’uso della tecnologia sul campo di battaglia: l’America perché convinta di poter trarre vantaggio dalla sua leadership tecnologica, Cina e Russia perché sperano di poter colmare, il gap strategico che oggi le separa dagli Stati Uniti nelle armi convenzionali. Ci sono stati casi, come quello delle mine anti-uomo, in cui un accordo di messa al bando si è rivelato efficace. Ma le potenze tecnologiche non vogliono sentir parlare di limiti per l’intelligenza artificiale: bloccare la ricerca militare, dicono, danneggerebbe anche quella civile. E nessuno accetta di legarsi le mani quando nemmeno si sa bene in quale direzione evolverà la tecnologia. La Siria, Trump e l’impotenza del pacifismo di Gigi Riva La Repubblica, 16 aprile 2018 Papa Francesco lancia un appello, l’ennesimo, a “tutti i responsabili politici” perché in Siria prevalgano “la giustizia e la pace”. Invita “le persone di buona volontà” a pregare. Lo faranno di certo, ciascuno nel dialogo intimo con il divino. Però non sono più un movimento, non sono più massa critica. Da tempo ormai sono vistosamente scomparse dallo spazio pubblico le bandiere arcobaleno, le piazze sono orfane di chi sfilava contro la guerra con lo slogan assoluto “senza se e senza ma”. Anche nell’ultimo caso mediorientale, come in molti recenti, i se e i ma invece abbondano. Stare contro Donald Trump e implicitamente difendere il dittatore Assad accusato di usare i gas? Stare contro Assad e favorire quella frangia di ribelli attestata su posizioni jihadiste? E chi davvero ha usato le armi chimiche? Gli interrogativi, tutti legittimi, sono peraltro la foglia di fico di un impegno cessato molto prima. Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propria impotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocato frustrazione e disincanto. Nella sua versione più intransigente rifiutava qualunque tipo di intervento, compreso quello auspicato da un altro Papa, Giovanni Paolo II, quando si batteva (era il 1992) per il diritto-dovere di ingerenza umanitaria in Bosnia. Tre anni dopo, il bombardamento durato pochi giorni delle postazioni serbe nei dintorni di Sarajevo provocò la fine del conflitto e l’inizio di un ripensamento tra chi circondava le base di Aviano per cercare di impedire il decollo degli aerei americani. La prova più evidente che non esiste una formula adatta a tutte le circostanze. E in occasioni fatali come le guerre è sempre il caso di rimboccarsi le maniche e valutare con pazienza se un intervento è destinato ad alzare o abbassare il livello di violenza. Nei Balcani, lo abbassò. Al contrario, otto anni dopo, dell’invasione dell’Iraq da parte di George Bush il figlio, la cui eredità sono i conflitti ancora aperti. Per fermare quello sciagurato tentativo di “esportare la democrazia” scesero per strada, nel mondo, cento milioni di persone (un milione in Italia). Non servì a nulla: il pacifismo toccò l’apice dell’espansione e l’inizio della disillusione. Si è protestato, dal Vietnam in poi, per le guerre degli altri. Testimonianze, opposizioni di principio astratte come la lontananza. Dopo le Torri Gemelle, l’Iraq e il conseguente terrorismo globale, è risultato sempre più complicato essere pacifisti, a causa della sensazione di avere la guerra in casa. La neutralità è diventata un lusso. Vincono le posizioni nette. Col nemico alle porte, il pacifismo è finito in fuorigioco. Un peccato davvero, persino per chi lo osteggiava. Perché è proprio la sua mancanza, oggi, che impedisce lo sviluppo della dialettica attorno a un tema così cruciale. Le baruffe, anche furibonde, degli anni 90 e degli anni 10 di questo secolo tra interventisti e non avevano il valore prezioso di instillare il dubbio, nei campi contrapposti. Il cittadino-elettore aveva la sensazione di poter incidere sul processo politico più drammatico, la scelta tra la pace e la guerra. Oggi il campo è sgombro. Trump, come un dottor Stranamore, “punisce” la Siria, sgancia la superbomba in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord, senza che si veda all’orizzonte un corteo. Senza che ci sia un contrappeso al suo bellicismo incontinente. Se era deleterio un eccesso di pacifismo, è ugualmente nefasta la sua totale assenza. La guerra in Siria calpesta i curdi di Gigi Riva L’Espresso, 16 aprile 2018 Le minacce di Trump. La strategia di Putin. Le manovre dei turchi. E, in tutto questo, un popolo che abbiamo usato (per combattere l’Isis) e abbandonato subito dopo. Sull’Espresso in edicola da domenica 15 aprile gli interventi-appello di Zerocalcare e Ozlem Tanrikulu, ospiti della nostra redazione. Non sono mai cessati, ma ora venti di guerra spirano ancora più forti in Medioriente. Dopo aver annunciato, solo una settimana fa, il proprio disimpegno nell’area, l’amministrazione Trump, con una conversione a 180 gradi, minaccia un intervento militare in Siria come risposta al sospetto uso di armi chimiche da parte del regime di Bashar Assad a Duma, nella Ghuta orientale, alle porte della capitale Damasco. Dove da ieri le bandiere del governo sono state di nuovo issate sugli edifici pubblici e sono stati dispiegati diversi uomini della polizia russa, dopo che i ribelli, che controllavano l’area, si sono ritirati a nord nelle zona ancora sotto il loro controllo. Gli americani hanno allo studio varie opzioni che vanno da bombardamenti soft che suonino come monito, a un’offensiva più pesante. Ancora incerti i tempi e il presidente sembra dilatarli quando con un tweet annuncia: “Non ho mai detto quando l’attacco avrà luogo”. Gran Bretagna e Francia sono intenzionate a partecipare ai possibili raid aerei e stanno approntando i piani di attacco. Mentre l’Italia dovrà decidere se concedere l’uso delle proprie basi in una situazione delicata della politica nazionale dopo le elezioni del 4 marzo, con un nuovo governo che non ha ancora visto la luce e con l’esecutivo Gentiloni in carica per gli affari correnti. Mosca, alleata di Assad, ha già bollato come fake news la notizia dell’uso delle armi chimiche da parte del regime, naturalmente si oppone ai raid e ha già mosso le sue navi dalla base di Tartus, sul litorale siriano. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha precisato che “il canale di comunicazione con Washington resta attivo anche se non è in programma alcun colloquio telefonico tra Trump e Putin”. Il presidente americano si è invece già consultato col presidente turco Erdogan, l’altro attore forte nello scacchiere geopolitico. Sono le grandi potenze che si scontrano per l’egemonia nella regione più calda del pianeta. A farne le spese, al solito, i civili. “L’Espresso” dedica la copertina del numero in edicola da domenica 15 aprile proprio a questo tema. I giochi geostrategici “calpestano i popoli”, come recita il sommario. E il concetto è efficacemente illustrato da una vignetta di Zerocalcare (Michele Rech) sopra il titolo “Chi ha tradito i curdi”. Lo stesso Zerocalcare, che tanto si è speso per raccontare la resistenza dei curdi siriani col suo lavoro, ha partecipato a un forum de “l’Espresso”, il cui sunto è ospitato nelle pagine interne, assieme a Ozrem Tanrikulu, presidente dell’ufficio informazione del Kurdistan in Italia, ai nostri giornalisti. Zerocalcare, autore di “Kobane calling”, è stato protagonista insieme alla presidente dell’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia del forum dell’Espresso sul destino del popolo che ha combattuto l’Isis e subito dopo è stato abbandonato nei giorni dell’escalation militare nell’area siriana. Il fumettista proprio con il suo lavoro ha sensibilizzato molti sulla causa della resistenza curda, al punto che, come spiega lui stesso tanti suoi lettori gli scrivono ancora oggi per sapere come possono contribuire. “Sempre più persone si rendono conto di come la lotta curda non serva solo a quel popolo, ma è un motore democratico che serve a tutti. Perché è una battaglia dell’umanità”. Il dibattito è stato condotto dal direttore Marco Damilano. I curdi siriani sono stati usati come esercito-taxi dall’occidente per combattere, e sconfiggere, lo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, prima a Kobane e poi a Raqqa, la sedicente capitale del califfato. Poi quando non servivano più sono stati abbandonati al loro destino, alla mercé delle truppe turche, penetrate nelle zone da loro abitate: Erdogan non vuole la nascita di un’entità curda a ridosso dei suoi confini perché teme un effetto emulazione da parte dei curdi che abitano la parte sud-orientale della Turchia. Di tutto questo si è parlato durante il forum. Ozrem Tanrikulu ha spiegato il progetto di democrazia confederale del Rojava e descritto l’attuale situazione umanitaria nella regione. Ha anche negato che i curdi vogliano costruire un’entità statuale a cavallo dei confini tra Siria, Iraq e Turchia. Zerocalcare ha raccontato i motivi che lo hanno portato a interessarsi della causa curda. Negli Usa un morto ogni 12 minuti a causa di eroina e pillole antidolorifiche di Milena Gabanelli e Andrea Marinelli Corriere della Sera, 16 aprile 2018 Nessuno penserebbe mai di andare dal medico per una tendinite al polso, o un mal di schiena, e di ritrovarsi tossicodipendente. È andata così per Prince, Anna Nicole Smith, Heath Ledger, Dolores O’Riordan, Tom Petty e centinaia di migliaia di americani che alla fine ci hanno lasciato la pelle. Negli Stati Uniti sta succedendo dall’inizio degli anni Duemila: i medici prescrivono forti antidolorifici oppioidi per lenire infortuni, dolori cronici o post operatori. Questi farmaci - l’hydrocodone (Vicodin), l’oxycodone (OxyContin, Percocet, Percodan, Tylox) e il potentissimo Fentanyl - provocano però una forte dipendenza: una volta che la ricetta scade si passa quindi al mercato nero, dove l’eroina costa molto meno (spesso anche un decimo) ed è più facile da trovare. L’unica differenza è che l’eroina è illegale, mentre i farmaci sono stati approvati dalla Federal Drug Administration. Secondo gli esperti della Substance Abuse and Mental Health Services Administration è capitato a 2 milioni di americani e tre quarti dei tossicodipendenti ha iniziato così: il numero di prescrizioni mediche di antidolorifici oppioidi, non a caso, è aumentata da 112 milioni nel 1992 a 292 milioni nel 2012. Nel 2016 si stima che 11,5 milioni di americani dai 12 anni in su abbiano fatto un uso improprio di questi farmaci e, nel corso dello stesso anno, i casi di morte per overdose dovuti a eroina o oppioidi sono stati 42.249 (contro i 33.091 dell’anno precedente): 115 al giorno, uno ogni 12 minuti. Nel frattempo circa un milione di persone è uscito dalla forza lavoro rallentando dello 0,2% all’anno la crescita dell’economia: una percentuale che, secondo uno studio dell’American Action Forum, si traduce in una perdita di 702,1 miliardi di dollari fra il 1999 e il 2015. È così che nel 2016 l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è calata per il secondo anno consecutivo: non succedeva dagli anni Sessanta. Gli spacciatori fuori dalle scuole milanesi - Il trend, intanto, ha varcato i confini degli Stati Uniti ed è arrivato in Canada, dove le overdose hanno raggiunto livelli record (2.946 nel 2016), e in Europa, dove l’80% delle morti per overdose (8.441 nel 2015) è dovuto proprio a questi farmaci. Anche in Italia si è diffusa l’abitudine di acquistare farmaci a base di oppioidi, come ha raccontato un’inchiesta di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci sul Corriere. Si possono ordinare online o reperire nel mercato dello spaccio. “Una tendenza impressionante”, l’ha definita Luigi Cervo, farmacologo del Mario Negri, “che finora è stata sottovalutata”. Nell’ultimo anno i carabinieri di San Donato hanno arrestato due iracheni che vendevano OxyContin fuori dalle scuole dell’hinterland milanese, poi è stato il turno di due egiziani. In Toscana, un ragazzo è finito in overdose mentre teneva cerotti di Fentanyl sotto la lingua. Prescrizioni in cambio di viaggi regalo - Negli Stati Uniti i numeri più alti si registrano nelle grandi città, come Chicago o Baltimora, ma gli effetti più devastanti si hanno nelle aree rurali degli Appalachi, del New England e del Midwest. A favorire quella che è stata definita un’epidemia - oltre 200 mila morti di overdose dal 1999 a oggi, con un aumento del 533% - è la struttura del sistema sanitario che, non prevedendo copertura universale, favorisce la prescrizione di medicinali piuttosto che quella delle terapie riabilitative: a un trattamento, le assicurazioni preferiscono una pillola. Senza contare che le compagnie farmaceutiche incentivano i medici a prescrivere farmaci anche con viaggi premio o conferenze a pagamento. Il dolore come quinto parametro vitale - Nel 1996, inoltre, l’American Pain Society introdusse il concetto che il dolore dovesse essere trattato come un “quinto parametro vitale”, assieme alla temperatura, alla pressione, alle pulsazioni e alla respirazione. “Questo concetto ha avuto un ruolo fondamentale”, spiega al Corriere della Sera Kevin Doyle, professore della Longwood University chiamato lo scorso aprile a Washington per spiegare la crisi degli oppioidi al Cogresso americano. “Alla fine degli anni Novanta e all’inizio dei 2000 gli ospedali venivano valutati infatti anche sulla gestione del dolore, ed erano incentivati a trattarlo in modo più aggressivo. Questo, insieme alle risposte nei questionari sulla soddisfazione dei pazienti, contribuì a far aumentare le prescrizioni”. Quello stesso anno, Purdue Pharma introdusse l’OxyContin e cominciò un’aggressiva campagna di marketing: gli Stati Uniti, insieme alla Nuova Zelanda, sono infatti l’unico Paese che permette di promuovere medicine in televisione e nel 2016 sono stati spesi 6,4 miliardi di dollari in pubblicità. In West Virginia 9 milioni di pillole per 400 abitanti - E così, nella sola Kermit, cittadina di 400 abitanti in West Virginia, sono piovute 9 milioni di pillole di hydrocodone nell’arco di due anni: 22.500 per ogni abitante. Nella vicina contea di Berkeley, che ha una popolazione di 114 mila abitanti, nel giro di due mesi sono arrivate 145 chiamate di emergenza per overdose, 18 delle quali fatali: per il 2016 l’amministrazione locale aveva a disposizione un budget di 27 mila dollari per le medicazioni d’emergenza e due terzi sono stati spesi per il Narcan, il farmaco anti overdose che costa 50 dollari a confezione e che, durante l’anno, è stato somministrato 403 volte. La West Virginia, scriveva lo scorso anno il New Yorker, “ha un numero molto alto di persone che fanno lavori usuranti e che causano dolore fisico, come il minatore, ma ha anche tassi molto alti di povertà e disoccupazione, che causano dolore psichico”: con queste basi lo Stato è si è ritrovato ad avere il più alto tasso di overdose del Paese. Nel resto d’America, però, non va tanto meglio: fra il 2006 il 2014 sono state prescritte 7,8 miliardi di pillole di Vicodin, all’incirca 24 per ogni cittadino americano, e 4,9 miliardi di Percocet, 15 a testa. I medici sotto processo - Se negli Stati Uniti si consuma l’80% delle pillole antidolorifiche del mondo, il problema nasce dunque soprattutto al momento delle prescrizioni mediche. Secondo un’analisi di Tony Yang, professore di amministrazione sanitaria alla George Mason University, negli ultimi anni il numero di dottori finiti sotto processo si è moltiplicato: nel 2011 erano 88, nel 2016 addirittura 479. A dicembre, per esempio, il dottor Raymond Kraynak, un medico della Pennsylvania che nell’arco di 19 mesi aveva prescritto quasi 3 milioni di dosi di oppioidi, è stato accusato di aver causato la morte per overdose di 5 persone. Lo stesso è successo in Texas al dottor Howard Gregg Diamond, accusato di 7 morti. A Seattle, nei giorni scorsi, il dottor Frank Li, direttore di un centro di terapia del dolore, è stato invece sospeso per tre anni e in seguito sarà sottoposto a vita a limitazioni nelle prescrizioni di antidolorifici. La prima sentenza è arrivata nel 2015: la dottoressa californiana Hsiu-Ying “Lisa” Tseng ha ricevuto una condanna a 30 anni per la morte di tre ventenni nel 2009. 80 dollari per una pillola, 10 dollari per una dose di eroina - Su richiesta del Center for Disease Control and Prevention, nel 2017 i medici hanno cominciato a diminuire le prescrizioni, eppure solo nel 2015 il governo americano ha speso 504 miliardi di dollari per gestire l’epidemia degli oppioidi. Un contribuito importante alla crisi lo ha dato anche un altro fattore, come conferma il professor Doyle: quando le pillole hanno cominciato a scarseggiare e i prezzi ad aumentare, i cartelli della droga messicani - che avevano perso un’importante fonte di reddito con la legalizzazione della marijuana da parte di alcuni stati americani - hanno fiutato l’opportunità inondando l’America rurale di eroina e Fentanyl, un’alternativa economica ai farmaci anti dolorifici: oggi una pillola di OxyContin si può acquistare con 80 dollari, una dose di eroina con 10. La risposta di Trump - Per contrastare la crisi, il presidente Donald Trump si è limitato a dichiarare a novembre lo Stato di emergenza nazionale e a nominare una “zarina”, Kellyanne Conway, che però non ha nessuna esperienza in materia, ma non ha chiesto al Congresso di trovare i miliardi di dollari necessari per curare chi ha sviluppato una dipendenza dagli oppioidi, come domandato dagli attivisti. Poi, a gennaio, ha nominato un 24enne neolaureato con oscuro curriculum, Taylor Weyeneth, a coordinare le politiche delle agenzie federali e statali. L’ultima iniziativa è arrivata nei giorni scorsi: il dottor Jerome Allen, capo del servizio sanitario nazionale, ha chiesto a chi fa uso di oppioidi di portarsi sempre appresso una dose di Narcan. Le cause contro Big Pharma - Qualcosa in più è stato fatto a livello locale: 15 Stati e oltre 300 amministrazioni hanno fatto causa ai produttori e ai distributori di oppioidi, accusandoli di aver inondato il mercato e di aver fornito informazioni errate sulla sicurezza dei medicinali. A gennaio è stato il turno della città di New York, che ha fatto causa a Purdue Pharma, Johnson & Johnson, Endo International, McKesson, Cardineal Health e Amerisource Bergen: le aziende hanno tutte negato le accuse. Contattata dal Corriere, Purdue Pharma si è detta “molto preoccupata dall’uso illecito degli oppioidi e impegnata nel trovare una soluzione”, ma ha negato “vigorosamente le accuse e aspetta di poter presentare la propria difesa”. Eppure, nel 2007, la stessa compagnia si era già dichiarata colpevole di aver ingannato le autorità di controllo, i medici e i pazienti sui rischi di dipendenza e abuso del farmaco, patteggiando una multa da 600 milioni di dollari. “Big Pharma (i colossi del settore farmaceutico, ndr) ha sicuramente avuto un ruolo in questa crisi, anche se è sbagliato considerarli gli unici responsabili”, afferma Doyle. “C’era una domanda dovuta all’aumento delle prescrizioni, e il mercato rispose”. Spagna. Nel paese che vive di hashish: “meglio narcos che camerieri” di Francesco Olivo La Stampa, 16 aprile 2018 A la Linea de la Concepción (Andalusia) sbarca dal Marocco il 75% dell’hashish consumata in Europa. Nella borgata di San Bernardo tutto è pronto per lo sbarco: trentacinque persone, tanti giovanissimi, ognuno sa quello che deve fare. Il carico in arrivo dal Marocco vale qualche milione di euro. L’operazione dura due minuti in tutto e nessuno deve sbagliare niente. Tra le strade sterrate si legge un cartello: “Benvenuti alla Linea de la Concepción, Andalusia”, siamo al confine con Gibilterra, disoccupazione più alta di Spagna, ma con un’economia parallela non da ridere: da qui passa, si calcola, il 75% dell’hashish che si consuma nell’Europa Occidentale, Italia compresa. La merce arriva, fresca di campo, dal Marocco, 200.000 ettari coltivati, praticamente senza ostacoli, in partenza e all’arrivo. Alla Linea si occupano della logistica e praticamente tutto il paese è coinvolto, più o meno direttamente e si fanno soldi facili, in una terra altrimenti poverissima. A comandare sono poche famiglie, due o tre al massimo, i boss, tutti di qui, vanno direttamente dai coltivatori, ordinano, pagano e montano il carico su potenti motoscafi. Dalla costa marocchina, a quelle velocità, il viaggio è breve. All’arrivo, l’organizzazione è meticolosa, tutti hanno un compito preciso e ben ricompensato, per fare il palo le “narco-famiglie” pagano anche mille euro a notte “per tenere un telefono in mano tre ore guadagno quello che questo cameriere prende in due mesi”, spiega un ragazzo al bar della piazza. Brutale, ma è così. Chi c’è a bordo - I carichi sono pesanti, ogni imbarcazione scarica anche 2000 chili. A bordo sono in tre, il pilota, un meccanico e un marocchino che funge da notaio. In pochi attimi l’hashish viene messo su fuoristrada che trasportano il tutto nei magazzini delle borgate, per una decina di giorni la merce resta lì, in attesa dei camion che partono verso il Nord. Tutto avviene alla luce del sole, anche letteralmente, non sempre si aspetta la notte. Il tariffario è impressionante: il pilota arriva a guadagnare 70.000 a viaggio e non rischia un granché (“nemmeno scende dalla barca”), chi guida le auto (pochi chilometri) circa 6 mila euro. I più ricchi sono quelli che ospitano la merce a casa. La polizia spagnola conosce tutto e tutti. “Qui hanno portato un carico ieri notte - racconta un investigatore guidando tra i vicoli del quartiere dell’Atunara, ecco i segni sullo sterrato”. Ma ostacolare il traffico è difficile per due motivi. il primo è materiale, i motoscafi arrivano a velocità folli e spesso con altre “lance” per depistare i gli agenti ed è quasi impossibile fermarli. “Servirebbero più poliziotti”, spiega a un bar di Algeciras, José Encinas, rappresentante degli agenti della Guardia Civil “a Madrid devono capire che questa è una guerra e le persone che vengono a lavorare qui devono essere incentivate, come è successo nei Paesi Baschi con l’Eta, altrimenti non ce la facciamo”. Antennisti e benzinai - Il secondo freno è, per così dire, ambientale: in una zona poverissima il business vive di complicità enormi e non è popolare per nessuno, a partire dalle amministrazioni locali intraprendere una guerra. D’altronde qui tutti sono coinvolti: i meccanici, i benzinai, gli idraulici, gli antennisti, i medici. Persino i vecchi delle case popolari del lungomare della Linea danno, più o meno consapevolmente, una mano. Qualche giorno fa la polizia nazionale ha scoperto un radar molto sofisticato nel salotto di casa di un pensionato, messo lì con lo scopo di intercettare le comunicazioni delle forze dell’ordine. “È un attrezzo complicatissima da installare - spiegano due agenti coinvolti nell’operazione - il vecchietto non sapeva nemmeno come si accendesse, ma è stato pagato per il disturbo”. Sulla spiaggia dell’Atunara, un dedalo di viuzze che diventano assai vivaci al calar del sole, ogni intervento della polizia viene ostacolato dagli abitanti. Tra i poliziotti c’è la sensazione di una guerra persa: “L’impunità è totale, questi nemmeno si prendono il disturbo di nascondere la droga in macchina” dice un altro agente mostrando le foto dell’ultimo sequestro di merce. “La carriera dei narcos nasce dal tabacco - racconta davanti agli scogli della baia uno storico agente della zona, il contrabbando da Gibilterra c’è sempre stato. Chi fa i soldi con le sigarette, poi riesce a comprarsi un motoscafo e si butta sul business della droga”. La zona è calda: a dieci chilometri dalla Linea c’è Algeciras, il porto dove sbarca la cocaina dall’America Latina. Il fenomeno non è nuovo, ma negli ultimi tempi sta dilagando prendendo una piega violenta. Per le forze dell’ordine ogni giorno ha la sua pena, ma il 6 febbraio non se lo dimentica nessuno. La polizia aveva fermato, dopo un inseguimento, uno dei boss della zona, della famiglia dei Los Castañitas. Ferito per la caduta in moto il detenuto finisce in Pronto soccorso. Passano pochi minuti e all’ospedale arrivano 20 persone incappucciate e armate, che minacciando medici, infermieri e pazienti liberano il prigioniero ferito, lo mettono su un’acqua scooter e lo consegnano ai complici in Marocco. “Quei 20 erano un squadra pronta per lo sbarco di un carico che poi è stata deviata sull’ospedale”. Linea de la Concepción, provincia del Messico. Scrive versi sulla Somalia unita, tre anni di carcere a una giovane poeta di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 aprile 2018 Tre anni di carcere. E’ questa la sentenza decisa da un tribunale di Hargeisa, la capitale del Somaliland, la repubblica autoproclamata e non riconosciuta dalla comunità internazionale, nei confronti di Naema Ahmed Qorane, una giovane poeta colpevole di aver caldeggiato nei suoi versi la riunificazione nazionale somala. La donna è stata accusata di disprezzo nei confronti dello Stato e di aver messo quest’ultimo in pericolo con le sue poesie, nelle quali definiva il Somaliland una “regione” somala, “insultandone e diffamandone il governo”. Naema era stata arrestata il 27 gennaio dopo una visita a Mogadiscio dove, secondo l’accusa, avrebbe declamato poesie in favore della riunificazione della Somalia con Somaliland e Puntland. Le organizzazioni per i diritti umani hanno lanciato una campagna per la sua liberazione. Nel febbraio del 2017 il giornalista e blogger AbdiMalik Muse Oldoon era stato arrestato dopo un incontro con il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo. Il Somaliland, che ha una popolazione di circa 3,5 milioni di abitanti, da regione autonoma ha dichiarato la propria indipendenza dalla Somalia nel 1991, quando il Paese del Corno d’Africa sprofondò nel caos e nella guerra civile. Nel 1998 ha fatto lo stesso un’altra provincia autonoma somala, il Puntland, che con il Somaliland ha anche una disputa territoriale. Due mesi fa il Somaliland ha concluso un accordo con gli Emirati Arabi Uniti, concedendo a questi ultimi di tenere sul suo territorio una base militare nel porto di Barbera, da cui lanciare operazioni militari contro i ribelli sciiti houthi.