Orlando telefona a Fico e Casellati per provare a salvare il decreto carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2018 Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha telefonato ai presidenti di Senato e Camera, Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico, dopo la decisione della conferenza dei capigruppo di non assegnare il decreto legislativo di riforma del sistema penitenziario alla Commissione speciale per esprimere il secondo parere. Orlando ha chiesto a Casellati e Fico di “riconsiderare tale decisione”, consentendo alla Commissione di esprimere il parere sul testo del decreto. La “mancata attuazione della riforma, si sottolinea nella nota diffusa da via Arenula, rischierebbe di pregiudicare, infatti, gli importanti passi compiuti, che hanno determinato la chiusura del monitoraggio al quale il nostro Paese era stato sottoposto a seguito della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del gennaio 2013”. Anche l’Unione delle Camere penali italiane lancia un appello ai deputati affinché “venga immediatamente inserito all’ordine del giorno della Commissione speciale il decreto sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, consentendo finalmente che almeno parte della delega diventi legge dello Stato”. Continua dunque la mobilitazione dell’avvocatura per un provvedimento che sembrerebbe caduto nella trappola delle spinte “giustizialiste”. Subito dopo lo stop della capigruppo di Montecitorio, era stato il presidente del Cnf Andrea Mascherin a parlare di “gravissima assunzione di responsabilità da parte di quella politica che ritenesse di poter congelare una riforma di civiltà”. Secondo l’Ucpi e il suo Osservatorio carceri, “lascia veramente increduli apprendere che, invece, la Commissione si occuperà di altri temi quali ad esempio la distribuzione assicurativa, di aeromobili e armamenti, di pacchetti e servizi turistici, dell’incompatibilità degli amministratori giudiziari, dei diritti pensionistici complementari”. “È grave che la maggioranza nella conferenza dei capigruppo alla Camera abbia deciso di escludere i decreti”, ha dichiarato Riccardo Magi, deputato di + Europa e segretario di Radicali italiani. “La riforma dell’ordinamento penitenziario è il frutto di un lungo lavoro che ha coinvolto tutte le realtà impegnate sul fronte della giustizia e delle carceri, e che va nella direzione indicata dalla nostra Costituzione rispetto alla finalità rieducativa della pena. Anche e soprattutto grazie all’incessante battaglia nonviolenta radicale condotta da Rita Bernardini, insieme a decine di migliaia di detenuti in tutto il Paese, la riforma - sottolinea Magi - ha potuto compiere il suo difficile percorso parlamentare. Chiediamo dunque che la conferenza dei capigruppo torni su propri passi”, conclude Magi. Camere penali: gravissimo esclusione delega carceri da Commissione speciale Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2018 “Dall’8 gennaio 2013, da quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sanzionato l’Italia per le condizioni disumane delle proprie carceri, coloro che sono state riconosciute persone offese da quel provvedimento attendono Giustizia, rimanendo tuttora reclusi in condizioni che violano apertamente la dignità della persona”. Lo scrive l’Osservatorio dell’Unione delle Camere penali aggiungendo: “È davvero gravissimo che la volontà del Parlamento, organo rappresentativo della volontà dei cittadini espressa con chiarezza dalla Delega, e le raccomandazioni della Cedu, trovino, a pochi passi da una pur minima realizzazione, un improvviso ed irragionevole arresto a causa del mancato inserimento dello schema di decreto, nei lavori della Commissione Speciale della Camera dei Deputati, in quanto ritenuta materia non urgente”. “Lascia veramente increduli apprendere che, invece, la Commissione si occuperà di altri temi quali ad esempio la distribuzione assicurativa, di aeromobili e armamenti, di pacchetti e servizi turistici, dell’incompatibilità degli amministratori giudiziari, dei diritti pensionistici complementari”. “Stati Generali (2015-2016), Legge delega (23 giugno 2017), Commissioni Ministeriali (2017-2018) - prosegue la nota, sono state le tappe di un lungo e faticoso cammino che avrebbe dovuto uniformare il nostro Ordinamento Penitenziario ai principi costituzionali del 1948”. “Giuristi, avvocati, magistrati, funzionari dell’amministrazione penitenziaria, oltre duecento persone hanno contribuito, guidati solo dalla loro passione e dal doveroso rispetto dei diritti civili, a dare forma e sostanza alla Delega conferita al Governo”. “L’Unione Camere Penali, con il proprio Osservatorio Carcere - continuano i penalisti, da sempre è in prima linea per il riconoscimento e la tutela del rispetto della persona, sia essa colpevole o innocente, libera o detenuta, e ha in questi anni contribuito al progetto di Riforma con tutte le proprie forze, ritenendo urgente e non più differibile il richiesto cambiamento volto ad una più moderna e democratica attuazione dei principi costituzionali in materia di trattamento penitenziario e di esecuzione penale”. “L’Unione - conclude la nota - rivolge, pertanto, un appello ai deputati affinché venga immediatamente inserito all’ordine del giorno della Commissione Speciale lo schema di decreto sulla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, consentendo finalmente che almeno parte della Delega diventi Legge dello Stato”. Il tempo (politico) perso sulle carceri Il Foglio, 12 aprile 2018 La riforma non si farà più. Colpa del giustizialismo, sì. Ma Orlando che faceva?. Com’era previsto e prevedibile, la Conferenza dei capigruppo ha rifiutato di affidare alla commissione speciale (che sostituisce le commissioni ordinarie che saranno costituite solo dopo la formazione di un nuovo governo) il compito di esprimere un parere, peraltro puramente consultivo, sulla riforma penitenziaria che contiene importanti punti sulle misure alternative al carcere. Un Parlamento dominato dalle formazioni che erano all’opposizione dei governi di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni difficilmente avrebbe scelto di implementare una riforma approvata da una maggioranza che non c’è più. D’altra parte le pulsioni giustizialiste del Movimento cinque stelle e della Lega sono state un elemento portante della loro campagna elettorale. Con l’argomento, in sé giusto, della certezza della pena, si contrabbanda il rifiuto di contrastare concretamente la degradazione della condizione carceraria alla quale la legge tentava di dare qualche sollievo. È proprio l’adozione di misure alternative al carcere uno degli obiettivi polemici su cui si è diffuso il procuratore Nino De Matteo nella cerimonia grillina di commemorazione di Casaleggio. Se sono deprecabili queste posizioni ostruzionistiche che intendono impedire l’applicazione di una norma di civiltà giuridica, è difficile tacere dalla responsabilità del Guardasigilli Andrea Orlando, che invece di impiegare gli ultimi mesi della legislatura appena conclusa per completare l’iter di una riforma che aveva apertamente sostenuto, li ha dedicati a una peraltro sterile campagna autolesionistica contro il segretario del suo partito. Davvero un bel capolavoro. Stop alla riforma penitenziaria: perché non bisogna farsi illusioni di Francesco Damato Il Dubbio, 12 aprile 2018 La riforma penitenziaria, la cui urgenza è nello stesso numero dei detenuti, saliti a fine marzo a 58.213, cioè 7.600 più dei posti disponibili, con tutto ciò che ne consegue, è finita miserabilmente - ripeto, miserabilmente, non miseramente - nelle sabbie mobili, a dir poco, della crisi di governo. Dove avrà tutto il tempo per affogare nelle trattative che porteranno, chissà quando, alla formazione della nuova compagine ministeriale. Questo è l’effetto, non certo casuale ma voluto o comunque consapevole, e proprio perciò doppiamente deplorevole, della decisione presa dai capigruppo della Camera di escludere la riforma, frutto di una delega del vecchio Parlamento al governo, dagli adempimenti della commissione speciale istituita in attesa delle commissioni permanenti. Dovranno pertanto essere quest’ultime ad occuparsene con un parere non vincolante ma necessario perché il nuovo governo completi il percorso del provvedimento facendolo entrare in vigore. Il nuovo governo, appunto. Che pertanto potrà pure buttare la riforma alle ortiche, come carta straccia, se le forze che ne comporranno la maggioranza vorranno questa sorte. Su questo sinistro epilogo non c’è da farsi illusioni che possa essere evitato. Vale la contrarietà espressa sulla riforma da forze politiche che erano in minoranza nella passata legislatura e sono invece uscite vincenti dalle elezioni del 4 marzo. In verità, il presidente della Repubblica, probabilmente favorevole alla riforma per cultura e formazione politica, preferisce anche per questo definire non vincenti ma “prevalenti” i partiti autoproclamatisi, con la complicità del sistema mediatico, persino trionfatori dell’ultimo turno elettorale. Ma la loro prevalenza, data l’incidenza che grillini e leghisti, gli uni da soli e gli altri con o senza l’apporto degli alleati di centrodestra, sono destinati ad avere nella composizione di una nuova maggioranza, basterà e avanzerà ad affossare la riforma penitenziaria da essi osteggiata alla luce del sole. Osteggiato col solito vizio di abusare dell’ancestrale o popolare richiesta di sicurezza e di ordine. In nome della sicurezza e dell’ordine, si sa, si possono compiere le stesse nefandezze commesse tante volte nella storia del mondo, e non solo d’Italia, in nome della libertà e della Patria, con la maiuscola. Anche il giustizialismo, d’altronde, viene teorizzato e praticato in nome della giustizia o della legalità, o di entrambe. Ed è una forma di giustizialismo pure la pratica detentiva sottintesa o derivante, poco importa, dal sovraffollamento delle carceri. Dove, se sei finito qualche ragione c’è, al lordo degli errori dei magistrati che ti hanno potuto portare dentro, e comunque a dispetto di due passaggi della Costituzione “più bella del mondo”, come viene ancora pomposamente chiamata quella che si è data la Repubblica italiana. Il primo passaggio è il penultimo capoverso, o comma, dell’articolo 13. Che trattando dei “rapporti civili” punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà”. L’altro passaggio, in qualche modo rafforzativo, è il penultimo comma dell’articolo 27. Che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Non è ammessa la pena di morte”, conclude quell’articolo nel testo modificato nel 2007 con una legge che eliminò il riferimento ai casi originariamente previsti dalle leggi militari di guerra. Una legge - ha recentemente e non a torto osservato il buon Marco Boato - che passò per fortuna in Parlamento con una maggioranza abbastanza ampia per evitare il passaggio finale del referendum cosiddetto confermativo. Che poteva già allora finire con la bocciatura. Figuriamoci oggi, con gli umori che corrono nel Paese, a dir poco peggiorati. Personalmente mi ha sorpreso che alla decisione della conferenza dei capigruppo della Camera destinata, come dicevo, a buttare nelle sabbie mobili della crisi di governo anche la riforma penitenziaria, abbia contribuito una forza politica generalmente garantista come Forza Italia. Che non ha voluto unirsi, neppure per salvare la faccia o l’anima, al voto contrario alla manovra di affossamento della riforma espresso dal Pd e dal neo-gruppo dei Liberi e Uguali, di cui è stata permessa la formazione in deroga al regolamento. Con tutti i guai e i rischi che stanno correndo, premuti fra l’ostracismo dei grillini e la paura che Salvini non sappia resistervi sino in fondo, i forzisti non se la sono sentita evidentemente di schierarsi per la riforma penitenziaria osteggiata dagli alleati leghisti: neppure nella forma arrivata alle battute finali, con tutte le modifiche apportate durante la sua preparazione. Peccato. Le superiori ragioni di governo, e persino di sopravvivenza politica, avvertite in una situazione imbarbarita dai risultati elettorali, come dimostra anche la vicenda diversissima della guerra, ripresa dai grillini col piglio dell’offensiva finale, ai vitalizi parlamentari sopravvissuti alla riforma contributiva del 2012, hanno reclamato e ottenuto anche questa rinuncia al senso comune persino della pietà. Peccato, ripeto. Davvero un peccato, pur con tutte le comprensioni che merita il realismo politico. Si dice così? “Mobilitati per sostenere l’approvazione della riforma” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 aprile 2018 Parla Rita Bernardini e annuncia ricorsi e dossier per denunciare la violazione dei diritti umani. I decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario sono stati esclusi dall’esame della Commissione speciale della Camera. Una brutta battuta di arresto per una riforma attesa da tempo e per la quale si sono succeduti gli appelli di giuristi, esponenti della magistratura, dell’avvocatura e del mondo politico. Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale, segue da sempre l’iter travagliatissimo della riforma e con i suoi scioperi della fame e una serie di iniziative che hanno coinvolto migliaia di detenuti e di cittadini cerca in tutti i modi di stimolare la classe politica per riuscire ad arrivare al via libera definitivo. Lei che è stata deputata ci aiuti a capire meglio: il quadro è definitivo o si può fare ancora qualcosa per cambiare la situazione? Per il Partito Radicale non può essere considerata definitiva una situazione che richiede un’assunzione di responsabilità obbligata da parte delle istituzioni italiane, in primo luogo il Parlamento che, con la decisione di martedì, sembra invece aver rimosso completamente il fatto che lo Stato italiano è stato condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri. Detto questo, la strada che vedo al momento è quella di chiedere attraverso un’urgente mobilitazione civile e democratica che la Camera riveda la sua decisione inserendo tra i punti in discussione della Commissione speciale per gli atti urgenti di governo anche il decreto legislativo riguardante le pene alternative, l’unico dei diversi decreti in mate- ria di ordinamento penitenziario che ha quasi completato il percorso. Se la cosa venisse, invece, rinviata alle commissioni permanenti si aprono due scenari: che vengano costituite prima della formazione del governo, come ipotizzato da Delrio, o dopo, paralizzando di fatto i lavori parlamentari. Quali strade si aprono nei due casi per la riforma dell’ordinamento penitenziario? La questione, a mio avviso, sta in questi termini: quale governo dovrà approvare definitivamente questo primo, maturo, decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, quello in carica o quello del futuro, se mai riuscirà a vedere la luce? Io ritengo che debba essere il governo in carica, ma mi consenta di dubitare sull’effettiva volontà del governo Gentiloni di volerlo definitivamente approvare. Ci sono pesanti indizi che alimentano il mio dubbio come il non averlo voluto approvare prima delle elezioni del 4 marzo e, da ultimo, l’assenza di un rappresentante del governo alla conferenza dei capigruppo del 28 marzo, assenza che ha determinato lo slittamento della decisione a martedì scorso contrariamente a quanto è avvenuto al Senato che, invece, la commissione speciale l’ha istituita velocemente eleggendo la presidenza già il 4 aprile scorso. Quali sono dunque le iniziative che come Partito Radicale metterete in atto affinché la riforma non venga procrastinata sine die? La mobilitazione alla quale ho fatto accenno dovrà vederci assieme a tutti coloro che hanno già manifestato il loro impegno, come le Camere Penali, l’avvocatura, i giuristi, le associazioni e la comunità penitenziaria che ha visto decine di migliaia di detenuti abbracciare il metodo nonviolento. Ma è indispensabile anche presentare ricorsi e dettagliati dossier alle giurisdizioni superiori italiane ed europee per denunciare la sistematica violazione dei diritti umani: lo abbiamo fatto nel 2013 presentando centinaia di ricorsi alla Corte Edu, dobbiamo continuare a farlo. Sa, vengo da una ventina di ore passate dentro gli istituti penitenziari di Sollicciano, Pisa e San Gimignano... la dignità mortificata di quelle persone provenienti innanzi tutto dal disagio sociale - e penso soprattutto ai tossicodipendenti, ai casi psichiatrici, agli stranieri che non hanno nemmeno di che vestirsi, segna profondamente. È noto che leghisti e grillini sono assai contrari a una legge che definiscono “salva ladri”. Che messaggio vuole rivolgere a questa ipotetica diarchia in merito alla loro decisione di escludere la riforma penitenziaria dalle commissioni speciali? Vorrei dir loro che la campagna elettorale è finita e che ora occorre che diano prova di responsabilità e serietà. La fretta e la semplificazione sono cattive consigliere anche per ciò che molti di loro dicono di voler tutelare, come la sicurezza dei cittadini. La pena da infliggere ai colpevoli non deve essere esclusivamente il carcere che crea recidiva; si possono prevedere altre misure, alternative alla permanenza in cella, che sono più efficaci per un futuro reinserimento sociale. Non lo dico io, lo dimostrano tutti gli studi che sono stati fatti in materia e ce lo raccomanda il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che, con il pronunciamento CM/ Rec (2017) 3, prevede espressamente che il diritto interno persegua la riduzione del ricorso alle pene detentive in carcere, attraverso la disciplina di sanzioni e misure che non privino il soggetto della libertà personale. Su Facebook lei, commentando lo stenografico della Camera dove si prendeva atto di quanto accaduto nella conferenza dei Capigruppo, ha scritto: “Non un deputato si è alzato in aula per dire una parola. Dov’erano i piddini, i Leu, i più Europa?”. A cosa si riferiva? I social network spesso ti portano ad essere inutilmente aggressivi e sbrigativi come è capitato a me ieri, tanto era il dispiacere della notizia oggetto di questa intervista... Comunque, mi avrebbe fatto piacere che qualcuno in assemblea, magari richiamando l’impegno di Marco Pannella, avesse preso la parola... Che strada si aprirà al generale tema della giustizia con un asse Lega 5 Stelle al governo? Scorgo tutti i rischi di un’esplosione dei giustizialismi di ogni tipo. Certo, non è che chi ha governato da decenni e fino ad oggi (e non erano certo i 5 Stelle e i leghisti) ci abbia restituito una giustizia degna di un paese democratico aderente alle garanzie e ai principi costituzionali. Mi chiedo per esempio dove sia Forza Italia che rischia di essere sempre più appiattita al giustizialismo leghista, ma che alle origini aveva ben altre propensioni liberali e garantiste rispetto a quelle sbiadite e opportunistiche di oggi. Il primo effetto dell’intesa tra M5s e Lega nord? Affossata la riforma penitenziaria di Daniele Ruzza Left, 12 aprile 2018 “Il Parlamento sembra aver dimenticato del tutto che lo Stato italiano sia stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per sistematici trattamenti inumani e degradanti”, questa la dura accusa lanciata dall’ex deputata del Partito radicale Rita Bernardini, in seguito alla mancata inclusione della riforma carceraria tra i temi da trattare nelle commissioni speciali di Camera e Senato per gli atti urgenti di governo. A votare contro la discussione dei decreti della riforma sono stati M5s, Lega, Fi e Fdi. Il compito delle commissioni speciali è quello di occuparsi degli atti del governo, in attesa che si chiarisca la composizione di maggioranza e opposizione parlamentari, e possano dunque insediarsi le commissioni permanenti. Al Senato, l’organo è presieduto da Vito Crimi, senatore M5s, mentre per la carica omologa alla Camera i pentastellati avevano espresso la volontà di convergere su un nome della Lega nord, e le indiscrezioni danno come favorito il leghista Nicola Molteni (fino a martedì, il favorito era Giancarlo Giorgetti). Le commissioni si sarebbero dovute limitare a fornire un parere obbligatorio ma non vincolante sulla riforma, che sarebbe poi tornata in mano al governo, che avrebbe potuto approvare definitivamente il testo, esercitando così la delega fornita dal Parlamento. “Ai fautori di “più gogna per tutti” - continua Bernardini - in nome della “sicurezza”, ricordo che la pena da infliggere ai colpevoli non deve essere esclusivamente il carcere che crea recidiva; si possono prevedere altre misure. Misure alternative che sono più efficaci per un futuro reinserimento sociale”. Bernardini sottolinea come la necessità dell’introduzione di pene alternative, come previsto dalla riforma, sia supportata da diversi studi e raccomandata anche dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (un’organizzazione sovranazionale separata dall’Ue, ndr) che “in un pronunciamento del 2017, prevedeva espressamente che il diritto interno di ogni Paese comunitario persegua la riduzione del ricorso alle pene detentive in carcere, attraverso la disciplina di sanzioni e misure che non privino il soggetto della libertà personale”. Ma per Bernardini, e per tutti coloro che hanno manifestato il proprio impegno per l’approvazione della riforma, come l’Unione delle camere penali italiane, giuristi, associazioni e gran parte della comunità penitenziaria, la battaglia non finisce qui. La promessa, lanciata da Bernardini, è quella di continuare a presentare ricorsi e dossier alle corti italiane ed europee, per denunciare la sistematica violazione dei diritti umani nelle carceri italiane. Anche il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, è intervenuto sulla questione: “Negare un passaggio meramente consultivo finale - ha detto - che non prevede possibilità di intervento di merito denota una disattenzione grave rispetto all’ampio mondo di coloro che tale provvedimento da tempo attendono”. Il garante esprime amarezza per la decisione della commissione, e fa notare come anche l’Europa avesse lodato l’iniziativa della riforma: “L’Europa, pur partendo da una prospettiva di sanzione nel 2013 per condizioni detentive irrispettose della dignità della persona, è giunta a riconoscere i passi che l’Italia ha compiuto per sanare tale grave criticità”. Ma, con tale decisione, il Parlamento esprime la volontà di interrompere questo percorso, col rischio che la riforma finisca nel dimenticatoio. La polveriera carceri è pronta ad esplodere di Valter Vecellio lindro.it, 12 aprile 2018 Flick: il nostro sistema non rispetta la Costituzione. Il presidente emerito della Corte Costituzionale, nonché ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, in queste ore fa notizia perché si valuta - così riferiscono le agenzie - un possibile buon presidente del Consiglio; aggiunge che non gli garba per nulla l’attuale discussione in corso sul “contratto” che il leader del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio offre alla Lega e al Partito Democratico, come se fossero organizzazioni politiche intercambiabili. Flick dice di preferire il termine-concetto di “compromesso”, che, specifica, è cosa ben diversa da “inciucio”. Al di là dei funambolismi lessicali, di Flick piace, qui, ricordare una sua intervista rilasciata qualche mese fa al quotidiano napoletano Il Mattino; l’intervistatore chiede quale tema, legato alla giustizia, pensa debba essere inserito nel dibattito della campagna elettorale. Flick risponde: “Sicuramente quello delle carceri”. Naturalmente il presidente ha ragione, anche se la realtà è stata diversa, e lo si poteva ben intuire anche al tempo dell’intervista. Non solo il tema delle carceri è rimasto escluso dall’agenda politica di tutti i partiti che hanno preso parte alle elezioni, nessuno escluso. Proprio la più generale e vasta questione della giustizia si è preferito ignorare ed eludere. Flick poi ricorda che “il nostro sistema carcerario non rispetta la Costituzione. L’articolo 27 parla di rieducazione e di trattamenti non contrari al senso di umanità. Eppure, nell’ultimo anno ci sono stati 52 suicidi di detenuti”. Ecco: piacerebbe che questi temi, questi nodi, venissero affrontati, discussi. Anche perché la strage nelle carceri prosegue, silenziosa, implacabile. L’ultimo “evaso” definitivo di cui ho notizia è un detenuto di origine marocchina; si è impiccato alla finestra del bagno della sua cella nel carcere fiorentino di Sollicciano. Era in attesa di giudizio, e si trovava nel reparto degenza per problemi psichici. Detenuti, e non solo loro. Tutta la comunità penitenziaria è in sofferenza. Sono 35 i suicidi e 2.250 le aggressioni subite tra il 2013 e il 2017 dagli agenti di polizia penitenziaria. Un trend che sembra essere in continuo aumento e che svela le reali condizioni di lavoro del corpo. È il fenomeno registrato da dati ufficiali raccolti dalla Funzione Pubblica Cgil Polizia Penitenziaria attraverso la campagna “Dentro a metà”, lanciata proprio per mostrare le condizioni di vita e di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria. “Dati che segnalano una condizione di vita e di lavoro allo stremo delle possibilità”, dice Massimiliano Prestini, coordinatore nazionale della Fp Cgil Polizia Penitenziaria; manifesta preoccupazione soprattutto per l’assenza di risposte da parte dell’amministrazione penitenziaria alle richieste del sindacato di avviare un confronto “su una situazione lavorativa la cui gravità non può essere ignorata. Benessere e sicurezza devono diventare priorità nella gestione delle carceri del nostro Paese”. Quella dell’aumento delle aggressioni subite dal personale, fa sapere Prestini, “non è altro che una conseguenza della decisione di tenere le celle aperte nelle carceri e di non impegnare i detenuti in alcun tipo di attività durante tutta la giornata. Se si vuole attuare un nuovo tipo di vigilanza serve più personale nelle carceri, supporto tecnologico per la vigilanza e soprattutto attività lavorative che possano favorire il reinserimento sociale del reo”. Non solo. Un terzo degli uomini della Penitenziaria soffre di depressione e stati d’ansia gravi. Il 35,45 per cento degli agenti della Polizia penitenziaria si troverebbe in una condizione di elevato rischio “suicidio” per la presenza di un forte stato depressivo, ansia, alterazione della capacità sociale e forti sintomi somatici. Il dato che emerge da un questionario sullo stress correlato al lavoro, compilato nelle scorse settimane da 600 agenti che prestano servizio all’interno delle carceri italiane, è davvero sconvolgente. Il problema dei detenuti psichiatrici - Molto dello stress lamentato dagli agenti, nel questionario, dipenderebbe dalla chiusura degli ospedali psichiatrici. Con la chiusura degli Opg è aumentata la presenza di questi detenuti negli istituti penitenziari. Tra le altre cause: carenza di personale, formazione scadente e dirigenti poco attenti e preparati. Dall’indagine emerge che a creare stress e ansia sono anche le pause dell’orario di lavoro non sono sufficienti e gli straordinari che, negli ultimi anni, tendono a diventare ordinari. Una situazione che genera stanchezza e porta la maggior parte degli agenti, al timore di sbagliare, con possibili conseguenze sia per la sicurezza del carcere, sia per gli operatori che hanno rilevanti responsabilità anche di carattere penale. Ansia e forti stati depressivi sarebbero generati anche dalla gestione dei detenuti stranieri oltre che dai soggetti con problemi di carattere psicologico. L’indagine rivela un ulteriore aspetto inquietante: il 73 per cento del personale di polizia penitenziaria denuncia di non sentirsi tutelato dalla direzione e teme che “le responsabilità non sarebbero adeguatamente identificate se qualcosa dovesse andare male”. A tutto ciò si aggiungano le condizioni fatiscenti nelle quali gli agenti sono costretti a lavorare: carceri prive dei requisiti igienico-sanitari minimi e strutture non sicure sotto il profilo costruttivo. Persino le divise, secondo il 72 per cento degli interpellati, non permetterebbero di presentarsi in maniera dignitosa ed autorevole. Acli: progetto di riabilitazione e rieducazione dei detenuti tramite lo sport agensir.it, 12 aprile 2018 Rossini (Presidente Acli): “nostro obiettivo creare nuovi strumenti d’integrazione”. Grandi sono l’impegno e la presenza delle Us Acli nazionali e territoriali, in particolar modo in alcune carceri italiane, dove dal 2016 è avviato il progetto “Lo Sport che Vogliamo”. Una serie di iniziative sportivo-formative organizzate in 14 città italiane, che coinvolgono i rispettivi circoli zonali Us Acli, alcuni dei Patronati e Caf locali, Enaip e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, firmatario del protocollo d’intesa “Buone pratiche da cui ripartire” del 26 ottobre 2016. Del progetto di riabilitazione e rieducazione dei detenuti tramite lo sport si è parlato oggi in una tavola rotonda a Roma. In questi 2 anni di lavoro, oltre 200 detenuti uomini e donne sono stati protagonisti di corsi di formazione, corsi di primo soccorso e defibrillazione obbligatoria, attività ludico-sportive, corsi di discipline sportive. Detenuti e detenute che hanno lavorato fianco a fianco all’organizzazione di tornei e incontri, insieme con il personale delle carceri di Bologna, Verona, Chiavari, Nuoro, Santa Maria Capua Vetere, Ascoli Piceno, Pescara, Velletri, Avellino, Benevento, Latina, Messina, Taranto, Agrigento, Ferrante Aporti (To). “Un progetto - dichiara Roberto Rossini, presidente nazionale delle Acli - che porta nei territori la speranza di riabilitare e integrare i detenuti e le detenute arrivati al termine della pena, le loro famiglie e il personale delle carceri che ogni giorno è attore principale del percorso riabilitativo di queste persone. Creare nuovi strumenti d’integrazione è uno degli obiettivi principali delle Acli e anche grazie alle nostre Unioni sportive siamo impegnati a promuovere i valori della legalità e della cooperazione, contribuendo alla diffusione di una cultura del rispetto e dell’integrazione tra le persone a rischio di emarginazione”. Class action estesa a tutti gli Stati della Ue di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2018 Sulla scia del clamoroso scandalo Volkswagen del 2015, relativo alle emissioni nocive delle auto, la Commissione europea ha presentato ieri a Bruxelles un progetto di direttiva che dovrebbe dotare i consumatori di un nuovo strumento comunitario di ricorso collettivo dinanzi alla giustizia (class action). L’iniziativa è lodevole, ma rischia di scontrarsi con le numerose gelosie degli Stati membri in campo giudiziario. “In Europa, i diritti dei consumatori esistono e sono sufficientemente forti. Mancano tuttavia strumenti per garantire l’applicazione di questi diritti”, ha spiegato la commissaria alla Giustizia Vera Jourová, parlando a un gruppo di giornali europei, tra cui “Il Sole 24 Ore”. “Il ricorso collettivo esiste in alcuni Paesi dell’Unione. Vogliamo ora offrire diritti e condizioni comparabili in tutti gli Stati membri, senza per questo modificare alla radice lo stato di cose a livello nazionale, quando questo esiste”. La proposta permetterà ai consumatori di presentare domanda collettiva di risarcimento-danni attraverso “un’entità qualificata”, secondo la Commissione: saranno associazioni di difesa dei consumatori, senza scopo di lucro e sotto il monitoraggio delle autorità pubbliche. A differenza degli Stati Uniti, non potranno presentare ricorso collettivo le società legali: “Vogliamo promuovere la giustizia, non il business”, ha detto la commissaria in una conferenza stampa. Nel contempo, l’iniziativa comunitaria, che dovrà essere approvata dal Consiglio e dal Parlamento, prevede un’armonizzazione delle sanzioni. La multa massima potrà essere pari al 4% del giro d’affari della società responsabile del danno nel singolo Stato. Responsabile di giudicare il caso oggetto di ricorso collettivo sarà tendenzialmente la magistratura del foro competente per la società coinvolta dalla vicenda. La sentenza dovrà poi essere riconosciuta negli altri Stati membri. I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari di Maria Elena Vincenzi L’Espresso, 12 aprile 2018 Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie. Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi. Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo. Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia. L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato “per persona da nominare”. Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle “gravi falsità” contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con “vizi macroscopici nella procedura di vendita”: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni. Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati. L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: “Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi. Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville”, nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: “Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte”. A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: “In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa”. La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una pre-disciplinare senza alcun esito. Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: “La vicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro”. Una questione su cui “ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura”. Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma. Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: “La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso”. Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno. Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi. Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari. Mafie. Se il boss è ancora in fuga un’intera società lo protegge di Lirio Abbate e Giovanni Tizian L’Espresso, 12 aprile 2018 Dopo le rivelazioni del super testimone nove persone sono indagate per aver favorito la latitanza del boss. Coperto e favorito da imprenditori, commercianti, politici e disoccupati. Le indicazioni fornite da “Gino”, il super testimone toscano che ha incontrato Matteo Messina Denaro hanno portato i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze a indagare nove persone. Sono accusate di associazione mafiosa e favoreggiamento del latitante siciliano. I pm sono convinti della “rilevante valenza investigativa” dell’uomo e sottolineano nei loro atti giudiziari “la conferma piena della validità” delle sue dichiarazioni. La procura fiorentina, tre anni fa, ha aperto un fascicolo sulla latitanza del boss in Toscana, individuando i suoi complici e l’organizzazione criminale, legata alla ‘ndrangheta, che lo ha coperto. Grazie all’input di “Gino” sono state avviate intercettazioni ambientali e telefoniche. L’indagine è stata delegata alla Guardia di Finanza di San Miniato. L’ascolto delle conversazioni degli indagati e i riscontri effettuati hanno portato i magistrati antimafia a scrivere che “si può senza dubbio affermare come i soggetti indagati hanno costruito una stabile organizzazione finalizzata a compiere molteplici fatti illeciti”. E ancora: “L’organizzazione è ben radicata sul territorio nazionale, in primis in Toscana e in Calabria, e si avvale senza dubbio di soggetti che hanno contatti con l’estero, quantomeno Svizzera, Germania e Nord Africa”. Gli inquirenti aggiungono la circostanza che “allo stato attuale delle indagini è emerso che al di sopra dei soggetti indagati ed intercettati vi è una figura non ancora identificata, la quale viene spesso menzionata durante le conversazioni”. Per gli investigatori sarebbe “lo zio”, e cioè Matteo Messina Denaro, lo stragista trapanese ricercato dal 1993. Il capo d’imputazione per i nove indagati è chiaro e fa riferimento al mafioso siciliano. Sul “favoreggiamento della latitanza del boss, è assolutamente necessario evidenziare una novità di assoluto rilievo investigativo che conferma il quadro di gravi indizi che si era profilato dalle prime fasi dell’attività di indagine”, scrive ancora la procura antimafia di Firenze. “Gino” ha messo a disposizione degli inquirenti e dei detective tutti gli elementi che potevano portare al padrino. E partendo da ciò che ha detto, gli investigatori della finanza hanno prodotto dieci voluminose informative che sono state depositate agli atti. Il testimone, fra le tante cose, ha parlato di un incontro fra un esponente della ‘ndrangheta e il nipote del latitante, Francesco Guttadauro, al quale “Gino” ha assistito. Le indagini hanno portato a scoprire gli interessi che il rampollo siciliano ha in Toscana, in provincia di Pisa. Tanto che per incontrare l’esponente della ‘ndrangheta, tre anni fa Guttadauro ha effettuato un viaggio in aereo da Palermo a Pisa con ritorno nella stessa giornata. Si sarà trattato di una cosa urgente, che forse al telefono non poteva essere chiarita. A questo proposito, sui contatti fra i siciliani e i toscani-calabresi, emerge (in seguito agli accertamenti del Gruppo della Guardia di Finanza di Viareggio) la figura di un magistrato. Infatti in questa misteriosa storia sulla presenza di Messina Denaro e dei suoi più stretti familiari in Toscana, fa la sua comparsa una Bmw intestata a Nicola Russo: magistrato già in servizio alla distrettuale antimafia di Pordenone, Trieste e Udine e oggi alla procura presso il tribunale per i minorenni di Trieste. Russo è cugino di Francesco Guttadauro, con il quale è in contatto, ipotizzano i detective sulla base di intercettazioni a cui fanno riferimento nei loro rapporti. Il magistrato, spiegano gli inquirenti, è nipote di Matteo Messina Denaro, come lo è pure Guttadauro. Le circostanze fornite da Gino “sono di fondamentale importanza”, scrivono i pm, “in quanto confermano che il testimone ha conosciuto una persona che fa parte dell’entourage di Matteo Messina Denaro, collegata a soggetti appartenenti all’organizzazione”. Questa persona opera in Toscana e all’estero. “Gino” accetta di mettere tutto a verbale e rivela alla pm Angela Pietroiusti alcuni incontri effettuati con i calabresi in una frazione di un comune della provincia di Pisa, al quale ha partecipato anche il nipote del latitante. Di questi fatti il testimone aveva subito informato l’allora comandante della stazione dei carabinieri del paesino toscano. Il militare si recò sul posto e scattò diverse foto. Il maresciallo, contattato dal pm, ha sostenuto “di non aver stilato alcuna relazione ma di aver informato i superiori”. Ma nel resoconto di Gino c’è molto di più. Dice per esempio che su quella regione il capomafia ha puntato moltissimo: “Ho saputo che Matteo Messina Denaro, soprannominato “lo zio”, ha iniziato investimenti in Toscana nell’ambito turistico”. Fatto che affiora nell’ultima relazione annuale della procura nazionale antimafia e che spiega come in Toscana la sfera di influenza di Cosa nostra “non si fondi sul canonico controllo del territorio, bensì su forme e tentativi di condizionamento dell’azione pubblica (funzionali soprattutto al controllo degli appalti pubblici) e di infiltrazione dell’economia e della finanza, grazie alla spiccata capacita relazionale e di mimetizzazione con il contesto di riferimento”. Metodo da mafia silente, insomma. Una scelta precisa per non destare allarme sociale, in un territorio ricco e accogliente, in cui non c’è la chiara percezione della minaccia mafiosa. Del resto già in passato diverse inchieste hanno mostrato questa capacità di Cosa nostra di penetrare nel tessuto produttivo toscano. Se dunque Matteo Messina Denaro è ancora libero dopo 25 anni di ricerche, non si deve pensare solo alle difficoltà investigative per arrestarlo. Ma anche al fatto che se un boss di questo calibro è ancora in fuga, la responsabilità è da cercare di sicuro in una parte della società che lo appoggia, lo favorisce e lo copre. Sarà pure una minoranza, ma di fatto prevale sulla maggioranza di persone perbene che vivono nei territori ancora “occupati” dalla mafia. Non tutto può essere delegato alla magistratura o alle forze dell’ordine. C’è un confine e ognuno deve decidere da che parte stare. Una decisione che dovrebbe essere scontata, a ventisei anni dalle stragi di Falcone e Borsellino, tuttavia nei fatti spesso si rivela difficile. Oggi Matteo Messina Denaro continua a essere il primo ricercato. E forse è questa la sua sfida principale con lo Stato. Coperto e favorito da imprenditori, commercianti, politici e disoccupati. D’altronde la vita da fuggitivo di un capomafia di questo profilo costa tantissimo. Il denaro serve come il pane. È preoccupante che in questa vasta zona grigia non ci sia alcuna intenzione di ribellarsi al potere criminale dei padrini. Le intercettazioni ambientali di tante indagini continuano a rivelare collusione e omertà. Ci sono imprenditori che per andare avanti nella propria attività sentono il bisogno di un “passaporto sociale”, rilasciato da Cosa nostra o dalla ‘ndrangheta. Un passaporto che apre le porte delle banche, facilita i rapporti con gli uffici pubblici, sbaraglia ogni concorrente negli appalti. E se dietro a quel documento c’è Matteo Messina Denaro il via libera è assicurato. Anche per questo ci sono persone delle più diverse fasce sociali che lo amano, oltre a temerlo. Tra queste c’è chi, sfibrato dalla crisi e dalla disoccupazione, è tornato in fila sotto casa delle cosche per chiedere assistenza al welfare mafioso. Una mafia, quindi, considerata di nuovo “istituzione” credibile. Niente particolare tenuità per il brigadiere cha falsifica una firma per evitare una sanzione di Patrizia Maciocchi Il Solle 24 Ore, 12 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione II -Sentenza 11 aprile 2018 n. 16058. Niente tenuità del fatto per il finanziere che approfitta della sua posizione per evitare una sanzione. La Cassazione, con la sentenza 16058, conferma la condanna per tentata truffa a carico di un brigadiere della Guardia di finanza che, sottoposto ad un controllo mentre era a caccia, aveva preso una sanzione di circa 50 euro per aver “dimenticato” a casa documenti venatori che era stato invitato a mandare alla guardia forestale entro 5 giorni. Il cacciatore-finanziere in realtà non poteva inviare alla forestale ciò che non possedeva, non avendo mai pagato la tassa di concessione governativa né fatto l’assicurazione. Per evitare una sanzione più aspra aveva allora formato e spedito via fax un atto, con firma falsa di un suo collega, che dichiarava di aver preso visione del tutto. Inutile per il ricorrente ricordare ai giudici le sue doti umane e gli anni di specchiata carriera, oltre al danno lievissimo provocato. Proprio in virtù di quest’ultimo il militare invocava la non punibilità prevista dall’articolo 131bis sulla particolare tenuità del fatto, avendo dalla sua l’assenza di ogni precedente ed essendo la pena prevista per la sua azione compatibile con la norma. Per i giudici però il fatto è grave a causa degli “artifizi adoperati per indurre in errore l’organo pubblico che avrebbe dovuto adottare i provvedimenti sanzionatori”. La falsificazione di due atti e l’aver approfittato senza esitazione della sua “divisa”, solo per evitare di pagare una sanzione più “salata”, sono la prova di una condotta criminosa di non trascurabile gravità. La Cassazione respinge anche l’argomento del ricorso teso a censurare la sentenza di merito per la parte in cui il ricorrente era stato condannato a pagare i danni in favore del collega che si era costituito parte civile. In effetti lo stesso commilitone aveva ammesso di non aver subìto dei pregiudizi, e la sua firma non era neppure del tutto riconoscibile. Sul punto la Cassazione ricorda che il giudice non accerta il danno ma la semplice potenzialità della condotta a produrlo. Una verifica che va fatta in sede civile. La condanna generica del giudice di merito penale non condiziona, infatti, il “lavoro” del giudice civile né sull’esistenza dei presupposti del danno né nella sua quantificazione. Abruzzo: la Regione contrasta il fenomeno del suicidio in carcere regione.abruzzo.it, 12 aprile 2018 Al fine di fronteggiare la piaga sociale dei detenuti dei suicidi in carcere, la Giunta regionale ha approvato ieri il Piano regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti. La Regione Abruzzo nel dicembre del 2012 aveva adottato il Programma per la prevenzione del rischio autolesivo e suicidario dei detenuti, degli internati e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale, nel quale era stato disposto che in ciascun Istituto Penitenziario andava realizzato un piano di accoglienza che prevedesse una valutazione multi-professionale e la individuazione di un percorso interno, per tutti i detenuti nuovi giunti, in particolare per i soggetti che risultavano a rischio di suicidio. Nel documento approvato ieri, è previsto che la Regione si doti di un proprio Piano di prevenzione regionale, affidando all’Osservatorio Regionale Permanente di Sanità Penitenziaria il compito di elaborare uno specifico Piano Regionale per la prevenzione delle Condotte suicidarie contenente le linee di indirizzo utili per rendere operativi quelli locali in modo omogeneo. Sarà cura dell’Azienda Sanitaria territorialmente competente, in collaborazione con le strutture dell’istituto penitenziario, attuare il Piano di Prevenzione che ha i seguenti obiettivi: a) attenzione e sostegno tecnico-clinico, rientrando in tale area quelle figure clinico - professionali che venendo a contatto col detenuto possono cogliere sintomi o richieste di attenzione e dare corso ad un primo sostegno ed alla segnalazione del caso; b) attenzione e sostegno tecnico, rientrando in tale area la figura del funzionario giuridico pedagogico; c) attenzione atecnica, rientrando in tale area tutti coloro che in ragione delle loro funzioni (polizia penitenziaria, detenuti, volontari, docenti, avvocati) possono venire a contatto del detenuto e rilevare situazioni di criticità; d) decisione, riservata a chi riveste funzioni apicali e di governo, quali il Direttore dell’Istituto, il Comandante di Reparto, gli addetti alla Sorveglianza Generale. Nel provvedimento approvato, viene inoltre stabilità di nominare i Responsabili delle Unità Operative di Medicina Penitenziaria delle USL quali componenti del Nucleo dei Referenti Regionali, con il compito di: eseguire e verificare la redazione e l’aggiornamento periodico dei Piani locali; programmare la formazione degli operatori locali; pianificare le attività di audit clinico; raccogliere le prassi valutate più rispondenti agli obiettivi ed inviarle al livello centrale; svolgere o delegare azioni conoscitive e/o inchieste amministrative ritenute opportune o dovute. Padova: detenuto pagato poco fa causa al Ministero e vince di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 12 aprile 2018 Sconta una pena al Due Palazzi: si è affidato alla Cgil, rimborso di 3.500 euro. In carcere lavorano in 280, il direttore vuole portare scuole professionali. Ha fatto causa e ha vinto. Si tratta di un detenuto “lavorante” del carcere penale Due Palazzi che si era rivolto alla Cgil denunciando di percepire una retribuzione inferiore a quella prevista dal contratto nazionale. La causa è andata avanti, patrocinata dall’avvocato Marta Capuzzo dello studio Moro, e adesso è arrivato il decreto del giudice del lavoro del tribunale di Padova che ha emesso ingiunzione di pagamento nei confronti del ministero della Giustizia. Nel dettaglio, il detenuto avanza 3500 euro e gli devono essere pagati. Punto e chiuso. Il detenuto in questione è persona con pena già definitiva e quindi ospite della casa di reclusione Due Palazzi assieme ad altri 530 compagni di carcere. A lavorare, all’interno del carcere, sono in 280. Molti da un lato e pochi dall’altro, quello dei detenuti per i quali avere un lavoro è manna dal cielo: per la retribuzione certo ma anche per dare un senso al tempo che in cella o su e giù per i corridoi si dilata fino allo smarrimento, all’implosione. Dei 280 che lavorano, 150 sono impiegati nelle cooperative (per prime la pasticceria Giotto e Ristretti Orizzonti) e 130 svolgono occupazioni direttamente per l’amministrazione carceraria. Sono addetti alla manutenzione ordinaria ovvero riparazioni, tinteggiature, piccoli interventi di edilizia; alcuni, pochi, in articolo 21 (lavoro esterno) si occupano di giardinaggio, non a caso il verde nel cortile interno del grigissimo Due Palazzi è puntellato di aiuole iper-curate e fiorite, non c’è una foglia secca, l’erba è perfetta, l’ordine svizzero. Ancora, ci sono gli addetti alle cucine, quelli al vitto e sopravvitto (gli alimenti da acquistare negli empori interni agli istituti), quelli alle pulizie dei chilometri di corridoi e degli uffici; gli addetti alla distribuzione del vitto, alla lavanderia, il barbiere e alcuni che si occupano dell’assistenza ai compagni detenuti con disabilità. Intanto, di formazione professionale si sta occupando il direttore Claudio Mazzeo, arrivato tre mesi fa. Non commenta la vicenda della causa intentata dal detenuto lavorante, per mancanza di informazioni dirette ma ci tiene a rimanere in tema lavoro: “Sto impegnandomi per portare in carcere scuole professionali, mi riferisco al potenziamento della scuola edile e a far partire una sezione dell’istituto alberghiero. È fondamentale per i detenuti ottenere un titolo professionale, che potranno spendersi una volta fuori, in Italia o altrove: di cuochi e addetti alle cucine o muratori ce n’è bisogno in ogni parte del mondo”. Bari: “baby gang, un Piano Marshall contro il disagio” di Lucia del Vecchio Corriere del Mezzogiorno, 12 aprile 2018 Bari è al quarto posto in Italia per numero di minorenni (sono 935) seguiti dagli uffici di servizio sociale su input dell’autorità giudiziaria. Il procuratore del Tribunale dei minorenni, De Salvatore, ha lanciato l’allarme sul salto di qualità nei reati. Dopo il servizio del Corriere, che ha reso noti i dati del dipartimento di giustizia minorile del ministero, i politici baresi avanzano proposte per arginare l’emergenza della devianza minorile. Secondo il consigliere comunale Fabio Romito, è necessario procedere “subito con un piano Marshall per il disagio sociale”, mentre la parlamentare della Lega Annarita Tateo sostiene l’importanza di ripartire dalla scuola. Per il capogruppo al Comune di Fratelli d’Italia, Filippo Melchiorre, bisogna avviare “una rigenerazione delle reti sociali”. Attuare un piano Marshall per il disagio sociale, reintrodurre l’insegnamento dell’educazione civica a scuola, rigenerare le reti sociali per favorire la nascita di una coscienza civica: piccoli boss crescono a Bari all’ombra delle grandi organizzazioni criminali e la politica prova a dare delle risposte. I numeri della relazione del Dipartimento di giustizia minorile del ministero sulla devianza minorile su cui il Corriere ha acceso i riflettori sono, per il centrodestra barese, la fotografia di un disastro annunciato e il frutto di un fenomeno ampiamente sottovalutato. “In un clima di generale devastazione - ragiona il consigliere comunale Fabio Romito (gruppo misto) - l’unico aspetto degno di nota è che Bari, sotto il profilo della giustizia minorile e dell’amministrazione penitenziaria, ha una delle Procure e degli istituti penali minorili più qualificati d’Italia, tesi al reale recupero dei ragazzi a rischio. Ma non funzionano welfare territoriale e politiche sociali. Da una parte i Comuni non sono in grado di gestire la mole gigantesca di disagio sociale che diventa terreno fertile per il reclutamento di nuove e giovanissima manodopera per la criminalità. Dall’altra parte, c’è un anello debole e obsoleto che è quello dei protocolli attraverso cui i servizi sociali dovrebbero governare e prevenire il disagio”. E qui il riferimento al “piano Marshall contro il disagio sociale. Bari ne potrebbe diventare capofila con una proposta da avanzare al governo, pensando anche alla istituzione di una Commissione speciale per mettere in campo azioni concrete e alla riforma degli istituti preposti ai servizi sociali, ormai vetusti e non più in linea con le esigenze del territorio”. Se Romito propone dunque di “stravolgere il punto di vista con cui ci si avvicina ad un problema che richiede nuovi modelli di intervento”, la neoparlamentare barese della Lega, Annarita Tateo non ha dubbi: “Bisogna ripartire dalla scuola, a cominciare dalla reintroduzione dell’educazione civica come materia di insegnamento già dalle primarie. Sarà la prima cosa che proporrò in Parlamento. Bisogna, poi, intervenire sulla povertà culturale che incide sugli atteggiamenti deviati dei minori. Non ultimo, anzi in forte crescita, come conferma la relazione del ministero, il bullismo. Credo che non si debba sottovalutare anche il cattivo funzionamento della comunicazione tra scuola, famiglia e assistenti sociali”. E ancora: “In tutti questi anni sono stati creati a Bari interi quartieri-ghetto. La sottovalutazione del fenomeno è purtroppo antica. Non basta aprire un centro a Enziteto. Al sindaco Decaro rivolgo l’invito a incontrarci al più presto per affrontare concretamente questi temi”. Filippo Melchiorre, capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Bari pensa, forte della sua esperienza di assessore ai Diritti civili e sociali nella giunta Di Cagno Abbrescia, alla “rigenerazione delle reti sociali per creare una coscienza civica. Le agenzie di prevenzione e repressione devono dialogare tra loro. Spesso le une non sanno dell’esistenza delle altre e viceversa. Poi, rimettere in piedi le unità di strada, quartiere per quartiere. Coinvolgere il mondo delle imprese. Togliere ossigeno alle sale da gioco regolamentando orari di apertura e chiusura di posti potenzialmente pericolosi per i minori. L’Amministrazione è chiamata a prendere provvedimenti forti. Abbia più coraggio. E il sindaco Decaro ci spieghi perché l’esperienza dell’Agenzia per la lotta non repressiva alla criminalità organizzata del Comune non è più proseguita”. Riva del Garda (Tn): Biblioteca vivente, i detenuti diventano “libri umani” gardapost.it, 12 aprile 2018 La biblioteca civica di Riva del Garda aderisce al progetto “Liberi da dentro”, che ha l’obiettivo di far conoscere il mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone, per superare stereotipi e pregiudizi. La Biblioteca vivente è un presidio culturale riconosciuto dal Consiglio d’Europa come metodo innovativo di dialogo e strumento di promozione di coesione sociale. Come in una biblioteca tradizionale è possibile consultare libri su argomenti vari, in una Biblioteca vivente è offerta la possibilità di “prendere in prestito” per un tempo stabilito un “libro umano”. I visitatori potranno conversare a tu per tu in maniera informale con i “libri umani”, persone che nella quotidianità non avrebbero occasione di incontrare e che spesso sono oggetto di pregiudizi e discriminazioni. Per questo progetto saranno principalmente detenuti o ex detenuti, ma anche familiari, volontari e operatori istituzionali e non del carcere. Insieme a Riva del Garda anche Trento e Lavis ospiteranno numerose iniziative. La biblioteca di Riva del Garda ospiterà la Biblioteca vivente il 16 giugno in piazza Cesare Battisti. “Liberi da dentro” è un progetto biennale finalizzato a diffondere sul territorio una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone. Attraverso la proposta di eventi e incontri pubblici, conferenze, iniziative nelle scuole, spettacoli e film, e con il coinvolgimento della cittadinanza nel processo di accoglienza nel tessuto sociale delle persone sottoposte a condanne penali, si vuole puntare alla promozione di una cultura capace di sviluppare una visione di tipo riparativo e di alimentare il senso di una responsabilità sociale collettiva. Cuore di tutta la proposta è il dar voce a varie testimonianze di persone detenute o ex detenute, perché si ritiene che il processo della narrazione personale autobiografica possa essere uno strumento efficace per permettere ai cittadini di conoscere, in prima persona, vicende e dimensioni abitualmente escluse dal dibattito pubblico. Il progetto, sostenuto dalla Fondazione Caritro, ha come promotori la Scuola di preparazione sociale, la Fondazione Franco Demarchi, l’associazione Dalla Viva Voce, l’associazione Quadrivium, i Comuni di Trento, di Lavis e di Riva del Garda, la rivista UnderTrenta, il Sistema bibliotecario trentino, il Museo Diocesano, la cooperativa ABCittà, Cinformi, Apas (Associazione provinciale aiuto sociale), Atas (Associazione trentina accoglienza stranieri), la Conferenza regionale volontariato carcere Trentino Alto Adige, con il patrocinio della Provincia autonoma di Trento. Il progetto “Liberi da dentro” ha l’obiettivo di far conoscere il mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone, per superare stereotipi e pregiudizi. Roma: carceri, venerdì e sabato il 51° convegno nazionale Seac romasette.it, 12 aprile 2018 I membri delle associazioni di volontariato penitenziario aderenti si incontrano il 13 e 14 aprile a Regina Coeli, per trasferirsi poi all’Istituto Maria Bambina. Al centro, la riforma penitenziaria e lo stato della pena. Prenderà il via dal carcere di Regina Coeli, venerdì 13 aprile, il 51° Convegno nazionale del Seac, il coordinamento degli enti e delle associazioni di volontariato penitenziario: due giorni di confronto e dibattito, fino a sabato 14, dedicati alla riforma penitenziaria e allo stato della pena. Ad aprire i lavori, alle 9, i saluti della direttrice della casa circondariale di Regina Coeli Silvana Sergi e del cappellano padre Vittorio Trani. Quindi prenderà la parola la presidente del Seac Laura Marignetti. Dopo di lei interverranno Santi Consolo, capo dipartimento Amministrazione penitenziaria, Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, e don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani. A parlare dello stato della pena nella riforma penitenziaria saranno Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Carmelo Cantone, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata e il presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin. La tavola rotonda sarà presieduta da Emilio Santoro, docente di Filosofia e storia del diritto dell’Università di Firenze. Nel pomeriggio, dalle 14, i lavori si spostano all’Istituto Maria SS. Bambina, dove si analizzeranno le prospettive dell’esecuzione penale esterna e delle misure di comunità con Elisabetta Laganà del Seac, Francesco Cascini, sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma, Alessandro De Federicis, avvocato, Alessandra Naldi, Garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano, Massimo Ruaro, docente di Diritto penitenziario dell’Università di Genova, e Valter Vecellio, vicecaporedattore del Tg2. L’ultima sessione del convegno sarà dedicata “alle cosiddette misure di comunità, il sistema di interventi sanzionatori non detentivi che rappresentano una delle più interessanti prospettive nell’esecuzione penale italiana”, si legge in una nota. Il Seac, con il sostegno della Fondazione con il Sud, ha intrapreso il progetto “Volontari per le misure di comunità” e lo presenterà il 14 aprile, alle 9, sempre all’Istituto Maria SS. Bambina. I lavori vedranno gli interventi di Domenico Arena, direttore Ufficio inter-distrettuale esecuzione penale esterna Piemonte Liguria e Valle D’Aosta, Lucia Castellano, dirigente generale esecuzione penale esterna Dipartimento Giustizia minorile e di comunità, e Carlo Mele, direttore di Caritas Avellino e Garante dei diritti delle persone private della libertà della Provincia di Avellino. Le associazioni partner del progetto provenienti da Avellino, Cagliari, Cosenza, Isola Capo Rizzuto, Milano, Palermo, Pisa, Trento e Verona presenteranno le iniziative realizzate e da realizzare a livello locale. Seguirà l’intervento di don Guido Innocenzo Gargano, professore straordinario di Teologia dogmatica alla Pontificia Università Urbaniana di Roma. Padova: ecco il nuovo polo sportivo del carcere di Andrea Miola Il Gazzettino, 12 aprile 2018 Una tribuna coperta da duecento posti adiacente il campo da calcio, spogliatoi, magazzini e infermeria oltre al rifacimento delle superfici dei campi da tennis e pallacanestro. Un bel passo in avanti in termini di impiantistica sportiva per la casa di reclusione Due Palazzi che ieri ha inaugurato le nuove strutture con una vera e propria festa dello sport, incentrata sulla sfida di calcio tra la Polisportiva Pallalpiede, la squadra formata da detenuti che milita in Terza categoria, e la Berretti del Padova. Prima del fischio d’inizio il taglio del nastro e l’inno nazionale cantato dalla soprano Stefania Miotto. “Lo sport - ha dichiarato il direttore della casa di reclusione Claudio Mazzeo - aggrega e autodisciplina per cui è fondamentale soprattutto in un istituto penitenziario. Questa è una vetrina da riempire di contenuti e così abbiamo di recente stipulato un protocollo con il Coni per organizzare varie iniziative”. In rappresentanza di quest’ultimo organismo c’era il presidente regionale Gianfranco Bardelle. “Lo sport fa stare assieme - le sue parole - dimenticare il passato e pensare a un futuro diverso”. “Siete una parte della città - ha detto il sindaco Sergio Giordani ai detenuti che gremivano la tribuna - e faremo per voi tutto quello che ci è possibile”. Con lui il vice Lorenzoni e gli assessori Benciolini, Nalin e Bonavina. E pure il mondo del calcio era rappresentato ai massimi livelli locali con il delegato regionale Figc Giuseppe Ruzza che ha sottolineato il ruolo dello sport nel fare recuperare gli errori commessi, il numero uno provinciale Giampiero Piccoli, l’associazione arbitri e il vicepresidente del Padova Edoardo Bonetto. “Anche attraverso lo sport - ha chiuso il provveditore delle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia - si rigenera la persona”. La Pallalpiede, presieduta da Paolo Piva e allenata da Fernando Badon, conta una trentina giocatori di dieci nazioni diverse. In campionato lotta per il podio, ma il suo più grande orgoglio è quello di avere finora sempre vinto la Coppa Disciplina. Ieri ha perso per 2-1 (doppietta di Ferrari), con la soddisfazione di segnare per prima grazie al congolese Kevin Lushima, definito un “nuovo acquisto” e già autore di quattro reti in altrettante gare. Torino: giustizia certa, ecco dove la fiction supera la realtà di Federico Genta La Stampa, 12 aprile 2018 Quattro giorni di incontri al Circolo dei lettori. “La vera forza delle serie televisive è quella di restituire allo spettatore quel senso di giustizia che spesso viene a mancare nel mondo reale”. Ecco il significato dell’incontro Criminologia e scienze forensi - fiction e realtà a confronto, domani dalle 18 al Circolo dei Lettori. L’appuntamento, inserito nella quattro giorni del festival Torino Crime 2018, è con il profiler torinese Fabrizio Russo “per una riflessione sul tema delle investigazioni criminali e su come vengono riproposte attraverso romanzi, show televisivi e fiction”. Insieme a Russo ci saranno lo psichiatra Piero Petracco e Carlo De Filippis, giallista Mondadori. “Che il pubblico sia quello seduto sul divano davanti alla televisione, in un salone dell’università della terza età piuttosto che della Bicocca di Milano, il tema è sempre lo stesso: la certezza della condanna dei colpevoli” dice Russo. Facile garantirla nella finzione, meno semplice nel mondo reale. “Casi come quello di Cogne o di Yara Gambirasio, malgrado le condanne, non restituiranno mai la stessa sicurezza. Così viene a mancare quel senso di giustizia, se vogliamo popolare. Nella realtà, insomma, non c’è il lieto fine, o ancora meglio un finale certo”. Fabrizio Russo è un criminologo e un profiler, professione salita alla ribalta anche grazie a serie televisive come “Manhunt: Unabomber”, che racconta la caccia al matematico americano, ex docente universitario, che ininterrottamente, tra il 1978 e il 1995, inviò una serie di pacchi esplosivi. “È una ricostruzione fedele delle attività investigative dell’epoca. Dove il regista attinge direttamente dal mondo reale per tradurlo in un prodotto di successo”. Oggi il profiler viene impiegato nell’ambito di unità specifiche delle forze dell’ordine, oppure a titolo di consulente di un avvocato o perito per analizzare, ad esempio, le capacità di intendere e di volere di un soggetto. Ci sono, invece, fiction meno riuscite da un punto di vista tecnico? “Certamente. È il caso di un altro successo televisivo come Criminal Mind, dove il profiler è una sorte di supereroe bello e affascinante. Che riesce in poche ore a conoscere ogni dettaglio psicologico del sospettato. Insomma, si trasforma la psicologia in qualcosa di più simile alla magia. Dove gli assassini alla fine si arrendono all’intelligenza di chi gli sta dando la caccia. Cosa che, nel mondo reale, succede davvero di rado”. Torino Crime si pone da tre anni l’obiettivo di approfondire i fenomeni criminali attraverso le testimonianze di investigatori, esperti, giornalisti e scrittori di gialli. Per l’edizione 2018 la direzione del festival è stata affidata a Biagio Fabrizio Carillo, scrittore noir e tenente colonnello dei carabinieri, attualmente al comando del Nas di Alessandria. Il ciclo di eventi entra nel vivo oggi al tribunale di Torino con “Crime Analyst”, con lo psichiatra Alessandro Meluzzi. La sera, dalle 21, Matilde D’Errico e Sebastiano Pucciarelli presentano al Circolo dei Lettori il programma di Rai 3 “Amore criminale”. Domani sarà la volta di Anthony Pinizzotto, psicologo forense dell’Fbi che presenta il suo lavoro nell’unità di scienze comportamentali. Torino: ieri il convegno “Giustizia e Sanità, un dialogo necessario” cr.piemonte.it, 12 aprile 2018 “Fin da quando si è cominciato a discutere di una sanità penitenziaria che si collegasse in modo diverso ai servizi sanitari territoriali e ospedalieri ho ritenuto si trattasse di un percorso necessario e positivo. Visitando gli istituti penitenziari mi ero reso conto dell’urgenza di far uscire l’universo penitenziario dalla sua “segretezza”, facendo così rientrare la medicina sanitaria nell’alveo del servizio sanitario pubblico. Facendo, come volontario, il medico ortopedico della squadra di rugby del Lorusso e Cutugno di Torino sono consapevole di quanto resti ancora da fare per dare compiuta attuazione a quanto previsto dalla nostra Carta costituzionale per garantire a tutti, anche alle donne e agli uomini che vivono in carcere, un servizio sanitario disponibile e amico delle persone, universale e gratuito”. Con queste parole il presidente del Consiglio regionale Nino Boeti ha aperto il seminario “Giustizia e Sanità: un dialogo necessario”, che si è svolto questa mattina a Palazzo Lascaris. Promosso dal Consiglio e dalla Giunta regionale in collaborazione con l’Ufficio del garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria (Prap) del Piemonte, della Liguria e della Valle d’Aosta e dal dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino, si è proposto come un’occasione di confronto e di presentazione delle attività formative sulla cura della salute in carcere come il seminario in programma il 9 e il 10 maggio sul tema “L’integrazione tra Sanità e Giustizia, reciproche aspettative, risultati e criticità” e quello sulla prevenzione del rischio di suicidio in carcere, in fase di definizione. “A dieci anni dalla importante riforma che ha fatto passare le responsabilità della sanità penitenziaria dal Ministero di Giustizia alla Sanità, e quindi alle Regioni - ha dichiarato il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, che ha moderato i lavori - è giunto il momento di valutare l’operatività di questo servizio sapendo che in molti casi nella popolazione detenuta abbiamo persone che solo con il carcere vengono in contatto con i servizi sanitari e prendono consapevolezza magari di uno stile di vita sbagliato o assolutamente dissoluto. È un momento importante in cui il dialogo deve essere condivise tra amministrazioni diverse che hanno compiti diversi ma una responsabilità unica: tutelare il diritto alla salute e al benessere del cittadino temporaneamente recluso nelle patrie galere”. “Al centro del dibattito sulla Sanità - ha assicurato il presidente della quarta Commissione del Consiglio regionale (Sanità e assistenza) Domenico Ravetti - non c’è solo la riforma ospedaliera ma il tema delle cronicità, che interessa sempre più una popolazione che invecchia. Anche se le risorse si rivelano sempre inferiori alle necessità, restituire garanzie e diritti a chi vive ai margini è una pratica che va attuata e una sfida che dobbiamo accettare”. Con la direttrice del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino Laura Scomparin - che ha sottolineato le molteplici occasioni di collaborazione del dipartimento da lei diretto non solo con il garante regionale dei detenuti ma anche con la garante regionale dell’infanzia e dell’adolescenza e con il Comitato regionale per i Diritti umani - e il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Liberato Guerriero sono intervenuti Marina Gentile della direzione regionale Assistenza sanitaria e sociosanitaria territoriale, i direttori dell’Ufficio Affari generali, personale e formazione e dell’Ufficio detenuti e trattamento del Prap Romolo Pani e Francesca Romana Valenzi, il coordinatore regionale dei referenti aziendali per la Sanità penitenziaria Antonio Pellegrino e il ricercatore del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino Giovanni Torrente. Hanno preso parte ai lavori, tra gli altri, i consiglieri Davide Bono e Gian Paolo Andrissi. Roma: Erri De Luca “con la scrittura i detenuti immaginano il futuro” di Roberta Barbi vaticannews.va, 12 aprile 2018 Il grande scrittore napoletano riferisce di non rifiutare mai un invito in carcere, perché lì si trovano quelli che la società chiama “rifiuti”, ma sono, invece, “risorse che aspettano di essere liberate”. In un’altra occasione aveva detto che “scrivere è una forma di evasione legale”, una specie di attraversamento della costrizione delle sbarre attraverso la fantasia; oggi si spinge più in là, Erri De Luca, che anche quest’anno ha aderito al progetto del Premio letterario per detenuti Goliarda Sapienza in qualità di scrittore tutor. “I detenuti scrivendo della propria vita, delle proprie esperienze, affrontano quello che non si sono mai detti - afferma - e così fissano dei punti utili per immaginare il proprio percorso futuro fuori di lì”. Grazie ai racconti di Goliarda Sapienza tutti conosciamo il carcere - Non solo una funzione catartica, quindi, quella della scrittura, ma di vera e propria definizione della realtà: “Inizialmente la realtà è opaca - racconta - poi arrivano le parole, che sono una sorta di paio di occhiali attraverso i quali si vede tutto più nitido”. In questa direzione, ancora più astratte sono le parole “carcere” e “scrittura”, almeno per chi non conosce queste due realtà, invece il carcere “riguarda tutti” e a conoscerlo da vicino certamente contribuiscono non poco i racconti in gara per il premio. Per i detenuti, in particolare, la scrittura può essere “confessione, ma io direi che ha una funzione proprio sanitaria, nel senso che fa del bene a chi la pratica”, spiega. In prigione l’incontro con i libri è fondamentale - A colpire il tutor Erri De Luca, nei racconti di questa come delle edizioni passate, è “l’intensità d’espressione. Come lettore ho spesso bisogno di sentire che dietro a una storia non c’è solo fumo, ma c’è qualcuno, colui che scrive, che quello che racconta lo ha attraversato fisicamente. È un problema di identità tra ciò che si dice e ciò che si fa”. Gli chiediamo se la parabola della sua vita, in cui si è scoperto scrittore molto tardi, può essere per i detenuti esempio di rinascita: “Nessuno lo è, ognuno trova la sua strada, spesso, come me, a tentoni - scherza - bisogna avere la fortuna di fare gli incontri giusti, quelli che ti smuovono dentro qualcosa”. “In carcere questi incontri si fanno soprattutto con i libri - aggiunge - in genere arrivi lì che non ne hai mai letto uno, ma si ha molto tempo per recuperare e si scopre che la lettura non solo spalanca gli occhi e i pensieri, ma apre le porte a una futura prospettiva di vita”. Un tutor che porta davvero fortuna ai suoi allievi - Finché sono “dentro”, è anche lui, come tutor, ad accompagnarli, almeno nella loro avventura letteraria, e con grande successo. Sono molti, infatti, i suoi allievi che hanno vinto il concorso nelle passate edizioni: “Ma io non c’entro niente, sono arrivato a cose fatte, a racconto scritto”, si schernisce, e ribadisce di non essere avvezzo ai premi e alle giurie, però Goliarda Sapienza è una piacevole eccezione: “Non ho idea di chi la giuria premierà quest’anno - ci congeda - staremo a vedere”. Spoleto (Pg): campionato di scacchi in carcere, squadra viterbese contro detenuti tuttoggi.info, 12 aprile 2018 Nella casa di reclusione di Maiano l’incontro del campionato italiano a squadre di scacchi, alla presenza del presidente regionale del Coni. Sabato 7 Aprile si è svolto per la prima volta all’interno di un istituto penitenziario un incontro del Campionato italiano a squadre di scacchi. Il match che si è disputato presso il carcere di Spoleto ed ha visto scontrarsi la squadra dell’asd folignate “Diamoci Una Mossa” e quella viterbese “Bobby Fischer”. L’evento, promosso dal Coni Umbria e dall’istruttore Fide Mirko Trasciatti, ha visto la partecipazione di significative figure del mondo sportivo, quali il presidente del Coni regionale, Domenico Ignozza, il Direttore nazionale del Campionato italiano a squadre nonché consigliere della Federazione Scacchistica Italiana, Fabrizio Frigieri, l’ispettore e responsabile del progetto “Sport in carcere”, Edoardo Cardinali, l’educatrice e responsabile del progetto “Sport in Carcere”, Sabrina Galanti e lo stesso Trasciatti. All’evento hanno partecipato i cinque detenuti (quattro giocatori e un capitano non giocatore) che per il secondo anno consecutivo si sono tesserati alla F.S.I. e che dal giugno 2015 stanno seguendo il corso scacchi. La squadra viterbese si è invece presentata con il presidente dell’associazione, Danilo Monarca, che ha giocato in prima scacchiera, seguito in ordine da Francesco Cristofori, Francesco Ciuchi e Lorenzo Centomani. Durante l’evento non sono mancati i riconoscimenti che sono stati assegnati alle autorità presenti. Il Presidente del Coni Ignozza ha voluto omaggiare con un gagliardetto del Coni regionale le due squadre presenti, il consigliere Fsi Frigeri e Mirko Trasciatti. Anche lo stesso Trasciatti, in qualità di Consigliere dell’Associazione Scacchistica Italiana Giocatori per Corrispondenza ha consegnato a tutti i presenti una copia dello YearBook dell’A.S.I.G.C. che è stato molto apprezzato. Un ringraziamento, fanno sapere i detenuti, va a chi, come Roberto Messa, Lorenzo Benetti e Luca Barillaro, ha permesso di migliorare il loro livello tecnico attraverso donazioni o scontistiche riservate. La manifestazione, che aveva come obiettivo quello di mettere a frutto le conoscenze e gli insegnamento fino ad ora appresi, ha permesso così a cinque detenuti di mettersi alla prova con giocatori esterni e di alto livello. “L’evento, estremamente gradito sia dai detenuti che dalla Direzione carceraria, potrebbe avere in futuro una seconda edizione” dichiara Trasciatti. Sei personaggi dietro le sbarre nel doc “Fuori fuoco” La Repubblica, 12 aprile 2018 Sarà presentato domenica 15 aprile al Festival del giornalismo di Perugia Fuori fuoco, il film girato da sei detenuti all’interno del carcere di Terni. Tutto è iniziato da un progetto sperimentale autorizzato dalla direttrice, Chiara Pellegrini: sei detenuti hanno imparato a usare una videocamera e per alcuni mesi si sono ripresi raccontando le loro vite. Sei storie diverse, per lingua, personalità e condanne - omicidio, rapina a mano armata, traffico di stupefacenti - e il risultato è un documentario che racconta la cruda verità di sei personaggi dietro le sbarre. Molti i cambiamenti in corso d’opera e gli incidenti di percorso: alla fine delle riprese, sfruttando un permesso speciale, uno dei sei, Slimane Tali, è evaso, scappando nel suo Paese, il Marocco. Oreste Crisostomi, film-maker di Terni, e l’avvocato Michele Lo Foco durante un cineforum all’interno del carcere hanno ispirato i detenuti per la definizione del soggetto. Ferdinando Vicentini Orgnani, regista, e Sandro Frezza, produttore, con la Alba Produzioni, hanno accompagnato per quasi tre anni la realizzazione del film. Le musiche sono di Alessandro Deflorio, i brani sono di Luca Salzano. Il successivo coinvolgimento di Rai Cinema ha dato il via alla produzione di un vero documentario, la cui versione breve (di 52 minuti) andrà in onda su Rai1 sempre domenica 15 aprile all’interno di Speciale Tg1, a mezzanotte circa. Usa-Russia, ora è sfida sulle basi italiane di Giuseppe Agliastro La Stampa, 12 aprile 2018 Vladimir Putin cerca di usare l’Italia come un grimaldello per allentare una possibile alleanza occidentale anti-Assad in Siria. Mentre Usa, Gran Bretagna e Francia si consultano per un’eventuale azione comune in risposta al presunto attacco chimico di Douma, il leader russo approfitta di una cerimonia al Cremlino per sottolineare che Mosca è “pronta a sviluppare la sua collaborazione con l’Italia sulle questioni internazionali”. E durante la consegna delle credenziali di 17 nuovi ambasciatori, tra cui l’italiano Pasquale Quito Terracciano, coglie l’occasione per definire il nostro Paese “un partner chiave” della Russia “sul continente europeo”. Al di là delle dichiarazioni di facciata, l’Italia ha nei confronti della Russia una posizione meno dura rispetto ad altri Stati occidentali, e Mosca ha tutto l’interesse di evitare che Roma conceda le basi di Aviano e Sigonella per eventuali raid contro il regime di Damasco. Del resto, mentre il Cremlino preme in una direzione, la Casa Bianca spinge da tutt’altra parte, alla ricerca di “partner e alleati”, come lascia intendere la visita a Palazzo Chigi della numero due dell’ambasciata Usa a Roma Kelly Dignan. L’obiettivo di Putin resta quello di portare scompiglio nella compagine occidentale. Ma come reagirà la Russia a un eventuale attacco missilistico americano in Siria? Difficile dirlo finché non si vedranno le conseguenze del raid annunciato da Trump. “I missili arriveranno”, ha twittato l’imprevedibile presidente Usa in quella che pare una “dichiarazione di guerra 2.0”. Ma gli esperti sostengono che la risposta russa dipenderà essenzialmente dalla portata dell’attacco, da quali strutture saranno colpite e da eventuali vittime tra i soldati russi. Il rischio è quello che si sprofondi in un pericolosissimo confronto diretto tra Mosca e Washington. Gli analisti ritengono però che sia i russi sia gli americani vogliano evitare uno scenario del genere, i cui esiti potrebbero essere catastrofici. E non escludono raid mirati come quello dell’aprile 2017, quando da due navi Usa furono lanciati oltre 50 missili contro la base siriana di Shayrat, da cui era partito il precedente attacco chimico imputato ad Assad. Secondo il politologo Fyodor Lukyanov, inoltre, al momento è da escludere che la Russia rafforzi la propria presenza militare in Siria, dove dispone di una base navale, a Tartus, e di un aerodromo, a Hmeymim. Un giudizio che sembra confermato dalle parole pronunciate ieri sera da Putin e che suonano come un invito alla calma proprio mentre Trump getta benzina sul fuoco: “La situazione nel mondo - ha detto il presidente russo - non può non suscitare preoccupazione, sta diventando sempre più caotica, ma la Russia spera che il buonsenso prevalga”. Nel frattempo però, mentre le navi militari Usa solcano le acque del Mediterraneo, 15 vascelli russi iniziano nuove esercitazioni belliche proprio davanti alla Siria. Mosca si dice pronta ad “abbattere i missili” con i suoi sistemi di difesa antiaerea S-300 e S-400 e a “distruggere i siti di lancio”. E schiera la sua polizia militare a Douma, cioè nel luogo del presunto attacco chimico di cui è accusato Assad. Ma che per la Russia è un complotto internazionale contro il suo alleato. L’Italia neghi le basi per i raid in Siria di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 12 aprile 2018 “Nessuna base in Italia per la nuova guerra “intelligente” di Trump e Macron”: questa dovrebbe essere la posizione del nostro Paese di fronte al brutto vento che tira nel Mediterraneo orientale, per una guerra quella in Siria, aizzata nel 2011 dall’asse degli “Amici della Siria” che, non contenti del disastro provocato finora che avrebbe dovuto sortire lo stesso effetto “riuscito” della Libia, rilanciano ora quasi la stessa coalizione di guerra di cinque anni fa. Pronti a colpire in Siria obiettivi militari di Assad, difficilmente distinguibili però da quelli di Russia e Iran che lo sostengono in armi, come dimostra l’uccisione - certo mirata - da parte del raid israeliano che ha colpito una base siriana provocando 14 vittime tra cui quattro consiglieri di Teheran. Nessuna base in Italia - non basta dire italiana - perché la configurazione geostrategica della penisola, piena zeppa di basi militari Usa e Nato, dice che oggettivamente è già coinvolta e lo sarà ancora di più nello scenario di un conflitto che rischia di deflagrare ed estendersi nel Medio Oriente in macerie. Deve dire di no all’uso di base militari in Italia per colpire la Siria, il governo Gentiloni rimasto in carica per il disbrigo degli affari correnti, perché partecipare ad una guerra, anche “solo” concedendo la disponibilità delle basi, operative o logistiche, non è affare che può essere etichettato come “disbrigo degli affari correnti”. Che pretende il ruolo del Parlamento e di un governo effettivo. Altro che Commisione speciale. Dovrebbe dire di no anche il variegato schieramento dei partiti alla seconda consultazione dal presidente Mattarella dopo il voto di più di un mese fa. Per la quale consultazione le chiacchiere stanno a zero. Ma potrebbe essere l’occasione, dopo le ambiguità e le promesse della campagna elettorale, per parlare finalmente di contenuti di governo. Così l’ipotesi ventilata dal M5 Stelle del famoso “contratto” - malamente paragonato a quello di Cdu-Csu e Spd per la Grosse Koalition tedesca - con dentro i contenuti del probabile accordo da proporre in modo “paritario” a Salvini-Meloni-Berlusconi o al Pd, potrebbe uscire dalle nebulose. Per contenere o la cosiddetta lealtà al fronte occidentale, come da rassicurazioni di Di Maio e Salvini in reiterata missione all’ambasciata Usa, oppure il rifiuto a partecipare all’ennesima guerra scellerata che andrebbe ad aggiungersi ad un conflitto armato che finora ha fatto 400mila vittime e milioni di profughi. Soprattutto perché la guerra che si annuncia dai due “giustizieri”, entrambi con esperienza imperiale e coloniale, come vendetta bellica per le presunte responsabilità di Damasco nell’uso di armi chimiche, proprio mentre Assad sta vincendo la guerra ed è sotto i riflettori del mondo, serve a Trump come distrazione. Dal fatto che è braccato in patria per la vicenda “Russiagate”; e se bombarda, di quello parleranno i media invece che di pornostar, e poi andrebbe a colpire interessi strategici della Russia. Insomma sarebbe una prova di smarcamento e “indipendenza”: first America. Anche per Macron è una distrazione, dal legame fortissimo con gli interessi dell’alleato Arabia saudita - viene in mente chissà perché Sarkozy con Gheddafi - e dalla prima vera crisi sociale e politica che lo investe in questi giorni. Un intervento motivato da entrambi per punire la Siria, come se il ruolo dell’Europa e degli Stati uniti in primis non l’avesse già distrutta abbastanza. E che dal punto di vista militare non fiaccherà certo Damasco, ma che Trump deve fare a tutti i costi con il soccorso di Macron - Londra sembra guardinga - e sotto impulso di Israele, perché lo ha annunciato e non può perdere la faccia. Magari non entro 24-48 ore come ha proclamato tronfio ma, dopo lo scontro all’Onu, aspettando l’inchiesta dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) sul campo. Ma se intanto ci sarà il bombardamento su obiettivi siriani, stavolta la vicenda promette il peggio. Perché la Russia minaccia di reagire colpendo mezzi e basi di lancio degli eventuali bombardamenti. Siamo a quanto pare all’addio alla guerra per procura e all’appalesarsi di un confronto bellico diretto nell’area. Che non tarderà ad espandersi. E l’Italia mediterranea, se coinvolta, è davvero a un tiro di missili. Privacy. Facebook raccoglie dati anche su persone non iscritte La Stampa, 12 aprile 2018 Nella seconda giornata di audizione alla Commissione Energia e Commercio della Camera dei Rappresentanti americana, il Ceo si trova ad affrontare il tema della privacy. E il social network non ne esce benissimo. Si sapeva già che Facebook crea “profili fantasma”, incrociando i dati degli amici di vari utenti. Ora la conferma arriva dallo stesso Zuckerberg, nella seconda giornata di audizione alla Commissione Energia e Commercio della Camera dei Rappresentanti americana per discutere dello scandalo Cambridge Analytica. “In generale, raccogliamo informazioni su persone non iscritte a Facebook per motivi di sicurezza”. È un passaggio della risposta che il fondatore e Ceo di Facebook, elabora per rispondere ad una domanda del deputato Ben Lujan, rappresentante del New Mexico. Il congressman si infervora davanti alle spiegazioni fornite dall’interlocutore: “Mi sorprende che non se ne sia parlato molto oggi. Lei dice che ognuno controlla i propri dati. Ma voi raccogliete dati su persone che non sono iscritte e che non hanno firmato nessun accordo sulla privacy. Dobbiamo sistemare tutto questo”. Il meccanismo è semplice ma inesorabile: partendo dalla rubrica di un utente, Facebook registra il nome e il numero di una persona, anche se non iscritta. Ma questa persona, nella rubrica di un altro, può avere associato a quello stesso numero altri dati, o una foto. E quei dati, come la mail o il nome, possono essere stati usati magari per mettere un like su una pagina web, fornendo altri dettagli: così alla fine Facebook raccoglie tutte le informazioni disponibili che fanno capo agli stessi identificatori (ad esempio il numero di telefono o la mail) e costruisce un profilo di quella persona anche se non è ufficialmente iscritto al social network. Tutto, naturalmente, per poter calibrare meglio i messaggi pubblicitari che questa persona vedrà nella sua navigazione sul web. “Se abbiamo informazioni relative a visite” ad altri siti “lei ha modo di accedere a tali informazioni e cancellarle”, dice Zuckerberg replicando ad una domanda sullo stesso tema posta da Paul Tonko, deputato democratico dello stato di New York. “Ho il timore che lei stia agendo solo perché preoccupato per il suo brand”, dice Tonko, accendendo i riflettori su “un modello di business in cui gli utenti sono il prodotto”. Anche oggi si parlato molto di privacy naturalmente, e spesso le domande dei membri della Commissione sono cadute sulle nuove norme europee. “Ci stiamo lavorando”, ha risposto Mark Zuckerberg al deputato che gli ha chiesto se il social network sia pronto per l’entrata in vigore di nuove regole europee pensate per potenziare la protezione dei consumatori. Il riferimento è alla General Data Protection Regulation, che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio in tutti gli Stati membri. Quel provvedimento aumenta le responsabilità su come le informazioni degli europei sono usate, conservate e condivise da gruppi privati e dalla pubblica amministrazione. L’affermazione di Zuckerberg conferma gli appunti da lui usati ieri al suo debutto a Capitol Hill. Fotografati dall’Associated Press mentre il 33enne si era allontanato dal suo posto durante una pausa e fatti circolare su Twitter da un giornalista di Cbs, quegli appunti contenevano il consiglio esplicito di “non dire che facciamo già quello che la GDPR richiede”. In ambito regolatorio, il Ceo di Facebook aveva usato parole concilianti sulle autorità Ue: “Credo che [gli europei] facciano le cose bene”. Quindi sì, si potrebbe discutere se adottare anche in Usa un simile approccio regolatorio, aveva dichiarato Zuckerberg riconoscendo che “in Usa abbiamo sensibilità diverse”. Per lui, “la nostra posizione non è che la regolamentazione è cattiva. Il punto è quale sia il giusto framework, non se ce ne dovrebbe esserne uno”. Privacy. Facebookgate, i garanti Ue: “le scuse non bastano” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 12 aprile 2018 Nel secondo giorno di audizioni, questa volta alla Camera degli Stati Uniti, il ceo e cofondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha rivelato di essere stato vittima anche lui - insieme a 87 milioni di americani - di Cambridge Analytica: i suoi dati personali sono finiti nelle reti del “data mining” usato dalla società per profilare un’offerta politica a sostegno della candidatura di Donal Trump alla Casa Bianca nel 2016. “Pensiamo che tutti meritino una buona protezione della vita privata” ha detto Zuckerberg a chi lo interrogava - com’è successo anche al Senato - sulla possibilità degli utenti americani di beneficiare di un nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, chiamato Rgpd, che entrerà in vigore il 25 maggio. “Lavoriamo per fare più in fretta possibile” ha aggiunto. I commenti gli sono valsi i ringraziamenti di Vera Jourova, commissaria europea alla Giustizia: “Grazie, signor Zuckerberg. Stavo pensando a come pubblicizzare il nuovo regolamento sulla protezione dei dati. E voilà, è fatta”. Il Regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Ue semplificherà le regole, sostituendo le diverse leggi nazionali e creerà un ente regolatore a livello europeo per applicarle. Sancirà l’obbligo per le aziende che raccolgono ed elaborano i dati personali di comunicare ai loro utenti chi sono, quali informazioni stanno utilizzando e perché, per quanto tempo saranno memorizzate e chi vi avrà accesso. Ieri il “Working Party 29”, un organismo dei Garanti Privacy europei ha annunciato la creazione di un “Social Media Working Group” per sviluppare una strategia di lungo termine. “Siamo impegnati a collaborare tramite il Facebook Contact Group (formato dai Garanti di Belgio, Francia, Germania (Amburgo), Olanda e Spagna) per parlare con una voce unitaria in materia” sostiene Andrea Jelinek, presidente dell’organismo. “Un social media multimiliardario che chiede semplicemente scusa non è abbastanza. Mentre il caso Facebook-Cambridge Analytica è nella mente di tutti, il nostro obiettivo è gettare la nostra rete molto al di là del caso specifico e pensare al lungo termine. Il problema riguarda anche altri attori, come gli sviluppatori di app e gli intermediari dei dati. Anche di questo dovrà occuparsi la nuova disciplina europea sul trattamento dei dati. Detenuti italiani all’estero: 3.278 vite sospese di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 12 aprile 2018 Più di 3mila nostri connazionali, 3.278 per la precisione, sono detenuti all’estero, lontani da casa e dai familiari, a volte richiusi in carceri dove non vengono rispettati i diritti umani, spesso privati di un equo processo. Uno su 5 ha riportato una condanna, tre su 4 sono ancora in attesa di giudizio: l’80% in Europa, il 14% nelle Americhe, il resto sparsi negli altri continenti. “Di loro si parla poco - denuncia all’Agi Katia Anedda, presidente dell’Onlus Prigionieri del silenzio, nata nel febbraio di dieci anni fa per dare una voce a chi non l’aveva - ma soprattutto per loro si fa pochissimo. E attenti a parlare di cifre esigue: se a ogni detenuto si rapporta una media di almeno 10 tra parenti e amici il numero di persone coinvolte sale a 30 mila. Senza contare i 5 milioni di italiani iscritti all’Aire e i 10 milioni che viaggiano per il mondo ogni anno: il rischio di finire in un incubo del genere vale potenzialmente anche per loro”. Katia Anedda, 49 anni, ha fondato l’associazione dopo che il suo ex convivente, Carlo Parlanti, è stato accusato di stupro e in seguito condannato a 9 anni di reclusione negli Usa. Da allora Prigionieri del silenzio di strada ne ha fatta, l’ultimo caso è quello Denis Cavatassi, l’imprenditore di Tortoreto condannato in primo e secondo grado alla pena capitale in Thailandia perché ritenuto il mandante dell’omicidio del suo socio d’affari. Ma in questo arco di tempo molti dei problemi sono rimasti immutati, in qualche caso si sono addirittura complicati. A partire dalla dimensione sociale del fenomeno: non è raro che i nostri connazionali detenuti vengano sottoposti a umiliazioni e a condizioni di vita del tutto incompatibili con un percorso di riabilitazione. Ed è praticamente la regola, soprattutto in certe realtà, che si ritrovino a vivere in strutture lontanissime dai grandi centri, senza cure adeguate (c’è chi aspetta anni per una Tac e chi si ammala di epatite, scabbia e altre infezioni), soprattutto senza un’assistenza legale degna di questo nome. Capita addirittura che le carte riguardanti arresto e reati contestati siano redatte solo nella lingua locale: Prigionieri del silenzio cita come esemplare il caso di Angelo Falcone e Simone Nobili, costretti in India nel 2007 a firmare un documento in hindi che di fatto era una confessione. “Altro, importante nodo - spiega Anedda - è quello economico, che riguarda essenzialmente le famiglie: ai problemi di comunicazione e alla scarsa conoscenza delle normative del posto, spesso si somma l’impossibilità di far fronte a spese legali nell’ordine di decine di migliaia di euro”. La nostra Costituzione, all’articolo 24, prevede la possibilità, per qualsiasi cittadino, italiano o straniero arrestato in Italia, di usufruire del gratuito patrocinio, “ma lo stesso non accade per gli italiani all’estero: i consolati hanno un generico budget annuale per aiutare i connazionali in difficoltà ma sono fondi insufficienti, falcidiati dai tagli degli ultimi anni. Anche a livello di personale”. Non è facile uscire dall’impasse, riconosce chi - proprio come i volontari dell’associazione - vive sul campo certe situazioni, aggravate a volte dalla consapevolezza di condanne arrivate dopo processi indiziari: “La gente - ammette Anedda - parte dal presupposto che chi sta dentro deve per forza aver commesso qualcosa, ma non è sempre vero. In ogni caso, è giusto che chi sbaglia paghi ma la dignità delle persone va comunque rispettata. Sempre”. Prigionieri del silenzio chiede da tempo l’istituzione di una “figura statale” che si occupi dei nostri connazionali detenuti in altri Paesi, o almeno l’estensione del “magistrato di collegamento”, previsto negli Stati in cui l’Italia è presente con un’autorità consolare ma, nei fatti, con poteri limitati. E la Convenzione di Strasburgo, quella che prevede che una persona condannata possa scontare la pena residua nel Paese di origine? “Andrebbe riscritta - risponde Katia Anedda, non è riconosciuta da tutti i Paesi e la lunghezza dei tempi di applicazione produce a volte effetti paradossali, con il sì alla richiesta di trasferimento che magari arriva a condanna finita”. La presidente di Prigionieri del silenzio parla di questo e di molto altro nel suo libro (Prigionieri dimenticati, italiani detenuti all’estero tra anomalie e diritti negati), una raccolta amara di casi dolorosi e, ciascuno a suo modo, emblematici. Ma non è facile forare la cortina di silenzio che spesso - magari per vergogna - i congiunti dei detenuti alzano a protezione dei loro cari laddove invece l’attenzione dei media potrebbe essere di aiuto. Filippo e Fabio Galassi, ad esempio, sono tornati a casa ai primi di aprile dopo tre anni passati in una prigione di Bata, in Guinea equatoriale, per reati finanziari di cui si sono sempre proclamati innocenti e dopo che del loro caso si erano occupate Le Iene. La sorella di Cavatassi spera che l’interessamento di Luigi Manconi e un’affollatissima conferenza stampa in Senato possano aver contribuito a smuovere le acque sebbene le notizie delle ultime ore non siano delle più incoraggianti: resta difficile, se non impossibile, fargli arrivare lettere, e non può nemmeno ricevere libri. E un caso a sé resta quello di Marcello Doria, che giovedì compirà 42 anni nella prigione di Paso de Dos Libres: accusato di complicità in un omicidio sulla base di una testimonianza poi ritrattata, vive sin da ragazzino in Argentina ma non ha la cittadinanza locale e dal 2013 non è più nemmeno nell’anagrafe degli italiani all’estero. Cancellato per “irreperibilità”. La Libia è un Paese senza diritti, anche per i libici di Ottavia Spaggiari Vita, 12 aprile 2018 Pubblicato il Rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, secondo cui sono migliaia le persone detenute nelle carceri del Paese in modo arbitrario e in condizioni disumane, senza accesso all’assistenza legale. A sollevare forte preoccupazione è inoltre il ruolo chiave attribuito dal governo ai gruppi armati nel Paese Persone ridotte in schiavitù e violenze estreme. È un quadro disumano quello dipinto dalle Nazioni Unite nel Rapporto sulla Libia pubblicato martedì scorso. L’ennesima denuncia di una situazione che viola oltre ogni misura i diritti umani e che non può essere tollerata dalla comunità internazionale. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, torna a parlare di Libia dopo che lo scorso novembre aveva dichiarato in un comunicato durissimo che “la sofferenza dei migranti detenuti nel Paese è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”, commentando le politiche dell’Unione Europea e dell’Italia a sostegno dei Centri di detenzione in Libia e della Guardia Costiera libica nell’intercettazione e nel respingimento dei migranti nel Mediterraneo. Questa volta l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Ohchr) punta l’attenzione sulla situazione interna e le condizioni della popolazione civile libica. “Uomini, donne e bambini in Libia sono detenuti in modo arbitrario, privati della libertà a seconda dell’appartenenza tribale, delle relazioni familiari e delle presunte affiliazioni politiche”, si legge nel Rapporto. “Le vittime non hanno nessuna possibilità di ricorrere a strumenti legali, mentre i gruppi armati godono di un’impunità totale”. Pubblicato in collaborazione con la Missione di supporto dell’Onu in Libia, il Rapporto si concentra sulle violazioni dei diritti umani relative alle modalità di arresto e detenzione nel Paese, analizzando la situazione dal 17 dicembre 2015, giorno della firma dell’Accordo Politico Libico (Apl), con l’obiettivo del raggiungimento di un Governo di Unità Nazionale, fino ad arrivare al 1 gennaio 2018. Secondo il report l’implementazione delle misure per fare fronte alle detenzioni arbitrarie, previste anche dall’Accordo Politico Libico, è rimasta ampiamente inattuata. A sollevare forte preoccupazione è inoltre il ruolo chiave attribuito dal governo ai gruppi armati nel Paese. “Invece di mettere un freno ai gruppi armati, riconducendone i membri sotto l’autorità dello stato e le sue strutture di controllo, le amministrazioni libiche hanno fatto affidamento a questi gruppi in maniera crescente, per quanto riguarda le funzioni relative all’autorità giudiziaria, inclusi gli arresti e le detenzioni, mettendoli a libro paga e fornendo attrezzature e uniformi”. Una strategia pericolosissima che ha attribuito a questi gruppi un potere crescente, sottraendoli alla possibilità di un controllo istituzionale. “Il Rapporto non solo rivela gli abusi orribili e le violazioni a cui sono sottoposti i libici privati della propria libertà, ma anche l’orrore e l’arbitrarietà di queste detenzioni, sia per le vittime che per le loro famiglie”, ha dichiarato Zeid Ra’ad Al Hussein. “Queste violazioni e questi abusi devono essere fermate e i responsabili di questi crimini devono essere ritenuti pienamente responsabili”. Secondo il report si stima che a ottobre 2017 fossero circa 6.500 le persone detenute nelle carceri controllate dalla polizia giudiziaria del Ministero della Giustizia libico ma l’Onu non ha avuto accesso ai dati relativi ai centri di detenzione sotto la giurisdizione dei Ministeri dell’Interno e della Difesa, né a quelle “informali” gestite direttamente dai gruppi armati. “Questi centri sono noti per l’utilizzo endemico della tortura e per altre violazioni e abusi di diritti umani. Ad esempio, il centro di detenzione della base aerea di Mitiga è gestito dalla Special Deterrence Force (Sdf), un gruppo armato alleato del Governo di Unità Nazionale di al-Sarraj e sotto il controllo del Ministero dell’Interno”, secondo l’Onu, “qui sarebbero detenuti 2.600 persone tra uomini, donne e bambini ai quali sarebbe negato l’accesso all’autorità giudiziaria. I detenuti sono soggetti a torture, uccisioni, oltre ad essere privati delle cure mediche e costretti a vivere in condizioni di estremo disagio”. Secondo il rapporto, i corpi di centinaia di persone sono stati ritrovati per strada, negli ospedali e delle discariche, molti portavano segni di ferite, torture e colpi di pistola. L’Ohchr ha sottolineato l’importanza da parte delle autorità libiche di condannare pubblicamente la tortura, gli abusi e le esecuzioni nelle carceri e di assicurare che vengano accertate le responsabilità di questi crimini. “Come primo passo gli attori governativi e non governativi che controllano il territorio ed esercitano funzioni simil-governative, devono rilasciare chi è detenuto in modo arbitrario e chi è privato della propria libertà illegalmente. Chi invece è detenuto legalmente deve essere trasferito in carceri ufficiali sotto il controllo efficace ed esclusivo dello Stato”, ha scritto l’Ohchr, “la mancanza di azione non infliggerà solamente una sofferenza su migliaia di detenuti e le loro famigli e provocherà altre perdite. Sarà anche profondamente negativa per qualsiasi sforzo di stabilizzazione, peacebuilding e riconciliazione”. La pubblicazione del Report arriva a pochi giorni di distanza dalla notizia dell’acquisizione da parte della Corte penale internazionale del rapporto Onu del 12 febbraio sulla Missione di supporto in Libia (Unsmil). Anche in questo Rapporto si denunciava la violazione sistematica dei diritti umani, sottolineando inoltre i comportamenti violenti della Guardia Costiera libica nelle missioni di intercettazione dei migranti. “Ad esempio, il 6 novembre 2017, i membri della Guardia Costiera avevano picchiato i migranti con una fune e agli vevano puntato addosso delle armi da fuoco, durante un’operazione di soccorso”. Una minaccia di morte da parte della Guardia costiera libica è stata documentata con un video anche dall’Ong Proactiva Open Arms che, nel corso dell’ultima missione di ricerca e soccorso, aveva rifiutato di consegnare i migranti salvati. La nave dell’organizzazione è poi stata sequestrata dalle autorità italiane una volta approdata a Pozzallo e e tre persone dell’equipaggio, tra cui il capitano Marc Reige e la capomissione Anabel Montes, hanno ricevuto un avviso di garanzia. Stati Uniti. Trump blocca i fondi destinati agli avvocati degli immigrati detenuti Il Secolo d’Italia, 12 aprile 2018 Il Dipartimento della Giustizia ha bloccato il programma che offre assistenza legale a cittadini stranieri detenuti che rischiano un decreto di espulsione da parte della magistratura competente. Lo stop temporaneo, affermano dall’amministrazione Trump, sarebbe stato deciso per verificare l’efficienza in relazione ai costi del Legal Orientation Program, che lo scorso anno ha fornito consulenze a 53mila immigrati in oltre una decina di Stati, compresa California e Texas. Il governo federale ha avviato anche una revisione di un altro programma del Vera Institute of Justice, cioè il servizio di “help desk” per fornire consigli a immigrati che non sono detenuti ma rischiano il procedimento di rimpatrio. Questi sportelli sono attivi nei tribunali di Chicago, Miami, New York, Los Angeles e San Antonio. Il governo vuole “condurre una revisione dell’efficienza di questi servizi, cosa che non è stata fatta da sei anni”, aggiungono le autorità federali. Ma da Vera, che coordina 18 associazioni nonprofit che offrono patrocinio gratuito ai migranti, arriva una dura denuncia: “questo è un aperto tentativo di questa amministrazione di negare ai migranti detenuti anche l’apparenza di un giusto processo”, ha detto Mary Meg McCharty, che guida il National Immigrant Justice Center. Secondo queste associazioni praticamente otto immigrati detenuti su 10 affrontano i tribunali dell’immigrazione - che sono separati dalle normali corti penali Usa - senza un avvocato. Il dipartimento di Giustizia ha affermato di aver l’obiettivo di sfoltire entro il 2020 l’arretrato di questi tribunali, attualmente di 650mila casi. E l’attorney general Jeff Sessions la scorsa settimana ha imposto delle quote di casi da chiudere ai giudici per spingerli a procedere in modo più veloce. L’amministrazione Trump ha avuto nei mesi scorsi uno scontro con il Vera Institute riguardo alla possibilità che i loro avvocati di informare le minorenni immigrate senza documenti, affidate ai servizi del dipartimento della Sanità, del loro diritto ad interrompere eventuali gravidanze. Cina. La denuncia di Amnesty: “migliaia di esecuzioni capitali segrete” La Stampa, 12 aprile 2018 La reale dimensione dell’uso della pena di morte nel Paese asiatico è sconosciuta perché i dati relativi sono celati dallo Stato. La Cina è rimasta nel 2017 lo Stato dove si eseguono la maggior parte delle condanne a morte. A segnalarlo è Amnesty International nel suo rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo, sottolineando che la reale dimensione dell’uso della pena capitale nel Paese asiatico è sconosciuta, poiché i dati relativi sono considerati segreto di Stato. Pertanto, il totale di 993 esecuzioni registrate nel mondo dall’organizzazione nel 2017 e riportate nel rapporto annuale sulla pena di morte “non comprende le migliaia che si ritiene abbiano avuto luogo in Cina”. Amnesty “ha monitorato l’uso della pena di morte nel corso dell’anno, così come le sentenze giudiziarie inserite nel database nazionale pubblico, il China Judgements Online della Corte suprema del popolo”, si legge nel rapporto. “Ancora una volta, Amnesty International ritiene che la Cina sia il paese che esegue la maggior parte delle sentenze capitali nel mondo, mettendo a morte più persone rispetto al resto degli stati mantenitori messi insieme”. L’organizzazione “ha rinnovato la sfida alle autorità cinesi di essere trasparenti e rendere tali informazioni disponibili al pubblico”. Bahrein. La formula dello Stato di polizia di Farian Sabahi Il Manifesto, 12 aprile 2018 Di Bahrein si parla quando corre la Formula Uno, meno quando si tratta di violazioni dei diritti umani e di condanne a morte per fucilazione. È un piccolo arcipelago di un milione e 400mila abitanti situato nel Golfo persico, di fronte all’Iran, collegato all’Arabia saudita con un’autostrada sul mare che per decenni è servita a farne la destinazione di turisti interessati alla prostituzione e al consumo di alcol. Da qui, dalla cosiddetta causeway, erano transitati anche i carri armati sauditi nel 2011, quando Riyadh aveva deciso di soffocare nel sangue la primavera di piazza delle Perle, nel centro della capitale Manama, dove tante famiglie si erano riunite per protestare contro le discriminazione della dinastia sunnita degli al-Khalifa. Sono arabi, il 70% professa l’Islam nella sua declinazione sciita e per questo non possono partecipare ai concorsi pubblici per entrare nei ministeri e nelle forze armate dove troviamo invece mercenari sunniti provenienti da Yemen, Palestina, Pakistan. Di fronte alle porte chiuse della pubblica amministrazione e impossibilitati a intraprendere la carriera militare, gli sciiti del Bahrein diventano medici, ingegneri, avvocati, giornalisti. Studi perseguiti pure dalle donne, ma poi l’alto tasso di disoccupazione trasforma le laureate in casalinghe. Nonostante il reddito di cittadinanza che garantisce un’entrata fissa equivalente a circa 600 euro al mese, erano stati in molti a protestare in piazza. In quell’occasione, gli al-Khalifa e i loro alleati sauditi avevano accusato l’Iran di interferenze. Le accuse erano plausibili, e non solo perché l’Iran si erge a difensore degli sciiti a ogni latitudine: nelle trattative con Londra del 1970 l’ultimo scià aveva permesso al Bahrein di diventare indipendente, ma questa decisione non è condivisa dalla leadership della Repubblica islamica e ogni tanto qualche politico reclama il Bahrein come provincia. Le accuse mosse da Riyadh a Teheran erano comprensibili anche per un altro motivo: l’Arabia saudita teme che in un qualche paese arabo del Golfo a prendere il potere sia la minoranza sciita, che potrebbe così dare un pessimo esempio agli sciiti che vivono nella regione orientale di al Qatif dove si trovano le maggiori riserve di petrolio controllate da Riyadh. In ogni caso, da Teheran il leader supremo Ali Khamenei aveva dichiarato che se ayatollah e pasdaran avessero voluto mettere lo zampino in Bahrein, la situazione avrebbe preso una piega ben diversa. Di fatto, questo arcipelago è uno stato di polizia: nel 2017 il partito d’opposizione al-Waqaf è stato messo fuori legge dal tribunale di Manama, e lo stesso vale per il suo organo di stampa, il quotidiano al-Wasat. Tutti i gruppi organizzati di matrice sciita sono stati chiusi, giornalisti stranieri e operatori delle ong come Amnesty International non possono atterrare a Manama. Tantissime le persone arrestate, molti attivisti politici di spicco tra cui la famiglia Al Khawaja e Nabeel Rajab. Per evitare le torture più pesanti, i giovani attivisti sciiti ricorrono alla cerimonia di fidanzamento: “Secondo la sharia, questo escamotage impedisce ai carcerieri di sottoporli alle sevizie ai genitali che potrebbero impedire loro di procreare”, spiega la giornalista Adriana Fara, autrice del volume Dimentica. Never Mind (Ranieri Vivaldelli Editore) in cui offre numerose testimonianze raccolte in Bahrein, dove ha vissuto a lungo, finendo in carcere per alcuni giorni con alcune tra le più note attiviste. Come reagisce l’Occidente? Oltre alla Formula Uno, il Bahrein ospita la quinta flotta americana con diecimila uomini, ovvero la seconda in ordine di importanza dopo quella di stanza a Djibuti. Recentemente, a far base a Manama sono anche i militari britannici, che hanno costruito una nuova base a Porta al-Khalifa con 500 uomini. Con Sheikh Ahmad, il presidente statunitense Donald Trump ha firmato contratti per oltre 4 miliardi di dollari e rimosso i limiti per la vendita degli F-16, a suo tempo imposti da Obama dopo la repressione di regime. Ottimi motivi, questi, per far scendere il silenzio sulla repressione in atto e le tante condanne a morte per fucilazione e all’ergastolo. Con Washington, non tutto fila però liscio: l’aumento dell’amministrazione Trump dei dazi doganali del 10% sull’alluminio mette in difficoltà l’economia del Bahrein, già in bilico per l’alto debito pubblico, anche perché gli Usa rappresentano il mercato principale. Resta da vedere dove saranno convogliati i profitti della scoperta di nuovi giacimenti di petrolio e gas: 80 milioni di barili, a cui si aggiungono 20 trilioni di metri cubi di gas naturale. Se anche i costi di estrazione non sono certi, resta da vedere se i proventi andranno a diversificare l’economia e quindi a espandere il settore privato di cui sarebbero protagonisti proprio i mercanti sciiti. Costa D’Avorio. I Vescovi “grazia presidenziale per sfoltire le carceri fides.org, 12 aprile 2018 16.000 detenuti vivono in spazi per 4.000 persone. Offrire la grazia presidenziale per i colpevoli di reati minori e assumere nuovi magistrati per accelerare i processi. È l’appello lanciato dalla Chiesa cattolica in Costa d’Avorio, dove la situazione nelle carceri è drammatica. Nelle 34 prigioni ivoriane sono rinchiusi 16.000 carcerati in uno spazio complessivo previsto per soli 4.000 prigionieri. Le condizioni dei carcerati sono state poste all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica da Sua Ecc. Mons. Antoine Koné, Vescovo di Odienné e Presidente della Commissione Episcopale per la Pastorale Sociale, nell’omelia per la Giornata nazionale per i detenuti, che si è celebrata la Domenica della Divina Misericordia, 8 aprile, nella chiesa di Sainte Thérèse de Marcory, ad Abidjan. “Cari fratelli, care sorelle, il Sepolcro di Cristo è aperto” ha esordito Mons. Koné. “Non è un invito ad aprire tutte le prigioni-sepolcro disseminate qua e là dove languono tanti nostri fratelli e sorelle che, molto spesso, reclamano la loro innocenza e il cui grido non sembra essere ascoltato da coloro che potrebbero aiutarli a resuscitare?” Mons. Koné ha chiesto la grazia per i detenuti condannati per alcuni reati ed ha chiesto di potenziare gli organici della magistratura per accelerare i processi dei detenuti in attesa di giudizio. Misure che “darebbero un viso umano ai nostri luoghi di detenzione e di correzione e delle quali potrebbero beneficiare i detenuti innocenti che languiscono nelle nostre prigioni e che, alla fine perdono la speranza, e si lasciano morire” ha detto il Vescovo. Nonostante il perdono presidenziale concesso a fine anno a 4132 ai detenuti di diritto comune, le carceri ivoriane restano sovraffollate, secondo il Dipartimento per la pastorale delle carceri e dei diritti umani della Conferenza Episcopale ivoriana. Secondo l’organismo dei Vescovi, sono 16.254 le persone rinchiuse nelle carceri ivoriane che sono però progettate per ospitare 3.754 persone. La promiscuità e le pessime condizioni igieniche delle prigioni ivoriane sono criticate da diverse organizzazioni per i diritti umani. Mons. Koné ha esortato i diversi strati sociali ad abbandonare le prigioni morali e spirituali dell’odio, della presunzione, dell’orgoglio, dell’indifferenza e della corruzione. Ha quindi invitato i politici a promuovere la pace e la coesione nazionale. “La popolazione della Costa d’Avorio sta aspettando che voi costruiate dei ponti. Questo rasserenerebbe senza dubbio il clima sociale e favorirebbe lo sviluppo di coloro che mettono in dubbio il futuro” ha concluso il Vescovo. Mons. Koné ha guidato una delegazione della Commissione Episcopale per la Pastorale Sociale in visita alla prigione militare e a quella civile di Abidjan. Brasile. La parabola di Lula, da leader del sogno al carcere per corruzione di Emiliano Guanella La Stampa, 12 aprile 2018 L’ex presidente condannato a 12 anni dopo l’inchiesta sulla corruzione. Un attico in riva al mare in cambio degli appalti di Petrobras. Negli ultimi giorni abbiamo raccontato su La Stampa una delle storie più importanti degli ultimi anni in Sudamerica; l’arresto dell’ex presidente brasiliano Luis Inacio Lula da Silva, al termine di una telenovela durata tre giorni con il protagonista asserragliato nel sindacato dei metallurgici di San Paolo, circondato da migliaia di sostenitori che volevano impedire la sua detenzione. Lula osannato dalla folla, uomini e donne con la maglietta rossa in lacrime, mentre il leader incontrastato della sinistra brasiliana si difendeva dalle accuse di corruzione. Lula è stato condannato a 12 anni e un mese di reclusione nell’ambito della maxi-inchiesta Lavajato, che ha scoperto l’intreccio tra politica e affari nell’ottava economia mondiale. Il processo è ruotato intorno ad un attico in riva al mare a Guaruja, che secondo la magistratura Lula avrebbe ricevuto dal proprietario della ditta di costruzione Oas, in cambio di un trattamento di favore nella concessione di cospicui appalti pubblici intorno al colosso statale Petrobras. Tutta l’inchiesta Lavajato è partita proprio dalla compagnia petrolifera, tra le dieci più grandi al mondo e la maggiore società latinoamericana quotata nella borsa di New York. Gli inquirenti hanno provato che durante il governo di Lula (2002-2010) e poi in quello della sua delfina Dilma Rousseff (2010-2015) alla Petrobras vigeva una triangolazione di favori tra un cartello di 13 grandi ditte di costruzione, i direttori lottizzati delle varie aree di controllo e una serie di faccendieri che portavano valigie di denaro dei corruttori e si occupavano poi di farli finire nei conti esteri dei corrotti. Ogni partito aveva il suo peso e il suo rendiconto; 3% al Partito dei lavoratori di Lula (PT), 2% agli alleati del Pmdb il 2% e 1% a quelli del PP. Lo scandalo ha investito politici, tesorieri di partito e, per la prima volta nella storia del Brasile, gli imprenditori; uno dopo l’altro sono finiti in carcere alcuni degli uomini più ricchi e influenti del Brasile, tra cui Emilio Odebrecth, a capo dall’omonima società di costruzione, un colosso con ramificazioni in tutto il continente. Grazie alla testimonianza dei pentiti, tra cui lo stesso Emilio che ha confessato tutto dopo quasi due anni di prigione, è venuto alla luce una contabilità parallela che era destinata a tutte le forze politiche del Brasile, di governo o opposizione. La Odebrecth finanziava attraverso la cosiddetta “Caixa Dois” (seconda cassa) le campagne elettorali dei principali candidati a cambio poi di trattamenti di favore nella concessione di commesse pubbliche. I numeri sono impressionanti; 75 milioni di euro al PT per la rielezione di Lula nel 2006 e di Dilma nel 2010, 14 milioni per quella del leader del Psdb José Serra, 12 milioni per Aecio Neves, candidato sconfitto da Dilma nel 2014 e così via. Non si fermava in Brasile, ma aveva ramificazioni in tutto il continente. A causa delle mazzette pagate dalle Odebrecht è stato recentemente destituito il presidente peruviano Kucynswki e tremano anche i governanti in Argentina, Colombia, Panama e Venezuela. Cosa c’entra Lula in tutto questo? Tutto e niente, verrebbe da dire. Non sono stato infatti trovati conti esteri né movimenti sospetti a suo nome, ma lui, secondo gli inquirenti “non poteva non sapere” dell’enorme flusso di denaro che arrivava nelle casse del suo partito. Il tesoriere del Pt Joao Vaccari è in carcere e non parla, ma l’ex ministro d’economia Antonio Palocci ha confessato che il “grande capo” era a conoscenza di tutto e che parte del denaro era destinato a lui. Lula, in ogni caso, non è caduto per questo, ma per il famoso attico a Guarujà. Il 15 settembre del 2016 il procuratore capo della Lavajato Dallagnol presentava in una conferenza stampa l’inizio dell’inchiesta contro Lula. Sua l’ormai celebre frase “non abbiamo prove, ma siamo profondamente convinti della colpevolezza di Lula”. Le prove, poi, sono arrivate, ma per molti giuristi è mancata quella fondamentale, il contratto di acquisto o cessione dell’attico a nome di Lula. Una copia dello stesso è stata, a dire il vero, trovata nell’appartamento dell’ex presidente, ma senza la firma del diretto interessato, Lula, che ha visitato l’attico due volte assieme alla moglie Marisa, ha ammesso che stavano pensando di comprarlo, ma poi che hanno abbandonato l’idea. Per il giudice Sergio Moro l’insieme degli indizi è stato sufficiente per condannarlo a nove anni per corruzione e riciclaggio, aumentati poi a dodici anni in appello. Metà del Brasile ha festeggiato; finalmente il “grande capo” era stato preso con le mani nel sacco. E se qualcuno fa notare che, in effetti, è mancato un elemento probatorio determinante, la risposta popolare è sempre la stessa; Lula doveva essere punito per il “conjunto da obra”, per tutto quello che ha fatto, per il sistema di corruzione gestito dal Pt. Le prove verranno dopo, fanno notare gli anti-Lula, ricordando che l’ex presidente ha ancora cinque processi aperti. Il suo arresto, sabato scorso, ha diviso il Brasile. I suoi oppositori hanno lanciato fuochi d’artificio e aperto casse di champagne (o birra), i suoi sostenitori gridano invece al complotto, all’ennesimo golpe contro la democrazia dopo l’impeachment sofferto dal Dilma Rousseff due anni fa. La potente Rede Globo, schierata apertamente contro il Pt, ha accompagnato con una diretta fiume le concitate ore che hanno portato alla resa finale del leader. Per la metà almeno dei brasiliani Sergio Moro è diventato un eroe nazionale, l’unico in grado di moralizzare la politica. Per l’altra metà è invece un burattino nelle mani della destra, che ha frenato il piede sull’acceleratore per tagliare fuori Lula dalle elezioni di ottobre. Se si andasse a votare oggi più del 35% dei brasiliani voterebbe infatti per lui, ma a causa della legge della “ficha limpa” (scheda pulita) la sua candidatura verrà annullata dal Tribunale elettorale. Lula ha cercato in tutti i modi di procrastinare la sua condanna ma non c’è stato nulla da fare. La giustizia, con lui, è stata particolarmente veloce; dalla denuncia alla condanna in secondo grado sono passati solo nove mesi, quando in media per gli altri imputati della Lavajato ci sono voluti dai 18 ai 30 mesi. Anche da qui nasce l’accusa che si sia trattato di un processo politico, di una manovra per liberarsi dello spauracchio di vedere Lula di nuovo presidente. Posizione sottoscritta anche da diversi esponenti della sinistra italiana, come Romano Prodi o Massimo D’Alema. Il giudice Sergio Moro, d’altra parte, ha detto più volte di ispirarsi all’operazione Mani Pulite. Tra le due maxi inchieste, in effetti, ci sono diverse analogie. La differenza sostanziale, tuttavia, è che se Mani Pulite in due anni ha praticamente decapitato il sistema politico della Prima Repubblica, la Lavajato finora si è concentrata quasi esclusivamente sul PT e sui partiti alleati. Nonostante sia stato pienamente appurato che il finanziamento delle grandi ditte era diffuso a tutti i partiti in quattro anni di inchiesta è stato arrestato un solo esponente del Psdb, il principale partito oppositore: Paulo Preto è finito in manette solo venerdì scorso, proprio mentre si consumava la telenovela delle detenzione di Lula. L’impressione è quella, innegabile, di una giustizia a due velocità. I brasiliani che hanno festeggiato in strada l’arresto di Lula dovrebbero ora chiedere con forza l’abolizione del “foro privilegiado”, l’immunità che protegge, in Brasile, quasi tutti i politici con una carica elettiva; dai ministri ai parlamentari fino ai governatori e ai consiglieri regionali. È grazie a questa speciale protezione che l’attuale presidente Michel Temer ha evitato per ben tre volte di perdere il suo mandato. Contro di lui ci sono intercettazioni più che compromettenti. Nell’appartamento a Salvador di Bahia del suo ex ministro Geddell Viera Lima sono state trovate delle valigie piene di banconote per un totale di 14 milioni di contanti. La situazione dell’ex leader dell’opposizione Aecio Neves è ancora peggiore, con conti milionari intestati a sua sorella. In un dialogo registrato dagli inquirenti Aecio si metteva d’accordo con un imprenditore sulla consegna delle mazzette. “Mando mio cugino a prendere i soldi; se lui parla non ho problemi a farlo fuori”. La richiesta di incriminazione avanzata dalla Procura generale della Repubblica contro di lui è stata bocciata dai suoi colleghi senatori e Aecio è tutt’ora un uomo libero. Ci sono poi casi in cui la giustizia semplicemente non porta avanti le inchieste. Nel novembre del 2013 la polizia intercetta un elicottero privato che stava trasportando 454 chili di cocaina. L’elicottero è di proprietà del deputato di Minas Gerais Gustavo Perella ed atterra nella proprietà del padre di quest’ultimo, l’influente senatore nazionale Zezé Perella, stretto collaboratore di Aecio Neves. Dopo qualche mese d’indagini gli inquirenti hanno ritenuto i due estranei ai fatti e recentemente Perella figlio è stato nominato direttore nella CBF, la federcalcio brasiliana. La legge, anche qui, non è uguale per tutti. Le colpe di Lula, al di là della solidità discutibile del processo a suo carico, sono soprattutto politiche. I suoi due governi sono stati segnati da una forte politica di redistribuzione della ricchezza con politiche sociali ancora oggi ammirate globalmente. Grazie ai suoi programmi milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà e migliaia di ragazzi di famiglie umili hanno potuto studiare nelle università pubbliche. Allo stesso tempo, però, non è stato fatto nulla per mitigare gli effetti distorsivi del sistema finanziario brasiliano, un Paese che ha i mutui e i tassi di interesse più alti al mondo (fino al 400% all’anno per chi si indebita con una carta di credito) ed oggi molti di quegli ex poveri sono indebitati fino al collo (65 milioni di brasiliani sono iscritti nel registro Serasa dei debitori morosi). Tuttavia, la colpa principale del Pt e di Lula è stata quella di non aver saputo moralizzare la politica brasiliana. Il Lula barbuto che guidava i primi scioperi contro la dittatura fra i metallurgici di San Paolo, quegli stessi che lo hanno accompagnato nella resa finale, è stato per molti anni fustigatore della corruzione dilagante. Pratiche che esistevano anche prima che lui andasse al potere, ma sulle quali la giustizia chiudeva volentieri un occhio. Lo stesso giudice Sergio Moro si vide bloccare dalla Corte Suprema una grossa inchiesta sulla corruzione nella banca pubblica Banestado negli anni novanta e all’epoca al governo c’era il conservatore Fernando Henrique Cardoso. Una battuta ricorrente in Brasile dice che la corruzione nel Paese è vecchia di 500 anni, perché la portò il colonizzatore portoghese Pedro Alvares Cabral. Da partito di governo il PT è diventato, per citare l’ultima serie Netflix, parte del “Meccanismo” e oggi Lula sconta, al di là del controverso processo contro di lui, le conseguenze di questa deriva. Ma se il Brasile vuole cambiar rotta, la magistratura non può fermarsi adesso e l’opinione pubblica non deve stancarsi di reclamare giustizia. Perché se non si arriverà anche agli altri partiti, da Temer in giù, il sospetto che si sia trattato di una gigantesca operazione politica sarà più che fondato.