Il carcere che dimentica l’uomo e la politica senza coraggio di Roberto Saviano La Repubblica, 14 aprile 2018 La riforma dell’Ordinamento penitenziario, maltrattata dal pavido governo uscente e che con ogni probabilità verrà bloccata dal governo che verrà, era stata concepita proprio per ottenere una diminuzione della recidiva, un carcere più umano e una società più sicura. Vorrei fare un esperimento. Se vi dicessi che i detenuti che, dopo attenta osservazione e parere positivo dei magistrati di sorveglianza, quindi non scelti in maniera arbitraria, hanno accesso a misure alternative al carcere, che possono uscire per lavorare, che possono avere contatti con l’esterno, tornano a delinquere in percentuali molto al di sotto del 30%, cosa rispondereste? E se poi vi dicessi che, al contrario, chi sconta l’intera pena in carcere, senza la possibilità di accedere a pene alternative, torna a delinquere nel 70% dei casi? Immagino pensereste che per il bene di chi sta dentro e anche di chi sta fuori sarebbe preferibile che il carcere fosse luogo di rieducazione e reinserimento e non un parcheggio o, peggio, una discarica sociale. E se vi dicessi che invece in Italia, tranne rarissime e sporadiche eccezioni, il carcere è proprio una discarica sociale? Se vi dicessi anche che il malfunzionamento delle strutture penitenziarie non è da addebitare a direttori e guardie carcerarie, ma a strategie politiche fallimentari, cosa rispondereste? Chiunque, a vario titolo, abbia a che fare con il carcere, detenuti e loro familiari, giuristi, avvocati, associazioni che si occupano di diritti dei detenuti, educatori, direttori e personale che lavora nei luoghi di detenzione, tutti loro e anche noi, abbiamo oggi come unico avversario comune una politica priva di coraggio e spesso anche di competenze, sorda e cieca a ogni sollecitazione, a ogni richiamo e, finanche, a ogni richiesta d’aiuto. Oltre 10 mila detenuti hanno aderito nei mesi scorsi a un grande sciopero della fame, mettendo in atto una protesta nonviolenta insieme a Rita Bernardini, perché il governo uscente approvasse definitivamente i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma non è servito a nulla, come a nulla è servita la condanna dello Stato italiano da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle carceri del nostro Paese. E se vi dicessi che la riforma dell’ordinamento penitenziario, maltrattata dal pavido governo uscente e che con ogni probabilità sarà bloccata dal governo che verrà, è stata concepita proprio per ottenere una diminuzione della recidiva, un carcere più umano e una società più sicura, cosa mi rispondereste? Sareste forse d’accordo con me nel considerare fondamentale una riforma delle carceri in tal senso. Ma se è così, perché la politica pensa che voi non siate d’accordo? La politica rincorre il consenso e spesso lo ottiene, ma è un consenso effimero, destinato a crescere o a diminuire a seconda di avvenimenti che poco o nulla hanno a che fare con la reale capacità di amministrare o governare. Ormai si dà per scontato che dopo i fatti di Macerata la Lega abbia aumentato il suo consenso elettorale perché all’omicidio di Pamela Mastropietro ha risposto con una propaganda che al primo posto poneva la tolleranza zero verso tutti gli immigrati. Parole, e non fatti, che sono seguite a una tragedia utilizzata per fare campagna elettorale. Nessun merito politico: è ormai così che sempre più spesso i partiti guadagnano consenso, approfittando di eventi che esulano dal proprio lavoro e da effettive capacità. E quindi anche una riforma che aggiunge civiltà viene comunicata come un “regalo ai mafiosi” e utilizzata come ulteriore terreno di scontro. Quello che è accaduto, in breve, è questo: il governo uscente, impegnato in questa riforma per anni, per paura del vostro parere contrario in vista delle elezioni, un parere emotivo e non basato sulla conoscenza, non ha avuto il coraggio di farla passare quando avrebbe potuto, tirando tutto per le lunghe e arrivando così a ridosso del 4 marzo. Ma perché, vi starete domandando, il governo uscente ha avuto paura del vostro giudizio? Perché vi immaginava sobillati da chi, ancora oggi, spaccia questa riforma di civiltà per un regalo ai criminali. E così agendo, ha abdicato al proprio compito provando solo e inutilmente ad arginare l’emorragia di voti dal Pd. E ora M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nella riunione dei capigruppo alla Camera tenutasi martedì scorso, hanno negato l’accesso di questa riforma all’esame della Commissione speciale della Camera, facendo in modo che venga discussa non si sa quando dalle commissioni ordinarie. Ovviamente questa decisione è l’anticamera della disfatta totale, poco o nulla importa che in gioco ci siano le vite dei detenuti e che da questo fallimento non ci guadagnerà nessuno, anzi perderemo tutti. Nel frattempo, dall’inizio dell’anno, ci sono già stati dieci casi accertati di suicidio nelle carceri italiane, 8 mila sono i detenuti di troppo e 70 i minori che scontano la detenzione insieme alle loro mamme. E il carcere continua a essere una scuola di crimine che nulla insegna, che non riabilita, ma finisce di rovinare chiunque ci entri. Un mese fa sono stato in visita a Poggioreale insieme a Rita Bernardini e a Radio Radicale, una educatrice ci ha detto senza troppi giri di parole che il carcere ora è un luogo di radicalizzazione: si entra criminali alle prime armi, criminali per caso o anche per necessità e si esce criminali veri, con contatti seri, perché, non potendo fare altro, durante la detenzione si cerca di pianificare la propria vita fuori. Inoltre chi oggi entra in carcere in Italia uscirà marchiato a fuoco e nella vita non potrà fare altro che delinquere, perché nessuno sarà disposto a dargli una seconda possibilità. E intanto la criminalità organizzata ringrazia la politica italiana che ancora una volta le ha fatto un dono prezioso: manovalanza e affiliati che noi trattiamo come feccia, ma che per le mafie sono “forza lavoro” indispensabile. E io ringrazio il Pd per la sua mancanza di coraggio e M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia per l’incoscienza e il cinismo. Ma resta forse una flebile speranza a cui di nuovo ci aggrappiamo per vedere rispettati i diritti fondamentali di tutti gli individui; resta infatti, come ultima spiaggia, appellarsi ai presidenti di Camera e Senato perché riconsiderino la decisione della conferenza dei capigruppo di non assegnare il decreto legislativo di riforma del sistema penitenziario alla Commissione speciale. Presidente Fico, mi rivolgo a lei: si dice che sia di sinistra, che abbia a cuore gli ultimi. Ebbene, in carcere ci sono gli ultimi tra gli ultimi. Onori, dunque, il Parlamento e la sua funzione e non consenta che un provvedimento necessario e già approvato non trovi attuazione. Presidente Casellati, non so come la pensi lei sugli ultimi, ma dimostri che non è vero che per Forza Italia i diritti dei detenuti sono importanti solo se si tratta di potenti caduti in disgrazia. E un favore ho da chiederlo anche a voi che leggete: visitate un carcere qualsiasi, cogliete ogni occasione possibile di contatto con il mondo della detenzione, fatelo per voi stessi, fatelo per i vostri figli, fatelo perché per deliberare (ma anche più banalmente per scrivere un post) è fondamentale conoscere. Volontariato penitenziario: affossare la Riforma un grave passo indietro Vita, 14 aprile 2018 Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario che ha riunito oltre 120 rappresentanti delle organizzazioni impegnate nel sistema carcerario a Roma a Regina Coeli denuncia l’affossamento della Riforma del sistema carcerario “un anacronistico salto indietro oltre che rischiare sanzioni mortificanti da parte delle autorità europee”. Sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle misure di comunità, ricostruzione culturale della società e riconoscimento del ruolo del volontariato. Questi i temi toccati, a più riprese, questa mattina, a Regina Coeli, durante la prima sessione di lavori del 51esimo convegno nazionale SEAC (Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario) sul tema “La riforma penitenziaria: lo stato della pena”, alla quale hanno partecipato 122 volontari provenienti da tutta Italia. La legge penitenziaria del nostro Paese risale a 43 anni fa, parla di un mondo, di una società e di un carcere che hanno subito profonde trasformazioni. Il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario (n. 501, primo di una serie) con cui a dicembre il governo Gentiloni ha dato seguito alla delega ricevuta dalla legge 103/2017, ha portato una ventata di modernità nel quadro normativo aprendo alle pene alternative o di comunità, già largamente applicate nel mondo occidentale in luogo della detenzione in carcere e introducendo importanti disposizioni volte al miglioramento della vita penitenziaria e al rispetto della dignità umana. Non è chiaro se l’attuale contingenza politica consentirà la definita approvazione quantomeno di questo primo fondamentale atto legislativo. “Disperdere il frutto di questi sforzi condivisi significherebbe fare un anacronistico salto indietro oltre che rischiare sanzioni mortificanti da parte delle autorità europee - dichiara Laura Marignetti, presidente Seac - si continua a pensare che la pena, una volta inflitta, non debba subire modifiche affinché non perda il carattere di certezza. È questo il pensiero che va fermamente contrastato sostenendo le ragioni di questa riforma. La certezza della pena non significa necessariamente pena immutabile”. Per Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, è necessario pensare ad una ricostruzione culturale. La pensa così anche Marcello Bartolato, presidente Tribunale di sorveglianza Firenze: la riforma deve essere culturale nella vita di un Paese che si definisce civile. Secondo Carmelo Cantone, provveditore regionale Amministrazione penitenziaria Puglia e Basilicata, la riforma era necessaria, così come era necessario il percorso degli Stati Generali. “C’è però un vizio di fondo: è un discorso di amici che si parlano tra loro. La cosa fondamentale è che gli addetti ai lavori riescano a parlarsi tra loro trovando un linguaggio comune”. Nessuno può essere escluso da un processo di recupero e ravvedimento. La conversione è possibile, il cambiamento può avvenire. La pensa così Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. “Il destino di questa riforma è incerto - ha affermato - la classe politica non deve essere ostaggio del consenso e non deve aver paura di approvare una riforma che non è uno svuota carceri, ma una riforma di civiltà”. Cinzia Calandrino, provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria Lazio Abruzzo e Molise si è soffermata sul ruolo del volontariato che è anche quello di far capire all’opinione pubblica che attuare le misure alternative non significa garantire meno sicurezza ai cittadini. Per Giovanni Maria Pavarini, presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia, la riforma contiene cose buone e cose meno buone, ma si può già partire da quello che c’è adesso. “A Regina Coeli non c’è il refettorio e dovrebbe esserci perché è obbligatorio dal 2000. Da ciò si evince che non è sempre vero che le riforme cambiano la realtà”. “Carceri, si salvi la riforma”. Appello al Parlamento di volontari, magistrati e operatori di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 14 aprile 2018 Il destino della riforma penitenziaria è incerto”, ma “la classe politica non deve essere ostaggio del consenso e non deve aver paura di approvare un testo che non è uno svuota carceri, ma una riforma di civiltà”. Nella sala della “Rotondina” del carcere romano di Regina Coeli, magistrati, operatori e 122 volontari - riuniti per il convegno nazionale del Seac, coordinamento degli enti e delle associazioni penitenziarie, che si chiude oggi - ascoltano l’accorato appello di don Raffaele Grimaldi, per 25 anni cappellano a Secondigliano, dove ha contribuito a fondare una cooperativa di lavoro e ha pregato insieme ai detenuti, riavvicinandone diversi alla fede. “Nessuno può essere escluso da un processo di recupero e ravvedimento - dice. La conversione è possibile, il cambiamento può avvenire”. Da un anno, don Raffaele è diventato ispettore generale dei cappellani italiani. E dal proprio vissuto trae, senza retorica, un’esortazione alle istituzioni e alla società: “Il carcere non deve essere inteso come unica strada per rassicurare l’opinione pubblica in tema di sicurezza. La riforma può essere un valido strumento per dare una chance a chi ha sbagliato. Le misure di comunità aiutano nel reinserimento delle persone detenute nella società”. Decreti nel limbo. Al momento, i quattro schemi di decreto legislativo varati fra dicembre e marzo dal Consiglio dei ministri (in seguito alla legge delega 103 del 2017) sono in un limbo procedurale, in attesa di essere esaminati dalle commissioni del nuovo Parlamento, per un parere non vincolante. Avrebbero potuto essere esaminati dalle Commissioni speciali di Camera e Senato, ma Lega, Forza Italia, Fdi e M5s non sono stati di quest’avviso. Mercoledì il Guardasigilli uscente Andrea Orlando (Pd) ha telefonato ai presidenti di Camera e Senato. Roberto Fico e Elisabetta Alberti Casellati, per chiedere loro di “riconsiderare tale decisione”, pena il rischio di un naufragio della riforma. “Sarebbe stato un atto di civiltà”, ha lamentato ieri nell’Aula della Camera Riccardo Magi, segretario dei Radicali italiani. L’eco dell’insabbiamento dei provvedimenti si riverbera qui, fra i cancelli di ferro e le spesse mura seicentesche, e preoccupa il mondo del volontariato: “La certezza della pena non significa necessariamente una pena immutabile. Le nuove disposizioni portavano una ventata di modernità nel quadro normativo - ragiona Laura Marighetti, presidente del Seac - aprendo alle pene alternative o di comunità, già largamente applicate in altri Paesi occidentali”. A suo parere, “disperdere il frutto di questi sforzi significherebbe fare un anacronistico salto indietro, oltre che rischiare sanzioni mortificanti da parte delle autorità europee”. L’amarezza di toghe e provveditori. Pure i magistrati di sorveglianza e coloro che sono chiamati ad amministrare le carceri non nascondono le difficoltà del momento, col sovraffollamento in crescita: 58.223 detenuti su 50.613 posti disponibili al 31 marzo (più 51.042 “misure di comunità”, per un totale di 109.265 persone sottoposte ad esecuzione penale). Alcune situazioni strutturali sono irrisolte da decenni: “A Regina Coeli - fa notare il presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia Giovanni Pavarin, manca ancora il refettorio, obbligatorio dal 2000. E se il volontariato sparisse dalle carceri, il sistema imploderebbe qualche giorno dopo”. Il provveditore regionale per l’Amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Cinzia Calandrino si dice “molto triste per questa mancata riforma”. Pure il suo omologo per la Puglia e la Basilicata, Carmelo Cantone, la ritiene “necessaria” anche se “il problema sono i fondi: bisogna investire in modo intelligente. Come si fa a pensare che il taglio di 4mila agenti penitenziari non avrà ripercussioni?”. Emilio Santoro, giurista e docente di Filosofia del diritto a Firenze, segnala episodi paradossali, “come un concorso per mediatori culturali verso i detenuti stranieri, aperto solo a chi ha la cittadinanza italiana”. E Marcello Bartolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, osserva: “Io la speranza nella riforma non la perdo, ma oggi sembra arrivata al capolinea. Le commissioni speciali hanno scelto di occuparsi di altri temi urgenti”. L’ultimo appello alla politica arriva da Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà: “Il Parlamento potrebbe distinguere fra il primo dei 4 provvedimenti, che aveva superato le analisi tecniche e che contiene la parte sulle misure alternative, e gli altri 3, sui quali i pareri non erano stati dati e che effettivamente sarebbe giusto far visionare dalle nuove commissioni. Metterli tutti insieme è stato un errore. Invito perciò le forze politiche a discernere, senza bloccare tutto”. Che pena quelle celle di Giorgio Mulè (giornalista, deputato di Forza Italia) Panorama, 14 aprile 2018 L’ex direttore di Panorama, da parlamentare, è andato nel carcere di Spoleto tra i sepolti vivi del 41bis. E si chiede: è davvero necessario quello spietato regime carcerario? Il lettore perdonerà il gioco di parole, che spero non appaia banale se non addirittura offensivo. Ma quando alla vigilia di Pasqua sono uscito dopo poco più tre ore dal carcere di Spoleto mi sono sentito liberato. Sì, liberato perché ho iniziato a piangere. Credetemi, ho la pelle durissima e l’anima piena di cicatrici mai rimarginate: quando ero un cronista di nera a Palermo tra gli anni Ottanta e Novanta ho visto e raccontato la feccia e l’orrore, il disonore e la viltà mentre ancora oggi quasi ogni notte tornano a farmi visita gli spettri di un’estate maledetta con brandelli di corpi sparsi su quel che rimaneva di un’autostrada a Capaci e tra i palazzi sventrati in via D’Amelio. Lì, a Spoleto, ho iniziato a regolare i conti col mio passato, grazie a quello che considero un vero privilegio dei parlamentari: poter visitare in ogni momento le carceri. Nel cuore dell’Umbria c’è, dopo l’Aquila, la più alta concentrazione in Italia di condanne definitive con 41bis: sono i detenuti di mafia, molti con “fine pena mai” e dunque ergastolani. Sono dei sepolti vivi, tanto per capirci. Soggetti a un regime di reclusione durissimo per evitare qualsiasi contatto con l’esterno: vivono da soli 22 ore al giorno in una cella dove letto e mobiletto sono bullonati per terra, non è consentito cucinare e neppure installare una zanzariera. In cella o stai sdraiato o esaurisci lo spazio per camminare in tre passi o si guarda la tv fino a mezzanotte. Si va all’”aria” al massimo in due in “passeggi” chiusi da muri di cemento. È concessa una telefonata al mese di un’ora e un colloquio di un’ora al mese e sempre controllato a vista: da un po’ possono toccare o tenere sulle ginocchia i figli minori per tutta la durata del colloquio perché fino a poco tempo fa questo tempo era limitato a dieci minuti. E immaginate come poteva reagire un bambino di otto o dieci anni quando era costretto a staccarsi dal padre. In cella possono tenere poco o nulla. La loro vigilanza è affidata agli agenti del Gom, il Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria. Sono un’eccellenza per la loro professionalità e umanità, eppure come spesso capita maltrattati dall’amministrazione statale. Sono sotto organico eppure vengono riconosciute appena 41 ore di straordinario al mese: tutte quelle che accumulano in più - spesso anche 30 o 40 ore - vanno a ingrossare i “riposi compensativi” (dunque zero euro in busta paga), la quasi totalità viene trasferita per ragioni di sicurezza dopo un periodo di alcuni anni e dunque la famiglia non vive con loro. Perché allora non prevedere per questi agenti, soggetti a uno stress psicologico enorme essendo di fatto detenuti tra i detenuti, almeno l’utilizzo gratuito del telefono? Perché non rimborsare le spese di viaggio per raggiungere le famiglie? Ecco, la visita di un parlamentare serve anche a sollecitare, appena ci sarà un governo, misure come queste. Il carcere di Spoleto rappresenta un modello virtuoso per organizzazione e attività di recupero: accanto ai laboratori di falegnameria con un bellissima liuteria c’è una biblioteca fornita di libri donati dalla Presidenza della Repubblica dove tra breve inizierà un torneo di scacchi in streaming con il carcere di Chicago. Qui detenuti e agenti parlano spesso per sigle. Gli As3, ad esempio, sono i detenuti con il più alto grado di sicurezza, nel senso che sono i più pericolosi per il tipo di reato commesso: anche in questo caso hanno condanne definitive per fatti di sangue o legati ad associazioni a delinquere ad esempio per il traffico di stupefacenti. Per capire la differenza tra i 41bis e gli As3 (a Spoleto sono circa 250) immaginate il corridoio di un convento di clausura e quello del dormitorio di un oratorio. Ti imbatti in storie terribili, in vicende umanamente devastanti. Per quel poco che posso comprendere dell’animo umano sono sufficientemente sicuro che alcuni di loro scontano pene pur essendo innocenti mentre altri meriterebbero - come mi hanno onestamente e convintamente riferito agenti ed educatori - di avere un’occasione di reinserimento nella società. Accenno a un caso, per tentare di essere più chiaro, che riguarda un ergastolano. Anzi: “ergastolano ostativo”, cioè colui che non potrà godere di alcun beneficio (permessi, semilibertà, libertà condizionale) anche dopo 26 anni ininterrotti in galera. Per essere ancora più espliciti: l’ergastolo ostativo prevede che si muoia in carcere. Alberto, che non si chiama così, è in cella per omicidio da quasi 15 anni e di anni ne ha meno di 50. La sentenza di condanna definitiva è motivata in una decina di pagine scarse e si base su dichiarazioni di alcuni pentiti. Alberto, al quale uccisero la madre quando aveva cinque anni, quell’omicidio giura di non averlo commesso: l’ultima speranza è legata alla revisione e la Corte di Strasburgo ha giudicato ammissibile il ricorso. Alberto è sicuro che prima o poi gli sarà restituita la libertà ma non potendo vivere il suo tempo ha deciso di congelarlo: lui lo ha fatto con il suo seme, la moglie con i suoi ovuli. “Mio figlio nascerà solo se il padre avrà la dignità di un uomo libero e perbene”, mi ha sussurrato. Anche per questo ho pianto quando sono uscito dal carcere. Perché lì dentro c’è di sicuro un’umanità tradita da molti di quei detenuti, ma è altrettanto certo che c’è un’umanità negata. Lo sport per l’inclusione: Vivicittà entra nelle carceri ennapress.it, 14 aprile 2018 Vivicittà 2018 si corre complessivamente in ventisette istituti penitenziari e minorili: fino a giugno scenderanno in pista migliaia di detenuti. Domenica 15 aprile Vivicittà sarà protagonista nelle strade delle nostre città, per vivere gli spazi urbani e stare insieme a tanti altri cittadini, camminando, correndo e divertendosi. Ma non solo: tantissimi anche coloro che, pur ristretti tra le mura di un carcere, saranno idealmente sui percorsi di Vivicittà, grazie al progetto Porte aperte che, oltre all’attività sportiva quotidiana rivolta ai detenuti lungo tutto l’arco dell’anno, permette anche la realizzazione di Vivicittà in molte carceri italiane. Domenica 15 aprile Vivicittà arriva a Monza e Bollate (Mi) dove oltre 600 detenuti del carcere partiranno contemporaneamente a tutti gli altri partecipanti a Vivicittà. Qui, dove si corre da quindici anni, la percentuale di iscritti è altissima, quasi il 50% dei detenuti. Il percorso di 12 km è ottenuto compiendo più giri sul tracciato. A Milano Opera Vivicittà si terrà domenica 22 aprile: è dal 1990 che la manifestazione viene organizzata in questo istituto e i partecipanti saranno circa 300. Si correrà nel giardino su un percorso di circa 7 km, con partenza alle 10. Sabato 14 aprile sarà la volta del minorile Beccaria, dove alle 14.30 scatteranno tutti i ragazzi residenti, circa 35, correranno più giri in un circuito realizzato sul campo da tennis. Vivicittà nel minorile Beccaria si corre dal 1993. Sabato 14 aprile alle 10 Vivicittà arriva anche nell’Istituto penitenziario San Michele di Alessandria: oltre ai 20 detenuti, al via ci saranno anche venti partecipanti esterni. Sabato 14 aprile si corre anche a Enna nella Casa circondariale “L. Bodenza” e Biella. Per il calendario completo di Vivicittà-Porte aperte clicca qui Mercoledì 11 aprile Vivicittà si è svolta nella Casa circondariale di Ragusa: circa venti i partecipanti e un percorso di 5 km, per una corsa senza vincitori o vinti ma con tante persone che hanno tagliato insieme il traguardo. L’evento è stato sostenuto dall’assessorato allo sport di Ragusa. Sabato 7 aprile si è svolta nella Casa circondariale di Voghera la sedicesima edizione di Vivicittà in carcere, che si corre dal 2003. L’istituto penitenziario di Via Prati Nuovi ha accolto 15 atleti della provincia, e non solo, che hanno voluto correre a fianco dei detenuti in una competizione sportiva e solidale. La manifestazione è stata articolata in due momenti distinti: la gara riservata ai detenuti “comuni”, che hanno percorso 10 giri del tracciato ricavato all’interno dei campetti da calcio; la seconda prova che ha visto in azione i reclusi della “massima sicurezza”. Qui la corsa si è strutturata in due batterie con tanto di finale sui sette giri del percorso, dove si è registrato un forte impegno agonistico, con i primi tre finalisti giunti molto ravvicinati. Con loro hanno corso gli atleti di alcune società della provincia, che hanno voluto condividere questo momento di forte inclusione sociale. Sabato 7 aprile si è corso anche a Brescia, nella casa di reclusione di Verziano, oltre alla corsa competitiva per i detenuti si è tenuta anche una non competitiva per gli studenti. Infatti, hanno partecipato circa 240 studenti di dieci istituti superiori di città e provincia. Alla corsa hanno preso parte anche sei detenuti del carcere cittadino Nerio Fischione. La cucina in carcere e la tutela dei diritti del palato di A.B. giustizia.it, 14 aprile 2018 “Cucina una zuppa piccante con manzo: prepara la zuppa di pasta, scola l’acqua e aggiungi gli aromi. Taglia della carne di manzo essiccata, del formaggio, aggiungi delle patatine e salsa piccante. È davvero molto buona”. È uno dei consigli gastronomici che un ex detenuto divulga tramite wikihow.it assieme ad altri accorgimenti per mangiare di più e meglio in prigione: “se qualcuno grosso il doppio di te ti prende il tuo pranzo, reagisci. Anche se prenderai un sacco di botte o verrai pugnalato, almeno dimostrerai di non essere una facile preda e, la prossima volta, qualcuno ci penserà due volte prima di rubarti il cibo”. Colori (forti) e sapori inequivocabilmente Made in Usa, inimmaginabili in Italia dove le mense tanto care al prison movie non hanno attecchito e dove una zuppa come quella proposta dall’anonimo gourmet solleverebbe commenti degni di Nando Mericoni nella celebre scena conclusiva di “Un americano a Roma”. Ma i gusti sono gusti e, a giudicare almeno dalla quantità di articoli, blog, tutorial e ricettari in rete, un po’ ovunque i detenuti s’ingegnano per riuscire a tutelare almeno i diritti minimi del palato. Due principalmente sono le parole chiave che spiegano l’intensa attività gastronomica dietro le sbarre: gusto e commensalità. Il gusto è uno dei sensi che è lecito gratificare, anche con relativa creatività, in un ambiente in cui i piaceri sono proibiti o mortificati, non solo quelli sessuali ma anche gli olfattivi e i tattili, per non parlare dell’impossibilità di affondare lo sguardo oltre la linea del muro di cinta. Mangiare e magari cucinare insieme è inoltre un rito di aggregazione che conforta e crea un’atmosfera affettiva in grado di compensare la separazione dalle persone care. “Un gesto ancestrale, padre della civiltà”, così Philippe Leclercq, poeta eclettico condannato per truffa, descrive il fornello acceso e “il canto dell’acqua che bolle”, capace di confortare anche il detenuto al suo primo ingresso in cella, in Cuisine entre 4 murs, excusrsion carcéro-gastronomique citato da Bruno des Baumettes, ospite della famosa prigione marsigliese, nel suo blog, miniera di riflessioni e consigli interessanti per prigionieri e curiosi (peccato non sia più aggiornato dal 2015). “La cucina era totale evasione. Il profumo di un pomodoro cotto ti faceva volare oltre quelle sbarre. La cottura lentissima della salsa rossa profumata di basilico aveva un che di rituale” ricorda in un’intervista (Panorama.it, 21 agosto 2012) lo chef Filippo La Mantia che nel 1986 subì una detenzione ingiusta (fu riconosciuto innocente e scarcerato, per ordine di Giovanni Falcone, dopo sei mesi.) Se La Mantia, al tempo fotografo, all’Ucciardone si appassionò a quella che in futuro diventerà una professione di grande successo, Artie Cousine, autore di Jailhouse Cookbook the Prisoner’s Recipe Bible, cuoco lo era prima di diventare un “ospite dello Stato” e ha utilizzato la sua permanenza in una prigione newyorkese per insegnare il mestiere ai compagni. In Italia abbondano i ricettari dove spesso non mancano note di colore carcerario e una manualistica sull’arte di arrangiarsi. Tra i più noti, Avanzi di galera, Le ricette della cucina in carcere a cura di Emilia Patruno (Guido Tommasi Editore, 2005), Il gambero nero, ricette dal carcere di Fossano di Davide Dutto e Michele Marziani (Derive Approdi 2005), Ricette al fresco, 85 modi per cucinare nel carcere di Pisa (ETS, 2012), Cuochi e sbarre (Homo Scrivens, 2016) selezione ricette di tutto il mondo inviate da detenuti in penitenziari italiani. Dalla casa circondariale di Como arriva in questi giorni Cucinare al fresco, ventuno piatti sperimentati nel corso del laboratorio “Parole da condividere”, coordinato dalle giornaliste Laura D’Incalci e da Arianna Augustoni. In tutte le raccolte non mancano le ricette esotiche, originali o rivisitate: l’ampia presenza di detenuti stranieri porta a scambi e contaminazioni, più facili, sembrerebbe, fra le tradizioni gastronomiche mediterranee, meno con quelle dell’Europa dell’Est. La semplicità della nostra cucina casalinga, basata più sulla qualità degli ingredienti e sui loro accostamenti che sulla complessità della preparazione, consente di realizzare in carcere piatti tipici senza troppi compromessi. La mancanza di frigo, forno e fornelli (permessi solo da campeggio), mixer, coltelli, grattugia, mattarello e molto altro ritenuto indispensabile nelle nostre cucine, è compensata da inventiva e abbondanza di tempo libero. Così se la cottura di crostate in forni costruiti con pentole e sgabelli lascia un po’ a desiderare, la marmellata fatta in “casa”(appellativo quasi affettuoso con cui molti chiamano la stanza di detenzione) è davvero genuina e il pesto, dopo un lungo e paziente trattamento nel mortaio di fortuna, non è la crema al basilico prodotta dal frullatore, ma ha la consistenza granulosa del vero pesto alla genovese. In Italia tre sono i canali di provenienza del cibo in carcere: il vitto dell’amministrazione, il sopravvitto ovvero tutti quei generi che i detenuti possono acquistare a proprie spese e il “pacco” degli alimenti portati dai familiari. Anche se ogni istituto decide quali cibi non possono essere ricevuti da fuori, in genere sono vietati quelli elaborati e difficilmente controllabili dal personale addetto, come polpette, lasagne, paste ripiene, fettine impanate e ragù. Motivo in più, il non poter contare su piatti di madri e mogli, per imparare a cavarsela da soli e magari conservare la buona abitudine anche una volta tornati in libertà. Anche se si diventa cuochi esperti, il vitto dell’amministrazione non si rifiuta però mai, perché può essere riciclato in vari modi oppure essere destinato a quanti, spesso stranieri, non possono contare sul pacco dei familiari o non hanno fondi per acquistare al sopravvitto. Nelle cucine degli istituti lavorano quasi perlopiù detenuti e un tempo la loro popolarità presso i compagni poteva essere messa gravemente a rischio da deludenti prestazioni ai fornelli. Oggi sono sempre meno gli improvvisati e gli autodidatti in quanto i cuochi provengono spesso da corsi di formazione professionale organizzati all’interno degli istituti e che si sono moltiplicati negli ultimi anni. Il successo della gastronomia made in jail è dovuto anche al fatto che sotto la pressione mediatica di tendenze, mode e qualche volta manie si sono dischiusi anche i cancelli di molti istituti. Il diffondersi dell’etica del recupero, ad esempio, ha acceso un interesse nei confronti dell’arte di arrangiarsi in carcere dove, in effetti “non si butta nulla, neanche un chiodo arruginito o un qualsiasi pezzetto di legno o plastica…perché sicuramente potrà servire a costruire o a inventare qualche oggetto utile”(da Avanzi di galera,p.90). L’economia sostenibile e solidale ha trovato nel mondo penitenziario un ambiente di sviluppo favorevole e negli ultimi anni si sono moltiplicate coltivazioni biologiche, produzioni enogastronomiche pregiate, corsi di pasticceria tenuti da chef stellati, al punto che oggi i marchi che attestano la provenienza dal carcere sono considerati, anche all’estero, garanzia di qualità. Negli ultimi anni in Italia oltre a diversi punti vendita esterni di quanto prodotto o coltivato negli istituti, sono stati aperti anche due ristoranti “dentro le mura”. Dopo il teatro, il cibo diventa un mezzo per permettere ai cittadini liberi di conoscere se non il carcere, almeno chi lo abita. L’esperienza non è nuova - a Londra, per esempio, si può cenare da The clink (La gattabuia)nel carcere di Brixton - ma In Galera, ristorante nell’istituto Bollate, in cui lavorano detenuti, seguiti da chef e maître professionisti, è stato recensito da testate qualificate di tutto il mondo. E a “In Galera “pare si siano ispirati l’attrice e attivista Johana Bahamón e la Fundación Acción Interna da lei creata e diretta, nel progettare Interno - Segundas oportunidades ristorante nella prigione femminile del distretto di San Diego, a Cartagena de Indias. Il locale - che si definisce uno “spazio di riconciliazione tra la popolazione carceraria e la popolazione civile” - è stato aperto nel dicembre 2016 grazie ad un progetto di imprenditoria sociale. Vi lavorano venticinque delle 170 detenute che hanno superato il corso di formazione. I menù sono pensati da un team di grandi maestri della cucina colombiana che offrono il loro contributo solidale perché, è scritto nel sito “La cucina è un atto di amore e generosità”. Cosa è andato bene e cosa male sul terreno della giustizia negli ultimi anni di Andrea Orlando* Il Foglio, 14 aprile 2018 Nell’articolo pubblicato mercoledì a pag. 3 “Il tempo (politico) perso sulle carceri” vengo accusato di essere il responsabile del fallimento del tentativo di riforma del carcere, che “invece di impiegare gli ultimi mesi della legislatura appena conclusa per completare l’iter di una riforma che aveva apertamente sostenuto, li ha dedicati a una peraltro sterile campagna autolesionistica contro il segretario del suo partito”. Un’accusa, quella riportata, peraltro in un articolo che non viene firmato, che mi amareggia molto. In questa legislatura, come è facilmente dimostrabile, l’impegno finalizzato allo scopo di cambiare la filosofia dell’esecuzione della pena ha costituito uno dei miei obiettivi prioritari. Diventavo ministro della Giustizia mentre l’Italia era sottoposta a monitoraggio da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) a seguito della condanna nel procedimento Torreggiani contro l’Italia. La sentenza “pilota” obbligava il nostro paese ad agire strutturalmente per affrontare il tema del sovraffollamento carcerario e delle condizioni dei detenuti. Il duro intervento della Cedu è stato la conseguenza di una politica penale e penitenziaria che ha avuto come risultato un tasso di sovraffollamento superiore al 150 per cento e il raggiungimento nel 2010 del record storico di presenze di detenuti rinchiusi nei nostri istituti penitenziari: quasi 70.000! I numerosi interventi, sia di natura legislativa, ma soprattutto di carattere amministrativo e organizzativo portati avanti dal nostro paese per reagire alla condanna, hanno determinato la chiusura del monitoraggio da parte della Cedu e la restituzione all’Italia di migliaia di ricorsi pendenti in violazione dell’articolo tre della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ci sono voluti quasi quattro anni, anni di impegno e di battaglie politiche in Consiglio dei ministri, in Parlamento, nelle sedi europee ma anche all’interno del mio partito, in convegni e in riunioni con le rappresentanze della magistratura e dell’avvocatura, per arrivare a questo risultato. Ma alla fine sono diminuiti i detenuti, sono aumentati di oltre il 100 per cento gli ammessi a misura alternativa, sono cresciuti i posti disponibili, sono state migliorate le condizioni di detenzione e di trattamento penitenziario. La sentenza Torreggiani prescriveva al nostro paese un cambio d’approccio nelle politiche di esecuzione della pena, basato per l’appunto su un maggiore impiego delle pene alternative, sconsigliando vivamente una politica basata solamente sulla carcerizzazione. Per rispondere a questa sfida ho convocato immediatamente gli stati generali dell’esecuzione penale, un percorso innovativo di costruzione partecipata di una politica pubblica che ha coinvolto oltre duecento esperti di diversi ambiti disciplinari, i soggetti della giurisdizione e il vasto mondo del volontariato. Da questo percorso nascono i princìpi di riforma del sistema penitenziario. Per rispondere alle sue accuse mi sembra necessario fare una breve sintesi della storia dell’iter legislativo del provvedimento. Nel gennaio 2015, a soli 8 mesi dalla nascita del governo, il disegno di legge di riforma del processo penale e del sistema penitenziario iniziava il suo percorso parlamentare alla Camera, che lo approverà in prima lettura nel settembre 2015. Come è noto il ddl è rimasto arenato in commissione al Senato per quasi un anno a causa dell’ostruzionismo. Soltanto il 27 luglio 2016, tentandone l’approvazione prima dello stop estivo, arriverà in aula. Tuttavia, i veti incrociati di Ncd e di parte del Pd ne interruppero la trattazione fino al 15 settembre 2016. E poi ancora ulteriori rinvii che portarono il provvedimento a essere continuamente calendarizzato e successivamente eliminato dai lavori dell’Aula. L’approssimarsi del referendum e il timore che si trattasse di un tema troppo scomodo causarono infine un ulteriore stop. Soltanto a marzo 2017 e grazie all’apposizione della fiducia per cui a lungo mi ero battuto, il testo verrà approvato per poi andare al passaggio della definitiva approvazione della Camera a fine giugno 2017. Da quella data, in meno di cinque mesi, grazie al lavoro senza sosta delle commissioni di studio, sono stati elaborati e inviati alla presidenza del Consiglio i decreti delegati, il primo dei quali è stato approvato dal Cdm il 22 dicembre 2017 e trasmesso alle Commissioni per il parere. Anche in questo passaggio la necessità che entrasse in vigore la legge di Bilancio, al cui interno sono previste le risposte per attuare la riforma, ha prodotto un ulteriore rallentamento, per poi arrivare ai più noti e recenti fatti: la decisione di non approvare la riforma prima delle elezioni e la scelta della capigruppo di non assegnare alla commissione speciale il testo per il suo ultimo e definitivo parere. Scelta sbagliata e rischiosa per un paese che solo da poco è uscito dal monitoraggio della Cedu, elemento che ho segnalato con preoccupazione ai due presidenti delle Camere, chiedendo una riconsiderazione della decisione. Io comprendo che il Foglio abbia pensato che fosse una ghiotta opportunità utilizzare un tema serio per esercitarsi nell’ennesimo atto di aggressione verso chi ha un’idea diversa all’interno del Pd. Ma ha sbagliato terreno, poiché le resistenze sulla riforma del processo penale e sulla riforma del carcere sono note anche al più distratto dei giornalisti. Mi dispiace che ciò venga fatto sulla pelle dei diritti dei detenuti. Non mi pare infatti che il Foglio abbia scritto granché sugli Stati generali dell’esecuzione penale, né organizzato una campagna stampa quando il Senato teneva immobile il disegno di legge per circa un anno, né una campagna per sostenere la mia battaglia affinché il governo ponesse la fiducia (richiesta che non ha avuto fortuna, se non dopo la sconfitta referendaria e il cambio di Governo), né le resistenze finali che hanno portato a non approvare il testo prima delle elezioni. Il Foglio, semplicemente, è stato più interessato alla polemica politica interna al Pd. Insomma, la riforma del carcere ha avuto molti nemici, ma ha anche patito la timidezza di chi ha pensato che non fosse un tema elettoralmente conveniente. Io, come è noto, non sono stato tra questi. P.S.: Al di là del fatto che non mi riconosco come il protagonista di una “sterile campagna autolesionistica contro il segretario del mio partito”, faccio notare al Foglio che l’aver condotto una battaglia politica nel mio partito non mi ha impedito di fare approvare: la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, la riforma della custodia cautelare, gli eco-reati, la legge sul caporalato, il nuovo codice antimafia, la riforma del processo penale, la legge anticorruzione, la riforma del diritto fallimentare; non mi ha impedito di seguire l’iter della legge sulle unioni civili, il varo del processo civile telematico e gli interventi in materia di giustizia civile che hanno consentito all’Italia di abbattere arretrato e tempi medi rispettivamente del 30 per cento, e di recuperare prestigio internazionale, scalando di quasi 50 posizioni la classifica Doing Businnes nel parametro che misura l’efficienza dei sistemi giudiziari. Sono soltanto alcuni esempi di un impegno dedicato alle riforme della giustizia che ha costituito ben un terzo dell’intera attività legislativa di questa legislatura. *Ministro della Giustizia Risponde il direttore del Foglio, Claudio Cerasa Caro ministro, la sua lettera è bella, direi persino convincente, e ci porta a riflettere su alcune questioni sulle quali crediamo sia corretto esprimersi. Restiamo convinti che sia stato un errore per questo governo, e anche per il suo ministero, non essere riusciti a fare anche l’impossibile per approvare una riforma come quella dell’ordinamento penitenziario - ovvero estendere il ricorso alle misure alternative e l’accesso ai benefici penitenziari - che l’Italia aspetta dal 1975. È stato un errore non ricordare che quella riforma, se è stata a un soffio dall’essere approvata, è per merito suo ma crediamo anche che nel corso dei suoi anni alla guida della giustizia italiana ci siano state alcune occasioni perse sulle quali la invitiamo a una riflessione. Molte delle riforme elencate da lei nella lettera hanno aiutato l’Italia a essere un paese meno ingiusto rispetto a cinque anni fa ed è incoraggiante (dati 2017) che il numero di nuove cause (1,75 milioni) sia in linea con gli altri paesi dell’Unione Europea e che da questo punto di vista i tribunali italiani siano tra i più efficienti in Europa nel rapporto tra cause avviate e risolte (secondo il rapporto Ambrosetti 2017 il totale delle cause pendenti in Italia è sceso dai 5,9 milioni del 2009 ai 4,4 milioni del 2016). In una buona valutazione dei suoi anni da ministro non si può però non ricordare che gli sforzi fatti per migliorare il sistema della giustizia italiana sono stati in gran parte necessari ma, almeno su questo terreno, non del tutto sufficienti. Se pensiamo, per esempio, che in 82 tribunali su 140 una causa su cinque ha più di tre anni, oltre la “durata ragionevole” della famosa legge Pinto. Che ci vogliono ancora più di otto anni per avere una sentenza in Cassazione e 530 giorni per un giudizio civile in primo grado (la media Ue è di 237 giorni). Sulle questioni di merito la direzione data dal suo ministero negli ultimi quattro anni sulla giustizia è stata una direzione in larga parte corretta (con idee trasversali non schiacciate dall’ideologia progressista, spesso in continuità quantomeno sul tema delle carceri con le linee offerte tra il 2011 e il 2013 dal ministro Paola Severino, e con idee giuste sul fronte del processo penale, con l’imposizione al pm di concludere l’indagine entro un termine stabilito, sul fronte della riforma delle intercettazioni, che affronta per la prima volta la questione della segretezza di quelle irrilevanti, individuando anche il pm come responsabile delle fughe di notizie). Ma ci consenta di ricordarle che fare una riforma non significa necessariamente fare una buona riforma e tra le tante riforme da lei elencate (non parleremo delle riforme non fatte, dalla separazione delle carriere alla riforma del Csm, perché l’elenco, converrà, sarebbe troppo lungo) ce ne sono almeno due importanti che ci sembra abbiano avuto il demerito di lisciare il pelo al populismo. Due su tutte: il codice antimafia e la legge sugli eco-reati (in complicità questa con il ministero dell’Ambiente). In entrambi i casi si è scelto di offrire alla magistratura nuovi strumenti per poter decidere in modo del tutto discrezionale su temi sui quali sarebbe giusto avere più punti di equilibrio. Aver scelto di estendere alla corruzione una serie di parametri pensati appositamente per una fattispecie diversa di reato e aver scelto di delegare quasi interamente alla magistratura la definizione di ciò che può essere definito un delitto contro l’ambiente sono due normative che hanno contribuito non a combattere ma ad avallare il più pericoloso tra i cattivi istinti giudiziari che esistono nel nostro paese: la codificazione della cultura del sospetto. E mentre lo scriviamo sappiamo però perfettamente quale potrebbe essere la sua controreplica: se durante i miei anni al ministero sono maturate leggi che non hanno combattuto fino in fondo la cultura del sospetto non sapete cosa vi potrà attendere nei prossimi anni se il movimento 5 stelle e la Lega andranno al governo. E questa, purtroppo, è tutta un’altra storia. Un caro saluto e buon lavoro. “Prescrizione lunga? No, meglio norme per processi veloci” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 aprile 2018 La svolta del nuovo presidente dell’Anm, Francesco Minisci. “Una delle maggiori difficoltà che viviamo sono le lungaggini del processo penale. Chiederemo norme che accelerino i tempi di celebrazione, perché possiamo anche ragionare sull’allungamento dei termini di prescrizione fin quando vogliamo, ma il solo allungamento di questi non aiuta a ridurre i tempi”, ha dichiarato il neo presidente dell’Anm Francesco Minisci intervenendo l’altro giorno ad un convegno a Roma. Il codice di procedura penale sul modello accusatorio, entrato in vigore nel 1989, ha mostrato in questi quasi trenta anni tutti i suoi limiti impattando sulla realtà italiana. Modificato più volte, con numerosi interventi legislativi e della Corte Costituzionale che hanno inciso profondamente sul testo di origine, il codice Vassalli non ha di fatto mai dato i risultati sperati. Il principio cardine, nelle intenzioni di chi voleva il superamento del rito inquisitorio, doveva essere quello della parità fra accusa e difesa. Per realizzarlo si introduceva il requisito dell’oralità della prova che doveva formarsi nel pubblico dibattimento avanti ad un giudice terzo. Al fine di snellire il numero dei processi, venivano introdotti riti alternativi di ispirazione anglosassone che, a fronte dell’ammissione di colpevolezza, prevedevano significativi sconti di pena. Il processo doveva essere dunque l’extrema ratio e a tale fine il filtro dell’udienza preliminare rivestiva un ruolo chiave. Il pm, poi, magistrato “a tutto tondo”, era chiamato a raccogliere nella fase delle indagini anche gli elementi a favore dell’indagato, sottostando ad una ferrea cadenza della durata delle indagini preliminari dove l’iscrizione nel registro degli indagati doveva seguire immediatamente l’emergere di elementi indizianti e dove la proroga delle indagini aveva carattere di eccezionalità. Come è andata fine, invece, è noto a tutti gli operatori del diritto: indagini preliminari eterne con ritardate iscrizione nel registro degli indagati, gip “copia e incolla” delle richieste del pm, percentuali irrisorie di sentenze di non luogo a procedere rispetto ai decreti che dispongono il giudizio da parte del Gup, lettura pressoché integrale dei verbali della polizia giudiziaria in dibattimento attraverso le contestazioni. Per far fronte al collasso del sistema, il correttivo maggiormente invocato in questi anni è quello di incidere proprio sui tempi di prescrizione dei reati. Per alcune forze politiche, come ad esempio il M5s, o per parte della magistratura, la panacea di tutti i mali resta infatti l’allungamento dei tempi della prescrizione che già oggi, dopo le ultime riforme volute dal Governo Renzi, per alcuni reati contro la PA arrivano a circa venti anni. Ma, evidentemente, quasi un quarto di secolo per celebrare il processo non è ancora un tempo sufficiente. “Dobbiamo introdurre una serie di norme ad ampio respiro, a 360 gradi, per ridurre i tempi processuali”, ha aggiunto Minisci, secondo cui “la riforma deve migliore il sistema. Aspettiamo di sapere chi sarà il nostro interlocutore di governo con un atteggiamento dialogante per fare le nostre proposte, sia sul penale che sul civile”. Nell’auspicato percorso riformatore, però, un ruolo da protagonista dovrà averlo necessariamente anche l’avvocatura. Proprio per rivendicare sul campo l’effettiva parità fra le parti. Alla Consulta la messa alla prova dei minori di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2018 La messa alla prova dei minori va all’attenzione della Corte costituzionale, per una possibile disparità di trattamento con l’istituto previsto per gli adulti. I giudici della Consulta dovranno stabilire se il Codice del processo penale minorile e il Codice penale, che non prevedono la possibilità di tenere conto - ai fini della pena residua da espiare - del periodo di messa alla prova concluso con esito negativo sia in linea con la Carta. La Corte di cassazione con l’ordinanza 16358 del 12 aprile, considera fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 29 del Dpr 448/1988 e 657 del Codice penale, perché tagliando fuori i minori dallo “sconto” di pena metterebbero in atto una disparità di trattamento rispetto agli adulti, per i quali invece vale il tempo trascorso in regime di messa alla prova, sebbene non andato a buon fine. Il caso finito in Cassazione, riguardava un ragazzo affidato al servizio sociale minorile, per un reato di concorso in ricettazione, e avviato a una serie di progetti: dallo svolgimento di attività di utilità sociale a un percorso formativo-lavorativo. Dopo un’adesione iniziale il ragazzo aveva interrotto tutti i contatti con gli educatori. Per lui era arrivata poi una seconda condanna, per violenza sessuale di gruppo, e un’altra chanche con la messa alla prova, anche questa non colta. Il suo avvocato chiedeva l’applicazione dell’articolo 657-bis del Codice penale, il quale prevede che, in caso di revoca dell’istituto o di esito negativo, il pubblico ministero detragga il periodo di messa alla prova eseguito: tre giorni valgono un giorno di reclusione. Richiesta che il procuratore della repubblica presso il Tribunale minorile aveva respinto, negando la possibilità di estendere ai minori una norma applicabile solo agli adulti. Una decisione presa in virtù della diversità dei due istituti: uno con una spiccata vocazione rieducativa, l’altro con profili più afflittivi. La Cassazione - pur escludendo allo stato un’interpretazione estensiva - aveva considerato tutte le differenze tra i due “regimi” sia dal punto di vista funzionale, che strutturale, per concludere che anche la messa alla prova dei minori è afflittiva. I ragazzi sono comunque costretti a restare all’interno di una struttura, con una limitazione della libertà di movimento. A questa considerazione si aggiunge l’esigenza di tenere conto della prospettiva di “favore” che l’ordinamento penale, e le norme nazionali e sovranazionali, riconoscono sempre al minore, dal punto di vista processuale come sostanziale. In questo contesto un distinguo sfavorevole al minore, può entrare in rotta di collisione con i principi di tutela e di uguaglianza previsti dalla Carta, oltre che con la finalità educativa. Non è reato corrompere un arbitro di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2018 Corrompere un arbitro non è reato. Il componente di un collegio arbitrale, infatti, non è considerato pubblico ufficiale e non gli possono essere contestate nè la corruzione nè la corruzione in atti giudiziari. Lo chiarisce un decreto di archiviazione emesso dalla sezione Gip del Tribunale di Milano (il n. 28512/17), con il quale si valorizza l’articolo 813, comma 2, del Codice civile. Questa norma esclude per gli arbitri sia la qualifica di pubblico ufficiale sia quella di incaricato di pubblico servizio. E questo anche se il Codice penale, all’articolo 357, afferma la natura di pubblico ufficiale dei soggetti che esercitano una pubblica funzione giudiziaria. Il decreto ricostruisce, con riferimento anche a precedenti interventi della Corte di cassazione, un percorso di progressiva equiparazione tra gli effetti del lodo arbitrale e quelli della sentenza. Ma lo fa contestualmente all’inserimento della norma del Codice civile sull’identità dell’arbitro, motivata dal fatto che l’arbitrato rappresenta sempre una rinuncia alla giurisdizione pubblica con l’unica preoccupazione per il legislatore che l’attività posta in essere da soggetti privati possa essere equiparata, sul piano degli effetti, all’attività giurisdizionale esercitata dai magistrati. Del resto, l’avvicinamento tra lodo e sentenza è stato confermato anche dai più recenti interventi di riforma del processo civile, quelli datati 2014, che, in funzione di smaltimento del contenzioso arretrato, hanno previsto la possibile devoluzione a collegi arbitrali di liti giacenti. “Pare, in sintesi - osserva il decreto, essersi voluto rimarcare che, se l’esito dell’attività svolta dagli arbitri, proprio perché regolamentata dalla legge e soggetta all’applicazione del diritto, può equipararsi all’esito dell’attività svolta dai giudici, il rapporto in forza del quale gli arbitri esercitano le loro funzioni è e rimane pur sempre privatistico con possibilità di dolersi di eventuali condotte illecite degli arbitri in sede civilistica”. Gli arbitri intervengono e sono legati alle parti private solo per effetto di un negozio giuridico di natura privatistica. Si tratta di un mandato, come è stato ricordato sempre dalla Corte di cassazione civile con la sentenza n. 6736/2014, nella quale si è escluso che i consulenti tecnici nominati dal collegio arbitrale potessero essere equiparati a quelli nominati nell’ambito di un procedimento con pieno carattere giurisdizionale. L’identità privatistica degli arbitri non è compromessa per il solo fatto che la loro attività è regolata dalla legge e si traduce nell’applicazione della legge. Né, proprio per l’articolo 813, viene meno per l’equiparazione del lodo ad una sentenza sul piano della tutela dei diritti. Torino: le ricette dei detenuti diventano un libro con l’aiuto di Baronetto di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 14 aprile 2018 In carcere, chi può, cucina in cella su un fornellino da campeggio. Fatta una piccola spesa allo spaccio, dove trova quel che trova, crea la sua ricetta. Ricette di mamma, impoverite dai mezzi: piatti semplici, infinitamente più gustosi, però, del cibo della mensa che arriva a destinazione quando riesce, spesso troppo presto o troppo tardi. Ora le ricette dei detenuti torinesi sono diventate un libro. “Che cosa bolle in cella?” vanta la prefazione di Matteo Baronetto, chef stellato dello storico ristorante torinese Del Cambio. Alla Casa circondariale Lorusso e Cutugno Baronetto è andato, dopo aver sentito parlare dei reclusi buongustai, li ha incontrati e ha definito la loro cucina “eroica” fatta di “ricette e piatti davvero di alto livello”. Lo chef racconta che si tratta di una cucina “che riparte dai fondamentali, dove la creatività riesce a risolvere qualunque situazione e a sopperire a qualsiasi mancanza. L’assenza di ogni comfort, compreso quello più importante di tutti, la libertà, è la premessa da cui nascono queste ricette... che contano sul valore aggiunto dell’inventiva e della fantasia”. Dal ricettario, poi, è nato uno spettacolo che va in scena oggi nel teatro del Lorusso e Cutugno. Ma “Che cosa bolle in cella?” ha tanti protagonisti. “Da anni alcuni ospiti disabili del Cottolengo sono diventati volontari in carcere e hanno realizzato spettacoli con i detenuti di una sezione”, racconta fratel Marco Rizzonato, religioso della Piccola Casa della Divina Provvidenza che, con Debora Sgro, dal 2001 lavora nel penitenziario torinese con il progetto “Pietra Scartata”, una delle iniziative dell’Associazione Outsider Onlus. Il progetto favorisce la socializzazione, la crescita culturale e l’espressione artistica delle persone in condizione di svantaggio e ha creato una straordinaria, inedita sinergia tra persone disabili e private della libertà. Nel 2017 “Pietra Scartata” ha dato vita al primo laboratorio dedicato alla sensorialità in carcere. E il tema di partenza è stato il gusto. Di qui il ricettario e lo spettacolo, che purtroppo debutta e replica a porte “chiuse”. Sul palco, l’insegna “Ti Cambio” e venti persone, tra le quali uno chef stellato che deve preparare una cena speciale. Con i suoi collaboratori va al mercato a cercare gli ingredienti. Ma uno, una semplice verdura, alla fine prevarrà sugli altri. Le trenta pagine del ricettario sono scandite nei capitoli “Piatti unici della matricola”, “Primi ricercati”, “I secondini”. “Dolci arresti”. Tra le pagine, il meglio della cucina povera regionale. Il libro viene venduto con un obiettivo solidale. “Baronetto è disponibile a tornare in carcere - spiega fratel Marco - per insegnare ai detenuti di questa sezione una serie di segreti del mestiere in un corso di cucina professionale. Ma serve una cucina vera, i fornellini non bastano: con il ricavato dalla vendita del ricettario speriamo di poterla acquistare”. Piacenza: “anche il carcere fa parte della città”, fiaccolata verso le Novate ilpiacenza.it, 14 aprile 2018 “Non c’è santo senza passato e non c’è peccatore senza futuro”. È la frase di Papa Francesco che ha lasciato un segno nel corso della fiaccolata fino al carcere di Piacenza, a cui hanno partecipato circa 300 persone nella serata di venerdì 13 aprile. Un appuntamento fortemente voluto dal vescovo Gianni Ambrosio, giunto alla sua terza edizione, che quest’anno per la prima volta ha visto la partecipazione dei rappresentanti di altre confessioni religiose, la Comunità Islamica, gli ortodossi e gli Hare Krishna. Perché i carcerati non cessino di appartenere alla comunità cristiana e non si sentano estranei alla nostra città. Questo il significato della marcia iniziata sul sagrato della chiesa di Santa Franca che si è conclusa, dopo una tappa intermedia al convento di via Pennazzi delle suore carmelitane scalze, davanti all’ingresso delle Novate. Entro l’anno avverrà - è stato ricordato da Davide Marchettini della Caritas Diocesana - l’apertura di una casa di accoglienza per tre persone che possano scontare pene alternative al carcere, che altrimenti non avrebbero altro luogo dove andare. Perchè le misure alternative alle sbarre fanno diminuire le recidive e aiutano l’integrazione dei detenuti. È l’opera segno della nostra comunità dal Giubileo. Nel corteo anche la vicesindaco Elena Baio e l’assessore ai Servizi sociali Federica Sgorbati, il direttore della Caritas Giuseppe Chiodaroli, la segretaria della Cisl di Piacenza Marina Molinari, e poi tante persone comuni, gli scout e i volontari. Davanti al convento delle carmelitane scalze suor Cecilia ha formulato un appello a guardare alle cose “con speranza” per stare dalla parte dei “germogli appena visibili di vita nuova, per saper riconoscere l’umanità in spazi dove non avremmo mai pensato di trovarla”. All’ingresso del carcere è stato acceso con le fiaccole il tradizionale braciere da cui è stata attinta la fiamma per accendere il cero pasquale all’interno della struttura dal cappellano Don Adamo Affri. E poi l’ascolto di alcune testimonianze. Come quella di Martina Sandalo, giovane “supplente” nella scuola carceraria delle Novate che ha raccontato il suo incontro con “allievi stimolanti”. “Gradualmente ho smesso di pensare a loro come detenuti - ha ammesso - ho trascorso un mese di supplenza insieme a persone che mi hanno fatto sentire utile”. La direttrice Caterina Zurlo ha ringraziato e sottolineato la presenza di religioni diverse rappresentate nella manifestazione: “Perchè ci sono tante confessioni nel carcere e questo è un abbraccio significativo, non ci fate sentire dimenticati”. Il vicesindaco Elena Baio ha detto: “Forse non servono tante parole stasera, ringrazio il vescovo per aver creato questo ponte perché il carcere fa parte della città e i detenuti sono piacentini”. Il congedo è stato affidato al vescovo Gianni Ambrosio: “Abbiamo camminato verso una meta, verso i nostri fratelli e le nostre sorelle che sono i carcere. Siamo un’unica comunità che è in grado di accendere la luce nella notte, con gli occhi della fede possiamo vedere oltre questi muri e queste sbarre per guardare il volto di queste persone. Questa è una parrocchia superlativa”. Taranto: la Casa circondariale “Carmelo Magli”, una città nella città di Angelo Diofano Corriere di Taranto, 14 aprile 2018 Il quadrangolare di calcio fra le rappresentative di polizia penitenziaria, avvocati, magistrati e detenuti, nell’ambito della quinta edizione del progetto “Fuori… gioco” per la rieducazione dei detenuti attraverso lo sport, offre l’opportunità per uno sguardo a questa “città nella città” che è la casa circondariale “Carmelo Magli”, a due passi dall’Auchan, L’anelito alla libertà è estrinsecato dai grandi murales, realizzati dai detenuti, raffiguranti le campagne in fiore con sfondi di cieli azzurri, che illuminano le pareti dei lunghi corridoi; non mancano immagini di campioni del calcio, fra cui il “nostro” Erasmo Iacovone e il santo più amato, padre Pio; i personaggi di Disney animano invece le pareti delle stanze che ospitano i bambini negli incontri con le famiglie. È quello che più resta impresso nella visita ai reparti della dove convivono 580 detenuti, fra cui 130 sospesi nel limbo dell’attesa di giudizio. Sul suo buon funzionamento vigila la direttrice, la dott. Stefania Baldassari, che evidenzia il ventaglio delle attività di recupero e riabilitazione, attraverso cui i detenuti sono preparati al ritorno nella società (non sempre pronta, però, a riaccoglierli). All’assegnazione del percorso riabilitativo personalizzato, spiega la direttrice, provvede un’équipe di osservazione composta da diverse figure professionali, dopo periodo di osservazione scientifica e comportamentale. Numerose sono le istituzioni, associazioni di volontariato, cooperative e aziende che operano nella casa circondariale. Importante è il ruolo della scuola: oltre a quella dell’obbligo (il Cpa), sono attivi il liceo artistico Calò-Lisippo, l’istituto alberghiero Mediterraneo, l’istituto tecnico socio-sanitario Liside e quello tecnico impiantista Archimede mentre sta per entrare in funzione l’istituto agrario Mondelli; numerosi sono i corsi di formazione professionale. Di recente istituzione sono il laboratorio di pasticceria e rosticceria a cura della storica pasticceria Tripoli di Martina Franca, d’intesa con il ristorante “Articolo 21” dell’associazione “Noi&Voi”, e quello di sartoria nella sezione femminile. L’ultima iniziativa, in ordine di tempo, riguarda la messa a dimora di un vigneto nel suolo dell’intercinta per la produzione di vino “Made in Magli”: è il primo istituto di pena nell’adozione di un apposito protocollo d’intesa con Confagricoltura con l’apporto delle Cantine di San Marzano e dell’istituto agrario Basile-Caramia di Locorotondo; cinque detenuti frequentano il corso di formazione, dopo il quale saranno assunti con regolare contratto; sempre in tema di attività agricoltura, un ampio spazio della casa circondariale è adibito alla coltivazione di ortaggi. Non mancano attività teatrali, musicali, d’artigianato creativo, cineforum, scrittura creativa, incontri con l’autore che si affiancano a quelle sportive (calcio, rugby, tennistavolo, pallavolo). Importante nel percorso riabilitativo è la collaborazione offerta dalle varie realtà della nostra diocesi, a partire dai cappellani don Francesco Mitidieri e don Davide Errico, con il supporto della vincenziana suor Palmarita Guida e della salesiana suor Mariarita Di Leo, unitamente a don Nino Borsci e a don Luigi Luigi Larizza, per quanto riguarda le tossicodipendenze, quali rispettivamente responsabili delle comunità di recupero Airone e Il Risorto. Attivi sono anche i gruppi diocesani di Comunione e Liberazione (con un progetto di catechesi secondo il magistero della Chiesa e la raccolta di viveri per il centro di accoglienza notturna), Banco Alimentare (partecipazione alla colletta alimentare in carcere), parrocchia Santa Maria Goretti di Crispiano (allestimento di musical), Comunità Gesù Risorto (animazione liturgica, formazione religiosa e animazione della preghiera) e delle confraternite del Carmine e dell’Addolorata (con la Via Crucis nei cortili in Quaresima). Attiva è anche chiesa evangelica “Nuova Pentecoste” con attività di animazione ludica con i clown per intrattenere i bambini dei detenuti in visita, corsi di mimo e di chitarra per principianti. Insomma, al “Carmelo Magli” è tutto un fiorire di attività. “Ma non è tutto roseo come potrebbe sembrare - osserva Stefania Baldassari - in quanto siamo alle prese con il sovraffollamento della popolazione carceraria, che speriamo di risolvere al più presto con la costruzione di una nuova ala per l’accoglienza di 200 detenuti. C’è anche il problema del sottodimensionamento dell’organico della Polizia Penitenziaria, dall’età media alquanto elevata (45 anni). Dobbiamo inoltre far fronte al fenomeno della tossicodipendenza, che interessa una percentuale non trascurabile dei detenuti (vi fa fronte il SerD in servizio al “Magli”), e alle malattie psichiatriche (in carico all’apposita équipe della Asl-Dipartimento di salute mentale) in conseguenza delle quali sono frequenti i gesti di autolesionismo; c’è attenzione per i detenuti che non ricevono più visite di familiari e amici, per cui è facile prevedere gesti estremi”. Per una riduzione del rischio suicidi, si provvederà anche a favorire i rapporti con la famiglia ricorrendo a Skipe per quei detenuti che non effettuano né colloqui, né telefonate con i familiari o non hanno contatti con i figli; si inizierà in forma sperimentale per due mesi con un piccolo gruppo di detenuti particolarmente meritevoli e in caso di risultati positivi, se ne estenderà l’utilizzo. La direttrice non manca di evidenziare la vicinanza alla casa circondariale dell’arcivescovo mons. Filippo Santoro che la mattina di Pasqua vi ha celebrato la santa messa di resurrezione, alla presenza di molti detenuti assieme alla direttrice Stefania Baldassari, al comandante della polizia penitenziaria Gianluca Lamarca, al personale della direzione, agli operatori e agli agenti di custodia. Così ha detto l’arcivescovo Santoro al termine: “La casa circondariale è il luogo dove nessuno vorrebbe stare, ma è proprio qui che il Signore viene per dirci che ci è vicino in tutte le nostre sofferenze”. In queste occasioni mons. Santoro non manca di intrattenersi affettuosamente con i detenuti e ne rammenta spesso l’esperienza negli incontri diocesani. D’altronde proprio il Signore, con il suo “Ero in carcere e mi avete visitato”, include fra le opere di misericordia corporali la visita ai carcerati, nei quali Egli si riconosce, come in ogni persona sofferente. Napoli: a Nisida il corso per operatori volontari nelle carceri Il Roma, 14 aprile 2018 Ha preso il via, nel Centro europeo di studi di Nisida, il corso di formazione “Il volontariato dentro e fuori dal carcere: strumenti ed esperienze” promosso e organizzato dal CSV Napoli. Un’iniziativa che va a stimolare l’interesse verso il volontariato in area penale. Tra gli argomenti che verranno trattati: le caratteristiche principali dell’ordinamento penitenziario italiano, il ruolo del volontariato e degli strumenti da utilizzare per ottenere una relazione efficace con le persone detenute e le persone soggette a provvedimenti restrittivi della libertà personale. Il corso è organizzato in incontri frontali e tirocini formativi altamente specializzati per 40 referenti di organizzazioni di volontariato di Napoli e provincia, sono gratuiti e andranno avanti fino a novembre. Si alterneranno discussioni di gruppo, casi di studio, simulazioni, ma anche esperienze sul campo con incontri esperienziali in istituti penitenziari nella provincia di Napoli, con ex detenuti, in comunità residenziali o presso Enti del Terzo Settore con esperienza di inserimento lavorativo, di lavori di pubblica utilità socialmente utili o affidamento in prova al servizio sociale. Ad aprire i lavori c’era il direttore del Carcere minorile di Nisida, Gianluca Guida: “Siamo arrivati alla seconda edizione e riteniamo che sia pienamente soddisfacente in termini di feedback per i risultati che dà nel settore della detenzione e delle devianze. Le esigenze di chi è detenuto cambia di mese in mese, sempre più velocemente, e gli operatori del settore devono aggiornarsi continuamente. L’interazione è fondamentale”. A portare uno spaccato della situazione in Campania, Samuele Ciambriello, Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania, che ha sottolineato quanto sia importante il ruolo degli operatori nelle carceri: “C’è una differenza sostanziale tra educatore e liberatore. Il ruolo di un operatore non è meramente quello di chi ha la sindrome del “crocerossino”, deve metterci il cuore e quello che conta non è ciò che dice ma ciò che comunica senza parole. Un gesto, un sorriso, un pianto, uno sguardo, la postura, una stretta di mano”. Ciambriello pone l’accento sull’aumento del carcere preventivo e ricorda che la recidiva in ambito penitenziario rappresenta un rischio altissimo. In Campania ci sono attualmente 7321 detenuti, altri 7100 sono nell’area esterna affidata ai servizi sociali, l’80% vive una recidiva. Chi è detenuto quando riacquista la libertà ritorna poi subito in carcere. Occorre invece trasformare il carcere in un luogo alternativo al carcere. Chi non vive una recidiva è perché ha incontrato qualcuno che è stato faro e ha portato luce dove c’è era il buio e si è aggrappato a questa persona. Presente, inoltre, Giovanna De Rosa, direttore del CSV Napoli: “Il ruolo che ha il volontariato si basa sull’attenzione alla responsabilità sociale che ha anche nel sistema penitenziario. L’obiettivo di questo corso è quello di fornire delle competenze specifiche per gli operatori volontari che devono interfacciarsi non solo con i detenuti, ma con tutta la rete inter-istituzionale dentro e fuori il carcere per garantire diritti e consentire l’inserimento nella comunità”. Roma: Cosimo Ferri al convegno Cesp “La Scuola in carcere” a Rebibbia lagazzettadimassaecarrara.it, 14 aprile 2018 Ieri mattina il Sottosegretario al Ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri è intervenuto al Convegno Nazionale “La Scuola in carcere nei settant’anni della Costituzione” organizzato dal Cesp (Centro Studi per la Scuola Pubblica) all’interno di un seminario di confronto sulla Costituzione nei settant’anni dalla sua proclamazione, presso la Sala Teatro della Casa Circondariale di Rebibbia. L’incontro è stato l’occasione per un momento di riflessione sulla rilevanza dei percorsi di istruzione nell’ambito dell’esecuzione penale. “La sfida che l’insegnamento in carcere ci pone è quella di riuscire a instaurare con i corsisti un rapporto di collaborazione per favorire la trasmissione dei contenuti didattici in un clima disteso che faciliti l’apprendimento. ?L’idea fondamentale è la centralità del detenuto e la personalizzazione del trattamento penitenziario in funzione degli obiettivi indicati dall’art. 27 Cost. Ciò significa porre l’attenzione sul forte legame che si deve creare - e mantenere - tra società civile e carcere. È necessario, infatti, promuovere un cambiamento innanzitutto culturale, che focalizzi l’attenzione sull’obiettivo primario ed essenziale dell’esecuzione penale: restituire alla società un soggetto consapevole dei propri errori e convinto dell’importanza della legalità e del rispetto delle regole della civile convivenza. Lo svolgimento di attività formative che vedano il coinvolgimento di gruppi di detenuti in percorsi di approfondimento, legati all’ambito sia artistico sia tecnico del settore teatrale, è una felice intuizione e una risorsa di singolare importanza, perché, da una parte, si trasmettono competenze e strumenti applicabili a diversi ambiti, fornendo ai detenuti un bagaglio di professionalità e capacità tecniche, utili e spendibili, inerenti i mestieri del palcoscenico, dall’altra, ancora una volta, si riconosce l’attività culturale e teatrale come valido strumento al fine della rieducazione, della formazione e del percorso di reinserimento sociale. In questo modo si migliora la vivibilità delle carceri italiane, al fine di stimolare nei detenuti la crescita della consapevolezza degli errori e della voglia di reinserirsi, incrementando le attività lavorative, culturali e ricreative e investendo in trattamenti personalizzati e professionalizzanti. I percorsi di formazione e di arricchimento culturale rappresentano uno strumento importante sul piano dell’umanizzazione della pena e soprattutto in vista del reinserimento nella società civile, ma rappresentano anche un’occasione di riscatto per i detenuti e di riconciliazione con la collettività. Abbiamo lavorato e lo faremo costantemente anche in futuro per garantire la tutela di ogni diritto. L’efficace reinserimento in società è uno dei diritti di ogni detenuto, che passa attraverso iniziative che si stanno sempre più sviluppando nelle carceri del nostro Paese come il lavoro, la cultura e l’arte” ha concluso. Viterbo: Angiolo Marroni presenta in tribunale il suo libro sul sistema carcerario viterbonews24.it, 14 aprile 2018 “Passami a prendere. In carcere oggi” è un punto di vista serio ed imparziale sul sistema carcerario nel nostro Paese, narrato attraverso l’esperienza personale di Angiolo Marroni, volontario in carcere dal 1985 e poi Garante dei diritti dei Detenuti dal 2003 al 2015. Presentato nell’aula di di Corte d’Assise del Tribunale di Viterbo dall’avvocato Sabina Cantarella, il libro porta a galla i racconti di vita di alcuni detenuti e apre interrogativi importanti sullo stato del sistema carcerario. “Angiolo ha fatto una profonda analisi di tutte le persone che si trovano in carcere: i malati, gli stranieri, persone con poca cultura, persone del sud che parlano un dialetto stretto - ha detto introducendo la presentazione del libro l’avvocato Cantarella - Il carcere è un’osservatorio di tutta l’umanità, perciò è necessario ripensare questa istituzione per creare dei pilastri che possano aiutare il detenuto ad avere un ritorno nella vita di tutti giorni”. La parola è poi passata all’autore del libro. “Il mondo del carcere è un pianeta misterioso - ha esordito Marroni - e parla sopratutto del tema “Noi in carcere” quasi come sei il mondo fuori fosse escluso da tutto. Essendo io un comunista, ho sempre pensato che sia necessario stare vicino agli ultimi e quello dei carcerati è il mondo degli ultimi. Ho frequentato tanti detenuti in questi anni, anche quelli di alta sicurezza, e in questo libro ho cercato di raccontare qualcuna delle esperienze che ho vissuto”. Angiolo Marroni si scaglia poi contro il carcere duro, ovvero il cosiddeto 41bis. “La pena, per la costituzione, deve punire e reinserire - ha sostenuto l’avvocato napoletano - Il 41 bis è, a mio avviso una pena disumana. Chi ha commesso quei reati ha fatto cose disumane, ma la Stato non si deve vendicare. Chi vive quella situazione da 50 anni, come Cutolo, si trova in una condizione indicibile”. “Il sistema carcerario continua ad avere un grandissimo bisogno di riforme e credo che bisognerebbe partire dall’abolizione del 41bis e dell’ergastolo - ha affermato in concluso Marroni - Una cosa poi va sottolineata: le persona che ha finito di scontare la sua pena è come noi: va cancellata la stigmatizzazione nei confronti di chi ha pagato il suo debito con la società. Si possono imporre ad un individuo una serie di pene, ma quella carceraria va sempre ridotta”. Catanzaro: teatro in carcere, quello di Siano partecipa a Giornate nazionali catanzaroinforma.it, 14 aprile 2018 Si alza il sipario ancora una volta a Siano. La Casa Circondariale di Catanzaro partecipa alla V Edizione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, in concomitanza con il World Theatre Day 2018 (Giornata Mondiale del Teatro). È possibile regalare una serata a casa a persone detenute? Qualcuno ci ha provato. Il pomeriggio del 12 aprile, al carcere di Siano è andato in scena “Serata in famiglia”, spettacolo teatrale dell’associazione culturale- laboratorio teatrale La Ribalta di Vibo Valentia. Questa realtà culturale è da sempre impegnata a promuovere la cultura del teatro in contesti difficili, ed è stata più volte premiata a livello regionale e nazionale. La commedia è ispirata alla pièce francese “Le Prénom”, divenuta poi il film “Cena tra amici”, che in Italia ha fornito lo spunto alla regista Francesca Archibugi per scrivere e dirigere il film “Il nome del figlio”. Nelle parole della direttrice della Casa Circondariale di Siano lo spirito dell’iniziativa: “Il teatro è cultura, e in quanto tale riconosciuto come parte integrante dei percorsi rieducativi pensati per il reinserimento dei detenuti. Lo spettacolo messo in scena oggi assume un significato particolare nel contesto carcerario, che si caratterizza per la necessaria lontananza dalle “serate in famiglia”: ma la commedia, tra dialoghi, risate e colpi di scena vuole portare per qualche ora gli spettatori “a casa”. Hanno partecipato all’evento, promosso da Mario Sei, che da anni cura come volontario le attività teatrali nel carcere di Catanzaro, Giusi Fanelli, Anna Verde, Rosario Columbro, Francesco Graziano, Emilio Stagliano, Antonio Fortuna, Rosario Gattuso, Antonio Gattuso, Maria Chiara Crupi, Anna Portaro, Fabio Milano, Giuseppina Annunziata Cicciò, Eleonora Rombolà e Simonetta Amodeo. Lo spirito della commedia è ricordare che anche nelle serate in famiglia spesso possono venir fuori battibecchi, incomprensioni, litigi; ma ciò fa parte della natura degli esseri umani, che in quanto tali sbagliano - tutti- e, sempre in quanto tali, si perdonano. Al termine della manifestazione la compagnia ha ricevuto una targa ricordo realizzata dai detenuti all’interno del laboratorio di ceramica del carcere con la significativa dedica “Grazie per la serata in famiglia”. La Quinta Edizione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere si inquadra in un più ampio e articolato programma di collaborazione previsto dal Protocollo di Intesa sottoscritto nel 2013 e rinnovato nel 2016 dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, dal Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dall’Università Roma Tre. Il 27 novembre 2017 è stata sottoscritta, inoltre, un’Appendice operativa al Protocollo d’Intesa che ha registrato l’adesione anche da parte del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità. Il Teatro è presente in oltre cento carceri d’Italia (la nazione che più di ogni altra ha investito su questa esperienza a livello artistico ed educativo). Trieste: incontro con la scrittrice Fabiana Redivo presso la Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 14 aprile 2018 Il 14 aprile 2018 ad ore 10.00 Fabiana Redivo presenterà il libro “Aghikenam - il segreto della città perduta” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla - “Aghikenam - il segreto della città perduta” - un fantasy intrigante e appassionante ambientato in arcipelaghi e territori lussureggianti dalle conformazioni geologiche e naturalistiche di rara bellezza. La magia nasconde agli occhi degli uomini (avidi) la città di Aghikenam con i suoi tesori e il suo fasto. Due Guardiani custodiscono la città nella speranza e nell’attesa dell’arrivo dell’Eroe che - puro, giusto e onesto - potrà nuovamente far rivivere l’antico fasto riportando la pace tra i diversi popoli ed etnie. Tante le persone del mondo reale e del fantastico, del bene e del male che aspirano a conquistare la città; anche un “particolare” gruppo di persone tra cui un eroe guerriero che ha perso la memoria, un pirata, un mago, una strega dell’ovest, si avventurano alla ricerca della città guidati da Khatala superando incomprensioni, paure, pregiudizi, intrighi. Una battaglia distruttiva e la scoperta quasi incredibile: la trama che tutto crea e distrugge può essere nuovamente e diversamente tessuta. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Airola (Bn): all’Ipm concerto del Coro Giovanile del Teatro San Carlo di Napoli ilquaderno.it, 14 aprile 2018 L’iniziativa è stata organizzata e promossa dal garante dei detenuti, Samuele Ciambriello. La musica e l’arte come forma di rieducazione per i minori sottoposti a misure restrittive della libertà. Questo il tema principale della esibizione del Coro Giovanile del teatro San Carlo di Napoli, presieduto dal maestro Carlo Morelli e che nel pomeriggio di giovedì, ha allietato i detenuti dell’Istituto Minorile di Airola, in provincia di Benevento. Un evento organizzato e promosso da Samuele Ciambriello, Garante regionale dei detenuti e presidente dell’associazione La Mansarda che da trent’anni opera nel sociale ed a sostegno delle classi disagiate. L’iniziativa ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Pasquale Maglione, deputato del Movimento Cinque stelle, di Giuseppe Stravino, consigliere comunale di Airola e di Domenico Matera, sindaco di Bucciano. Un pomeriggio sui generis, quello che il garante Ciambriello ha voluto offrire ai ragazzi dell’istituto minorile, vissuto tra i brani classici della tradizione napoletana ed il repertorio classico della musica tradizionale. Soddisfatti il direttore dell’istituto penitenziario airolano, Dario Caggia, che ha ringraziato Ciambriello e tutti gli intervenuti, ed il giudice di sorveglianza, Ornella Rocco, che ha spronato i ragazzi a lasciarsi il passato alle spalle ed a guardare avanti con rinnovato ottimismo. “Una nazione che non rieduca i propri ragazzi dopo che hanno sbagliato, è una nazione che condanna se stessa - ha dichiarato a gran voce invece Ciambriello. A questi ragazzi va tolto il diritto alla libertà, non alla dignità. A questo proposito amo sempre ricordare a me stesso la celebre frase di Alber Camus, il quale affermava che “c’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere difficile, io vorrei essere fedele ad entrambi”. Come garante per i detenuti e presidente dell’associazione La Mansarda, mi batto ogni giorno per i diritti di questi ragazzi, che hanno sbagliato, è chiaro, ma hanno il diritto di poter rimediare e di costruire il loro futuro. Torno sempre volentieri qui ad Airola, dove tra l’altro, nel periodo pasquale, abbiamo organizzato un pranzo con tutti i ragazzi, a testimonianza dell’attenzione che la associazione che mi onoro di presiedere, riserva alla struttura ed ai ragazzi ospitati”. Soddisfatto per la buona riuscita dell’evento si è dichiarato anche Pasquale Maglione. Per lui, airolano di nascita, è stata la prima volta da deputato nell’istituto penitenziario. “Sono contento di aver preso parte a questa bella manifestazione e per questo desidero ringraziare il garante dei detenuti, Samuele Ciambriello ed il direttore dell’istituto - ha dichiarato il neo deputato pentastellato. Personalmente, ritengo che queste iniziative siano fondamentali, perché è giusto che i ragazzi condividano momenti di aggregazione. Già in passato, quando non ero ancora deputato, ho preso parte a diverse iniziative di carattere sociale tenute presso l’istituto minorile, ragion per cui oggi sono doppiamente felice ed orgoglioso di essere qui in qualità di deputato della repubblica. La mia presenza qui - ha concluso Maglione - testimonia l’aiuto fattivo e la collaborazione delle istituzioni nella costruzione di quella rete che il garante tende a creare tra quelle che sono le istituzioni stesse, le strutture carcerarie e l’intera società civile”. Migranti. La procura: “Illegale il blitz francese a Bardonecchia” di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 14 aprile 2018 Emesso un mandato di investigazione europeo a carico dei gendarmi. Ciò che per le autorità francesi è stato un’incursione normale, anzi un diritto, dentro un presidio sanitario in territorio italiano, per la procura di Torino era priva di legittimità. Il blitz, con tanto di armi alla cintola e toni padronali, dei doganieri francesi nel piccolo rifugio di Bardonecchia, non finisce quindi nel cassetto dei ricordi e prende la via dell’inchiesta giudiziaria, portata avanti dal capo della procura Armando Spataro in persona. “I doganieri non potevano entrare nella sala assegnata alla Ong - ha spiegato il procuratore capo - Abbiamo raccolto delle comunicazioni tra i responsabili delle due dogane dove il francese lamentava che non ci fosse più la disponibilità della stanza nella stazione di Bardonecchia. Questo dimostra che le forze dell’ordine francesi sapevano di non poter fare delle perquisizioni in quel modo”. Così, mentre il transito dei migranti verso il confine con la Francia torna ad avere dimensioni importanti, nelle ultime due settimane nonostante le condizioni climatiche pessime si sono registrati almeno duecento passaggi tra Bardonecchia e Claviere, la magistratura italiana ribadisce che le scorribande francesi in territorio italiano non devono ripetersi. Gli inquirenti hanno ribadito di voler conoscere le generalità dei cinque gendarmi che compirono la brutale irruzione. Di loro ci sono diversi fotogrammi, ma per le autorità francesi non è stato possibile identificarli: si procederà con una richiesta di rogatoria. È emerso inoltre che i doganieri, poco prima di fare irruzione nel presidio sanitario in cui imposero a un ragazzo nigeriano di urinare in una provetta, incontrarono dei colleghi italiani senza avvertirli di quanto stavano per fare. I reati che la procura imputa ai doganieri sono violazione di domicilio commessa da pubblici ufficiali e perquisizione illegale. “Siamo consapevoli della delicatezza del caso, ma dobbiamo continuare a indagare perché c’è l’obbligatorietà dell’azione penale in Italia e quanto è accaduto a Bardonecchia per noi è un reato - ha aggiunto Spataro - Speriamo che la Francia sia collaborativa e che ci permetta di spiegare perché i doganieri hanno fatto quello che hanno fatto”. L’irruzione, unita ad un serie di respingimenti e denunce brutali da parte della gendarmeria, avevano rallentato il cammino dei migranti verso Briançon, terra promessa da cui partire alla volta di Parigi. Ma negli ultimi giorni la pressione si è fatta nuovamente forte: da Claviere e Bardonecchia sono ripresi i passaggi, soprattutto nelle ore notturne. Lunedì scorso i migranti presenti nel piccolo rifugio della cittadina francese d’oltre confine superavano le cento unità: contro una capienza massima di quaranta posti. I volontari francesi decidevano così di occupare la stazione ferroviaria e sistemare nella sala di attesa quaranta persone su alcuni sacchi a pelo. Da tempo si attendeva questa mossa, perché gli spazi a disposizione sono insufficienti rispetto la pressione attuale. L’occupazione, avvenuta nel momento in cui i ferrovieri scioperavano contro il piano di privatizzazione di Sncf voluto dal presidente Emmanuel Macron, si svolgeva in un clima di serenità, senza tensioni. Mercoledì pomeriggio la gendarmeria francese ha sgomberato senza forza migranti e volontari: portando nuovamente ad una situazione di collasso il rifugio poco distante. È probabile che la municipalità di Briançon stia per concedere una struttura adeguata, soprattutto in previsione di quanto avverrà nei prossimi mesi. Dopo alcuni giorni di forti nevicate, i migranti passati nella notte di giovedì hanno camminato lungo le piste di sci di Claviere con un metro di neve fresca, si attende l’arrivo della primavera. Stagione in cui coloro che vogliono attraversare il confine aumenteranno notevolmente. Al confine si respira un’aria di stallo: l’occupazione dei sotterranei della chiesa di Claviere “Chez Jesus” prosegue, nonostante le intemperanze del parroco, mentre riprendono i tentativi da parte di chi tenta di passare dal Colle della Scala, sopra Bardonecchia, di cui si attende l’apertura tra pochi giorni. Migranti. Tratti in salvo dai barconi, cinquecento migranti attendono in mare di Fabio Albanese La Stampa, 14 aprile 2018 Saranno portati domattina ad Augusta a bordo della nave della Marina spagnola Santa Maria. Ieri la Guardia costiera libica aveva riportato indietro 137 migranti, comprese 19 donne e 4 bambini. Mentre l’agenzia Frontex diffonde i dati con cui sottolinea come nel mese di marzo gli arrivi di migranti in Europa siano stati in tutto 6200 e quelli diretti in Italia inferiori dell’88 per cento rispetto allo stesso periodo di un anno fa, nel Mediterraneo centrale i migranti continuano a cercare la via delle coste italiane. C’è chi però viene bloccato dalla Guardia costiera libica, come avvenuto fino a ieri, ed è costretto a tornare indietro; e chi, invece, riesce a “bucare” i controlli e a raggiungere le acque internazionali dove scattano i soccorsi delle Ong. Oggi, come informa la Guardia costiera italiana, tre gommoni carichi di migranti sono stati recuperati e le 500 persone che erano a bordo sono state salvate. Di queste, 312 su due gommoni sono state salvate dalla nave della Ong tedesca Sea Watch (che solo da pochi giorni ha ripreso le operazioni dopo mesi di inattività) mentre gli altri sono stati salvati da una nave militare del dispositivo Eunavformed. I tre interventi sono stati coordinati dalla sala operativa di Roma alla quale successivamente si è rivolta la Ong tedesca perché, ha riferito, non è in grado di portare in un porto sicuro italiano i migranti recuperati “a causa del peggioramento delle condizioni meteomarine, del numero di migranti presenti a bordo e dell’assenza di una quantità sufficiente di acqua e cibo”, come scritto in un comunicato della Guardia costiera italiana che ora, “allo scopo di mettere in sicurezza i migranti, sta individuando il miglior assetto navale presente in area”. In serata si è appreso che i 500 migranti arriveranno domattina ad Augusta (Siracusa) a bordo della nave della Marina spagnola Santa Maria. Ieri la Guardia costiera libica aveva recuperato e riportato indietro 137 migranti, comprese 19 donne e 4 bambini. A Tripoli, personale dell’Unhcr era intervenuto per assisterli, prima che venissero portati nei centri di detenzione. Secondo i dati diffusi oggi da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, in Europa nel mese di marzo sono arrivati 6200 migranti, il 63 per cento in meno di un anno fa. Di questi, 1400 sono arrivati in Italia (88% in meno del marzo 2017), portando il numero complessivo di arrivi da inizio anno a 6600 persone, i tre quarti in meno - sottolinea Frontex - rispetto a un anno fa. Il gruppo più numeroso è quello degli eritrei, seguito dai tunisini che però “partono dal loro paese” e non dalla Libia. Al momento, la rotta del Mediterraneo centrale non è la più battuta da chi vuole raggiungere l’Europa, anche se da dati dell’Oim, l’Organizzazione dell’Onu per le migrazioni, resta la più mortale: 359 delle 557 persone scomparse dal 1° gennaio al 13 aprile, sono morte o sono state date per disperse in quel tratto di mare. La rotta del Mediterraneo orientale, quella diretta in Grecia, conta 3700 arrivi in marzo (la maggior parte siriani e iracheni), 7900 in tutto il 2018. Terza è la rotta del Mediterraneo occidentale, quella verso la Spagna, in tutto 900 persone (Marocco, Guinea e Mali soprattutto) a marzo, in linea con il dato di un anno fa. Praticamente ferma la rotta dei Balcani, con appena 100 migranti. Le Ong rimaste in mare sono tre con due navi: oltre alla Sea Watch, c’è la nave Aquarius gestita da Sos Mediterranee e Medici senza Frontiere. Ancora sotto sequestro a Pozzallo la nave della Ong spagnola ProActiva Open Arms, dopo un doppio salvataggio di un mese fa conteso con la Guardia costiera libica. Oggi gli avvocati difensori hanno presentato ai magistrati siciliani una memoria con cui chiedono il dissequestro della nave per avere agito sotto l’iniziale coordinamento di Roma e, comunque, per aver recuperato quei 218 migranti “in stato di necessità”. Siria. Trump ordina i raid: Usa, Francia e Gran Bretagna attaccano di Paolo Foschi Corriere della Sera, 14 aprile 2018 L’attacco scattato nella notte. È durato poche ore e avrebbe colpito tre obiettivi, a Damasco e a Homs: tre i feriti civili. Nel mirino l’arsenale chimico del regime. “Ho ordinato l’attacco alla Siria”. L’annuncio di Donald Trump è arrivato intorno alle 22, ora di Washington (in Italia erano le tre di notte), mentre i missili stavano già colpendo gli obiettivi ritenuti collegati alla produzione di armi chimiche. A una settimana di distanza dal controverso attacco chimico contro la città siriana di Duma attribuito dagli Usa alle truppe governative siriane, il presidente statunitense è dunque passato all’azione. L’operazione, arrivata un po’ a sorpresa dopo che nelle ultime ore erano giunti segnali di distensione, è stata portata avanti da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, che hanno utilizzato unità navali e forze aeree. Dalle prime informazioni ci sarebbero almeno tre civili rimasti feriti in uno dei punti colpiti, la base di Homs. Gli obiettivi - Sono tre gli obiettivi colpiti nel corso dell’attacco, durato circa un’ora: un centro di ricerca a Damasco, un deposito per lo stoccaggio delle armi chimiche e un centro di comando a Homs, dove secondo la tv siriana tre persone sarebbero rimaste ferite. Sarebbero stati lanciati tra i 100 e i 120 missili da crociera. Così ha lasciato intendere James Mattis, capo del Pentagono, che ha rivelato che è stata utilizzata una quantità doppia di razzi rispetto ai 59 dell’attacco alla Siria del 2017. Secondo quanto annunciato dallo stesso Trump, gli attacchi coordinati con i due Paesi alleati puntano a colpire i siti per la produzione di armi chimiche. “Siamo pronti a sostenere questa risposta fino a quando il regime siriano non cesserà l’uso di agenti chimici proibiti” ha detto. “Non vogliamo rovesciare Assad, ma fermare l’uso di armi chimiche” ha sottolineato Theresa May, premier della Gran Bretagna. “La linea rossa fissata dalla Francia nel maggio del 2017 è stata superata. Quindi ho ordinato alle forze armate francesi di intervenire questa notte, nell’ambito di un’operazione internazionale congiunta con gli Stati Uniti d’America e il Regno Unito e diretta contro arsenali chimici clandestini del regime siriano” ha invece twittato il presidente francese, Emmanuel Macron. “Questo è un chiaro messaggio per Assad”, ha spiegato il segretario americano alla Difesa, l’ex generale James Mattis, assicurando come al momento non si registrino perdite tra le forze Usa. Le reazioni - Dura la risposta della Russia, attraverso l’ambasciatore negli Stati Uniti: “L’attacco è un inammissibile schiaffo al nostro presidente Putin e non resterà senza conseguenze”. E ha poi aggiunto che un numero “considerevole” dei missili lanciati è stato “intercettato o abbattuto” dai sistemi di “difesa siriani”. La Francia assicura che “la Russia è stata avvertita in anticipo degli attacchi”. Arriva poi il commento dal ministero degli Esteri siriano: “un’aggressione barbara e brutale”. Toni duri anche dal ministro degli Esteri iraniano: “Ci saranno conseguenze regionali”. Mosca ha comunque precisato che i missili non hanno colpito né le basi, né uomini o mezzi russi. Arriva anche il commento di Israele, che definisce l’attacco “giustificato”. Sostegno anche da Canada e Giappone. La coalizione incassa l’appoggio anche della Turchia. Ma l’operazione pare abbia fatto scoppiare qualche polemica all’interno del Congresso americano, poiché Trump, prima di procedere, non ha chiesto nessuna autorizzazione. Secondo alcuni osservatori, Usa, Francia e Gran Bretagna potrebbero comunque aver concordato gli obiettivi con la Russia per evitare un’incontrollabile escalation di guerra. L’azione dovrebbe per adesso essere limitata a una sola notte e avrebbe dunque il senso di un avvertimento al governo di Assad, anche se successivamente fonti dell’amministrazione Usa hanno spiegato che “l’operazione non è finita. Quella che avete visto stanotte non è la fine della risposta degli Stati Uniti, il piano prevede molta flessibilità che permette di procedere a ulteriori bombardamenti sulla base di quello che è stato colpito stanotte”. “I danni sono limitati” ha replicato Damasco. Le accuse alla Russia - Annunciando l’attacco in Siria il presidente Usa Donald Trump ha comunque puntato il dito contro Russia e Iran. “All’Iran e alla Russia chiedo: quale tipo di nazione vuole essere associata all’omicidio di massa di uomini innocenti, donne e bambini?”. E ha proseguito: “La Russia deve decidere se continuare lungo questo sentiero buio o se si unirà alle nazioni civilizzate quale forza di stabilità e pace. Magari un giorno andremo d’accordo con la Russia, e forse perfino l’Iran, ma forse no”. “Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno realizzato l’attacco contro la Siria nel momento in cui il Paese aveva la possibilità di un futuro pacifico” ha replicato la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova su Facebook. “Quelli dietro il raid rivendicano la leadership morale in questo mondo e sbandierano la loro esclusività e unicità”. Al momento non ci sono segnati di una possibile risposta all’attacco da parte di Damasco o Mosca. Siria. La minaccia (inattuabile) della Russia sui migranti di Franco Venturini Corriere della Sera, 14 aprile 2018 Il monito del ministro degli Esteri russo Lavrov non può lasciare indifferenti gli europei. Nell’ambito delle quotidiane polemiche tra Russia e Occidente, il ministro degli Esteri di Mosca Sergei Lavrov ha lanciato ieri un monito che non può lasciare indifferenti gli europei: attenti, ha detto, perché se commetterete anche il minimo errore in Siria potrebbero esserci nuove ondate di migranti. Sottinteso, l’America e i suoi alleati farebbero meglio a non colpire la Siria per rispondere al (presunto) attacco chimico di Ghouta Est. Purtroppo la guerra di Siria offre abbondante materia alle minacce di Lavrov. In 7 anni i morti sono stati a seconda delle stime tra 300.000 e 500.000, i feriti tra un milione e mezzo e due, i profughi circa 6 milioni. Le distruzioni (attuate sia dall’aviazione russo-siriana sia dai bombardamenti della coalizione guidata dagli Usa) sono state tali che anche nelle zone liberate dall’Isis i “ritorni” di popolazione sono pochi. Ma l’assunto di Lavrov non è ispirato da motivi umanitari. Piuttosto il ministro russo ha parlato ieri alle opinioni pubbliche francese e britannica, per tentare di alimentare l’opposizione all’annunciata partecipazione di Parigi e di Londra al castigo militare contro la Siria (e indirettamente contro la Russia, anche se i contatti in corso attraverso i canali di emergenza dovrebbero evitare che gli occidentali colpiscano militari di Mosca). Difficilmente l’iniziativa di Lavrov avrà successo, anche perché il ministro ha dimenticato un elemento essenziale: chi fugge dalla Siria da Nord (gli altri scappano da Sud, verso Libano e Giordania) si ritrova normalmente in Turchia. E la Turchia custodisce sul suo territorio oltre due milioni di rifugiati siriani in applicazione di un accordo (controverso ma necessario) con la Ue. Che ha appena versato ad Ankara una tranche di tre miliardi di euro. La minaccia di Lavrov, insomma, non fa paura. A meno che il Cremlino convinca la sua amica Turchia ad aprire i cancelli verso Ovest. E i soldi, Erdogan vi rinuncerebbe? E il blocco tuttora in vigore della “via balcanica” verso la Germania? No, Lavrov dovrà pensarla meglio. Le sue parole di ieri, comunque, non riguardano l’Italia perché noi le ondate migratorie le abbiamo già. Via Libia, per chi fosse interessato. Lo stato di diritto in Ungheria al Parlamento Europeo di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 14 aprile 2018 “Il tempo per gli avvertimenti è finito. L’Unione europea deve far prevalere la legge e attivare la procedura dell’articolo 7 contro l’Ungheria”. Non ha dubbi Judith Sargentini, relatrice in commissione Libertà civili e Giustizia del testo sulle violazioni dei diritti fondamentali dell’Ue da parte del governo ungherese. L’eurodeputata verde, nel suo rapporto chiede che la Ue attivi nei confronti di Budapest l’articolo 7 del Trattato, come è già successo per la Polonia. “Il governo di Viktor Orbán ha ripetutamente violato l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e i diritti fondamentali dei suoi cittadini - sostiene Sargentini - al momento dell’adesione all’UE, i Paesi si impegnano a rispettare i nostri valori condivisi in materia di diritti umani, democrazia e stato di diritto. Se l’Unione europea vuole rimanere credibile, deve essere pronta a prendere misure serie contro coloro che non rispettano questi valori”. Il testo sarà discusso a giugno e votato a settembre dalla Plenaria. Dura anche la reazione dei Socialisti e democratici. “Il governo ungherese dal 2010 ha sistematicamente agito per smantellare lo stato di diritto”, ha affermato Josef Weidenholzer, vicepresidente del gruppo al Parlamento Europeo. “La reazione di Viktor Orbán agli ultimi risultati elettorali dimostra che questa situazione non migliorerà - ha aggiunto. Infatti subito dopo la vittoria annunciata Orban ha lanciato un altro attacco contro i media e le organizzazioni che sono critiche nei confronti del suo governo”. Cina. Più condanne a morte che in tutto il resto del mondo di Filippo Santelli La Repubblica, 14 aprile 2018 Quantificare in maniera precisa non è possibile, per Pechino resta un segreto di Stato. Ma Amnesty International non ha dubbi: nel 2017, ancora una volta, il boia della Cina è stato il più impegnato al mondo, eseguendo “più condanne a morte che tutti gli altri Paesi messi insieme”. “Migliaia” di persone destinate alla pena capitale, stima l’organizzazione nel suo ultimo report sulla base di notizie raccolte e sentenze ufficiali depositate, contro le 993 giustiziate nel resto del globo (-4% rispetto al 2016). Scrive Amnesty che la Cina ha introdotto maggiori garanzie su equo processo e confessioni coatte. La pena di morte però resta applicabile per 46 reati diversi, di cui molti non violenti. Diminuiscono le esecuzioni legate a reati economici come la corruzione, ma restano frequenti nei casi di omicidio e traffico di droga, comprese due “esibizioni di massa” in cui a 23 persone sono state lette le sentenze di fronte a migliaia di spettatori. E a preoccupare in maniera particolare Amnesty è un ulteriore buco nero di informazione nel buco nero cinese, quello che riguarda la regione dello Xinjiang, popolata da una minoranza musulmana per cui il regime, sotto l’insegna della lotta al terrorismo, ha introdotto durissime misure di sicurezza. Solo una sentenza capitale è stata depositata, scrive Amnesty, lasciando intendere che molte altre potrebbero essere state eseguite nel silenzio. Costa d’Avorio. Appello dell’episcopato per la dignità per i carcerati L’Osservatore Romano, 14 aprile 2018 Offrire la grazia presidenziale per i colpevoli di reati minori e assumere al più presto nuovi magistrati al fine di poter accelerare i processi: è questo, in sintesi, il contenuto dell’appello lanciato dalla Chiesa cattolica in Costa d’Avorio, dove la situazione nelle carceri è drammatica. Nelle trentaquattro prigioni ivoriane, infatti, sono attualmente rinchiusi circa sedicimila detenuti in uno spazio complessivo previsto per solo quattromila persone. I detenuti sono in carcere per i più svariati motivi ma generalmente per reati che in altri paesi si risolverebbero con una sanzione pecuniaria (piccoli furti, rissa, vendita illegale di farmaci al mercato). In media ogni carcerato sconta circa cinque-sei anni di pena, ma molti restano in attesa di essere giudicati da un tribunale per diversi anni. All’interno dei penitenziari, dove mancano l’energia elettrica e persino le finestre, si registrano numerosi casi di scabbia, gastroenterite, candidosi, tubercolosi, oltre a gravi infezioni polmonari e delle ossa. Le precarie condizioni dei carcerati nella Costa d’Avorio sono state poste all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica dal vescovo di Odienné, Antoine Koné, presidente della Commissione episcopale per la pastorale sociale, nell’omelia pronunciata per la giornata nazionale dei detenuti, celebrata nei giorni scorsi nella chiesa di Sainte Thérèse de Marcory, ad Abidjan, alla presenza di numerosi politici e di personalità governative. Il presule ha chiesto la grazia per i detenuti condannati per reati non gravi e ha auspicato che vengano al più presto potenziati gli organici della magistratura “per accelerare i processi dei detenuti che sono in attesa di giudizio”. Misure che - ha spiegato monsignor Koné all’agenzia Fides - “darebbero sicuramente un volto umano ai nostri luoghi di detenzione e correzione e dei quali potrebbero beneficiare i detenuti innocenti che languiscono nelle nostre prigioni e che, alla fine, perdono la speranza e si lasciano morire lentamente”. Di qui l’appello del vescovo presidente della Commissione episcopale per la pastorale sociale affinché questi luoghi di detenzione cambino volto e siano luoghi di correzione e non di abbandono. Koné ha esortato “i diversi strati sociali ad abbandonare le prigioni morali e spirituali dell’odio, della presunzione, dell’orgoglio, dell’indifferenza e della corruzione”. Ha quindi invitato i politici a promuovere la pace e la coesione nazionale: “La popolazione della Costa d’Avorio sta aspettando che voi costruiate dei ponti. Questo rasserenerebbe senza dubbio il clima sociale e favorirebbe lo sviluppo di coloro che mettono in dubbio il futuro del nostro paese”. Ecuador. Uccisi tre giornalisti rapiti da un gruppo dissidente delle Farc di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 14 aprile 2018 Non si avevano più loro notizie da 18 giorni. Spariti al confine tra Ecuador e Colombia mentre lavoravano ad un servizio sulle violenze che da mesi colpivano la zona, strategica per il traffico di coca verso Usa ed Europa. La notizia che tutti speravano non arrivasse mai, alla fine è arrivata. In via ufficiale. Javier Ortega, 32 anni, cronista e inviato del quotidiano di Quito, El Comercio, Paúl Rivas, 45 anni fotografo e Efraín Segarras, 60 anni, autista, sono stati assassinati dalla banda di dissidenti delle Farc, contraria all’accordo di pace firmato a Cuba alla fine del settembre 2017. I tre erano andati a Mataje, nel nord della Colombia, che confina con la turbolenta provincia di Esmeralda, nel sud dell’Ecuador, per un servizio sulle violenze che da mesi rendono impossibile la vita a migliaia di abitanti, tra taglieggi, agguati, soprusi e attentati alle stazioni della polizia. Nel giro di un mese c’erano stati almeno una trentina di feriti per l’esplosione di due potenti ordigni ai commissariati locali. Una cinquantina di case erano crollate sotto l’onda d’urto provocata dalla bomba. Dei tre colleghi non si avevano più notizie dal 26 marzo scorso quando era stato lanciato l’allarme dopo la loro scomparsa in una zona particolarmente impervia sul lato del Pacifico. Negli ultimi giorni si era diffusa la notizia che i tre giornalisti fossero stati uccisi; notizia in parte confermata ufficiosamente dallo stesso gruppo formato da ex guerriglieri e narcos. Una settimana fa era stato inviato un video come prova dell’esistenza in vita degli ostaggi nel quale si dettavano anche le condizioni per la loro liberazione: uno scambio con tre membri del gruppo detenuti in Ecuador e la fine della collaborazione con la Colombia nella lotta al narcotraffico nella regione. Da allora non si era saputo più nulla. Poi, improvvisamente, giovedì scorso, il network colombiano Rcn aveva ricevuto un secondo video nel quale si vedevano i corpi dei tre giornalisti ormai senza vita. Familiari, colleghi e amici si erano subito attivati lanciando una campagna sui social e organizzando manifestazioni e sit in che si sono protratti fino ad oggi. Sotto l’hashtag #nosfaltan3, centinaia di giornalisti e gente comune si erano radunati nella piazza centrale di Quito per sollecitare nuovamente la liberazione dei due giornalisti e dell’autista del quotidiano. Il presidente Lenin Moreno ha lasciato il vertice delle Americhe in corso a Lima ed è rientrato subito in Ecuador. Con il viso contratto e gli occhi umidi per l’emozione ha condannato duramente quello che ormai appariva chiaro ma ha chiesto ancora prudenza per analizzare meglio il video. Ha chiesto entro 12 ore una nuova prova dell’esistenza in vita degli ostaggi. “Se non arriverà”, ha detto, “useremo la massima fermezza nei confronti di questi elementi privi di ogni rispetto dei Diritti Umani”, ha aggiunto, ottenendo anche l’appoggio del presidente colombiano Manuel Santos che ha messo a disposizione le sue Forze Armate. Nel primo pomeriggio c’è stata una prima conferma anche dagli specialisti e la notizia, tragica e orribile, è diventata ufficiale. “Abbiamo informazioni certe”, ha annunciato il presidente Moreno, “che confermano l’omicidio. I criminali non hanno mai avuto l’intenzione e la volontà di liberarli. L’unica cosa che volevano era guadagnare tempo”. Le responsabilità di questo barbaro omicidio sono state fin dall’inizio indirizzate verso il gruppo dissidente guidato da Walter Arzilla, lo stesso a cui si attribuisce l’ondata di violenza scatenata lungo la frontiera tra i due paesi fin dal gennaio scorso. Mercoledì scorso girava in rete un comunicato attribuito al Fronte Oliver Sinisterra, controllato dal guerrigliero dissidente delle Farc, noto come Guacho, nel quale si sosteneva che i tre giornalisti erano stati uccisi dopo un intervento delle forze militari ecuadoriane. Il tentativo estremo e codardo di giustificare un’esecuzione assurda, portata a termine da un gruppo ormai estraneo alla vecchia guerriglia delle Farc e trasformato nell’ennesima banda di narcotrafficanti.