M5S e Lega affossano la riforma delle carceri di Dimitri Buffa L’Opinione, 13 aprile 2018 Hanno affossato la riforma dell’ordinamento penitenziario e lo hanno fatto coni metodi della Prima Repubblica. Per essere nuovi e senza un governo stabile, i parlamentari grillini, quelli leghisti, quelli di Fratelli d’Italia e - ahinoi - anche quelli di Forza Italia, sembrano non essere secondi a nessuno nei trucchetti ostruzionistici per mandare in soffitta una legge sacrosanta. Forse l’unica veramente necessaria del Governo Gentiloni. In parte anche anticipata da una sentenza della Corte costituzionale dello scorso 2 marzo secondo cui era da considerare incostituzionale l’articolo 656, quinto comma, del codice di procedura penale che prevedeva la sospensione per pene solo fino a 3 anni. Ci si riferisce alla sentenza 41/2018 (relatore Giorgio Lattanzi), che ha allargato il termine per chi deve scontare una pena, anche residua, fino a 4 anni di carcarcere. Stabilendo che “ha diritto alla sospensione dell’ordine di esecuzione allo scopo di chiedere e ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, nella versione “allargata” introdotta dal legislatore nel 2013”. Al contrario, i big del nuovo Parlamento appena insediato ieri hanno deciso di non esaminare neanche per un parere consultivo le norme già quasi approvate in precedenza in materia di riforma dell’ordinamento carcerario e che in precedenza avevano ostacolato in ogni maniera urlando slogan falsi e menzogne varie come “svuota carceri” e compagnia delirante. La maniera per fare ciò è stata semplice: hanno demandato l’esame consultivo a una futura Commissione giustizia, che chissà quando mai vedrà la luce. Escludendo che la Commissione straordinaria, il “blob” che si sta occupando di tutto il resto rimasto in sospeso dalla precedente legislatura, possa occuparsi anche di giustizia. Come se in Italia fosse un problema minore e non quello per antonomasia. Così i 58mila detenuti possono aspettare tempi migliori semplicemente per avere condizioni più decenti. Invece adesso le prove tecniche di forca congiunte hanno portato a questo stato di stallo e Forza Italia si è implicitamente accodata all’urlo ipocrita di “onestà onestà” che promana dalle plebi organizzate dalla Casaleggio Associati. E chi in questi giorni si è meravigliato nel centrodestra delle idee e dei proclami del pm Nino Di Matteo dagli spalti di “Sum#02”, ieri ha deciso di comportarsi, in seno alla riunione dei capigruppo della Camera (contrariamente a quanto invece avrebbero voluto al Senato), come se la pensasse alla stessa maniera. Il garantismo di certi politici del centrodestra - che pur se ne riempiono la bocca - sembra essere solo quello che riguarda amici stretti e familiari. Non è mai erga omnes. E alle vittime della mala giustizia così come ai carcerati che chiedono migliori condizioni di detenzione non resta che attaccarsi ai Radicali e agli scioperi della fame di Rita Bernardini. Mancata attuazione della riforma penitenziaria: astensione e manifestazione nazionale Ucpi camerepenali.it, 13 aprile 2018 L’Unione delle Camere Penali Italiane, rilevato il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della Riforma Penitenziaria nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari, evidenziato quanto riportato nell’allegata delibera odierna, ritenendo necessaria - ancora una volta in prima linea nel richiedere il rispetto dei diritti di tutti i detenuti - una ulteriore ed immediata presa di posizione dell’Avvocatura penale che unifichi e coordini gli sforzi di tutti coloro che si sono impegnati per l’attuazione della Riforma, e di dover porre in essere una mobilitazione nazionale, alla quale vorranno certamente aderire tutte le rappresentanze dell’Avvocatura, per riaffermare, assieme a tutti coloro che in questi mesi si sono espressi a favore di una sollecita ed integrale approvazione dei decreti, il forte dissenso dell’Avvocatura penale nei confronti di una politica che calpesta i diritti fondamentali dei detenuti, negando i principi propri della Costituzione e dei trattati internazionali da tempo sottoscritti dall’Italia, delibera la astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria penale nei giorni 2 e 3 maggio 2018, organizzando per il 3 maggio 2018, in Roma, una manifestazione nazionale con la quale sensibilizzare la politica, l’opinione pubblica e l’informazione, al fine di ottenere l’inserimento dei Decreti Legislativi approvati dal Consiglio dei Ministri nell’ordine del giorno delle Commissioni speciali, indicendo una conferenza stampa per il giorno 16 aprile 2018, al fine di spiegare le ragioni della protesta e della iniziativa dei penalisti italiani anche per comunicare e valorizzare i dati statistici sulla incidenza della recidiva, che dimostrano come l’effettiva applicazione delle misure alternative, piuttosto che la indistinta cancerizzazione, costituisca un reale incremento della sicurezza di tutti i cittadini, riservandosi ogni ulteriore iniziativa volta all’ottenimento della sollecita entrata in vigore della riforma. La delibera La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, premesso che la riforma dell’ordinamento penitenziario, rispondendo ad una reale necessità di riscatto dell’intero sistema penitenziario, dopo la condanna europea del 2013, ha creato una aspettativa non solo nel mondo dei reclusi, ma in tutti quei settori della società consapevoli della centralità del sistema delle pene e della esecuzione penale per la compiuta realizzazione di ogni moderna democrazia; - che la compiuta riaffermazione, dopo oltre quaranta anni, delle finalità rieducative e di reinserimento sociale del condannato, nella luce dei principi affermati dall’art. 27 comma 3 della Costituzione, costituisce un importantissimo punto di riferimento per la compiuta riaffermazione dello stato di diritto e per la ricollocazione del nostro sistema penitenziario nell’ambito dei principi comunitari; - che gli Stati Generali dell’esecuzione penale, nel cui ambito si sono riunite l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura, hanno prodotto una riforma con la quale si è tentato di ricucire lo strappo della legislazione del doppio binario emergenziale, abolendo le ostatività e gli automatismi introdotti con l’art. 4-bis ord. pen.; - che, nel corso della lunga e travagliata vicenda della approvazione delle riforma Orlando, l’UCPI ha più volte richiesto al Governo lo stralcio della riforma penitenziaria, sulla quale far convergere i consensi della maggioranza, al fine di accelerarne l’approvazione, ma che tale richiesta è stata sempre respinta ponendo l’approvazione della riforma penitenziaria in coda alla legislatura per mere ragioni elettorali, con ciò solo rischiando di disperdere le preziose risorse scientifiche e culturali e le aspettative politiche ed umane create dal progetto di riforma; - che la richiesta formulata solo ieri, ancora una volta con grave ritardo, dal Ministro Andrea Orlando è, nei fatti, in contraddizione con la mancanza di riscontro alle suddette richieste e con i ritardi colpevoli con i quali si è ritenuto di giungere alla tardiva e parziale approvazione dei Decreti attuativi della riforma solo dopo il confronto elettorale; - che il mancato inserimento dei decreti legislativi attuativi della Riforma Penitenziaria nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari si pone nettamente in contrasto con la proclamata centralità del Parlamento, dimostrando come in verità leggi frutto di una faticosa e approfondita meditazione e di ampia condivisione politica, giuridica e culturale possano essere agevolmente accantonate e dimenticate; - che si finge, irresponsabilmente, che non vi siano ragioni di urgenza, di umanità e di civiltà, che impongano di intervenire e che non siano invece drammatiche le condizioni di un sistema nel quale i suicidi si susseguono al ritmo di uno alla settimana, nel quale la salute non è garantita, e l’opera di osservazione, di trattamento e di risocializzazione é sostanzialmente interdetta dal sovraffollamento e da numeri oramai tornati a limiti tali da riproporre complessivi profili di sicurezza oltre che di decenza; - che la politica intera, con la sua colpevole inerzia, non solo pone nel nulla una riforma che, nonostante i suoi limiti e le sue carenze, costituisce un fondamentale punto di partenza per lo sviluppo di una moderna politica penitenziaria, ma assume su di sé la gravissima responsabilità di esporre nuovamente il Paese alle sanzioni dell’Europa che graveranno inevitabilmente su tutti i cittadini; - che è, pertanto, necessaria una ulteriore ed immediata presa di posizione dell’Avvocatura penale che unifichi e coordini gli sforzi di tutti coloro che si sono impegnati per l’attuazione della Riforma dovendosi, da un lato, necessariamente ottemperare all’obbligo imposto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e risultando, dall’altro, evidente l’insuccesso di una politica esclusivamente carcerogena e carcerocentrica che, ponendosi in contrasto con il principio costituzionale dell’art. 27, colloca esclusivamente nell’esecuzione delle pene detentive le aspettative securitarie della intera collettività; - che l’U.C.P.I. ritiene di dover essere ancora una volta in prima linea nel richiedere il rispetto dei diritti di tutti i detenuti invitando tutte le forze parlamentari affinché venga attuata la politica riformatrice e la realizzazione di un sistema penitenziario conforme ai principi della Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; - che, tutti coloro che hanno a cuore lo stato di diritto e che ritengono di dover porre, al centro della loro azione politica, le garanzie dei cittadini ed i principi costituzionali della finalità rieducativa della pena e della dignità della persona, non possono rimanere inerti di fronte al tradimento dei valori che hanno ispirato la riforma; - che l’UCPI ritiene pertanto necessario porre in essere una mobilitazione nazionale, alla quale vorranno certamente aderire tutte le rappresentanze dell’Avvocatura, per riaffermare assieme a tutti coloro che in questi mesi si sono espressi a favore di una sollecita ed integrale approvazione dei decreti, il forte dissenso dell’Avvocatura penale nei confronti di una politica che calpesta i diritti fondamentali dei detenuti, negando i principi propri della Costituzione e dei trattati internazionali da tempo sottoscritti dall’Italia; Delibera nel rispetto del codice di autoregolamentazione, l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale per i giorni 2 e 3 maggio 2018, organizzando per il 3 maggio 2018, in Roma, una manifestazione nazionale con la quale sensibilizzare l’opinione pubblica e l’informazione, richiedendo al Parlamento tutto, ai Presidenti di Camera e Senato, ai Gruppi parlamentari ed ai Presidenti delle Commissioni speciali, di porre in essere quanto possibile al fine di ottenere l’inserimento dei Decreti Legislativi approvati dal Consiglio dei Ministri nell’ordine del giorno delle Commissioni speciali, indicendo una conferenza stampa per il giorno 16 aprile 2018, al fine di spiegare le ragioni della protesta e della iniziativa dei penalisti italiani ed attivando, altresì, ogni strumento comunicativo volto alla diffusione ed alla valorizzazione dei dati statistici sulla incidenza della recidiva, che dimostrano come l’effettiva applicazione delle misure alternative, piuttosto che la indistinta cancerizzazione, costituisca un reale incremento della sicurezza di tutti i cittadini, riservandosi ogni ulteriore iniziativa volta all’ottenimento della sollecita entrata in vigore della riforma; Dispone la trasmissione della presente delibera al Presidente della Repubblica, ai Presidenti della Camera e del Senato, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Giustizia, ai Capi degli Uffici giudiziari. Il Presidente, Beniamino Migliucci Il Segretario, Francesco Petrelli Udienze sospese e penalisti in piazza contro la mancata riforma di Teresa Valiani Redattore Sociale, 13 aprile 2018 L’Unione Camere Penali ha programmato due giorni di astensione dalle udienze e una manifestazione nazionale per il 2 e 3 maggio. Riccardo Polidoro: “La situazione delle carceri è allarmante, la riforma non può più aspettare”. Una manifestazione nazionale promossa per il 3 maggio e due giorni di astensione dalle udienze, fissati dalla data precedente, per ribadire con forza che la riforma del sistema penitenziario italiano non può più aspettare e che “si finge, irresponsabilmente, che non vi siano ragioni di urgenza, di umanità e di civiltà che impongano di intervenire” sulle “condizioni drammatiche di un sistema nel quale i suicidi si susseguono al ritmo di uno alla settimana, nel quale la salute non è garantita e l’opera di osservazione, trattamento e risocializzazione sostanzialmente interdetta dal sovraffollamento e da numeri tornati a limiti tali da riproporre complessivi profili di sicurezza, oltre che di decenza”. L’Unione Camere Penali alza la voce, unendosi al coro di proteste che arriva dall’intero mondo penitenziario, dopo il mancato inserimento del decreto che riforma il sistema carcere nell’ordine del giorno della Commissione Speciale della Camera dei Deputati chiamata a intervenire sulle ‘pratiché urgenti rimaste in sospeso, in attesa della formazione del nuovo governo. E lo fa con una serie di azioni che hanno lo scopo di “sensibilizzare la politica, l’opinione pubblica e l’informazione” sul complesso tema carcere, “ancora una volta in prima linea nel chiedere il rispetto dei diritti di tutti i detenuti”. “Come italiani siamo mortificati per quello che sta avvenendo - sottolinea l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali italiane - e siamo abbastanza sorpresi, non dal clima politico, ma perché di questa riforma si parla dal 2013, dalla sentenza Torreggiani (quella con cui l’Italia era stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante nei confronti dei detenuti n.d.r.). Poi ci sono stati gli Stati Generali sull’esecuzione penale, abbiamo avuto la Legge delega e, ancora, le commissioni ministeriali. Io ho coordinato un Tavolo degli Stati Generali, faccio parte della commissione ministeriale e posso dire che c’è una grande delusione da parte di chi ha lavorato e da tutti coloro che hanno a cuore i diritti civili. C’era un’aspettativa, dopo tutto il lavoro svolto, in primo luogo da parte dei detenuti che vivono in condizioni disastrose, con il sovraffollamento che sta continuando a crescere”. Come si sta mobilitando il mondo penitenziario? “L’Unione Camere penali - risponde Polidoro - reagisce con questa manifestazione e con le astensioni dalle udienze mentre c’è anche una mobilitazione dei componenti della commissione ministeriale per cercare di coinvolgere tutti quelli che hanno partecipato agli Stati generali”. Oltre 200 esperti, provenienti dal mondo accademico, forense, ma anche medici, architetti, insegnanti e volontari avevano lavorato per più di un anno insieme ai giuristi scandagliando il sistema carcere con l’intento di restituire dignità alla vita detentiva e di riconsegnare all’Italia un ruolo di primo piano nell’ambito dell’esecuzione penale europea. Gli spunti e le proposte arrivate da questo complesso lavoro, denominato Stati generali sull’esecuzione penale, avevano ispirato parte dei contenuti della legge delega. Quali sono ora i possibili scenari? “C’è una delega ben precisa in Parlamento - sottolinea l’avvocato Polidoro -, che scade a fine luglio e da un punto di vista tecnico è ancora possibile fare tutto. Il problema è il clima politico perché qui la campagna elettorale non è mai finita. Tutto quello che sta avvenendo in questi giorni, tutti questi accordi o finti accordi nei teatrini a cui assistiamo, sono ancora una vera e propria campagna elettorale. Nessun partito, di quelli che possono andare al governo, credo vorrà prendere la bandiera della riforma penitenziaria. Allora bisogna vedere quali saranno i tempi per la formazione del nuovo governo, quali saranno gli accordi che verranno fatti. Purtroppo il clima politico è completamente cambiato”. Il clima è cambiato, ma l’attenzione dell’Europa no… “Già, e noi abbiamo un obbligo verso l’Europa. Subito dopo la sentenza Torreggiani l’Italia ha emanato i provvedimenti chiamati erroneamente dalla stampa ‘svuota carcerè con un termine pessimo, perché si svuotano le cantine, non certo gli istituti di pena in cui vivono delle persone. Dopodiché il Governo si è impegnato per un intervento di sistema. È stato detto all’Europa: ci sono gli Stati generali, stiamo lavorando per modificare tutto. Poi è arrivata la delega, con le commissioni ministeriali, tanto è vero che l’Europa, a questo punto, ha archiviato la posizione dell’Italia. Ma alla luce di quello che sta accadendo oggi, la situazione dovrà essere rivista. Come Osservatorio Carceri visitiamo gli istituti continuamente e la situazione è tornata a livelli allarmanti. Come avvocatura sicuramente ci impegneremo a fare ulteriori ricorsi alla Corte Europea: si ricomincia daccapo, un’altra volta. Ed è vergognoso”. Mascherin (Cnf): “Politica superficiale, rischia di affossare la riforma” Il Dubbio, 13 aprile 2018 Intervista di Lanfranco Palazzolo per Radio Radicale al presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin*. Presidente Mascherin, è preoccupato di quanto accaduto in questi giorni in merito alla riforma dell’ordinamento penitenziario? Questa riforma ha subìto e sta subendo tutte le ricadute negative delle tattiche politiche. Prima perché c’erano le elezioni in avvicinamento, adesso, nella fase di formazione del governo, perché strategie legate alla ricerca del consenso continuano a incidere sull’approvazione. Sono deluso da questo atteggiamento della politica che è assolutamente irresponsabile e superficiale. Non si considera innanzitutto il grande lavoro che è stato compiuto da tanti professori universitari, magistrati, politici, avvocati, sociologi, esperti di carcere: un insieme di professionalità che si sono dedicate a questa riforma non per capriccio ma perché lo impone, e non si limita a suggerirlo, la nostra Costituzione, così come lo impongono le istituzioni europee. Non attuare questa riforma significa andare incontro a nuove sanzioni europee che ogni cittadino dovrà contribuire a pagare. Oltre a ciò potrebbero arrivare condanne morali, perché la situazione del sovraffollamento carcerario in Italia sta peggiorando: siamo a circa 7000 detenuti in più rispetto alla capienza regolare. E ancora, abbiamo un non trascurabile numero di bambini detenuti: questa riforma avrebbe aiutato mamme recluse con figli ad evitare di far crescere i loro piccoli in una cella. Contro tutto questo si muove però la politica... Insensato, perché la riforma è anche uno strumento che favorisce la sicurezza: i dati, non discutibili, del ministero della Giustizia ci segnalano come solamente il 19 per cento di chi è stato ammesso a misure alternative è tornato a delinquere, mentre l’80 per cento di chi non ne ha usufruito è tornato a commettere reati. Poi va ricordato che a mantenere le persone detenute siamo noi, con le nostre tasse. Si tratta inoltre di una riforma che alza per molti aspetti l’asticella, nel senso che personalizza molto il percorso di recupero e rende meno scontata la concessione delle misure alternative: che da un lato sono più efficaci proprio perché ritagliate sul soggetto, dall’altro lato risultano più complesse da ottenere. Le revisioni e le aperture riguardano soprattutto i reati minori: più il reato è grave e più è difficile ottenere la misura alternativa. Purtroppo a molti non è chiaro che recuperare un soggetto significa farlo da punto di vista morale ma anche da un punto di vista economico, perché si tratta di soggetti che da passivi o addirittura dannosi per il nostro sistema diventano attivi e produttivi. Non considerare tutto questo, senza aver letto la norma, è politicamente deludente e da irresponsabili. Non pensino poi che questo sia un veicolo per ottenere chissà quale consenso: una grande componente della cittadinanza, quella che frequenta meno i social, è assolutamente consapevole dell’importanza di questa riforma. Quindi secondo lei l’attuale Parlamento non potrà esimersi dall’affrontare il tema? Questa materia non è neppure destinata ad arrivare in Parlamento, in Aula. Parliamo semplicemente di un passaggio nelle commissioni competenti, che al momento non si sono ancora costituite. La commissione speciale avrebbe dovuto incardinare la riforma e dare un parere, neppure vincolante, entro 10 giorni. Si tratta di una scelta politica non casuale e può aprire la strada al tentativo da parte del nuovo governo di affossare il provvedimento. Se lei dovesse trovare un responsabile per tutti questi ritardi, chi indicherebbe? Il problema è la cultura populista e giustizialista che crea danni difficili da riparare. Secondo lei il Partito democratico è caduto in questa spirale? Durante la campagna elettorale tutti i partiti, chi più e chi meno, hanno cercato di assecondare questo clima, quindi tutti hanno la loro parte di responsabilità. Dopo di che il Partito democratico col proprio ministro Orlando che ha promosso la normativa, e ancora prima gli Stati generali sul carcere, ha cercato di portarla avanti. Ha votato a favore della discussione del decreto in commissione Speciale. Se un errore ha commesso, è stato quello di non avere il coraggio di chiudere il cerchio prima del voto, forse temendo delle ripercussioni elettorali. Essendo però il partito che ha promosso la norma francamente non credo che sia il partito responsabile. Comunque auspico che la riforma venga messa in discussione: non sarebbe un ripensamento penalizzante per la politica ma un segno di lucidità ed equilibrio, e se arriverà, ci sarà sicuramente l’appoggio dell’avvocatura *Trascrizione a cura di Valentina Stella Una seconda chance per i detenuti, cresce la messa alla prova di Maria Rosaria Mandiello Il Denaro, 13 aprile 2018 Tecnicamente si chiama “messa alla prova”, ma prosaicamente viene definita anche “seconda possibilità” o “seconda chance”: è l’istituto giuridico che sospende il procedimento giudiziario in corso per cercare una strada alternativa alla pena che punti alla riabilitazione dell’imputato. Nata inizialmente per i soli minorenni col dpr 488/1988, nell’aprile del 2014 fu esteso anche ai maggiorenni. È come se, di fronte ad un reato, lo Stato proponesse al reo di stringere un patto: la giustizia sospende il procedimento penale, già dalla fase delle indagini preliminari, stabilendo un percorso di recupero in cui l’imputato si impegna a seguire correttamente. Una misura in continua crescita: le richieste di ammissione ad attività socialmente utili sono aumentate del 28% negli ultimi anni: passando dalle 19.187 persone del 2016 alle 23.492 registrate nel 2017. Mentre, la sospensione del processo che consente agli imputati minorenni di svolgere lavori socialmente utili è aumentata del 22%, passando dai 19.554 del 2016 a 23.886 nel 2017. I dati sono stati elaborati dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, registrando un incremento significativo e costante delle richieste di ammissione alla messa alla prova, dimostrando che si sta sviluppando una nuova cultura della pena, che abbatte il rischio di recidiva e i costi del processo. Cinque sono i campi in cui il “messo alla prova” deve svolgere mansioni gratuite: -attività sociali e socio-sanitarie, in associazioni che aiutano a disintossicare da alcool e tossicodipendenze o nell’assistenza ad anziani e disabili; - protezione civile; - patrimonio ambientale; - patrimonio culturale e archivistico; - immobili e servizi pubblici (lavoro in ospedali, case di cura, cura di beni demaniali). Se il soggetto sottoposto alla misura riesce ad arrivare alla fine del percorso concordato ottenendo valutazioni positive da parte della struttura a cui è affidato e dal magistrato di sorveglianza, il processo si conclude senza pena “dimenticando” il reato. Se tutto va come deve andare questo tipo di operazione alla fine crea riscatto personale e sicurezza sociale. Una persona recuperata rende più sicura la comunità intera e sicurezza non è soltanto: lo metto in galera. È anche: lo metto nelle condizioni di non fare più quel che ha fatto. La messa alla prova nasconde un fine volto a riparare il danno, eliminando le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal suo reato, risarcendo il danno causato. La giurisprudenza prevede che per i minorenni l’accesso alla seconda possibilità sia data per qualsiasi reato, mentre per i maggiorenni può accadere soltanto se il reato non prevede una pena più alta di quattro anni. La chance è esclusa, nei casi in cui il giudice definisca il reo un “delinquente abituale” o “delinquente per tendenza”. La ratio della messa alla prova si sposa anche nel contrasto alla recidiva, che supera l’85% nel nostro paese, facendo diventare le prigioni “le università del reato” di cui spesso i sociologi parlano. Per questo la messa alla prova è un istituto intelligente: cercare di allontanare dal reato chi mostra di volersi seriamente ravvedere, diventando la strada più razionale da percorrere. Per far sì che la messa alla prova sia effettiva e funzioni e per evitare che essa sia una vuota declamazione di principio è indispensabile costruire “ponti” tra giurisdizione, uffici di esecuzione penale esterna e soggetti della società civile. In questo contribuito si delinea un possibile percorso che non ignora le criticità che si presentano a chi vuol far funzionare le cose. Un programma di messa alla prova può essere di qualunque genere, con un solo obbligo a chiunque lo segua: rendersi utile alla collettività. Nel caso degli adulti i giudici chiedono una sorta di indagine sulla persona agli assistenti sociali dell’ Uepe, sul tipo di reato commesso, la personalità, la famiglia, la sua rete sociale, tracciando insieme alla stessa persona un piano di recupero e vigila sull’andamento del progetto. Gli esempi di percorsi personalizzati sono infiniti. C’è chi guida in stato di ebrezza e segue sedute per alcolisti anonimi, chi commette piccoli furti ed aiuta gli operatori nelle mense dei poveri, chi è indagato per maltrattamenti e si occupa di disabili. Ci sono inquisiti per reati ambientali che si occupano di servizi comunali come spazzare le strade, pulire i canili, tenere in ordine cimiteri, tenere aperti musei e biblioteche nelle ore serali. È capitato che un giudice abbia chiesto come ulteriore atto di giustizia riparativa che l’indagato scrivesse una lettera di scuse alla vittima o ai suoi familiari. Se può reggerlo psicologicamente, capita che gli si chieda invece di parlare in pubblico, soprattutto nelle scuole, della sua esperienza e del suo disvalore delle sue azioni. Ogni messa alla prova viene monitorata con relazioni periodiche: Il contraltare di un insuccesso non è un successo ma molto di più: è un ragazzino o un adulto che, finito il suo periodo di messa alla prova, decide di trasformare quell’esperienza, quale che sia, nel suo percorso di vita. È così che la messa alla prova diventa la scommessa sulla quale puntare. Cirielli (Fdi): “il Parlamento abolisca il regime delle celle aperte” ottopagine.it, 13 aprile 2018 “Il regime delle celle aperte che consente ai detenuti di vagare per 8 ore al giorno senza alcuna attività rieducativa va abolito”: lo afferma in una nota il Questore della Camera dei Deputati, Edmondo Cirielli, responsabile Giustizia di Fratelli di Italia, esprimendo solidarietà all’ispettrice e all’agente di Polizia penitenziaria aggrediti nel carcere della Dogaia di Prato da un detenuto originario del Togo. “Grazie alla denuncia del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), oggi veniamo a conoscenza dell’ennesimo episodio di violenza che si consuma nelle carceri italiane ai danni della polizia penitenziaria” spiega Cirielli. “Le forze politiche che sono in maggioranza in Parlamento decidano di pensionare le norme volute dal Pd e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Difendere l’incolumità degli agenti sia una priorità mentre continuare su questa strada significa legittimare aggressioni e offese da parte dei detenuti. Noi come Fratelli di Italia non abbiamo alcun dubbio. E dunque chiediamo che, senza perdere più tempo, si proceda alla cancellazione del regime delle celle aperte” - conclude il deputato di Fratelli di Italia. Come risolvere la questione carceri? Con una convenzione con la Caienna di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 aprile 2018 La riforma è ormai quasi naufragata grazie all’opposizione di destra e grillini. Ora un deputato di Fdi propone l’abolizione del regime “celle aperte”. Il deputato Edmondo Cirielli (Fdi) ha chiesto che sia abolito, nelle carceri, il regime “celle aperte”. Anche nelle sezioni a bassa pericolosità. L’idea è che un detenuto... beh, se sta lì una ragione c’è. E dunque deve soffrire. Tanto che m’è venuta un’idea: e se per risolvere il sovraffollamento facessimo una convenzione con la Caienna? L’idea nuova, per sistemare le carceri italiane, potrebbe essere quella di stipulare una convenzione con la Caienna. Sapete cos’è la Caienna? Un incantevole angolo della Guyana francese (tra il Brasile e e il Suriname) nel quale un paio di secoli fa era sistemato un bagno penale dove i detenuti (spediti lì dalla Francia) vivevano in condizioni inumane. E così scontavano davvero la loro pena. Soffrendo, soffrendo, piangendo. La Caienna, a pensarci bene, è stato la concretizzazione vera del concetto che oggi è molto in voga qui da noi: “certezza della pena”. Anche se poi, come si sa, di quando in quando anche dalla Caienna qualche mascalzone riusciva a scappare. Inizia proprio con una fuga da quel carcere uno dei romanzi più famosi di Emile Zola, “il ventre di Parigi”. Ma Zola, si sa, era un garantista sfegatato e un po’ farabutto. Forse era anche un po’ corrotto… Invece Edmondo Cirielli, ex colonnello dei carabinieri, attualmente - da diversi anni - parlamentare della destra e da qualche giorno Questore della Camera dei deputati, sebbene abbia inavvertitamente e contro la sua volontà ritirò la firma - dato il nome a una legge in parte garantista (ma solo in piccola parte) perché riduceva gli anni necessari per la prescrizione, nonostante questo, dicevo, Cirielli garantista sicuramente non è. E così ieri ha rilasciato una dichiarazione molto succinta ma abbastanza chiara: ha chiesto che il governo, o qualcun altro (ragionevolmente il futuro governo, che lui immagina giallo- verde, e magari con dentro anche il suo partito, e cioè Fdi) intervenga per porre fine allo sconcio del regime carcerario “a celle aperte”. A cosa si riferisce? Al fatto che in alcune carceri, nelle sezioni non di alta sicurezza, le celle vengono lasciate aperte per diverse ore e quindi i detenuti, oltre all’ora d’aria in cortile, possono sgranchirsi le gambe in corridoio e incontrarsi con gli altri detenuti. Cirielli pensa che questo sia uno scandalo. Pensa che uno, se va in prigione, deve soffrire molto: più soffre meglio è. E più soffre più da soddisfazione alle persone perbene, che stanno fuori dal carcere perché non hanno commesso delitti e dunque hanno il diritto di essere premiate con il dolore di chi sta in carcere. (Cantava De André: “vagli a spiegare che è primavera... e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera). Si certo, l’ho presa un po’ a ridere questa dichiarazione di Cirielli, perché mi pare una follia, un atto quasi folkloristico. Ma, temo, non dovrei scherzare molto. Cirielli sicuramente non scherza, e siccome so con certezza che Cirielli non è un fesso, è molto probabile che abbia fatto un po’ di conti e immagini di poter disporre di una maggioranza parlamentare favorevole alle sue idee. Nei giorni scorsi la Conferenza dei capigruppo della Camera ha compiuto un atto che mette a repentaglio la riforma del carcere varata dal governo “in zona Cesarini”. E cioè ha deciso che non sarà la Commissione parlamentare speciale (e provvisoria) ad esaminare i decreti delegati emanati dal governo per realizzare la riforma. Ma sarà la commissione Giustizia, quando sarà formata e si riunirà. E questa decisione potrebbe essere la condanna a morte per la riforma, per una ragione di tempi. Ora arriva il carico da 11: l’idea non solo di non approvare la prima riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 (riforma sollecitata dall’Europa) ma addirittura di inasprire le condizioni di vita in prigione, affermando il principio del diritto della società a punire severamente. Non sappiamo ancora niente di come sarà il nuovo governo, di quali saranno i partiti che lo sosterranno, con quali programmi, con quali patti, con quali tempi. Però è evidente il rischio di una svolta reazionaria e forcaiola nella politica italiana. Non che il precedente parlamento fosse particolarmente garantista, questo non lo si può dire: però ascoltando alcuni esponenti dei partiti che hanno vinto le ultime elezioni, l’impressione è che si possa andare ancora molto oltre. Cioè fare coincidere le posizioni della maggioranza con quelle di Travaglio, o di Gratteri, o di Davigo. Sarebbe un disastro per l’Italia. Non credo che sia il caso di stare ad aspettare. Esistono nella società, e nel parlamento - anche in modo trasversale tra i partiti - forze e personalità che credono nello Stato di diritto? Se esistono, a sinistra e a destra, sarebbe bene che non prendessero sottogamba questi primi segnali, che riguardano il carcere. È chiaro che ci sono due Italie. Quella che segue Bergoglio, che un paio di settimane fa è andato a Regina Coeli a lavare i piedi ai detenuti; e quella di Cirielli, che vuole chiudere a chiave le porte delle celle. Il problema è che l’Italia di Cirielli è rumorosa. Quella di Bergoglio infinitamente silenziosa. I 1.600 bimbi soli per colpa dei femminicidi. Convegno del Csm di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 13 aprile 2018 Dal 2000 a oggi sono 1.600 gli orfani di femminicidio. Bambini il cui destino rischia di essere segnato dal trauma. Stando ai dati forniti dal presidente del tribunale dei minori di Bologna Giuseppe Spadaro: un adolescente su tre, tra quelli che commettono reati, ha assistito a scene di violenza in famiglia. E molte ragazze subiranno le stesse violenze dal partner. È un fenomeno allarmante ma ignorato quello emerso al convegno del Csm sulla violenza sulle donne. Basti pensare che dai pediatri al Tribunale dei minori di Bologna sono arrivate zero segnalazioni. Il bambino vede; il 46%, secondo l’università di Bologna, in età prescolare. Assorbe, si identifica. E si fa vittima o carnefice. Che fare? “La sola repressione non basta contro il cancro che corrode le nostre relazioni, il senso di umanità e di giustizia”, dice il vicepresidente Csm, Giovanni Legnini. Una riorganizzazione degli uffici sì. E oggi ne saranno illustrate le linee guida. “Un uomo che uccise la compagna mi raccomandò pene più severe”, dice la neopresidente del Senato Elisabetta Casellati. E chiede: “Non chiamateli assassini per amore: l’amore non c’entra”. Le soluzioni ci sono. Processi rapidi. Fari accesi sulle separazioni: è lì che esplode la violenza e i figli sono spesso usati come armi. Non trattare chi denuncia come “un’isterica”: capitò così a Lucia Annibali. E rendere utilizzabili le querele che le donne, minacciate, ritirano. Ma soprattutto, raccomanda Paola Balducci: “Nessuno sia indifferente”. “Violenza di genere, inutile alzare le pene: si pensi a prevenire” di Errico Novi Il Dubbio, 13 aprile 2018 Il vicepresidente del Csm Legnini: la repressione non basta. Si accusa spesso la giustizia di muoversi su input mediatici. Ma a uno sguardo frettoloso, nel caso della violenza di genere sembrerebbe che al clamore non segua la solerzia dei magistrati. Nella stragrande maggioranza dei Tribunali (l’83%, che diventa 90% nelle sedi minori) non c’è una sezione specializzata. “Non è più rinviabile un rafforzamento dell’impegno nel contrastare questi reati”, dice il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, che ieri mattina ha aperto senza cercare alibi l’incontro di studio promosso dallo stesso Consiglio superiore sulla violenza contro le donne (si prosegue stamattina). È un atto di autocritica severo, quello che arriva dall’organo di governo delle toghe. E certo, forse neppure la magistratura è del tutto assolta da una riserva culturale: è come se alla consapevolezza sul diffondersi del fenomeno non corrisponda un adeguato paradigma cognitivo. Come se le botte, quando non la violenza assassina contro mogli, fidanzate e soprattutto ex, fossero ancora minimizzate nella fisiologia dei rapporti di coppia. Una percezione primordiale: ma è davvero così anche per una categoria culturalmente attrezzata come quella dei giudici? Di certo il problema e la sua soluzione non sono solo nella professionalità dei magistrati. Legnini lo sa, ma evita di impostare il discorso su quella che passerebbe per una scorciatoia: “Cercheremo di indicare le soluzioni organizzative migliori”, dice, e si riferisce alle linee guida che sono anche l’innesco della due giorni del Csm, e che presto saranno approvate dal plenum. Ma poi lo stesso Legnini non può fare a meno di dire: “Molte delle possibilità di difesa sociale contro la piaga della violenza familiare e verso le donne sono legate alla capacità di sostenere i centri anti- violenza e le case rifugio”. Ecco: l’incontro organizzato da Palazzo dei Marescialli (ma ospitato nella sala conferenze della Biblioteca nazionale) rivela finalmente un dato, che forse non vale solo per i delitti di genere: la repressione non basta, aumentare le pene non seve, “non si ceda alla tentazione di risolvere il tutto con il diritto penale e con l’innalzamento delle sanzioni edittali”, dice infine il vicepresidente del Csm. E magari, viste la delicatezza del tema e la condizione delle vittime, stavolta il principio potrebbe passare davvero. Alla luce di questo la due giorni della magistratura è tanto più apprezzabile: ci si assume la responsabilità di migliorare la risposta organizzativa al fenomeno, pur consapevoli che da sola la macchina giudiziaria non basta. Certo si deve partire dalle parole di un’altra voce autorevolissima ascoltata ieri (nel corso dei lavori, oggi dedicati alle linee guida per gli uffici, è intervenuta anche Lucia Annibali, ora deputata, capace di trasformare le lesioni subite in testimonianza coraggiosa), quelle della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati: “Nessun delitto di genere deve essere mai accettato, per nessuna ragione”, dice. E aggiunge: va data “priorità” alla trattazione dei casi di violenza sulle donne, va “garantita una celere definizione: che non si ripetano mai più vicende come quella di Torino, dove la lentezza della giustizia ha fatto sì che, dopo 16 anni, sia scattata la prescrizione per gli aguzzini di una ragazza all’epoca dei fatti minorenne”. Secondo i dati dello studio condotto dal Csm (tra luglio 2016 e giugno 2017) i tempi non sono biblici ma neppure istantanei: le indagini durano in media un anno, i processi si chiudono dopo due anni e mezzo. Servono appunto “corsie preferenziali”, che d’altra parte risultano attivate nel 73% dei Tribunali, ma ancora prima serve prevenzione. E tra i dati più significativi ce n’è uno, segnalato dalla consigliera che forse più di tutti ha animato l’impegno di Palazzo dei Marescialli sul tema, la presidente della sesta commissione Paola Balducci: “È necessaria soprattutto una migliore comunicazione tra gli uffici: non necessariamente i femminicidi sono conseguenza di gelosia, spesso scaturiscono nell’ambito di separazioni conflittuali o difficoltà economiche”. Collegare le informazioni: via semplice e forse per questo sottovalutata. Sarà indicata nelle linee guida a cui lavora il presidente di un’altra commissione, la settima. Suggerire il silenzio non può mai essere infedele patrocinio di Giulia Merlo Il Dubbio, 13 aprile 2018 Anche se lo fa con modalità “anomale”, l’avvocato che suggerisce al proprio assistito di avvalersi della facoltà di non rispondere non commette il reato di infedele patrocinio. A chiudere definitivamente la vicenda che ha portato davanti ai giudici due avvocati di Udine è una sentenza della Corte di Cassazione, che stabilisce nuovamente uno dei principi cardine del diritto di difesa. Vale ribadirlo: anche se lo fa con modalità “anomale”, l’avvocato che suggerisce al proprio assistito di avvalersi della facoltà di non rispondere non commette il reato di infedele patrocinio. A chiudere definitivamente la vicenda che ha portato davanti ai giudici due avvocati di Udine è una sentenza della Corte di Cassazione, che stabilisce nuovamente uno dei principi cardine del diritto alla difesa e rigetta il ricorso della Procura contro la decisione del Tribunale di annullare il provvedimento di autorizzazione alla perquisizione negli studi professionali dei legali. Ripercorrendo i fatti, la vicenda risale al 2017 e vede coinvolti due avvocati: uno difende il marito accusato di maltrattamenti domestici e uno la moglie maltrattata. Sentita a sommarie informazioni, la donna in un primo momento conferma i maltrattamenti, successivamente però ritratta le accuse e, in conseguenza di questo, viene iscritta al registro delle notizie di reato per favoreggiamento personale. Quando poi la donna viene interrogata dal sostituto procuratore, si avvale della facoltà di non rispondere. Fin qui nulla che sia fuori dalla norma di normali vicende penali. Se non che, dalle intercettazioni telefoniche disposte nei confronti del marito, emerge che l’uomo ha contattato la moglie prima dell’interrogatorio e le ha detto che i loro due avvocati si sono incontrati e accordati perché lei non risponda alle domande, come da lei poi effettivamente fatto davanti al magistrato. Sulla base di questa conversazione, il pm indaga entrambi i difensori per infedele patrocinio e dispone la perquisizione dei rispettivi studi con il sequestro di documenti e computer. Il provvedimento del Gip viene poi annullato dal Tribunale di Udine e proprio questa decisione è oggetto di impugnazione in Cassazione. La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha escluso in modo netto che il suggerimento di esercitare la facoltà di non rispondere possa integrare in capo al difensore il reato di infedele patrocinio: “I suggerimenti dati dal patrono all’indagata si riducano ad una sollecitazione a non rispondere alle domande dell’organo dell’accusa, id est a tenere una condotta processuale perfettamente in linea con il diritto di difesa, che vede nell’esercizio della facoltà di non rispondere un’espressione del principio del nemo teneur se detergere, insuscettibile di per sé - in quanto costituente appunto esplicazione dello ius defendendi costituzionalmente garantito dall’art. 24 della Carta Fondamentale - di recare un qualunque danno, economico o processuale, alla patrocinata”. Come ricostruisce la sentenza, infatti, quello di infedele patrocinio è un reato proprio che può essere commesso unicamente dal difensore e dal consulente tecnico, nel caso in cui vengano meno ai loro doveri professionali e danneggino così gli interessi della parte difesa. Il reato, infatti, ha natura pluri-offensiva: da una parte la lesione dell’amministrazione della giustizia che impone il rispetto dei principi di correttezza e lealtà; dall’altra la realizzazione di un evento che provochi danno concreto agli interessi della parte. Tornando al caso di specie, la Corte sottolinea come “il nocumento agli interessi della parte può sostanziarsi in un pregiudizio di natura processuale” ma, ancorché fatto in modo “anomalo”, il suggerimento di avvalersi della facoltà di non rispondere non può arrecare alcun danno perché si tratta di una condotta processuale perfettamente in linea col diritto di difesa e dunque “non realizza un nocumento agli interessi della patrocinata”. Quanto all’anomalia nella comunicazione, la Cassazione si sofferma sul fatto che “il suggerimento non si è tradotto in una contrarietà ai doveri difensivi, e ciò avendo riguardo tanto alle disposizioni che regolano il nostro processo penale, quanto alla deontologia professionale”, sebbene le modalità con le quali è stato svolto il patrocinio siano “censurabili” e le indicazioni siano state “impropriamente veicolate”. La sentenza chiude così una vicenda che ha chiamato contingentemente in causa due professionisti, ma che afferisce in modo diretto alle modalità dell’esercizio del diritto di difesa: ovvero che possa esistere una situazione in cui avvalersi della facoltà di non rispondere possa nuocere al patrocinato e, dunque, che tale suggerimento possa integrare un reato da parte del difensore. Entrambe ipotesi vigorosamente scartate dai giudici. Corte Ue. Per il ricongiungimento familiare vale l’età nel momento dell’ingresso nel Paese Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2018 Un minore non accompagnato che diventa maggiorenne nel corso della procedura di asilo conserva il suo diritto al ricongiungimento familiare. Questa la decisione presa dalla Corte di giustizia Ue con la sentenza nella causa C 550/16 - A e S / Staatssecretaris van Veiligheid. La domanda di ricongiungimento familiare deve tuttavia essere presentata entro un termine ragionevole, in linea di principio tre mesi a decorrere dal giorno in cui al minore interessato è stato riconosciuto lo status di rifugiato. I fatti - Una persona minorenne di nazionalità eritrea, arrivata non accompagnata nei Paesi Bassi, ha presentato una domanda di asilo il 26 febbraio 2014 e il 2 giugno 2014 ha raggiunto la maggiore età. Il 21 ottobre 2014, il Segretario di Stato dei Paesi Bassi le ha concesso un permesso di soggiorno a titolo di asilo valido per cinque anni, a decorrere dalla data di presentazione della domanda di asilo. Il 23 dicembre 2014, un’organizzazione olandese che si occupa dei rifugiati (la Vluchtelingen Werk Midden-Nederland) ha presentato una domanda di permesso di soggiorno temporaneo per i genitori dell’interessata (A e S) nonché per i suoi tre fratelli minorenni, a fini di ricongiungimento familiare con minore non accompagnato. Con decisione del 27 maggio 2015, il Segretario di Stato ha respinto tale domanda con la motivazione che, alla data di presentazione della stessa, la figlia di A e di S era maggiorenne. Protezione umanitaria all’immigrato che fugge per motivi sessuali - A. e S. contestano tale rigetto. Essi ritengono che a essere decisiva al fine di stabilire se una persona possa essere qualificata come “minore non accompagnato” ai sensi della direttiva dell’Unione relativa al ricongiungimento familiare sia la data di ingresso nello Stato membro in questione. Il Segretario di Stato ritiene, invece, che a essere determinante sotto tale profilo sia la data di presentazione della domanda di ricongiungimento familiare. Il rechtbank Den Haag (Tribunale dell’Aia, Paesi Bassi), che deve decidere su tale causa, ha sottoposto una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia. Nella sua sentenza odierna, la Corte qualifica come “minori” i cittadini di Paesi non Ue e gli apolidi che hanno un’età inferiore ai 18 anni al momento del loro ingresso nel territorio di uno Stato membro e della presentazione della loro domanda di asilo in tale Stato, e che, nel corso della procedura di asilo, raggiungono la maggiore età e ottengono in seguito il riconoscimento dello status di rifugiato. La Corte ricorda, a tale proposito, che la direttiva prevede per i rifugiati condizioni più favorevoli per l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare, poiché la loro situazione richiede un’attenzione particolare, in considerazione delle ragioni che hanno costretto queste persone a fuggire dal loro Paese e che impediscono loro di vivere là una normale vita familiare. Più in particolare, i rifugiati minori non accompagnati dispongono di un diritto a un tale ricongiungimento, il quale non è sottoposto a un margine di discrezionalità da parte degli Stati membri. Inoltre, sebbene la direttiva non indichi espressamente fino a quale momento un rifugiato debba essere minore per poter beneficiare del diritto allo specifico ricongiungimento familiare, la Corte constata che la determinazione di tale momento non può essere rimessa alla discrezionalità di ciascuno Stato membro. Per quanto riguarda, più in particolare, la questione di quale sia, in definitiva, il momento con riferimento al quale deve essere valutata l’età di un rifugiato affinché quest’ultimo possa essere considerato minore, potendo così beneficiare del diritto allo specifico ricongiungimento familiare, la Corte analizza il tenore letterale, la struttura e l’obiettivo della direttiva, tenendo conto del contesto normativo nel quale essa si inserisce nonché dei principii generali del diritto dell’Unione. A giudizio della Corte, far dipendere il diritto al ricongiungimento familiare dal momento in cui l’autorità nazionale competente adotta formalmente la decisione con cui si riconosce lo status di rifugiato alla persona interessata e, dunque, dalla maggiore o minore celerità nel trattamento della domanda di protezione internazionale da parte di tale autorità comprometterebbe l’effetto utile del diritto al ricongiungimento. Ciò contrasterebbe non solo con l’obiettivo della direttiva, che è quello di favorire il ricongiungimento familiare e di concedere, a tale riguardo, una protezione particolare ai rifugiati (segnatamente ai minori non accompagnati), ma anche con i principii di parità di trattamento e di certezza del diritto. Una simile interpretazione, infatti, comporterebbe che due rifugiati minori non accompagnati di pari età che presentano nello stesso momento una domanda di protezione internazionale potrebbero essere trattati diversamente a seconda della durata di trattamento di tali domande. Peraltro, una tale interpretazione renderebbe del tutto imprevedibile per un minore non accompagnato che ha presentato una domanda di protezione internazionale la possibilità di beneficiare del diritto al ricongiungimento familiare con i suoi genitori, il che potrebbe pregiudicare la certezza del diritto. Per contro, far riferimento alla data di presentazione della domanda di protezione internazionale consente di garantire un trattamento identico e prevedibile a tutti i richiedenti che si trovano cronologicamente nella stessa situazione, assicurando che il buon esito della domanda di ricongiungimento familiare dipenda principalmente da circostanze imputabili al richiedente e non all’amministrazione (quali la durata di trattamento della domanda di protezione internazionale o della domanda di ricongiungimento familiare). La Corte precisa, nondimeno, che, in una situazione del genere, la domanda di ricongiungimento familiare deve essere presentata entro un termine ragionevole, ossia in linea di principio tre mesi a decorrere dal giorno in cui al minore interessato è stato riconosciuto lo status di rifugiato. La formula d’impegno di Michele Passione (Avvocato) Ristretti Orizzonti, 13 aprile 2018 Gentile Direttore, dopo l’articolo su “il Manifesto” di Lorenzo Guadagnucci (torturato alla Diaz), ho letto la replica del Prefetto Gabrielli che, come lui stesso ricorda, nel 2001 a Genova non c’era. Come spesso accade quando si scrive a un quotidiano, forse il titolo dell’intervento (Una storia da raccontare per intero) non è stato scelto dal suo autore, ma se le parole hanno un senso merita soffermarsi su quanto scritto in proposito. Possiamo tutti rallegrarci del fatto che la Polizia di Stato sia, oggi più di ieri, composta da persone “migliori” di prima, ma se si sceglie di testimoniare “con parole chiare e nette sulle responsabilità di quanto accadde nel corso del G8 di Genova” occorre fare di più, ed idealmente rispettare la formula d’impegno che il codice di rito impone : dire “tutta la verità”, senza “prendere le distanze”, misurandosi con quanto accaduto, anche negli anni successivi alla mattanza. Sta scritto, nelle sentenze della Cedu; la Polizia italiana non ha affatto collaborato per chiarire quel che era accaduto, tanto che le condanne non riguardano solo i terribili episodi di quei giorni di luglio, ma anche i silenzi e le omertà. Il pensionamento di qualche condannato è inconferente rispetto a quanto addebitato dalla Corte dei diritti, e non può certo dirsi che ruoli di vertice assoluto (per grado, non certo per emolumenti percepiti) recentemente conferiti a condannati eccellenti siano un dato neutro; posti di “prestigio e responsabilità” sono stati infatti assegnati a chi ha violato l’art. 54, comma 2 Cost. È vero, a Genova c’era “tutto lo Stato”; tragicamente presente in piazza, alla Diaz e a Bolzaneto, scandalosamente assente in aula, e silente con Strasburgo. Ma una memoria condivisa impone assunzione piena della responsabilità, su tutto quanto occorso. Senza quella, nessuno è Stato. Treviso: tragedia nel carcere di Santa Bona, 40enne si toglie la vita di Nicola Cendron trevisotoday.it, 13 aprile 2018 Gioami Almenari, giostraio, era recluso da circa un mese e soffriva di problemi cardiaci. Era stato protagonista di numerose rapine in banca per cui era stato arrestato dai carabinieri. Tragedia, nella notte tra mercoledì e giovedì, all’interno del carcere di Santa Bona di Treviso. Uno dei detenuti, Gioami Armenari, giostraio di 40 anni, originario di Nervesa ma nativo di San Donà, è stato trovato morto, verso le 3 del mattino, nella sua cella in cui era rinchiuso da circa un mese. In base a quanto riferito dai suoi legali Armenari si sarebbe tolto la vita, soffocandosi con un sacchetto ed una bomboletta di gas. L’uomo, un volto molto noto alle forze dell’ordine per essere stato protagonista di numerose rapine in banche e altri esercizi commerciali della Marca (per cui era stato arrestato più volte dai carabinieri), era recluso in seguito ad un’evasione dagli arresti domiciliari. Purtroppo, nonostante l’intervento dei soccorsi, è stato impossibile salvargli la vita. Il 40enne, da tempo gravemente malato (frequenti i suoi problemi cardiaci) lascia la madre, un fratello e una sorella. Il legale della famiglia, Alberto Di Mauro, ha dichiarato a Trevisotoday: “Non era compatibile la detenzione in carcere per le sue condizioni di salute, come ammesso dalla struttura carceraria: abbiamo chiesto ufficialmente spiegazioni circa quanto è avvenuto”. Il 40enne aveva già in passato tentato il gesto estremo, quando era rinchiuso nel carcere di Padova e, seppur malato, si rifiutava negli ultimi tempi di assumere i farmaci prescritti per la sua cardiopatia. Già firmato il nullaosta per il funerale che dovrebbe svolgersi sabato prossimo. Padova: cento detenuti-lavoratori reclamano il giusto stipendio di Riccardo Sandre Il Mattino di Padova, 13 aprile 2018 Dopo il primo caso di rimborso l’ufficio paghe del carcere. Due Palazzi preso d’assalto dai detenuti-lavoratori che vogliono copia delle buste paghe e una lista di richieste di revisione delle retribuzioni che ha superato le cento unità in poche giorni. Sono questi i risultati del ricorso per decreto ingiuntivo promosso dalla Cgil di Padova su richiesta di un detenuto che per due anni aveva lavorato a rotazione come magazziniere e come addetto alla pulizia dei corridoi del carcere dove risiedeva fino ad un paio di mesi fa. Un ricorso che ha portato ad un decreto ingiuntivo da 3.500 euro che il ministero di Giustizia dovrà pagare al lavoratore. “Secondo l’ordinamento penitenziario, il lavoro come diritto e come premio per una buona condotta, viene retribuito in base a tabelle definite in riferimento al principale contratto nazionale del settore di attività del detenuto e in una misura non inferiore ai due terzi della paga minima”, ha spiegato ieri l’avvocato Marta Capuzzo, dello studio legale Moro di Padova che ha seguito tutte le fasi del procedimento. “Anche se dall’ottobre scorso questi parametri sono stati aggiornati dall’amministrazione penitenziaria incrementando significativamente le retribuzioni, si tratta di saldare un pregresso che per anni è stato ai limiti del dignitoso. Non abbiamo fatto altro che segnalare questa stortura e richiedere per le ore lavorate l’adeguamento della retribuzione a quanto previsto oggi in materia di contratto di lavoro”. E pure in assenza di giornali e mezzi di comunicazione le notizie in carcere corrono veloci, tanto da spingere, in pochi giorni, i detenuti-lavoratori a richiedere in massa copia delle proprie buste paga con l’obiettivo di puntare ad un ricorso analogo al compagno di istituto. Un centinaio di richieste che corrispondono in linea di massima a circa i due terzi dell’intera popolazione carceraria padovana occupata in mansioni interne retribuite. “Abbiamo scelto di patrocinare l’azione del lavoratore detenuto”, hanno chiarito Alessandra Stivali e Roberta Pistorello rispettivamente della segreteria confederale e della Funzione pubblica Cgil di Padova, “per mettere un primo punto fermo su un principio per noi inviolabile, la retribuzione dignitosa per il lavoro, un principio che va oltre i confini del carcere. Da anni seguiamo e contribuiamo a incentivare il lavoro come strumento educativo e di affrancamento da un percorso criminale ma per farlo fino in fondo abbiamo il compito di tenere gli occhi aperti su quei fenomeni di sfruttamento che sono tanto più deleteri quando colpiscono chi si affaccia alla legalità per cambiare vita”. Firenze: “il carcere di Sollicciano non è ristrutturabile, meglio chiuderlo” firenzetoday.it, 13 aprile 2018 L’appello dei Radicali dopo la visita al carcere. “Rafforzare attenzione sanitaria”. Il carcere di Sollicciano non è ristrutturabile. E così “è meglio chiuderlo”. Lo dicono Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze e Sandra Gesualdi della fondazione Don Milani, che hanno fatto parte della delegazione che ha visitato ieri il carcere di Sollicciano. “Purtroppo, uscendo dall’istituto - hanno sottolineato in una nota - la percezione che resta addosso è che l’attenzione verso il carcere sia invece solo quella tutta intenta a mantenerlo com’è”. “Visitare un carcere è sempre difficile - hanno aggiunto - si può migliorare qualcosa, certo, rattoppare un muro, riportare una doccia comune a normale condizioni igieniche, tinteggiare i corridoi, togliere le colate di guano di piccione dagli spazi comuni, attivare finalmente la seconda cucina, ma è certo che in pochi mesi i già diluiti investimenti si scioglierebbero di nuovo nell’ordinario degrado”. “Il carcere di Sollicciano è un istituto atipico - hanno proseguito - non vi è omogeneità di tipologia di detenuti, il 70% dei quali è straniero, la periferia in cui è immerso un tempo era palude e tuttora è zona classificata a rischio idrogeologico. Alcune sezioni sono infestate da cimici e piccioni, i materassi sono sporchi e malsani, l’area trattamentale sottodimensionata (sette educatori per una popolazione carceraria di circa settecento cinquanta detenuti), costantemente sovraffollato in alcuni reparti”. Questioni note ma mai risolte: “Non è la prima volta che delegazioni radicali, insieme a rappresentati del mondo delle associazioni fiorentino, visitano quell’istituto - ricordano Lensi e Gesualdi - nessuna azienda continuerebbe a investire su una struttura così degradata, preferendo investire sul nuovo piuttosto che sull’incertezza del risanamento impossibile”. Per questo “la Regione Toscana dovrebbe rafforzare l’attenzione sanitaria, modificando concettualmente il rapporto tra operatori sanitari e popolazione detenuta”. “Il Comune di Firenze dovrebbe invece capire che un carcere è parte integrante della città, al pari di un ospedale o un plesso scolastico, e non un luogo dell’immaginario negativo. Il garante comunale potrebbe interpretare il suo ruolo di collegamento con l’esterno e la cittadinanza con una vivacità diversa da quella attuale e il Sindaco rispettare gli impegni presi durante un recente Consiglio comunale che si è svolto dentro l’istituto penitenziario”, concludono. Il comunicato stampa dei Radicali Visitare un carcere è sempre difficile e, quando l’istituto in questione è un elefantiaco edificio, o meglio un complesso di edifici, in cemento armato, consumato dal tempo e corroso da vistose infiltrazioni di umidità, tentare di capire da dove sia possibile iniziare opere di manutenzione è un’impresa che rasenta l’impossibile. Abbiamo fatto parte della delegazione del Partito Radicale che ha visitato il carcere fiorentino di Sollicciano, insieme a Rita Bernardini, Tommaso Grassi e Donella Verdi, due consiglieri comunali del gruppo Firenze riparte a Sinistra, e altri militanti radicali. Il giudizio unanime di tutta la delegazione è che quel carcere non sia ristrutturabile. Si può migliorare qualcosa, certo, rattoppare un muro, riportare una doccia comune a normale condizioni igieniche, tinteggiare i corridoi, togliere le colate di guano di piccione dagli spazi comuni, attivare finalmente la seconda cucina, ma è certo che in pochi mesi i già diluiti investimenti si scioglierebbero di nuovo nell’ordinario degrado. Il carcere di Sollicciano è un istituto atipico. Non vi è omogeneità di tipologia di detenuti, il 70% dei quali è straniero, la periferia in cui è immerso un tempo era palude e tuttora è zona classificata a rischio idrogeologico. Alcune sezioni sono infestate da cimici e piccioni, i materassi sono sporchi e malsani, l’area trattamentale sottodimensionata (sette educatori per una popolazione carceraria di circa settecento cinquanta detenuti), costantemente sovraffollato in alcuni reparti. Non è la prima volta che delegazioni radicali, insieme a rappresentati del mondo delle associazioni fiorentino, visitano quell’istituto; sono circa dieci anni, infatti, che con costante periodicità varchiamo la soglia del carcere di via Minervini, e abbiamo potuto constatare più volte come sia impossibile organizzare un credibile cronoprogramma di azioni e interventi urgenti, nonostante la buona volontà sempre manifestata da chi in quel carcere ci lavora. Insomma, meglio chiuderlo, o almeno dismettere la sezione del giudiziario, la più malmessa, modificando la divisione degli spazi. L’esecuzione di pena è difficile alle condizioni riscontrate, i percorsi rieducativi incerti, la risocializzazione un’utopia. Nessuna azienda continuerebbe a investire su una struttura così degradata, preferendo investire sul nuovo piuttosto che sull’incertezza del risanamento impossibile. Un’altra visibile pecca è nei rapporti con le istituzioni. La Regione Toscana dovrebbe rafforzare l’attenzione sanitaria, modificando concettualmente il rapporto tra operatori sanitari e popolazione detenuta. È inutile che l’Agenzia Regionale Sanitaria produca ogni due anni un rapporto sullo stato di salute dei detenuti in regione se poi non si pratica una politica attenta alla prevenzione. Il Comune di Firenze dovrebbe invece capire che un carcere è parte integrante della città, al pari di un ospedale o un plesso scolastico, e non un luogo dell’immaginario negativo. Il garante comunale potrebbe interpretare il suo ruolo di collegamento con l’esterno e la cittadinanza con una vivacità diversa da quella attuale e il Sindaco rispettare gli impegni presi durante un recente Consiglio comunale che si è svolto dentro l’istituto penitenziario. Purtroppo, uscendo dall’istituto la percezione che resta addosso è che l’attenzione verso il carcere di Sollicciano sia invece solo quella tutta intenta a mantenerlo com’è: un luogo dell’infinita conservazione del degrado e delle vane progettualità, un posto fisico della dimenticanza delle dignità delle persone in sintonia con la richiesta politica di “più carcere” in voga da molti anni. Insomma, Sollicciano così è meglio chiuderlo. Massimo Lensi, associazione Progetto Firenze Sandra Gesualdi, Fondazione Don Lorenzo Milani Trani (Bat): dal carcere ai giardini, nuovo progetto formativo per dieci detenuti traniviva.it, 13 aprile 2018 È partito la scorsa settimana il corso di formazione “Operatore per la realizzazione e la manutenzione dei giardini”, realizzato da Irsea, l’istituto di ricerca e formazione di Bisceglie, in collaborazione con la Comunità Oasi2 San Francesco Onlus, destinato a 10 detenuti della casa circondariale di Trani. Il percorso, della durata complessiva di 900 ore, nasce con l’intento di offrire ai detenuti una serie di competenze professionali, dalla potatura alla manutenzione del verde pubblico, spendibili nel mondo del lavoro dopo la permanenza in carcere. Le attività sono finanziate dalla Regione Puglia e dal Ministero della Giustizia. Insieme alla Comunità Oasi2, saranno coinvolti nel progetto partner pubblici e privati: l’ufficio di Piano dell’ambito Trani-Bisceglie e Barletta, il Patto territoriale per l’occupazione nord-barese ofantino, le associazioni Cittadinanza Attiva e Nova e l’azienda Floralia. Insieme concorreranno alla definizione di un percorso che comprende attività pratiche e laboratoriali, di orientamento, accompagnamento e reinserimento lavorativo in percorsi di legalità. Gli operatori di Oasi2 si occuperanno, in particolare, di tutoraggio, orientamento e accompagnamento, ma anche sostegno psicologico, in continuità con quanto già realizzato nel centro sociale e rieducativo per persone sottoposte a misure alternative al carcere, gestito proprio da Oasi2 per conto dell’ufficio di Piano Trani-Bisceglie. Palermo: al Pagliarelli farmaci gratuiti ai detenuti poveri La Repubblica, 13 aprile 2018 Il progetto, curato dalle suore teatine di Villa Nave, varca per la prima volta i cancelli di un penitenziario. Una farmacia solidale all’interno del carcere di Palermo che distribuirà i farmaci gratuitamente ai detenuti in difficoltà economiche. La convenzione sarà siglata domani a mezzogiorno, presso l’istituto Villa Nave di Palermo, tra i vertici dell’istituto e la direzione del carcere Antonio Lorusso (ex Pagliarelli). Il progetto, curato dalle suore teatine di Villa Nave, varca per la prima volta i cancelli di un penitenziario. L’iniziativa di solidarietà, che vede protagonisti i vertici del Pagliarelli e l’Istituto Villa Nave, nasce dalle criticità emerse durante la visita nelle carceri di Palermo del sottosegretario alla Salute Davide Faraone, in occasione dello sciopero della fame dei detenuti organizzato dal Partito Radicale, dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino” e da “Opera Radicale”, lo scorso 23 marzo. Durante la visita al Pagliarelli, Faraone aveva registrato numerose criticità in ambito sanitario ed in particolare la difficolta da parte del carcere di reperire farmaci, anche quelli di prima necessità per i detenuti. “È un piccolo grande passo in avanti - sottolinea Faraone - per quanto riguarda il diritto-dovere di cure ai detenuti e ringrazio l’Istituto Villa Nave e la direzione del Pagliarelli. Spero che questo progetto si estenda anche nelle altre strutture penitenziarie così da risolvere un cortocircuito con le aziende sanitarie e con gli assessorati alla Salute che determina spesso la difficoltà a reperire farmaci generici ma anche quelli salvavita”. Roma: convenzione per detenuti che studiano giurisprudenza all’Università Lateranense farodiroma.it, 13 aprile 2018 “Agevolare il conseguimento di un titolo accademico da parte dei detenuti, attraverso attività di tutoraggio, e dando loro la possibilità di acquisire le competenze necessarie per ottenere la laurea magistrale in Giurisprudenza” alla Pontificia Università Lateranense, ovvero dall’Università del Papa. È lo scopo della convenzione - che riguarda i detenuti negli Istituti Penitenziari del Lazio - sottoscritta oggi tra il Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise e la Pontificia Università Lateranense o. A firmarla sono stati il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Cinzia Calandrino, e il rettore magnifico della Lateranense, mons. Enrico dal Covolo. Commentando l’accordo, il vescovo ha ricordato che questo “acquista un rilievo speciale nel contesto di una cultura e di una pastorale rinnovate dal Giubileo straordinario della Misericordia e dal magistero di Papa Francesco. L’Università della diocesi di Roma vuole dare così un segnale forte di prossimità ai meno fortunati di questa società”. “Cosi - si legge in una nota - anche in linea con l’art. 17 dell’Ordinamento penitenziario, che prevede la partecipazione delle istituzioni esterne all’azione rieducativa dei condannati, la Pontificia Università Lateranense favorirà l’interazione tra i suoi docenti e gli studenti detenuti negli istituti penitenziari organizzando apposite attività formative e di tutoraggio”. Anche gli studenti dell’Ateneo della diocesi di Roma potranno svolgere tirocini presso strutture indicate dall’Amministrazione penitenziaria che, da parte sua, si impegna a fornire gli spazi didattici necessari per lo svolgimento delle attività accademiche. Previsti, inoltre, momenti di attività formativa e di aggiornamento che coinvolgeranno dirigenti penitenziari, funzionari dell’area educativa e personale di polizia penitenziaria. “Con il concorso delle parti impegnate - conclude la nota - nel progetto potranno essere attivate borse di studio e di ricerca per i detenuti e, inoltre, la Pontificia Università Lateranense cercherà di adottare provvedimenti destinati a esonerare gli studenti detenuti dal pagamento di tasse e contributi universitari”. Roma: presentazione del XIV Rapporto di Antigone: Un anno in carcere Comunicato stampa, 13 aprile 2018 Il prossimo 19 aprile alle ore 10.30, presso il Cesv (via Liberiana 17, Roma), si terrà la presentazione di “Un anno in carcere”, XIV Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione. Il rapporto prenderà in esame numeri e dati sulle carceri. Verrà illustrata la situazione del sovraffollamento e in quali istituti la condizione è più critica. Inoltre verrà offerto il quadro sulla composizione della popolazione carceraria: quali sono i reati per i quali si finisce in galera, i regimi nei quali si è detenuti, la provenienza geografica. Un focus particolare verrà offerto sul tema dei detenuti radicalizzati e dei progetti di deradicalizzazione in atto, nonché sui detenuti stranieri. Saranno inoltre illustrate alcune storie relative ad eventi critici accaduti all’interno delle carceri. Nel raccontare la situazione degli istituti penitenziari verranno inoltre mostrati anche dei video realizzati dagli osservatori di Antigone all’interno di alcuni di essi. La conferenza stampa sarà inoltre occasione per fare il punto sul percorso legislativo di riforma dell’ordinamento. Alla conferenza stampa interverranno, oltre ai responsabili dell’associazione, anche Santi Consolo (Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) e Mauro Palma (Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale). È stato invitato anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Andrea Oleandri Ufficio Stampa Associazione Antigone Augusta (Sr): “Giustizia e informazione e la Giustizia capovolta”, seminario Ucsi cronacaoggiquotidiano.it, 13 aprile 2018 “Giustizia e informazione e la Giustizia capovolta”, è il tema del corso per la formazione professionale continua per i giornalisti che si svolgerà, sabato 14 aprile, dalle 10,30 alle 13.30, nella sala conferenze della Casa di Reclusione di Augusta. Il seminario che si svolgerà per la seconda volta in Sicilia all’interno di una struttura penitenziaria, promosso dall’Ucsi di Siracusa in collaborazione con l’Ucsi Sicilia, l’Assostampa di Siracusa e con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia è approvato dall’Ordine dei Giornalisti di Sicilia e dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti. Il corso sarà aperto con i saluti del presidente regionale dell’Ucsi Sicilia Domenico Interdonato, del segretario regionale dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia Santo Gallo e del consigliere nazionale Ucsi Gaetano Rizzo. Relatori del corso il gesuita padre Francesco Occhetta SJ, giornalista, giurista, vice direttore di “La Civiltà Cattolica” e Consulente Ecclesiastico Ucsi (Unione Cattolica della Stampa Italiana), don Paolo Buttiglieri, giornalista e Consulente ecclesiastico dell’Ucsi Sicilia, don Giuseppe Lombardo, giornalista, Consulente ecclesiastico dell’Ucsi di Siracusa e direttore del settimanale “Cammino”, dott. Antonio Gelardi, direttore della Casa di Reclusione di Augusta. Modererà il seminario il consigliere nazionale Ucsi e presidente dell’Ucsi Siracusa Salvatore Di Salvo. Gli argomenti trattati nel corso del seminario saranno: La giustizia è l’informazione, la deontologia del cronista”, la situazione delle carceri, il percorso di riconversione. “La Giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione” ovvero una giustizia che cambia volto, si capovolge perché “reinserisce”. Il Consulente nazionale dell’Ucsi padre Francesco Occhetta, s.i e il consigliere nazionale dell’Ucsi Salvatore Di Salvo incontreranno i detenuti comuni delle varie sezioni. Accoglieranno il gesuita e il rappresentante dell’Ucsi, il Direttore del Casa di Reclusione dott. Antonio Gelardi, il comandante della Polizia Penitenziaria, il vice Comandante, la responsabile dell’area educativa e il cappellano del carcere don Francesco Antonio Trapani. Padre Occhetta e Salvatore Di Salvo ascolteranno alcuni brani del libro letti dai ristretti con dibattito sul tema del “reinserimento”. Venerdì 13, alle 19,15, a Lentini, nella sala conferenze del Circolo di “Alaimo”, in piazza Duomo, il Rotary club di Lentini e la sezione Ucsi Siracusa hanno organizzato la presentazione del libro “La Giustizia Capovolta. Dal dolore alla riconciliazione”. All’incontro, aperto al pubblico e alla città, interverrà per gli indirizzi di saluto il presidente del Rotary club di Lentini dott. Giacomo Cannizzo. Ad introdurre e coordinare gli interventi sarà il giornalista Luca Marino, presidente della Cooperativa “Cammino” e tesoriere regionale dell’Ucsi Sicilia. IL LIBRO - Il libro di Francesco Occhetta “La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione” affronta la questione con un doppio respiro: nella prima parte l’Autore illustra il fondamento giuridico e biblico della giustizia riparativa, descrive lo stato di salute delle carceri in Italia, riporta esperienze di riconciliazione; nella seconda parte sono raccolti dialoghi sulla giustizia con Francesco Cananzi, membro del Csm; Daniela Marcone, vicepresidente di Libera; Guido Chiaretti, presidente dell’associazione di volontariato carcerario Sesta Opera San Fedele; don Virgilio Balducchi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane. Scrive nella prefazione don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera: “La giustizia riparativa è, prima di un sistema giuridico, un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia retributiva, incentrata sul rapporto tra il reato e la pena, e della giustizia riabilitativa, più attenta al recupero del detenuto”. E, nella postfazione, Gian Maria Flick, già Ministro di Grazia e Giustizia (1996-1998) e Presidente della Corte Costituzionale (2008-2209): “È una tendenza che va al di là del dovere di giustizia e di solidarietà di ricordare la vittima; di rispettarla e considerarla; di ascoltarla e aiutarla essendole vicini; di consentirle una rappresentanza adeguata. Non bastano le leggi di riforma. Occorrono prima di tutto società e cultura”. Francesco Occhetta, gesuita, fa parte della redazione della rivista La Civiltà Cattolica. Dopo la laurea in giurisprudenza, ha conseguito la licenza in teologia morale a Madrid e il dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma. È specializzato in diritti umani all’Università degli Studi di Padova. Ha completato la sua formazione a Santiago del Cile. Tra le sue pubblicazioni: Le radici della democrazia. I princìpi della Costituzione nel dibattito tra gesuiti e costituenti cattolici (2012); Le tre soglie del giornalismo: servizio pubblico, deontologia, professione (2015). È autore del blog L’umano nella città. Trapani: “Il valore della libertà”, gli studenti incontrano i detenuti lasberla.com, 13 aprile 2018 Un centinaio di studenti degli Istituti superiori di Trapani (Magistrale Rosina Salvo, Tecnico Industriale Leonardo Da Vinci, Tecnico commerciale Salvatore Calvino) hanno incontrato, presso la sala teatro del Carcere di Trapani, una delegazione di detenuti. L’incontro è stato organizzato dall’associazione Co.tu.le.vi. Tra i reclusi, anche due scafisti, che hanno raccontato le loro storie non necessariamente legate alla natura del reato, ma storie di vita vissuta, che hanno destato commozione tra i ragazzi presenti. L’incontro è stato aperto dal Magistrato di Sorveglianza di Trapani Lucia Fontana e dal Direttore dell’Istituto penitenziario Renato Persico. Sono poi intervenuti nel dibattito sul tema dell’incontro: “Il valore della vita e della libertà” il Commissario Capo della Polizia Penitenziaria Rosanna Cocuzza, l’educatrice Cinzia Puccia, il cappellano del San Giuliano don Francesco Pirrera. Aurora Ranno ha moderato l’incontro, mentre la psicologa e psicoterapeuta Silvia Scuderi ha fornito spunti di riflessione “sulla possibilità e importanza della relazione umana, della necessità di guardare ad ogni persona come essere umano portatore di bisogni emotivi e affettivi indipendentemente da errori fatti o pene da pagare”. Alghero: Paolo Bellotti racconta la realtà carceraria “vista da dentro” La Nuova Sardegna, 13 aprile 2018 Una testimonianza autentica, sincera e documentata, a opera di chi conosce la realtà carceraria, la vive quotidianamente e ora la racconta in un libro in cui i carcerati sono restituiti alla loro dignità di persone, costringendo tutti ad andare oltre ogni facile giustizialismo e a riflettere sul dramma della libertà e della condizione umana davanti all’eterna e quotidiana scelta tra bene e male. Gli appuntamenti primaverili della libreria “Il labirinto - Mondadori Bookstore” proseguono con Paolo Bellotti. L’attuale educatore del carcere di Alghero, 58 anni, di Alessandria, è l’autore di “Visti da dentro”, edito per la prima volta da Itaca nel 2015, al quale è dedicato l’incontro in programma oggi alle 16 nella sala conferenze del chiostro di San Francesco. Il suo libro parla di un vecchio contadino fratricida, uno straniero che ha ucciso per gelosia, un agente segreto e un camorrista: protagonisti delle quattro storie raccolte dentro le mura del carcere di Alessandria. L’incontro di oggi, riconosciuto dal Consiglio dell’Ordine forense di Sassari con due crediti formativi in materia penale per gli avvocati, è organizzato dal “Labirinto con l’associazione culturale “Alghenegra” e la Fondazione Alghero Meta. Con Bellotti intervengono Riccardo Devito, magistrato di sorveglianza, e Maria Teresa Pintus, referente dell’Osservatorio carceri della camera penale di Sassari. Modera Elias Vacca, algherese, avvocato ed ex parlamentare. Bollate (Mi): domenica 22 aprile, presso la C.R., si terrà il “Mercatino di primavera” Ristretti Orizzonti, 13 aprile 2018 Il progetto è nato dall’idea di un gruppo di 32 ospiti della Casa di Reclusione i quali, possedendo attitudini artistiche ed esperienza pregressa nella realizzazione di manufatti, hanno pensato di mettere a disposizione il proprio tempo per un’iniziativa che potesse unire la sinergia di più persone in favore di un obiettivo comune. Nell’ottica di un percorso carcerario che possa portare ad un completo recupero sociale, si è quindi pensato di lavorare assieme per realizzare oggetti originali da mettere in vendita e così recuperare fondi da devolvere in beneficenza seguendo il semplice concetto “in passato ho recato un danno alla società, ora mi impegno per portare un beneficio”. Si sono così costituiti i primi gruppi di lavoro e, con il tempo, si sono aggiunti altri partecipanti, con diverse capacità e nuove idee. Sono stati realizzati manufatti con diversi materiali: sapone, pasta di sale, cartone e legno di recupero, oltre a vetro, carta crespa… mettendo in atto tecniche di lavorazione finora mai utilizzate in ambiente carcerario. Le caratteristiche comuni a tutti gli oggetti creati per il mercatino si riassumono in tre parole: arte, originalità, storia. Ogni articolo in vendita ha infatti una sua storia e sarà presentato al pubblico direttamente da chi l’ha concepito e realizzato, è unico e originale, diverso da ogni altro e possiede un suo contenuto artistico, uno specifico significato che si accorda con lo spirito globale dell’iniziativa. In più esiste un valore aggiunto, che sarà cura dei detenuti trasmettere ai visitatori: per la realizzazione di un così grande numero di oggetti è stato necessario costituire un gruppo di lavoro affiatato e organizzato, al cui interno è stato riservato lo spazio per la crescita della responsabilizzazione individuale. Non sono mancati momenti di sconforto e di difficoltà, anche considerato il contesto, ma l’obiettivo ha spronato i ragazzi a superare tutto e a continuare a lavorare per l’organizzazione dell’evento. Un passo ulteriore sarà effettuato il giorno del mercatino, quando si realizzerà un canale tra interno ed esterno, un confronto volto ad agevolare il reinserimento sociale della popolazione detenuta, un importante principio a cui è volto l’ordinamento penitenziario. In altre parole, il fatto di potere realizzare attività di rilievo sociale, per chi ancora non può prestare volontariato all’esterno, rappresenta un primo passo, dall’impronta fortemente educativa, sul cammino della reintegrazione armonica nella società. Domenica 22 aprile i visitatori saranno ammessi all’interno del carcere per apprezzare i lavori esposti, attraverso un corridoio di percorsi di vita intrecciati tra di loro per una comune finalità: la giornata ha infatti l’obiettivo di contribuire alla sensibilizzazione sulla violenza di genere L’evento, coordinato dall’educatrice dott.ssa Simona Gallo, si svolgerà in collaborazione con l’Associazione “Incontri e presenze”, sotto la supervisione dell’Istituto carcerario di Bollate. Sarà un’occasione per condividere le emozioni derivanti dalla musica, dalla pittura e dagli oggetti d’arte manuale. Il ricavato dalla vendita dei manufatti verrà interamente devoluto alla Fondazione “Doppia difesa”. Per partecipare è necessario iscriversi sul sito carceredibollate.it. “Le istituzioni dell’agonia”. Quei silenzi assordanti dei luoghi di punizione senza ritorno di Marco Cinque Il Manifesto, 13 aprile 2018 Nel volumetto di Nicola Valentino, “Le istituzioni dell’agonia” (Sensibili alle foglie, pp. 88, euro 12), l’ergastolo e la pena di morte vengono interfacciati in modo da mostrare le reciproche agonie, le similitudini e le differenze che plasmano i loro volti corrotti, mettendo in rilievo le ombre che abitano il silenzio di quei luoghi di “punizione senza ritorno”. Per rendere accettabili queste due espressioni punitive si lavora sull’immaginario collettivo fino a renderlo complice e persino compartecipe del processo di cancellazione fisica e sociale di coloro che vengono sistematicamente disumanizzati e trasformati in rifiuti non riciclabili delle società: i mostri vanno dunque eliminati materialmente con la “morte di Stato”. Nel suo libro Valentino denuncia il macabro primato dell’Italia nel contesto europeo, con 1677 persone condannate all’ergastolo. Parafrasando le parole del condannato a morte Ray “Running Bear” Allen: “la giustizia è direttamente proporzionata al tuo conto in banca e al colore della tua pelle”, risulta talmente vera questa equazione che basta guardare i dati statistici più recenti e ci si accorge che l’Italia, oltre ad essere prima in Europa per quantità di detenuti, ha pure il triste primato per il numero di poveri. È evidente e consequenziale lo stretto rapporto tra giustizia sociale e giustizia penale: tanti più poveri avremo, quanto più le carceri saranno piene. Paradossalmente c’è una grande similitudine tra quel che pensa il cittadino americano medio della pena di morte e quel che pensa il cittadino italiano medio dell’ergastolo: per le rispettive comunità queste due istituzioni penali sono assolutamente intoccabili, tabù culturali quasi impossibili da mettere in discussione. Qualche anno addietro un governatore statunitense affermava persino che “l’umiliazione deve far parte della pena”, ma questa arcaica convinzione è poi così lontana dal sentire comune? È proprio sul comune sentire che bisogna lavorare e il libro di Valentino si connota in questa direzione, trasformando i propri progetti editoriali in occasione di incontro e relazione nel vivo del tessuto sociale. Il prossimo 2 novembre (giorno dei morti), Sensibili alle foglie si farà promotrice di una giornata dedicata a questi temi, coinvolgendo attivamente anche artisti e musicisti. Il lavoro di Valentino è una sorta di viaggio tra una pena e l’altra, tra l’incudine della pena capitale e il martello del “fine pena mai”, un lavoro che sonda anche i linguaggi e le terminologie, i regolamenti e i protocolli, fino a entrare nelle vite e nei sogni delle matricole umane con acclusa la data di scadenza. Le Istituzioni dell’agonia sono un coro di urla silenziose dai bracci della morte di San Quentin, Huntsville, Walla Walla, a cui fanno eco quelle degli ergastolani, da una sponda all’altra dell’oceano e dell’umana ragione. Come ricorda emblematicamente l’autore del volume, “nel 2017, in Italia, 113 ergastolani si sono fatti promotori di una legge di iniziativa popolare per ottenere il diritto a una morte assistita, con lo scopo di anticipare l’epilogo previsto da una condanna che è fino a morte del reo”. Forse sarà impossibile dire quale delle due pene sia peggiore per una società che possa davvero ritenersi civile ma, di certo, lo stesso livello di civiltà non potrà mai migliorare se non si arriverà a cancellare dai sistemi penali - e persino dai vocabolari - ambedue le forme punitive. Un ruolo di pace per l’Italia, il paese da cui parla il Papa pacifista di Piero Bevilacqua Il Manifesto, 13 aprile 2018 Spendiamo oltre 50 milioni al giorno per missioni militari. Nel paese-portaerei del Mediterraneo dovremmo giocare un ruolo di pace. La voce del mondo cattolico democratico parla con le parole di papa Francesco. La sinistra dovrebbe unire le forze contro l’escalation delle missioni di guerra. La disfatta elettorale subita dalla sinistra il 4 marzo può avere una sua qualche utilità nella periodizzazione storica della vita politica italiana e nella chiarezza comunicativa. Con il responso delle urne si chiude un’esperienza, quella del centro-sinistra, con un bilancio di incontestabile verità: essa ha provato, con la verifica dei fatti, il fallimento di una strategia politica, che chiude il suo bilancio con la distruzione della sinistra riformatrice italiana. Ciò che è rimasto e rimane programmaticamente all’esterno di quel campo, forze radicali di opposizione, caratterizzate da vari percorsi e indirizzi sono definibili sinistra. Forze frantumate e disperse certamente, ma queste forze, che non cercano alcun centro con cui “moderarsi”, sono oggi, realisticamente, la sinistra in Italia. Assistiamo in queste ore a una ennesima riprova del fallimento di quella esperienza politica. Mentre continua la guerra infinita in Medio Oriente, con episodi che ci sconvolgono quotidianamente, noi siamo ancora dentro la Nato e le nostre basi militari sono a disposizione delle forze aree americane per colpire città e territori nel bacino del Mediterraneo. Non voglio rievocare episodi che hanno segnato una svolta nella storia delle relazioni internazionali dell’Italia repubblicana, come il bombardamento della Serbia. E neppure rammentare più di tanto la decisione del secondo governo Prodi di concedere il raddoppio della base americana di Vicenza all’amministrazione Bush. L’amministrazione che aveva appena invaso uno stato sovrano, aprendo una pagina di conflitti fra i più sanguinosi della storia mondiale recente. Parliamo dell’oggi. A che serve la Nato, ora che da tempo non esiste il Patto di Varsavia, la “cortina di ferro” è crollata, il comunismo è dissolto? Non Gli Usa hanno drammatico bisogno di un nemico, per tenere unito il paese, dare consenso ai gruppi dirigenti, in una fase in cui la sua supremazia economica volge al declino. E in parte ci sono riusciti, circondando la Russia di basi missilistiche e offrendo a Putin ragioni schiaccianti di affermazione in un Paese allarmato e chiamato a difendersi. Ma la Nato serve agli Usa per due altre ragioni: vendere e utilizzare gli armamenti dell’industria militare e al tempo stesso, anche montando lo spauracchio dell’”orso russo”, tenere agganciata e dipendente l’Europa. L’interesse dell’Italia in questa alleanza, dominata oggi da un uomo come Trump, sono gli oltre 50 milioni al giorno sottratti al bilancio delle stato per spedizioni in paesi lontani; sono le basi militari ex-lege, sparsi nel nostro paese, di cui il cittadino non sa nulla? Sono le servitù imposte a tante splendide coste della nostra Sardegna, penalizzate nelle proprie economie e vocazioni. Servitù che tengono lontane le popolazioni dai propri territori, chiuse a ogni controllo democratico, portatrici di contaminazioni di terre e acque e di malattie mortali. Non possiamo aspettarci iniziative di autonomia e indipendenza da parte dei governanti europei. Occorrerebbero degli statisti e noi abbiamo oggi a Bruxelles solo feroci contabili, incapaci di una parola di sdegno per i tanti morti innocenti. D’altra parte non c’è davvero di che stupirsi. Il vangelo dominante dice che a governare devono essere i mercati, e lo Stato deve limitarsi a servirli. Come si può pretendere che esso cerchi di governare i conflitti, avendo di mira la pace tra i popoli? L’Europa no, ma l’Italia, si. L’Italia potrebbe, almeno per due ragioni. Nel linguaggio geopolitico-militare siamo una portaerei nel Mediterraneo, abbiamo una posizione che offre poteri contrattuali straordinari con gli altri partners. L’Italia può giocare un ruolo di pace e anche di sviluppo economico dei paesi del fronte Sud di vasta portata strategica. Può riacquistare la centralità posseduta nei secoli d’oro del suo primato economico mediterraneo. E potrebbe trattare con ben altra forza con i governi nordeuropei. Ma deve porsi fuori dai giochi delle potenze imperiali. E, infine, a proposito di vangelo, ha un’altra carta. Siede in Roma Francesco, il papa dell’evo moderno, coraggioso fautore della pace nel mondo. Che cosa aspetta la sinistra frantumata e dispersa, ma sempre viva di idee e passioni, di ricercare un’alleanza fondativa con le forze democratiche del mondo cattolico, con i tanti giovani che affollano le adunanze del Papa in ogni angolo d’Italia e del mondo? Pena di morte nel 2017: condanne ed esecuzioni in calo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 aprile 2018 Meno di 1.000 esecuzioni (esattamente 993) in 23 stati, ben il 39 per cento in meno rispetto al 2015, e 2591 condanne a morte in 53 stati, rispetto alle 3.117 del 2016. La mappa e i dati sulla pena di morte nel 2017, diffusi oggi da Amnesty International, inducono a un cauto ottimismo: dopo due anni di pausa, la tendenza mondiale verso la progressiva riduzione delle esecuzioni e, in prospettiva, l’abolizione della pena capitale, è ripresa. Come sempre, i dati non comprendono le condanne a morte e le esecuzioni in Cina, che Amnesty International ritiene siano state migliaia, ma i cui numeri sono considerati segreto di stato. I passi avanti più significativi sono stati registrati nell’Africa subsahariana. La Guinea è diventata il 20° stato abolizionista per tutti i reati, il Kenya ha cancellato l’obbligo di imporre la pena di morte per omicidio e Burkina Faso e Ciad si sono avviati a introdurre nuove leggi o a modificare quelle in vigore per abrogare la pena capitale. Nel 2016 Amnesty International aveva registrato esecuzioni in cinque stati della regione, mentre nel 2017 solo in due, Sud Sudan e Somalia. Il Gambia ha firmato un trattato internazionale che l’impegna a non eseguire condanne a morte in vista dell’abolizione della pena capitale e nel febbraio 2018 il presidente ha istituito una moratoria ufficiale sulle esecuzioni. Oltre alla Guinea, nel 2017 la Mongolia si è aggiunta al totale degli stati abolizionisti, il cui numero alla fine dell’anno era salito a 106. Dopo che il Guatemala ha abrogato la pena di morte per i reati comuni, il numero degli stati che per legge o nella pratica hanno abolito la pena di morte è salito a 142. Solo 23 stati, come nel 2016, hanno continuato a eseguire condanne a morte, in alcuni casi dopo periodi di interruzione. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo, nell’ordine, in Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan: esclusa la Cina, l’84 per cento delle esecuzioni registrate nel 2017 ha avuto luogo in questi quattro stati. Le esecuzioni sono notevolmente diminuite in Bielorussia (del 50 per cento, da almeno quattro ad almeno due), Egitto (20 per cento in meno), Iran (11 per cento), Pakistan (31 per cento) e Arabia Saudita (cinque per cento) mentre sono raddoppiate o quasi raddoppiate in Palestina (da tre a sei nella Striscia di Gaza), Singapore (da quattro a otto) e Somalia (da 14 a 24, la metà delle quali nel Puntland). Vanno segnalate anche novità nell’applicazione della pena di morte per reati di droga. Passi avanti significativi verso la riduzione dell’uso della pena capitale, ad esempio aumentando la quantità di droga che fa scattare l’obbligo della condanna a morte, sono stati fatti anche in paesi che ne sono fieri sostenitori. In Iran le esecuzioni registrate sono diminuite dell’11 per cento rispetto al 2016 e la percentuale delle esecuzioni per reati connessi alla droga è scesa del 40 per cento. In Malesia è stata introdotta la discrezionalità della pena nei processi per traffico di droga. Alcuni governi hanno anche violato una serie di divieti previsti dal diritto internazionale. In Iran sono state eseguite almeno cinque condanne a morte nei confronti di persone che al momento del reato avevano meno di 18 anni. Nei bracci della morte di questo stato, alla fine del 2017, ve n’erano almeno altri 80. Persone con disabilità mentale o intellettuale sono state messe a morte o sono rimaste in attesa dell’esecuzione in Giappone, Maldive, Pakistan, Singapore e Usa. Amnesty International ha anche registrato parecchi casi di persone condannate a morte dopo aver “confessato” reati a seguito di maltrattamenti e torture. È stato il caso di Arabia Saudita, Bahrein, Cina, Iran e Iraq. In questi ultimi due paesi, alcune di queste “confessioni” sono state trasmesse in televisione. La campagna abolizionista resta più vigile che mai. Non potrebbe essere altrimenti, dato che a livello globale quasi 22.000 prigionieri restano in attesa dell’esecuzione. Pena di morte. L’Africa in prima linea nella lotta per l’abolizione di Antonio Salvati notizieitalianews.com, 13 aprile 2018 Anche quest’anno Amnesty International mette a nostra disposizione un corposo rapporto sullo stato della pena di morte nel mondo. Occorre subito sottolineare, a livello globale, un’ulteriore diminuzione dell’uso globale della pena di morte nel 2017. In particolare, si distingue l’Africa sub-sahariana che ha fatto grandi passi avanti nella lotta globale per abolire la pena di morte con una significativa riduzione delle condanne a morte in tutta la regione. “I progressi nell’Africa sub-sahariana hanno rafforzato la sua posizione di faro di speranza per l’abolizione. La leadership dei paesi in questa regione dà nuova speranza che l’abolizione della punizione crudele, inumana e degradante sia a portata di mano”, ha dichiarato il segretario generale di Amnesty International Salil Shetty. “Ora che 20 paesi dell’Africa sub-sahariana hanno abolito la pena di morte per tutti i crimini, è giunto il momento che il resto del mondo segua la loro guida e consegna questa pena aberrante ai libri di storia”, ha aggiunto Salil Shetty. Proprio in questi giorni si è svolto ad Abidjan, in Costa d’Avorio, un importante Congresso Regionale degli abolizionisti, con la partecipazione della Comunità di Sant’Egidio. In tutta l’Africa subsahariana, due soli paesi nel 2017 (contro i cinque paesi registrati nel 2016), Sud Sudan e Somalia, hanno effettuato esecuzioni. Le notizie secondo cui il Botswana e il Sudan hanno ripreso le esecuzioni nel 2018, non devono oscurare i passi positivi compiuti da altri paesi in tutta la regione: il Gambia ha firmato un trattato internazionale che impegna il paese a non eseguire esecuzioni e ad abolire la pena di morte. Il presidente della Gambia ha stabilito una moratoria ufficiale (divieto temporaneo) sulle esecuzioni nel febbraio 2018. Inoltre, le condanne a morte sono diminuite, da almeno 1.086 nel 2016 ad almeno 878 nel 2017. Infine, la Guinea ha abolito la pena di morte per tutti i crimini; Burkina Faso, Ciad e Kenya hanno compiuto importanti progressi verso l’abolizione della pena di morte. Tornando ai dati globali, Amnesty International ha registrato almeno 993 esecuzioni in 23 paesi nel 2017, in calo del 4% dal 2016 (1.032 esecuzioni) e del 39% a partire dal 2015 (quando l’organizzazione ha registrato 1.634 esecuzioni, il numero più alto dal 1989). Come nell’anno passato la maggior parte delle esecuzioni (oltre l’85%) si sono svolte nel continente asiatico: in Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan. La Cina è rimasta il principale esecutore (anche se - com’è noto - l’uso della pena di morte in Cina è sconosciuta in quanto questi dati sono classificati come segreti di stato e non è quindi possibile possedere un dato ufficiale). Nel corso del 2017, sono 23 i paesi hanno eseguito esecuzioni, lo stesso del 2016. Bahrain, Giordania, Kuwait e Emirati Arabi Uniti (Eau) hanno ripreso le esecuzioni nel 2017. Amnesty International non ha registrato esecuzioni in cinque paesi - Botswana, Indonesia, Nigeria, Sudan e Taiwan - che avevano effettuato esecuzioni nel 2016. Le esecuzioni sono diminuite sensibilmente in Bielorussia (del 50%, da almeno 4 a almeno 2), in Egitto (del 20%) in Iran (dell’11%), in Pakistan (31%) e in Arabia Saudita (5%). Le esecuzioni sono raddoppiate o quasi raddoppiate in Palestina (stato di) da 3 nel 2016 a 6 nel 2017; Singapore dalle 4 alle 8; e Somalia dal 14 al 24. Nel 2017, due paesi - Guinea e Mongolia - hanno abolito la pena di morte per tutti i reati. Il Guatemala è divenuto abolizionista solo per i crimini ordinari. Alla fine del 2017, 106 paesi (la maggioranza degli stati del mondo) avevano abolito la pena di morte per tutti i reati e 142 paesi (più dei due terzi) sono quelli che l’hanno abolita de jure o de facto. Su 193 stati membri delle Nazioni Unite, 170 (88 %) non hanno fatto esecuzioni nel 2017. Condannati a morte hanno beneficiato di commutazioni o concessioni di grazie in 21 paesi: Bangladesh, Camerun, Cina, Egitto, India, Indonesia, Giappone, Kuwait, Malesia, Mauritania, Marocco/Sahara occidentale, Nigeria, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Qatar, Sri Lanka, Taiwan, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti e Zimbabwe. Una sensibile diminuzione, pari al 17%, delle condanne a morte si è verificata nel 2017: 2.591 condanne a morte in 53 paesi nel 2017 contro il numero record di 3117 registrato nel 2016. Secondo le stime di Amnesty International, alla fine del 2017, almeno 21.919 persone erano presenti nei bracci della morte. Siria. Trump tira fuori i missili smart. L’Opac chiede un mese di tempo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 aprile 2018 Incontro alla Casa bianca con Mattis, manovre nel Mediterraneo. L’agenzia per le armi chimiche in partenza per Ghouta est. Tel Aviv convoca l’intelligence contro l’Iran, Ankara risponde a Teheran: “Non cederemo mai Afrin”. La preparazione del conflitto siriano prosegue. Stati uniti e Russia sono sul piede di guerra e al momento a tentare di fare da argine c’è solo l’Opac. Dopo l’invito di Damasco, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, ha detto ieri il suo direttore Ahmet Uzumcu, invierà a breve a Ghouta est dieci esperti per verificare l’uso o meno di armi chimiche da parte governativa nel sobborgo ripreso dall’esercito siriano. Ma, aggiunge, per avere risultati certi dai campioni che saranno prelevati e poi esaminati nei laboratori, ci vorrà almeno un mese. La Siria potrebbe non avere tanto tempo. L’escalation è realtà, plastica memoria di eventi pressoché identici avvenuti negli ultimi due decenni in Medio Oriente. Martedì al Consiglio di Sicurezza Onu è andato di scena l’atteso scontro a colpi di veto tra Russia e Usa, che si sono affondati a vicenda le risoluzioni: entrambe chiedevano indagini indipendenti, a cambiare le modalità di individuazione degli esperti che Mosca diceva di voler affidare alle organizzazioni internazionali di monitoraggio mentre Washington prevedeva nuovi meccanismi di selezione. E ieri lo scontro è proseguito: “Tieniti pronta, Russia, stanno arrivando, belli, nuovi e intelligenti - ha scritto su Twitter il presidente Usa Trump riferendosi ai missili che intende usare per il non meglio precisato intervento in Siria - Non dovresti essere partner di un “gas killing animal”, che uccide il suo popolo e ne gode”. “I missili intelligenti dovrebbero volare sui terroristi e non sul governo legittimo che ha passato anni a combattere sul proprio territorio il terrorismo internazionale”, ha risposto Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo. Che ha poi provocatoriamente chiesto: “Il vero obiettivo è eliminare le tracce di una provocazione usando missili intelligenti perché gli ispettori internazionali non possano trovare le prove che cercano?”. E se il presidente russo Putin usa parole concilianti (ieri, criticando la twitto-diplomazia trumpiana, ha detto di sperare che “prevalga il buon senso e che le relazioni internazionali tornino su un binario costruttivo”), va oltre l’ambasciatore russo in Libano, Alexander Zasypkin: in un’intervista ad al-Manar Tv, legata a Hezbollah, ha detto che “nel caso di attacco missilistico Usa, in linea con le indicazioni di Putin e del capo di stato maggiore, abbatteremo i razzi e le strutture che li hanno lanciati”. Parole aspre mentre sul terreno le manovre militari, concrete, proseguono: oltre al cacciatorpediniere Usa Cook in viaggio verso le coste siriane, da quelle statunitensi starebbe partendo la portaerei Truman, mentre le basi cipriote del Regno Unito (con la Repubblica di Cipro che ieri, tramite il portavoce governativo Prodromou, diceva di non essere coinvolta in alcun piano militare anti-Assad) sono in allerta. Come in allerta sono le basi russe in Siria, a partire da quella di Tartus, la città verso cui si sta dirigendo ilCook: ieri e oggi, dal 17 al 19 e il 25 e 26 aprile, la marina russa effettuerà esercitazioni lungo la costa siriana. Attiva è anche la Nato che ieri insieme agli Usa ha compiuto operazioni di ricognizione aerea sulla Siria: dalla base italiana della Nato di Sigonella sono decollati Boeing Poseidon statunitensi diretti a Latakia, vicino dunque alla base siriana di Hmeimim, dove stanziano anche soldati russi, mentre un secondo Boeing ha invece pattugliato il confine settentrionale con la Turchia. Ieri sera Trump ha ricevuto alla Casa bianca il capo di stato maggiore Dunford e il capo del Pentagono Mattis: sul tavolo le diverse opzioni militari, in un incontro che concretizza la minaccia statunitense alla Siria. Si muovono infine gli attori regionali del conflitto, Iran e Turchia, parte del processo di Astanama ancora portatori di istanze non affatto coincidenti sul futuro siriano. Mentre ieri Ali Akbar Velayati, comandante in capo delle forze iraniane in Siria, visitava Ghouta, il ministro degli Esteri turco Cavusoglu ribaltava di nuovo la posizione turca su Assad. Dopo aver tentato per anni di farlo cadere, aveva virato verso Mosca per archiviare almeno un successo, il controllo della regione curdo-siriana Rojava. Ora i venti di guerra ridanno coraggio ad Ankara: Assad deve essere cacciato, ha detto Cavusoglu. Per poi rispedire al mittente (Teheran) la richiesta di consegnare il cantone curdo occupato di Afrin a Damasco. “Vogliamo normalizzare la situazione ad Afrin e consegnare la zona al regime non ci permetterà di conseguire il nostro obiettivo”. Anche Astana traballa. Nelle stesse ore il premier israeliano convocava il gabinetto di sicurezza: prevista una valutazione dei servizi segreti su eventuali rappresaglie di Teheran dopo il raid di Tel Aviv sulla base siriana T4. Intrigo internazionale a Mogadiscio, rischio golpe per la Somalia di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 13 aprile 2018 Tre valigette con dentro contanti per 9,6 milioni di dollari sequestrate dai doganieri nello scalo di Mogadiscio. Venivano dagli Emirati. Tre valigette diplomatiche inzeppate di bigliettoni, valuta estera pregiata - qualcosa come 9,6 milioni di dollari, pari a 35,5 milioni di dirham - sono al centro di un intrigo internazionale che ha per epicentro Mogadiscio. Le tre valigette sono sbarcate domenica all’aeroporto internazionale della capitale somala da un velivolo della Royal jet, compagnia di charter di lusso di Abu Dhabi, insieme a 47 funzionari emiratini. Ad attendere il volo, l’ambasciatore degli Emirati arabi uniti in Somalia. Le valigette, che a quanto pare mancavano di regolare sigillo diplomatico, sono state però intercettate e sequestrate dai doganieri. Una mare di soldi destinata a cosa? I funzionari emiratini hanno dichiarato che si trattava dei fondi per il pagamento degli stipendi delle forze di sicurezza somale e il ministero degli Esteri di Abu Dhabi ha accusato gli agenti di Mogadiscio di aver minacciato e aggredito il personale di bordo definendo l’episodio “un atto illegale”, contrario al memorandum d’intesa e cooperazione militare tra Emirati e Somalia risalente al 2014. Ma proprio ieri il ministro della Difesa somalo, Mohamed Mursal Sheikh Abdirahman, ha annunciato la fine del rapporto di cooperazione militare con gli Emirati. “Il governo della Somalia si assume la responsabilità delle forze armate somale”, ha dichiarato ai giornalisti, non tralasciando di chiarire che gli agenti finora addestrati e stipendiati dagli Emirati saranno regolarmente pagati già oggi. Non c’è di che dubitarne. I 9,6 milioni di dollari finiti nelle casse semivuote del governo di Mogadiscio non solo sono sufficienti ma strabordanti rispetto a questo capitolo di spesa. In uno Stato “fallito”, ovvero dove tutti i servizi essenziali, dai trasporti alla sanità, dalla scuola alle poste, sono privati e pagati a caro prezzo, una tale cifra è sufficiente a finanziare un esercito privato e corrompere mezzo Parlamento, quindi a mettere in atto se non una rivoluzione, certamente un tentativo di golpe. E già a dicembre la Commissione per il monitoraggio delle Nazioni Unite, organismo indipendente con sede a Ginevra, aveva inviato un report al Consiglio di sicurezza Onu per denunciare “il ruolo sovversivo degli Emirati arabi uniti in Somalia”. La scelta dei tempi per un improvviso afflusso di denaro porta a un esito intutivo: potevano servire a risolvere, questa volta in via definitiva e violenta, la crisi istituzionale che da settimane sconvolge la capitale somala e che vede contrapposti il presidente o speaker del Parlamento, Mohamed Osman Jawari - e i suoi seguaci, tra i quali figurano uomini d’affari con contatti stretti con Abu Dhabi divenuti parlamentari - da una parte e dall’altra il primo ministro Hassan Ali Khayre e chi lo ha nominato, cioè il presidente federale Mohamed Abdullahi Mohamed, più noto con il nomignolo di “Farmajo”, dall’italiano “formaggio”. Ieri il braccio di ferro avrebbe dovuto arrivare a una svolta, Jawari aveva annunciato ufficialmente le sue dimissioni da seconda carica dello Stato, un ruolo di primo piano nella politica che - come ha ricordato lo stesso Farmajo, augurandosi di ritrovarlo al suo fianco nel processo di revisione costituzionale e di riforma da lui intrapreso - Jawari ricopriva da 50 anni, prima ministro del dittatore Siad Barre e poi speaker sia delle Corti islamiche che nelle varie amministrazioni di transizione. Le dimissioni però, senza una spiegazione, non sono arrivate, la seduta del Parlamento è stata annullata. “Jawari è un uomo colto, parla quattro lingue tra cui un arabo fluente, è un politico esperto, laico, un giurista, ma ha fatto un errore quando ha cercato di presiedere la seduta sulla mozione di sfiducia nei suoi confronti, una settimana fa, facendosi accompagnare da guardie armate”, sostiene Shukri Said, analista italo-somala della trasmissione Africa Oggi su Radio radicale. Nel complesso scenario di fondo c’è l’accordo firmato il 1° marzo tra la società emiratina Dp World e lo “Stato” - non riconosciuto come tale da Mogadiscio- del Somaliland per creare nel porto di Berbera un hub strategico sul golfo di Aden con annessa base militare da utilizzare nella guerra in Yemen. E anche la concessione da parte di Farmajo del suo spazio aereo alla Qatar airlines dopo la chiusura di quelli saudita e emiratino. Con la sua neutralità, Farmajo, insediato nell’era Obama, non sembra prediligere gli alleati di Trump e non vuole inimicarsi gli investitori turchi e qatarioti. E più all’orizzonte, si sono i giacimenti ancora non utilizzati di petrolio somalo. Malta. L’isola dell’impunità: ecco chi vuole insabbiare la verità su Daphne di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 13 aprile 2018 L’indagine sui mandanti della giornalista uccisa è ferma, il governo vuole arrestare la sua fonte. Sei mesi dopo, il delitto Caruana Galizia è diventato un caso europeo. In cima alla antica Rocca, quella da cui tuona a salve il cannone della memoria due volte al giorno, c’è chi vuole che il volto in bianco e nero di Daphne Caruana Galizia non sorrida più. Perché c’è memoria e memoria. E dunque, come accade con un fantasma della cui ombra si ha urgenza di liberarsi, da settimane mani zelanti rimuovono di notte ciò che mani generose ricostruiscono di giorno: l’ultima traccia ancora tangibile dell’esistenza di Daphne. Il suo memoriale. Foto in bianco e nero, in un letto di fiori e candele, alla base di una scultura marmorea, epigrafe della sua vita, spezzata da un’autobomba sei mesi fa, alle 14 e 58 minuti del 16 Ottobre 2017, nella campagna di Bidnija.Nella furia iconoclasta di chi cancella c’è un riflesso condizionato e un’involontaria ammissione. Che il nome della giornalista investigativa che aveva messo a nudo il Potere - politico e finanziario - dell’isola, la sua corruzione, sia un’onta al sentimento di una intera nazione. E, dunque, che quel ricordo vada cancellato con la stessa protervia che il Potere aveva riservato a Daphne da viva. Quando la additavano come una “strega” da bruciare, la trascinavano 46 volte in tribunale per diffamazione, le congelavano i conti in banca per demolirne l’ostinazione nella denuncia. Il memoriale rimosso - Ancora giovedì notte, in Republic Street, il corso pedonale che taglia il quadrilatero dei palazzi del Potere, scopettoni, detersivi e sacchi dell’immondizia hanno inghiottito per l’ennesima volta fiori, messaggi, candele che, da sei mesi, hanno trasformato il basamento in marmo del “Great Siege Monument”, la scultura che ricorda il Grande assedio del 1565, in un memoriale spontaneo. Perché la giustizia maltese, che di fronte al monumento ha il suo Palazzo dei tribunali, non dimenticasse di rispondere alle uniche domande che oggi contano. Dentro e fuori l’isola di Malta. Chi ha ordinato la morte di Daphne? Quali fili non dovevano più toccare le sue inchieste? E come è stato possibile che in un Paese dell’Unione Europea una giornalista sia stata ridotta al silenzio con un’autobomba? Ma, ancora giovedì pomeriggio, le foto e i fiori di Daphne sono riapparsi. Almeno fino al prossimo colpo di ramazza. Perché nella città e nel Paese scelti dall’Unione come capitale della cultura europea per il 2018, la damnatio memoriae è cominciata almeno da febbraio. Con le parole postate sul proprio profilo Facebook da Jason Micallef, presidente della Fondazione “Valletta 2018” responsabile per le celebrazioni e gli eventi messi in calendario dal Governo laburista del premier Joseph Muscat, il Grande Accusato da Daphne. E suo Grande Accusatore. “Mi opporrò - aveva scritto Micallef - a qualunque iniziativa voglia trasformare il Grand Siege Monument in un memoriale permanente di Daphne Caruana Galizia. Come Paese sovrano, non possiamo accettare lo svilimento di un monumento storico che celebra una delle più grandi vittorie di sempre di Malta”. Era quindi arrivata la risposta di Corinne Vella, una delle sorelle di Daphne (“Micallef, che spende centinaia di migliaia di euro dei contribuenti in vanitosi progetti che ingombrano le pubbliche piazze, ha obiezioni su dei fiori deposti in memoria di una donna che da viva lo aveva chiamato a rispondere della corruzione dei suoi padrini al Governo. Confonde la democrazia in azione con il rumore delle posticce parate da Corea del Nord”). La Castilla, l’Europa, l’Fbi - La sfida della memoria in Republic Street si consuma mentre, assediato nella Castilla, sede del Palazzo del Governo, il premier laburista Joseph Muscat, come pure gli uomini chiave del suo Gabinetto, si muovono in uno straniante copione che evidentemente ha deciso di rimuovere “il problema Daphne Caruana”. Fin qui, Muscat e i suoi hanno navigato a vista. Alla giornata. E, a oggi, non si va oltre generiche indicazioni che rimandano a “un’inchiesta ancora in corso” sul movente e i mandanti di un omicidio che è e resta oggettivamente politico. Sul piano dell’immagine c’è invece un goffo tentativo di spin (un annuncio nelle ultime 24 ore di misure triennali “per rendere più efficiente il contrasto al riciclaggio e al gioco d’azzardo”) che, nelle intenzioni del Governo, dovrebbe attutire la tempesta che si è andata addensando in Europa, Dove, in questi sei mesi, i fatti hanno cominciato a rendere giustizia a quello che Daphne, sola, aveva denunciato da viva. Nell’ordine. Primo: due diverse commissioni di inchiesta del Parlamento europeo hanno illuminato i buchi e le inefficienze della legislazione antiriciclaggio maltese; la pericolosità di un programma di vendita dei passaporti e dunque della cittadinanza maltese a chiunque, oligarca russo piuttosto che sceicco del Golfo, o satrapo asiatico, possa sborsare 650mila euro; la mancanza di indipendenza del potere giudiziario rispetto all’esecutivo. Secondo: il consiglio di Europa, con una risoluzione che sarà presto sottoposta al voto, ha dubitato dell’indipendenza dell’inchiesta sui mandanti dell’assassinio e considera la possibilità di inviare sull’isola un osservatore indipendente che ne verifichi la correttezza. Come in un paese del terzo mondo. Terzo: la Banca Centrale europea ha avviato un’inchiesta sulla Pilatus Bank, snodo, secondo Daphne, della corruzione e del riciclaggio di denaro sull’isola e su cui sarebbe transitato un milione di dollari a beneficio di Michelle Muscat, moglie del premier. Prezzo - secondo quanto ricostruito da Daphne - di relazioni opache tra il governo de La Valletta e il regime azero. Di più: a fine marzo, l’Fbi ha arrestato per riciclaggio (115 milioni di dollari) e frode bancaria il proprietario della Pilatus Bank, l’iraniano Ali Sadr Hasheminejad. Gli affari opachi - Joseph Muscat ha sempre negato. La storia della Pilatus “è una grande menzogna”, dice. Come una menzogna sarebbero le opacità del programma di vendita dei passaporti e il lassismo nei controlli antiriciclaggio. Conviene prenderne atto e raccogliere in proposito le parole di Eva Joly. Parlamentare europea francese, già pm del “affaire Elf”, l’inchiesta giudiziaria che, negli anni ‘90, svelò per la prima volta la rete globale di corruzione che teneva e tiene insieme i paradisi off-shore, è oggi a Bruxelles vicepresidente della Commissione di inchiesta sul caso “Panama Papers”, il mastodontico leak di documenti riservati provenienti dallo studio legale Mossack Fonseca che, due anni fa, ha consentito di svelare i depositi su conti off-shore di esponenti politici e imprenditori delle classi dirigenti di mezzo mondo (a quel leak aveva lavorato anche Daphne). Dice la Joly a Repubblica (la sua intervista è parte del documentario “Daphne”): “A Malta regna l’impunità: per il riciclaggio, per la vendita dei passaporti. E questo in un Paese dove la magistratura e le forze di polizia non sono indipendenti. Malta è diventata la porta d’Europa per il denaro sporco e il crimine organizzato”. La seconda donna - “State of denial”, lo chiamano. Stato di negazione. Ma a Malta, la storia di Daphne non è solo questo. In Grecia, una donna, madre come Daphne, poco più che trentenne, è stata inseguita fino a questa mattina da un mandato di arresto con cui la magistratura maltese aveva strumentalmente chiesto la sua estradizione alla Valletta dove dovrebbe rispondere dell’accusa dell’appropriazione indebita di 2 mila euro. È una russa. Si chiama Maria Efimova. Ha lavorato nella filiale della Pilatus Bank di Malta. È stata l’ultima fonte di Daphne Caruana Galizia. È la whistle-blower di questa storia. Ieri, un giudice greco ha definitivamente respinto la richiesta di estradizione perché - questa la motivazione destinata a confermare l’esistenza di un caso Malta in Europa - “sull’isola non è garantita l’incolumità della donna”. Che, dunque, stamattina lascerà il carcere di Tebe dove è stata detenuta per tre settimane dopo essersi spontaneamente consegnata alla polizia greca. Repubblica l’ha intervistata nel tempo in cui, dopo aver lasciato Malta, si era nascosta sull’isola di Creta (anche la sua testimonianza è nel documentario). “Un giorno dissi a Daphne - racconta - che temevo che la uccidessero. Lei, sorridendo, mi rispose: “E come? Con un’autobomba?”. Forse avrei dovuto essere più convincente ed è un rimpianto che mi porto dietro dal 16 ottobre del 2017. Mentre c’è una cosa che sicuramente non rimpiango. Di aver deciso un giorno di sedermi davanti al mio computer per scrivere una mail a quella donna che non conoscevo. Daphne. A cui avrei raccontato quella verità che lei avrebbe avuto il coraggio di pubblicare”.