Seac: abbandonare la riforma penitenziaria significa fare un anacronistico salto indietro agensir.it, 15 aprile 2017 “La legge penitenziaria del nostro Paese risale a 43 anni fa, parla di un mondo, di una società e di un carcere che hanno subito profonde trasformazioni. Il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, con cui a dicembre il governo Gentiloni ha dato seguito alla delega ricevuta dalla legge 103/2017, ha portato una ventata di modernità nel quadro normativo aprendo alle pene alternative o di comunità”. È quanto si legge in una nota diffusa dal Saec, coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario, al termine della prima giornata del convegno nazionale, che si è svolta ieri a Roma, a Regina Coeli, sul tema “La riforma penitenziaria: lo stato della pena”. Presenti 122 volontari provenienti da tutta Italia. “Non è chiaro se l’attuale contingenza politica consentirà la definita approvazione quantomeno di questo primo fondamentale atto legislativo” ma “disperdere il frutto di questi sforzi condivisi significherebbe fare un anacronistico salto indietro oltre che rischiare sanzioni mortificanti da parte delle autorità europee”, ha dichiarato Laura Marignetti, presidente Seac. Per Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, è “necessario pensare a una ricostruzione culturale”. Oggi sarà, invece, presentato, all’Istituto Maria Ss. Bambina, il progetto “Volontari per le misure di comunità” finanziato dalla Fondazione Con il Sud, che comporta “la definizione di un ruolo inedito del volontariato quale facilitatore dell’inclusione sociale e sensibilizzatore del tessuto sociale”. Celle chiuse Vs celle aperte. Il fallimento plastico dei responsabili di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2017 La richiesta del responsabile Giustizia di Fratelli di Italia, ancorché Questore della Camera dei Deputati, Edmondo Cirelli, di procedere alla cancellazione del regime delle celle aperte (voluto dal PD e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando), come unica soluzione per scongiurare ulteriori episodi di violenza che si consumano nelle carceri italiane ai danni della polizia penitenziaria, contiene in se tutti gli elementi che compongono il quadro contraddittorio e devastato dell’esecuzione penale del nostro paese. Da tempo quanti ne hanno in carico la gestione e la conduzione - governanti e burocrati - continuano a fallire gli obiettivi costituzionali e ordinamentali e a trascurare i principi internazionalmente condivisi in materia. La pena giusta, utile e improntata al senso di umanità, continua ad essere una chimera per una società che, pur dotata di strumenti giuridici fondati sull’elaborazione di un pensiero di elevata civiltà, non ottiene risultati concreti dall’operato di quanti, su suo mandato, ne hanno la responsabilità. I politici eletti, per un tornaconto elettorale, strumentalizzano la vicenda ignorandone per lo più la complessità, i burocrati operano nei limiti di un mandato che non esige riscontri e rendicontazioni, la cultura cavalca libera nelle praterie sconfinate dell’accademia e dell’utopia, i rappresentanti delle categorie professionali coinvolte si limitano a “portare acqua al proprio mulino”. Stando a quanto ho potuto indagare e vedere di persona accadere negli ultimi trent’anni, non ho timore ad affermare quanto manchi ovunque una civile e spassionata preoccupazione di risolvere i problemi strutturali di un sistema ormai incancrenito. Tutto ciò, sinonimo di tradimento delle più civili e legittime aspettative della società, si traduce in una quotidianità detentiva indistintamente disumana e degradante per quanti a vario titolo trascorrono - tutta o in parte - la loro esistenza nelle nostre prigioni. Ritengo di poter avvalorare la fondatezza di queste affermazioni facendo riferimento alla richiesta del Questore Edmondo Cirielli. Dando per scontato come a tutti possano risultare chiare le vere motivazioni di una simile richiesta, credo utile sintetizzare, per comprendere la dimensione reale delle criticità in atto, le vicende e le ragioni che hanno portato da quasi cinque anni ad introdurre negli Istituti di detenzione del nostro paese il regime cosiddetto “delle celle aperte”. Nel 2010, come è noto, la Corte europea dei diritti umani con la sentenza Torreggiani ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti umani (Cedu) - non era la prima volta che succedeva; il caso riguardava trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione, con la mancanza di acqua calda per lunghi periodi, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle. La pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani - definita dagli stessi giudici come “sentenza pilota” ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano, sintetizzato nel sovraffollamento delle strutture, anche determinato da un eccessivo ricorso al carcere a scapito delle misure alternative alla detenzione, alla mancanza di una offerta trattamentale adeguata, all’ozio forzato per le persone detenute. Nella sentenza tra il resto si chiedeva di porre rimedio alle criticità in atto entro un anno dal pronunciamento della sentenza di condanna. Conseguentemente il Ministro della Giustizia di allora Annamaria Cancellieri decretò la composizione di due commissioni per ricercare soluzioni adeguate a brevissimo, medio e lungo termine. La commissione presieduta dal Prof. Glauco Giostra (nel testo da adesso Commissione Giostra), elaborò tra il resto soluzioni di natura legislativa deflattiva; quella presieduta dal Prof. Mauro Palma (nel testo da adesso Commissione Palma) elaborò soluzioni riguardanti le questioni propriamente penitenziarie. È in queste ultime soluzioni che ritroviamo quella di aprire negli istituti detentivi in funzione “sin da subito” le celle per almeno otto ore al giorno, in maniera tale da consentire alle persone ristrette di potersi muovere o permanere in spazi più ampi (corridoi di sezione e dove esistenti altri locali di soggiorno) anziché rimanere per 22 ore nell’ozio forzato in celle concepite per lo più per una persona, in più persone, in molti casi stesi su di un letto a castello a 50 cm dal soffitto. Certamente soluzione tampone questa che prevedeva, come peraltro indicato dalla commissione, “subito dopo” di reperire e strutturare locali soggiorno/attività occupazionali adeguati per la permanenza giornaliera delle persone detenute. Si evidenziò inoltre non solo la necessità di fornire locali adeguati ma anche, come nello spirito delle prescrizioni della sentenza Torreggiani, attività occupazionali. Ritengo però di fondamentale importanza sottolineare come a fondamento e giustificazione della scelta di fornire più spazio vitale, vi fosse la cognizione, da parte dei proponenti, dei termini generali delle problematiche che investono le dinamiche della condizione detentiva ed in particolare di quelle comportamentali che si ingenerano tra personale di custodia e persone detenute. L’ampia letteratura anglosassone e le soluzioni architettoniche adottate, sulla base dei frutti della ricerca sperimentale condotta a quelle latitudini a partire almeno dalla fine degli anni 70 dello scorso secolo, hanno ampiamente confermato e certificato come tensioni ed aggressioni sono superabili con una adeguata configurazione degli spazi detentivi e con modalità relazionali tra gli attori della scena detentiva, non coercitive e incapacitanti. Secondo le indicazioni fornite dalla Commissione Palma, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) si attivò fornendo alle direzioni degli Istituti in funzione l’ordine di immediata apertura delle celle per otto ore al giorno. Il risultato ottenuto, secondo i dati forniti dal Dap, è quello che in questo momento solamente nel 50% degli Istituti si pratica il regime delle celle aperte; in particolare è al nord che lo si realizza di più (in Lombardia, sino al 95%, mentre in Campania al 5%). Nelle carceri italiane dopo quarant’anni dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario tutt’ora in vigore, la pena detentiva resta ozio, abbandono e inattività in strutture detentive architettonicamente inadeguate. Il carcere continua a negare la pena riformata, fatta anche di una quotidianità detentiva articolata nel tempo e nello spazio, fatta di lavoro, formazione, cura per tutte le persone detenute, di attenzione ai loro diritti e doveri, ma anche di attenzione al rispetto ed alla dignità degli operatori penitenziari. Solo il 4% delle persone detenute in carcere è occupato, le restanti oziano; la recidiva in queste condizioni di inattività si colloca al 73%, scende al 3% se durante la detenzione si è potuto in qualche modo lavorare veramente. Concludo chiedendo con il doveroso rispetto al responsabile Giustizia di Fratelli di Italia, ancorché Questore della Camera dei Deputati, Edmondo Cirielli che si attivi, nell’interesse dei suoi elettori ed in generale dei contribuenti italiani, per ricercare con chi di dovere soluzioni ai nodi irrisolti del nostro sistema penitenziario, ma solamente a patto che si fondino su argomentazioni credibili, solide e provate. Le minacce agli Avvocati e l’incultura del processo mediatico camerepenali.it, 15 aprile 2017 Senza voler porre in essere arbitrarie generalizzazioni, non vi è dubbio che i fatti denunciati dagli Avvocati difensori del Foro di Civitavecchia, impegnati in un delicato processo che si sta concludendo davanti alla Corte di Assise di Roma, insultati e minacciati solo per aver svolto il loro compito difensivo, costituiscono l’esito complessivo di una cultura deformata. Lo hanno denunciato più volte i penalisti italiani, lo hanno ripetuto con forza giuristi, intellettuali e giornalisti e lo ha detto più volte con parole inequivoche da presidente di Anm Eugenio Albamonte, lo ha ribadito il Vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e lo ha ribadito da tempo l’Europa: il processo mediatico va condannato. È una umiliante caricatura del processo penale, una pratica giornalistica distorta che mortifica l’informazione e che offende il pubblico, e che solo un clamoroso equivoco tiene in vita. Proprio perché i temi del processo e della giustizia penale sono connessi ai valori della dignità dell’uomo, alla pratica seria e condivisa delle garanzie e delle libertà di ogni cittadino, l’informazione giudiziaria risulta strettamente connessa con la pratica della democrazia. Ed è per questo che mortificare l’informazione giudiziaria significa mortificare la democrazia. Se è vero che la cronaca giudiziaria, il giornalismo d’inchiesta ed in genere l’informazione sui fatti della giustizia costituiscono una forma indispensabile ed indeclinabile di esercizio delle libertà costituzionali e di controllo democratico, dell’agire della magistratura, il processo mediatico non ha nulla a che vedere con tali valori. Non ha infatti nulla a che vedere con l’informazione e con la democrazia la creazione di questi teatrini mediatici, di questi spazi virtuali e paralleli all’interno dei quali si celebrano procedimenti sommari, si formulano valutazioni tecniche all’impronta, pareri superficiali destinati a sollecitare risposte emotive, si violano la riservatezza e il dolore di vittime e di accusati, si affastellano ricostruzioni fantasiose ed arbitrarie, testimonianze incontrollate ed incontrollabili. Tutto questo prima che i processi veri siano celebrati e definiti ed a volta ancor prima che quei processi abbiano inizio. Si creano improprie aspettative di giustizia, si inoculano nel pubblico sentimenti di rancore e di vendetta, si prospetta una idea di giustizia fai-da-te gestita senza regole e senza limiti, che si sostituisce alle procure e ai tribunali e che finisce con il delegittimare gli attori reali del processo, che insegna a sospettare delle regole e dei limiti della giurisdizione ed a sentire come ostile alla giustizia tutto ciò che invece ne costituisce fondamentale garanzia. Ed è in questa sinistra luce di giustizialismo travestito da unico strumento di verità, di moralità e di virtù, che si fa strada un pericoloso sentimento che accomuna presunti autori dei reati ai loro difensori e si coltivano sempre più incontrollati moti di ostilità nei confronti degli Avvocati che svolgono nei processi la loro indispensabile funzione. Senza voler porre in essere arbitrarie generalizzazioni, non vi è dubbio che i fatti denunciati dagli Avvocati difensori del Foro di Civitavecchia, impegnati in un delicato processo che si sta concludendo davanti alla Corte di Assise di Roma, insultati e minacciati solo per aver svolto il loro compito difensivo, costituiscono l’esito complessivo di una cultura deformata. Può darsi che fra quei fatti, e la attenzione pervicace dedicata a quel processo da alcune trasmissioni più o meno specializzate nel settore, non vi sia un nesso diretto di causa ed effetto. Sebbene le minacce di cui sono stati destinatari i nostri colleghi sono solo le ultime di una lunga serie di fatti analoghi, tutti connessi alla enfatizzazione mediatica dei casi dei quali si occupavano, non vi è alcun bisogno di porre relazioni di tal genere, dovendosi piuttosto condannare in maniera inequivoca e con forza, tanto quelle minacce quanto quel modo di occuparsi della giustizia, come prodotti di una medesima pericolosa incultura. Ma questa condanna non può essere disgiunta dall’idea che sia possibile e necessario darsi nuove regole condivise che ci sottraggano tutti all’idea della inevitabilità di questa barbara deriva, e che ripristino, finché si è in tempo, non solo la dignità del processo, ma anche il rispetto del ruolo di ciascuno. La Giunta dell’Ucpi Chi si nasconde dietro Gomorra di Roberto Saviano L’Espresso, 15 aprile 2017 Sparatoria in centro a Napoli. E i politici tornano ad accusare le serie tv. Segno che non conoscono la realtà dove vivono. Sono iniziate le riprese della quarta stagione di “Gomorra” ed ecco che, puntuali, arrivano anche le solite accuse. In prima fila i politici che si riciclano critici - magari parlare di serie tv gli riesce meglio che governare - in cerca di notorietà o di qualcosa che allontani da sé ogni possibile responsabilità. A Napoli domenica scorsa c’è stata una sparatoria su un lungomare assolato e quindi gremito di napoletani e turisti. Una sparatoria che è stata drammatica anche per il panico che ha generato. Nei momenti più critici, le reazioni delle massime cariche politiche locali sono le stesse da decenni, e francamente non se ne può più di sentir dire che le responsabilità stanno sempre altrove e che chi commette atti criminali non va considerato di Napoli, benché a Napoli sia nato e cresciuto. E poi arrivano altre considerazioni che bisogna con forza rispedire al mittente. Vincenzo De Luca, a quanto pare, avrebbe banalmente constatato che i napoletani per bene hanno paura di uscire di casa e che bisogna avere a cuore i destini della povera gente, la sola a frequentare i luoghi in cui la violenza si manifesta. Qualcuno lo informi che Napoli è una città assai complessa, dove non esiste, in nessun luogo, una netta divisione tra poveri e ricchi. Zone popolari si trovano anche a Posillipo, figuriamoci se il lungomare e la Villa Comunale si possono definire zone frequentate solo da “povera gente”. Quindi la tesi di De Luca sarebbe questa: “Spesso si confonde la sicurezza con l’autoritarismo e la repressione mentre io cerco di spiegare da vent’anni che è un tema per la povera gente, perché chi ha soldi vive in luoghi separati, non va alla Villa Comunale”. Ecco, questo significa parlare senza cognizione di causa, e, perché sia lampante la frattura che esiste tra la classe politica e il territorio su cui amministra, De Luca si affretta a puntare come sempre il dito contro “prodotti tv che diventano una falsificazione della realtà. Se faccio un telefilm e per tre ore non compare un uomo con una divisa dei carabinieri, allora sto falsificando la realtà”. Questo è un transfer interessante tra la vita reale e la finzione televisiva: vuoi vedere che il problema di Napoli è che in “Gomorra” non compaiono uomini in divisa? Ma possibile che ci sia chi ancora riesce, senza vergogna, a dire tali idiozie? Forse - ma la mia è solo un’ipotesi - il problema di Napoli e della Campania è che non c’erano uomini in divisa mentre il figlio di De Luca riceveva l’ex boss del ciclo dei rifiuti Nunzio Perrella, ecco, questo credo abbia un effetto maggiore sulla collettività, rispetto a una serie tv che diventa il capro espiatorio di incompetenze e cinismo. Ma quello che risulta evidente è ormai l’attitudine della classe dirigente che, sempre più incline a distinguere tra noi persone per bene e loro criminali, ha abdicato a rappresentare tutti e a interessarsi anche dei destini di chi, meno per inclinazione e più per mancanza di reali prospettive, per vivere commette reati. E se “Gomorra” descrive uno spaccato di realtà, se a Napoli la serie è un vero è proprio romanzo popolare, visto da tutti, quello che mi spaventa è l’attitudine delle sedicenti élites di considerarsi le uniche in grado davvero di recepirne il senso. Mi spiego meglio: noi - dicono - abbiamo cultura e strumenti e quindi possiamo vedere la serie. Voi no. Voi non avere cultura, non avete mezzi, non potete discernere. Voi “Gomorra” non lo potete vedere perché vi fa male. Perché imitate, emulate. Ma dove vive chi dice questo? Prima di vedere “Gomorra” non si rendevano conto che Gomorra ce l’avevano attorno, che ci stavano dentro? Questo è il classismo di una città che vede le sue Padanie (i cosiddetti quartieri collinari, i quartieri bene) espugnate dalle infrastrutture, dalla metropolitana che collega il centro alle periferie, dalla modernità. Questa è la Napoli che si lamenta perché il centro storico è popolare, povero, criminale. Questa è la Napoli che sale in cattedra senza averne le competenze. Questa è la Napoli che nega fino a quando non è costretta a parlare perché sente gli spari, vede il panico e talvolta il sangue. E alla distrazione, all’incompetenza, all’indifferenza segue la colpevolizzazione degli altri, mai di se stessi. La violenza di oggi è una ribellione al disagio, ma una ribellione distruttiva alla quale si sta ancora una volta rispondendo in maniera sbagliata. Fino a ieri la criminalità non esisteva, oggi esiste ma è colpa delle serie tv. Bollate (Mi): nel 2017 pagati dai detenuti 500mila euro per “spese di mantenimento” mi-lorenteggio.com, 15 aprile 2017 Ieri una delegazione di iscritti del Partito Radicale con amministratori locali di vari comuni del Nord Milano ha visitato il carcere di Bollate all’interno del #PannellaMay, cioè le iniziative per il secondo anniversario della scomparsa di Marco Pannella e per raggiungere i 3000 iscritti scongiurando la chiusura del Partito Radicale e delle lotte del leader radicale. Gianni Rubagotti e Massimo Mancarella erano affiancati dal Sindaco di Baranzate Luca Elia (PD e i consiglieri comunali Luca Caracappa (Baranzate, 5 Stelle), Mirko Venchiarutti (Rho, 5 Stelle), Barbara Sordini (Novate Milanese, 5 Stelle), Sergio Valsecchi (Sesto San Giovanni, Sesto nel Cuore). E hanno scoperto che i detenuti della Casa di Reclusione lo scorso anno hanno versato 500.000 euro detratti dai loro stipendi per le “spese di mantenimento”. Infatti ogni recluso per legge dovrebbe pagare mensilmente per la sua permanenza in carcere. Difficilmente si riesce ad applicare la norma su chi è senza lavoro ed è in estrema povertà ma grazie al fatto che molti in questo carcere hanno occasioni lavorative i soldi vengono prelevati dal loro stipendio e contribuiscono alle spese dell’istituto sgravandone l’erario. A dimostrazione che le opportunità lavorative per i detenuti sono un vantaggio per la comunità intera. Così come è un vantaggio anche per chi è fuori dal carcere il nido aziendale dove convivono figli degli agenti, dei detenuti e di famiglie di cittadini della zona. Ma anche in questo carcere “modello” ci sono problemi: come la mancata presa in carico dei detenuti con problemi psichiatrici da parte del sistema sanitario. Luca Elia, Sindaco di Baranzate (Partito Democratico) ha dichiarato “Non è la prima volta che entro in questo carcere, l’elemento essenziale è la bassissima recidività che hanno i detenuti usciti da questo carcere” Mirko Venchiarutti, consigliere comunale a Rho (5 Stelle) “Abbiamo visto come i detenuti siano valorizzati come persone e si diano molte opportunità formative e lavorative. Credo che questa esperienza debba essere fatta anche da altri amministratori perché potrebbe aprire delle collaborazioni con il carcere” Luca Caracappa, consigliere comunale a Baranzate (5 Stelle) “La collaborazione che c’è fra la parte amministrativa le guardie e di detenuti stessi è uno stimolo a replicare la situazione di Bollate nelle altre case circondariali che non hanno questo sistema di “mitigazione della pena” Barbara Sordini, consigliera comunale a Novate Milanese (5 Stelle) “La cosa che mi ha colpito di più è la situazione del reparto femminile: in alcune situazioni ci sono anche 5 detenute in una stanza. È un problema se pensiamo ai problemi mensili che hanno le donne”. Sergio Valsecchi, consigliere comunale a Sesto San Giovanni (lista civica Sesto nel Cuore) “Interessante la grande collaborazione con aziende che all’interno del carcere offrono lavoro che si può sviluppare anche al di fuori del carcere”. Voghera: carcere, Lions e Comune sostengono il progetto “Libera un sorriso” vogheranews.it, 15 aprile 2017 Il trattamento umano dei detenuti in carcere non è solo un astratto precetto della Costituzione ma, in generale, anche la migliore assicurazione affinché la pena detentiva, oltre che afflittiva per il male fatto, sia anche un mezzo per recuperare chi ha commesso reati e soprattutto per ridurre la sua pericolosità nel post pena. E anche per questo che il super carcere di Voghera sarà presto dotato di una sala destinata ai colloqui tra nonni e nipoti. Il progetto si chiama “Libera un sorriso” ed è portato avanti dal Lions Club Castello Visconteo e dal Leo Club Voghera in collaborazione con l’assessorato alla Famiglia del Comune. Progetto che è stato illustrato giovedì pomeriggio al circolo il Ritrovo. Alla presentazione hanno partecipato, l’avvocato Emanuela Martinotti, consigliere e referente carcere di Voghera; Mariantonietta Tucci, direttore reggente del carcere, che ha trattato i temi “La città di Voghera e la casa circondariale: una risorsa reciproca” e della “Rete territoriale come prezioso apporto per la rieducazione dei condannati”; Fortunata Di Tullio, Capo area giuridico penale del Carcere (che ha illustrato gli elementi del trattamento articolo 15 O.P. e dell’importanza di “valorizzare le relazioni familiari dei detenuti con figli e nipoti”); e Linda Iannantuono, psicologa esperta ex artt 89 OP (che ha illustrato la questione della “Attivazione emotiva dei detenuti nei rapporti con la famiglia. Ricadute positive sulla condotta intramuraria”. Con loro il sala i presidenti dei due club Lions, Giuseppe Fiocchi e Martina Fariseo; il sindaco Carlo Barbieri e l’assessore ai servizi sociali Simona Virgilio (con loro l’assessore Marina Azzaretti e il presidente del consiglio comunale Nicola Affronti. Il progetto prevede la raccolta di fondi da destinare alla trasformazione in spazio accogliente e, a misura di bambino, di un vano della struttura detentiva di via Prati Nuovi. La stanza sarà approntata nei prossimi mesi. Obiettivo ultimo, rendere davvero operativo l’articolo 27 della Costituzione (oggi invece spesso disatteso) secondo cui, fra l’altro, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una formula generale che, se non per intima convinzione, dovrebbe essere (concretamente) applicata almeno “per interesse”… l’interesse collettivo di avere una società più “pulita” e sicura: in cui chi ha commesso un reato e fatto del male, esca dal carcere non peggiore di quando ci è entrato, anche per avere subito (oltre alla legittima pena) ingiusti trattamenti degradanti o privazioni non stabilite dalla Legge. Augusta (Sr): giustizia riparativa, corso di formazione e incontro con i detenuti webmarte.tv, 15 aprile 2017 L’importanza della rieducazione in carcere, della giustizia riparativa, col confronto tra vittima e carnefice, e del reinserimento nella società di coloro i quali hanno scontato una pena, è stata evidenziata, oggi, nella sala teatro “Enzo Maiorca” della casa di reclusione di Augusta, nell’ambito dell’evento formativo sul tema “Giustizia e informazione e la Giustizia capovolta”. Il corso rientra nella formazione professionale continua dei giornalisti e ha trattato i seguenti argomenti: “La giustizia e l’informazione, la deontologia del cronista”, la situazione delle carceri, il percorso di riconversione. “La Giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione” ovvero una giustizia che cambia volto, si capovolge perché “reinserisce”. Relatori del corso: il gesuita padre Francesco Occhetta giornalista, giurista, vice direttore di “La Civiltà Cattolica” e consulente ecclesiastico Ucsi (Unione Cattolica della Stampa Italiana), don Paolo Buttiglieri, giornalista e consulente ecclesiastico dell’Ucsi Sicilia, don Giuseppe Lombardo, giornalista, consulente ecclesiastico dell’Ucsi di Siracusa e direttore del settimanale “Cammino”, Antonio Gelardi direttore della casa di reclusione di Augusta. Il corso è stato introdotto dagli interventi del presidente regionale dell’Ucsi Sicilia Domenico Interdonato, del segretario regionale dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia Santo Gallo e del consigliere nazionale Ucsi Gaetano Rizzo. Il seminario è stato moderato dal consigliere nazionale Ucsi e presidente dell’Ucsi Siracusa Salvatore Di Salvo. L’evento formativo è stato preceduto da un incontro con i detenuti delle varie sezioni che hanno letto alcuni brani del libro “la Giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione”. Ad ascoltarli sono stati l’autore del volume, padre Occhetta e Salvatore Di Salvo, che sono stati accolti dal direttore del carcere, dal comandante della Polizia penitenziaria, dal vice comandante, dalla responsabile dell’area educativa e dal cappellano del carcere don Francesco Antonio Trapani. E poiché la giustizia riparativa è un approccio consistente nel considerare il reato principalmente in termini di danno alle persone e che quindi pone al centro il dolore della vittima, tra le testimonianze rese un detenuto ha manifestato il proprio desiderio di incontrare la persona offesa dal reato. Il seminario che si è svolto per la seconda volta in Sicilia all’interno di una struttura penitenziaria, promosso dall’Ucsi di Siracusa in collaborazione con l’Ucsi Sicilia, l’Assostampa di Siracusa e con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia è approvato dall’Ordine dei Giornalisti di Sicilia e dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, è stato coinvolgente. Diversi sono stati gli interventi dei giornalisti durante il dibattito finale. È stato, tra l’altro, evidenziato che non tutti i penitenziari svolgono attività riabilitativa e pertanto il carcere di Augusta del direttore Gelardì continua a essere considerato in Sicilia e non solo un modello da cui trarre esempio. “Per grazia non ricevuta”. Viaggio in Ape nelle carceri sarde di Grazia Brundu La Nuova Sardegna, 15 aprile 2017 Il progetto di Perrino e Boscani con gli studenti del “Figari”. Partito dalla Casa circondariale di Uta diventerà un docufilm. Joe Perrino viaggia in Ape, e non da solo: alla guida nell’abitacolo, accanto a lui e alla sua chitarra, c’è la signora degli ex voto e delle icone coloratissime che ricordano Frida Kahlo e gli altarini messicani, l’artista sassarese Giovanna Maria Boscani. Insieme vogliono attraversare la Sardegna e poi la Corsica, parcheggiando la tre ruote davanti ai cancelli delle carceri per raccogliere immagini, poesie, oggetti realizzati dai detenuti come istantanee di desideri, sogni, progetti per il “dopo”. Il viaggio dell’artista e del rocker cagliaritano, che al carcere e alle sue storie di dolore e di speranza ha già dedicato la doppia raccolta di “Canzoni di malavita”, diventerà una docu-fiction filmata dalla casa di produzione cinematografica Karel ed è il cuore del progetto “Per grazia non ricevuta”, ideato dall’associazione “Marco Magnani” con la direzione artistica di Leonardo Boscani e il contributo della Regione Sardegna, della Fondazione di Sardegna e della Film Commssion. Un progetto nato per “creare un dialogo tra chi in questo momento si trova rinchiuso in una cella e il resto della società” e per “portare il carcere all’interno della città”, spiega Rita Delogu a nome dell’associazione, citando Mario Dossoni, Garante per i detenuti del Comune di Sassari, che aderisce al progetto. Soprattutto, prosegue Delogu, “adesso che le carceri si trovano sempre più lontano dai centri abitanti”, sottoposte a un processo di rimozione collettiva che fa dimenticare un concetto molto semplice: “chi sta dentro, prima o poi, quasi certamente uscirà”. E allora perché non aiutarlo, anche attraverso l’arte, a iniziare un percorso che apra nuove prospettive e riduca il rischio di tornare a delinquere? “L’esperienza del carcere di Volterra dimostra che si può fare, e lì la percentuale di chi, dopo essere uscito, non ha più commesso reati è dell’ottanta per cento”, ha ricordato Delogu durante la presentazione di “Per grazia non ricevuta” al Liceo artistico “Figari” di Sassari, che partecipa al progetto con una mostra di ex voto (visitabile fino al 18 aprile) realizzata e allestita dagli studenti della 3° B sotto la supervisione di Giovanna Maria Boscani e del docente di pittura Giancarlo Catta. Gli ex voto dei ragazzi e quelli realizzati all’interno del carcere saranno raccolti, nella fase conclusiva del progetto, all’interno dell’Ape, che espone già nell’abitacolo quelli firmati da Boscani. Da scanzonato mezzo di trasporto, la tre ruote diventerà così “un contenitore di reliquie”, spiega l’artista, che racconta com’è nata la collaborazione con il rocker cagliaritano suo compagno on the road: “Conoscevo già da tempo Joe Perrino ed ero affascinata dalle sue “Canzoni di malavita”. Così l’ho contattato per proporgli una collaborazione su un progetto di ex voto a tema carcerario, che in un primo momento avrei dovuto realizzare io. Lui ha accettato e subito dopo ci è venuta l’idea di coinvolgere direttamente i detenuti”. Detto fatto, si sono messi in viaggio e la prima tappa l’hanno fatta nel carcere di Uta. “L’accoglienza è stata calorosissima, i ragazzi ci hanno accolto con grande entusiasmo - assicura Perrino - Tanto che qualcuno mi ha anche detto: “Tranquillo, se dovessi finire in cella, ti difendiamo noi”. Da questa esperienza forse nascerà un capitolo tre delle Canzoni di Perrino. Una sorta di aggiornamento sul campo, perché, spiega il rocker, “rispetto a qualche anno fa la situazione carceraria è molto diversa. Le celle adesso sono piene soprattutto di ragazzi extracomunitari e anche gli italiani che commettono reati non appartengono più, in gran parte, alle grandi organizzazioni criminali come in passato”. Però, ieri e oggi, chi è privato della libertà “ha bisogno di non essere visto semplicemente come un numero, tutti hanno il diritto di ricominciare da capo e io posso raccontare, come ho già fatto in passato, tante storie di persone che ce l’hanno fatta”. Siria. In cella con il nemico di Gianluca Di Feo La Repubblica, 15 aprile 2017 “Quelle due settimane dietro le sbarre hanno aiutato la mia ricerca. Avere vissuto sulla mia pelle la privazione della libertà mi ha offerto spunti per narrare meglio il mondo del carcere. Il resto me l’hanno raccontato la mia fonte e i nostri compagni di cella, un salafita marocchino e uno georgiano diretti in Siria a combattere, un disertore iracheno in fuga da Tal Afar e un contrabbandiere egiziano di antichità greche trafugate in Siria”. Non è un romanzo. Gabriele Del Grande è stato in cella con queste persone, arrestato dai turchi nell’aprile 2017 mentre tornava dalla Siria in compagnia di un ex miliziano. E la forza di Dawla, il libro appena pubblicato da Mondadori, sta proprio in questa presa diretta: le storie di chi ha scelto di servire lo Stato islamico, chiamato “Dawla” dai suoi leader. Del Grande usa le parole dei carnefici, senza giudizi morali, come strumento per entrare nelle teste di chi ha trasformato Siria e Iraq in un Califfato del terrore. “Dalla mia cella mi sono chiesto più volte se ne valeva la pena. Anche solo eticamente. Se valeva la pena prestare attenzione alle parole degli ex affiliati del Dawla anziché a quelle delle vittime. Il punto di vista dei carnefici è certo più scomodo di quello delle vittime, con le quali tutti noi empatizziamo, con un effetto consolatorio, rimanendo però del tutto incapaci di intravedere le ragioni sulle quali il Dawla ha costruito il proprio consenso”. Le ragioni si comprendono attraverso testimonianze straordinarie, senza precedenti nonostante la sterminata bibliografia sull’Isis, che entrano nel cuore della questione: come ha fatto una regione con una tradizione borghese e tollerante, seppur per gli standard arabi, ad abbracciare la dittatura coranica? I protagonisti fanno capire che lo Stato islamico non è l’inizio e forse nemmeno la fine: è solo una tappa di un percorso di disgregazione e violenza che ha radici diverse ma si allunga in più paesi. In Siria come in Iraq, sono biografie passate dai regimi alla guerra civile, per poi trovare nelle regole del Califfato una risposta al caos: l’Islam più radicale ha offerto non solo l’ordine ma anche l’identità fino ad allora negata. Questo però significa che le stesse dinamiche potranno ripetersi domani in Afghanistan e in Yemen, o addirittura in Tunisia o Egitto. Perché i bombardamenti occidentali e i fanti curdi o iracheni hanno spazzato via le milizie dello Stato islamico, lasciando però intatte le radici del male. I protagonisti di Dawla hanno servito il disegno con maggiore o minore convinzione, ma comunque senza remore. Alcuni hanno avuto ruoli nell’apparato di sicurezza, il livello più interno del potere jihadista. Sono racconti che scendono nelle tenebre dei servizi segreti del Califfato e dell’ancora misterioso reparto “Sicurezza esterna”, quello che manovrava gli attentatori suicidi in Europa, tra stragi e doppi giochi intessuti dagli ex colonnelli cresciuti sotto Assad o Saddam per poi aderire all’Isis. È l’altro volto dello Stato islamico, la rete sofisticata delle chat criptate e della persuasione planetaria: il volto più oscuro e inquietante, su cui Gabriele Del Grande riesce a dare uno dei rarissimi squarci di luce. Siria. Un esame di maturità per l’Italia di Antonio Polito Corriere della Sera, 15 aprile 2017 I governi servono proprio a fronteggiare situazioni impreviste o improvvise, e a difendere l’interesse nazionale. Ce ne serve dunque uno nella pienezza dei suoi poteri, per usare le parole di Mattarella. E al più presto. Se Trump o Putin volessero consultare l’Italia sulla crisi in corso in Siria, che numero di telefono dovrebbero fare? Il vecchio aforisma di Kissinger s’addice purtroppo al limbo in cui si trova il potere esecutivo nel nostro Paese. Il premier Gentiloni guida un governo per l’ordinaria amministrazione, espressione di un partito che si definisce di opposizione; il ministro degli Esteri in carica non è neanche più parlamentare. D’altra parte le commissioni esteri di Camera e Senato non ci sono finché non c’è un governo; la stessa rappresentante della politica estera europea Federica Mogherini, nominata da Renzi, non sa se avrà la fiducia del prossimo premier. La crisi siriana irrompe insomma nel minuetto post elettorale dei “vincitori”, e ne svela la insostenibilità. I governi servono proprio a fronteggiare situazioni impreviste o improvvise, e a difendere l’interesse nazionale. Ce ne serve dunque uno nella pienezza dei suoi poteri, per usare le parole di Mattarella. E al più presto. Per fortuna, è lecito sperare che i missili di Usa, Regno Unito e Francia non avviino una escalation incontrollata. Incontrando pochi giorni fa il nostro nuovo ambasciatore a Mosca, Pasquale Terracciano, il leader russo Putin ha definito ciò che sta accadendo nel più realistico dei modi: “La situazione è critica, ma sotto controllo”. I generali sul terreno si parlano, le “linee rosse” tra Usa e Russia sono state usate, secondo i francesi Mosca è stata addirittura informata sugli obiettivi del raid, proprio per evitare un incidente e il rischio di un confronto militare diretto. Ma ciò non significa che ci sia meno bisogno di dare una voce all’Italia. Trump, con il sostegno attivo di Parigi e Londra, avverte Russia e Iran che non possono usare la Siria come base per prendersi il Medio Oriente; che l’Occidente non intende sacrificare Israele e Arabia Saudita, storici alleati; e che Assad va messo sotto controllo, perché i micidiali barili-bomba lanciati dai suoi aerei non uccidono certo meno delle armi chimiche. È in corso insomma un “grande gioco”, di quelli che riscrivono i rapporti di forza internazionali, e che può avere un’influenza anche sulla situazione in Libia, in Turchia, e sui grandi flussi migratori verso l’Europa. C’è dunque in palio l’interesse nazionale. Che per noi consiste innanzitutto nel recupero pieno di un ruolo dell’Unione europea. Come ha scritto Franco Venturini sul Corriere, una nuova “guerra fredda” avrebbe l’Europa come teatro. È per noi vitale evitarlo. Ai protagonisti della crisi italiana si chiede dunque di avvertire un rinnovato senso di urgenza: basta tatticismi da prima repubblica. Ma anche un maggior carico di responsabilità. Si sarà accorto ieri Matteo Salvini che a nessun leader europeo, neanche tra coloro che non hanno partecipato all’azione, è sfuggito il carattere “proporzionato”, “appropriato”, “limitato”, “mirato”, dell’attacco alleato. E che nessun leader italiano ha mancato di segnalare la necessità di impedire l’uso delle armi chimiche. Così che le sue prime dichiarazioni che definivano “pazzesco” l’intervento non hanno trovato concorde non solo Di Maio, potenziale alleato di governo, che ha precisato: “Restiamo al fianco dei nostri alleati”; ma nemmeno l’attuale alleato Berlusconi, che l’ha invitato alla prudenza dall’alto di una superiore esperienza internazionale, e nonostante la sua conclamata amicizia con Putin. Per i “vincitori” del 4 marzo, ma anche per gli sconfitti, la crisi siriana è insomma un esame di maturità. Devono prendersi le loro responsabilità e devono sbrigarsi. Sarebbe davvero ridicolo se, nel momento in cui si propone un vertice tra Trump e Putin per risolvere la crisi, da noi Salvini e Di Maio non riuscissero a incontrarsi nemmeno a Vinitaly. Siria. Per fare la guerra non serve più nemmeno la “pistola fumante” di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 15 aprile 2017 La disinformazione serve anche a disorientare l’opinione pubblica che difficilmente riesce a leggere il contesto siriano e soprattutto a reagire sia al presunto uso di gas che ai bombardamenti. Per scatenare una guerra non serve più nemmeno la “pistola fumante” dei tempi di Bush. Ricordate la sceneggiata di Colin Powell con le fialette di antrace, per convincere il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad avallare la guerra contro Saddam Hussein. Una guerra basata su una “fake news”, come ce ne sono state molte nella storia, poco importa se si è distrutto un paese che non aveva le armi di distruzione di massa. Quindici anni dopo chi se lo ricorda? La disinformazione serve anche a disorientare l’opinione pubblica che difficilmente riesce a leggere il contesto siriano e soprattutto a reagire sia al presunto uso di gas che ai bombardamenti. Nell’era della post-verità, ma sarebbe meglio dire della disinformazione, non servono prove. Basta una “autocertificazione” di Macron o di Trump: “Abbiamo le prove” che Damasco ha usato i gas a Duma e lanciano i missili. Damasco ha superato quella che Obama aveva definito la “linea rossa” (l’uso di armi chimiche). E proprio nel giorno in cui gli esperti dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) dovevano iniziare le loro indagini per verificare l’uso o meno dei gas, scatta l’intervento occidentale preventivo. Non servono le prove, soprattutto se rischiano di non assecondare la follia di Trump e dei suoi seguaci. Per ora, si dice, si è trattato di un atto dimostrativo, forse un test per verificare la reazione di Mosca (informata preventivamente). Vista l’efficienza dimostrata dai sistemi antimissilistici siriani (informati dai russi), che avrebbero abbattuto la maggior parte dei 110 missili lanciati, non sarà il caso di sottoporli a una prova più pesante? Il rischio di un’escalation non è da escludere. Del resto Trump sta cercando il modo meno “disonorevole” per uscire da una guerra che ha perso: Assad è ancora al potere e, anzi, ieri dopo l’attacco la popolazione nelle piazze di Damasco ha inneggiato ad Assad. I curdi siriani, aiutati dagli Usa per sconfiggere l’Isis, sono stati abbandonati sotto le bombe del sultano Erdogan. Tra gli obiettivi attaccati dall’operazione unilaterale di Trump (Macron e May), secondo la Cnn, che cita fonti della difesa Usa, vi sarebbero anche due siti di stoccaggio di armi chimiche nell’area di Homs. O i siti erano vuoti (gli stessi americani nel 2014 avevano annunciato che i siriani avevano consegnato tutte le armi chimiche) oppure si tratta di un gesto folle che avrebbe potuto provocare la dispersione nell’ambiente delle famigerate armi con conseguenze letali sulla popolazione. Ma forse per gli Usa non è così importante: in Iraq, nel 2003, l’avanzata americana aveva fatto fuggire i guardiani che controllavano i depositi di Yellow cake, poi saccheggiati dalla popolazione che, ritenendolo un fertilizzante, lo aveva utilizzato provocando l’inquinamento delle acque e dei terreni. Ora si aspetteranno i risultati dell’indagine condotta dagli esperti dell’Opac? E i risultati saranno chiari e definitivi? Ma anche se troveranno tracce di gas, chi li avrà usati? Il pensiero torna all’Iraq quando il rapporto presentato dagli ispettori dell’Unmovic (Blix) e dell’Aiea (el Baradei) al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 14 febbraio 2003 (il giorno dopo lo show di Powell) non interessava a nessuno. Anzi, “ho avuto l’impressione, subito prima che prendessero la decisione di dare il via all’attacco, che il nostro lavoro li irritasse”, aveva detto Hans Blix in una intervista al giornale tedesco Welt am Sonntag. C’è da supporre che anche l’indagine dell’Opac, qualsiasi siano le conclusioni, non scalfirà le convinzioni di Trump, Macron e May, che con questa attacco militare possono distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni. Merkel e Gentiloni non hanno partecipato ma hanno approvato “l’azione necessaria” senza chiedere prove. Con questa nuova battuta militare si rafforza l’asse britannico-americano, indispensabile dopo la Brexit, ma Trump è riuscito anche a riallineare il leader turco Erdogan, che ha approvato l’azione, dopo le sue intemperanze che avevano portato un paese della Nato (la Turchia) a trattare con la Russia e l’Iran. Il presidente Usa ha anche rassicurato Israele proprio mentre continua il massacro dei palestinesi. Trump sta scherzando con il fuoco e forse non ha tenuto conto che sul terreno siriano oltre alla Russia c’è anche l’Iran. Turchia. La morte in cella del giudice Teoman Gokce di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 15 aprile 2017 Dal fallito colpo di Stato del luglio 2016 non si ferma l’ondata di arresti. Già quattro i magistrati morti durante la detenzione. E intanto dietro le sbarre sono già oltre 90 mila le persone arrestate. Con l’accusa di “terrorismo” Erdogan silenzia l’opposizione. La stampa turca parla di infarto. Sarebbe morto così, qualche giorno fa, Teoman Gokce, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura turco. Detenuto nell’istituto di Sincan, dove era stato portato con l’accusa di far parte della rete golpista coinvolta nel fallito colpo di Stato del 2016, Gokce è il quarto magistrato morto in carcere da quando è cominciata la pesante repressione del governo del presidente Erdogan. Il Centro per la libertà di Stoccolma, che sta studiando i suicidi e le morti sospette in carcere dal luglio del 2016, ha rilevato un aumento dei casi soprattutto in quegli istituti dove è noto che siano praticate torture e pressioni psicologiche. In totale il Centro ne ha studiati 110. In Italia, l’Associazione nazionale magistrati, che ha diffuso la notizia nel nostro Paese, ha espresso “la più ferma indignazione per la drammatica vicenda che si perpetua nel silenzio e che viola i più elementari principi democratici oltre che la dignità umana” e auspica “l’immediato intervento degli organi istituzionali italiani e internazionali affinché inducano il Governo turco al rispetto dei diritti umani e al ripristino della legalità”. Secondo i dati resi noti a marzo sono oltre novantamila - un migliaio solo nell’ultimo mese - le persone detenute con l’accusa di terrorismo e di affiliazione alla presunta rete golpista di Fethullah Gulen. Dalla data del fallito golpe è stato dichiarato uno stato di emergenza non più revocato e l’ondata di arresti non si è mai fermata. A quanti sono agli arresti per il fallito golpe si stanno sommando adesso anche quanti esprimono dissenso per l’offensiva turca in Siria contro i curdi. In totale gli arresti superano quota 800. Agli arresti anche magistrati, professori e giornalisti. Con l’accusa di “propaganda terroristica”, lo scorso mese erano stati fermati e poi rilasciati anche i vertici dell’Associazione nazionale medici, rei di aver lanciato l’allarme sui rischi per la popolazione civile delle offensive militari.