Celle sempre più affollate e la riforma viene “congelata” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2018 Al 31 marzo i detenuti sono 58.223 per 50.613 posti disponibili. 70 i bambini rispetto ai 60 di febbraio. Bloccata la riforma dell’ordinamento penitenziario dal Movimento Cinque Stelle, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. I decreti della riforma non potranno accedere alla Commissione speciale e si dovrà aspettare la costituzione delle commissioni ordinarie. Così è stato deciso ieri durante la conferenza dei capigruppo che si è riunita alla Camera, con il voto contrario di Pd e Leu. Posizione chiarita dal dem Walter Verini: “Consideriamo sbagliata, oltre che grave, la scelta della maggioranza della Conferenza dei capigruppo della Camera di sottrarre all’esame della Commissione Speciale i provvedimenti sulle carceri. La stessa legge di stabilità stanzia risorse per l’applicazione della riforma. Non c’erano e non ci sono motivi seri per ritardare l’approvazione finale della riforma, sollecitata anche da tanta parte dell’avvocatura, dell’associazionismo, del volontariato, della stessa magistratura”. Anche Graziano Delrio, presidente dei deputati Pd ha spiegato: “Ho detto in conferenza dei capigruppo che non si può tenere il Parlamento bloccato per settimane, bisogna dare subito vita alle commissioni permanenti. Si acceleri al massimo la formazione delle commissioni possono lavorare indipendentemente dalla formazione del governo e delle trattative che vanno avanti sui giornali”. Sulla decisione della capigruppo è intervenuto anche Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti: “È un grave stop quello che arriva sugli schemi di decreti di riforma sulle carceri. Si tratta di provvedimenti a lungo discussi per più di due anni e con un largo coinvolgimento di operatori e analisti del settore, forze intellettuali, sociali, nonché ovviamente dei membri del Parlamento della XVII legislatura che hanno approvato un testo di legge delega fedelmente ripreso e a volte anche in modo più ristrettivo dai decreti che attendono l’ultimo for- passaggio”. Secondo il Garante “negare un passaggio meramente consultivo finale, che non prevede possibilità di intervento di merito, denota una disattenzione grave rispetto all’ampio mondo di coloro che tale provvedimento da tempo attendono: non si tratta soltanto delle persone in esecuzione penale, si tratta anche di giuristi, magistrati, avvocati, direttori degli istituti, operatori penitenziari di molteplice profilo che hanno dedicato nel tempo intelligenza ed energia nel proporre le linee per una esecuzione penale corrispondente in modo chiaro alla previsione costituzionale”. Palma aggiunge che “significa non considerare che proprio tale processo di coinvolgimento e previsione normativa ha determinato una nuova fiducia dell’Europa che, partendo da una prospettiva di sanzione nel 2013 per condizioni detentive irrispettose della dignità della persona, è giunta a riconoscere i passi che l’Italia ha compiuto per sanare tale grave criticità. Con il rischio che si possa riaprire la questione ora che il Parlamento manda un segnale di non volontà di proseguire tale percorso”. Il Garante si rivolge quindi al presidente della Camera, ricordando di aver “condiviso” con lui “momenti di discussione proprio all’interno del carcere di Rebibbia nel corso dell’anno passato”, affinché “le forze politiche siano invitate a rivedere l’ordine del giorno della Commissione speciale e a dare la possibilità che l’ultima tappa per l’adozione del provvedimento sia compiuta”. I decreti, quindi, saranno visionati dalle commissioni giustizia dei due rami del Parlamento. Eppure qualcosa già era nell’aria. Durante la mattinata di ieri, a lanciare l’allarme è stata l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. “Voci di corridoio parlamentare - aveva avvertito l’esponente radicale da più di due anni in prima fila attraverso continui scioperi della fame per chiedere l’immediata approvazione della riforma - affermano che Lega e M5s stanno manovrando per sottrarre alla competenza della “Commissione speciale per gli atti di governo” il decreto legislativo sulle misure alternative. Sarebbe un atto dissennato di fronte ad una situazione carceraria al collasso, di sistematica violazione dei diritti umani. Obbligatorio per tutti i democratici - ha auspicato la Bernardini - non arrendersi alla violenza e al degrado”. La profezia, purtroppo, si è poi avverata dopo poche ore. Nel primo pomeriggio è stata istituita la Commissione speciale della Camera composta da 40 membri - 14 M5S, 8 della Lega, 7 ciascuno per Pd e Forza Italia, 2 di Fratelli d’Italia, uno ciascuno per Gruppo Misto e Liberi e Uguali, subito dopo i capigruppo hanno indetto una conferenza per dare l’annuncio che i testi dei decreti attuativi andranno nelle Commissioni giustizia quando saranno costituite. Questo vorrà dire che poi sarà il Consiglio dei ministri del nuovo governo a decidere sulle sorti del decreto - già visionato e licenziato preliminarmente - sulle pene alternative, modifica 4 bis e assistenza sanitaria. Un governo che difficilmente darà il via libera alla riforma visto che con molta probabilità sarà composto da forze politiche contrarie alle modifiche dell’ordinamento penitenziario. Eppure, come ha detto Rita Bernardini, la situazione carceraria è arrivata quasi al collasso e la mancata approvazione della riforma potrebbe riportare la situazione ai tempi della sentenza Torreggiani. I numeri attuali confermano questo timore. Aumenta il numero dei bambini dietro le sbarre e rimane invariato il sovraffollamento delle patrie galere. Al 31 marzo del 2018, infatti, secondo i dati messi a disposizione dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e pubblicati sul sito del ministero della giustizia, siamo giunti a 58.223 detenuti per un totale di 50.613 posti disponibili. Questo vuol dire che risultano 7.610 detenuti in più. Se considerassimo i numero al 31 dicembre - quando i detenuti in più erano 7.160 - con il passar dei mesi il trend del sovraffollamento è cominciato a crescere. Ma è fisiologico perché il mese di dicembre, periodo natalizio, è quello dove vengono concessi più permessi e quindi il calo, leggerissimo, della presenza era dovuto da una assenza momentanea. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se venissero prese in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili. Situazione ben documentata dal rapporto annuale del Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Mauro Palma: ovvero l’alto numero di camere o sezioni fuori uso, per inagibilità o per lavori in corso, che alla data del 23 febbraio del 2017 erano pari al 9,5 per cento. Cioè parliamo di circa 4.700 posti ancora non disponibili. Maglia nera per quanto riguarda i bambini in carcere. Al 31 marzo, risultano 70 bambini. Ben 10 in più rispetto al mese di febbraio. Un aumento vertiginoso rispetto ai mesi precedenti. Basti pensare che a dicembre ne risultavano 56, mentre a novembre erano 58. Per quanto riguarda l’esecuzione penale esterna, ovvero le misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure di sicurezza, sanzioni sostitutive e messe alla prova, al 31 marzo ne sono state concesse 51.042 volte. Un dato importante ma che andrebbe valorizzato se venisse introdotto quella parte del decreto del nuovo ordinamento penitenziario che punta molto all’estensione delle pene alternative: l’affidamento in prova attualmente viene applicata alle persone che non hanno superato i tre anni di pena, con la riforma la soglia si allargherebbe a quattro. Anche se, grazie alla Corte costituzionale, questo principio è stato esteso. Sì, perché secondo i giudici della Consulta chi deve scontare una pena, anche residua, fino a 4 anni di carcere, ha quindi diritto alla sospensione dell’ordine di esecuzione allo scopo di chiedere e ottenere l’affidamento in prova ai servizi sociali, nella versione “allargata” introdotta dal legislatore nel 2013. In realtà, la riforma dell’ordinamento risolverebbe anche il problema delle detenute madri con figli al seguito: valorizza la concessione della detenzione domiciliare a donne incinte o madri di minori di 10 anni. Il dramma è che la riforma, visto la decisione di ieri, potrebbe non vedere più la luce. Asse M5S-Lega, pagano i detenuti Il Manifesto, 11 aprile 2018 Alla Camera la presidenza della Commissione speciale verso il leghista Giorgetti. Il Pd parla di accordo spartitorio. L’intesa tra grillini e centrodestra porta al rinvio dell’esame dei provvedimenti di riforma dell’ordinamento penitenziario. Quando si tratta poi di decidere, centrodestra e Movimento 5 Stelle non perdono un colpo e domani mattina, proprio quando il presidente della Repubblica avrà cominciato le consultazioni, completeranno la divisione ordinata degli incarichi parlamentari. Eleggendo il leghista Giorgetti alla guida della commissione speciale della camera, quella che deve occuparsi degli atti del governo in attesa che - con la definizione di una maggioranza e di una minoranza - potranno formarsi le commissioni permanenti di merito. A conferma del fatto che l’intesa privilegiata è tra grillini e leghisti, la poltrona chiave del transition team della camera andrà al braccio destro di Salvini, dopo che al Senato è stato insediato uno degli uomini di fiducia di Di Maio. Non solo, è stato ancora per la convergenza tra centrodestra e M5S che tra gli argomenti della commissione speciale non è entrato quello che in tutta evidenza è un atto del governo dimissionario: il decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario che attua una parte della delega sulle carceri votata dal parlamento nel 2017. Alla camera come al senato, malgrado l’insistenza della ministra per i rapporti con il parlamento Finocchiaro, la conferenza dei capigruppo ha deciso di rimandare la conclusione del lungo percorso di riforma. Se ne dovrà occupare la commissione giustizia, quando si formerà, ed è noto che leghisti e grillini sono assai contrari a una legge che definiscono “salva ladri”. Tra le molte voci che hanno criticato la scelta, quella del garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, che si è rivolto direttamente al presidente della camera Fico per chiedere una correzione. “Negare un passaggio meramente consultivo finale, che non prevede possibilità di intervento di merito, denota una disattenzione grave rispetto all’ampio mondo di coloro che tale provvedimento da tempo attendono: non si tratta soltanto delle persone in esecuzione penale, si tratta anche di giuristi, magistrati, avvocati, direttori degli Istituti, operatori penitenziari”, ha detto Palma. La commissione, assai più correttamente, non si occuperà nemmeno di legge elettorale (che non ha nulla a che vedere con i provvedimenti del governo) come invece avrebbe voluto il partito di Giorgia Meloni, in questo caso a votare contro sono stati Pd, LeU e M5S. La commissione si occuperà allora, per il momento di dodici argomenti: lavoratori marittimi, distribuzione assicurativa, armamenti, pacchetti e servizi turistici, uso dei dati del Pnr per funzioni di pubblica sicurezza, sicurezza delle reti e dei sistemi informatici, riduzione degli inquinanti atmosferici, incompatibilità degli amministratori giudiziari, tutela del lavoro nelle aziende sequestrate, diritti pensionistici complementari dei lavoratori, organizzazione degli uffici centrali del ministero dell’interno, impresa sociale. Il provvedimento più importante sarà naturalmente il Documento economico e finanziario, sul quale il governo è in ritardo (avrebbe dovuto presentarlo ieri). La commissione si riunirà giovedì per eleggere il presidente, il Pd annuncia che non presenterà candidati (avrebbe dovuto essere l’esponente dell’area Emiliano Francesco Boccia) e ha parlato con il capogruppo Delrio di “accordo spartitorio tra M5S e Lega”. Riforma delle carceri, no al pressing del Governo per i decreti di Luca Liverani Avvenire, 11 aprile 2018 Si allungano i tempi per il rilancio del lavoro in carcere e delle pene alternative “anti-recidiva”. I decreti legislativi sul lavoro e sulla vita carceraria e sull’ordinamento penitenziario, che attendevano per il varo definitivo i pareri delle commissioni competenti, non potranno accedere alla “transitoria” Commissione speciale per gli atti di governo. Dovranno quindi aspettare la costituzione delle commissioni, che verrà solo dopo l’insediamento del governo. A deciderlo è stata la conferenza dei capigruppo alla Camera. E lo stesso sarà in Senato. Nessuna corsia preferenziale per i due provvedimenti, emanati dal governo e attesi dall’universo detentivo. Contro hanno votato M5s e centrodestra. Una scelta “sbagliata, oltre che grave”, dice Walter Verini del Pd: “L’ordinamento penitenziario ha conosciuto un iter partecipato e ricco di approfondimenti, con l’espressione dei pareri delle Commissioni. La stessa legge di stabilità - spiega - stanzia risorse per l’applicazione della riforma che va nella direzione di far scontare le pene cercando di rieducare e recuperare chi ha sbagliato. Non ci sono motivi seri per ritardare l’approvazione finale della riforma, sollecitata anche da tanta parte dell’avvocatura, dell’associazionismo, del volontariato, della stessa magistratura”. “Ritardarne l’approvazione finale a un passo dal traguardo- concorda Riccardo Magi di +Europa, segretario di Radicali italiani - è un vile atto ostruzionistico su un provvedimento di civiltà giuridica atteso da decenni dall’intera comunità penitenziaria. Una scelta irresponsabile nei confronti della legalità costituzionale e dello stato di diritto, da tempo assenti dalle carceri. E nei riguardi di tutti i cittadini la cui sicurezza risulta insidiata, invece che garantita, da un sistema che non tende al recupero ma alimenta la recidiva”. Il Garante regionale incontra per la prima volta un detenuto al 41bis, è polemica di Antonella Bonura blogsicilia.it, 11 aprile 2018 Per la prima volta un garante regionale dei detenuti ha effettuato un colloquio riservato con un carcerato sottoposto al 41bis. Finora, come prevede la legge, solo al garante nazionale era stata riconosciuta questa prerogativa. Il caso, destinato a sollevare polemiche per il timore di un aggiramento dei vincoli del 41bis, è accaduto nel carcere di Spoleto dove il garante dei detenuti di Lazio e Umbria, Stefano Anastasia, ha incontrato, fuori dai controlli consueti, il boss della camorra Umberto Onda. Il colloquio è avvenuto il 29 marzo scorso dopo una battaglia giudiziaria che ha visto contrapposti il garante da un lato e il Dap e gli uffici inquirenti di Perugia dall’altro. Sulla vicenda pende ora un ricorso davanti alla Corte di Cassazione. Dopo l’adesione dell’Italia alla Convenzione Onu del 2002, che prevede che ogni Stato abbia una figura istituzionale che possa effettuare colloqui riservati con i detenuti, nel 2013 il nostro Paese ha istituito il garante nazionale a cui è stata riconosciuta questa prerogativa. Ai Garanti regionali, come ad altre figure quali ad esempio i sacerdoti e i parlamentari, la legge riconosce solo il diritto di far visita, ciascuno per specifiche finalità, ai carcerati. Perciò l’istituto di pena di Spoleto aveva negato al Garante di Lazio e Umbria il permesso di incontro riservato con Onda. Contro la decisione, nell’interesse di Onda, era stato fatto ricorso al magistrato di sorveglianza di Spoleto che ha dato ragione al detenuto. Il Dap ha proposto appello al tribunale di sorveglianza di Perugia che ha confermato il provvedimento del giudice spoletino. La palla è passata ora alla Cassazione a cui si è rivolta la Procura Generale di Perugia. Nel frattempo, però, il colloquio riservato si è svolto. Un fatto che desta preoccupazione in molti ambienti giudiziari perché potrebbe aprire una maglia pericolosa nel regime di 41bis nato proprio per evitare contatti e comunicazioni tra esponenti mafiosi. “Esprimo forte preoccupazione per il vulnus che potrebbe aprirsi in ragione del numero indefinito di soggetti che, passando questa interpretazione, potrebbero avere colloqui riservati con i detenuti al 41bis. Ipotesi che vanificherebbe uno degli scopi per cui il regime carcerario duro è stato introdotto: cioè impedire la comunicazione dei mafiosi detenuti con l’esterno”. Così Roberto Piscitello, direttore generale dei Detenuti e del Dipartimento del Dap, commenta l’incontro riservato che il Garante regionale dei detenuti di Lazio e Umbria ha avuto col boss camorrista Umberto Onda, detenuto al 41bis a Spoleto. L’incontro, dapprima negato dal carcere, è stato autorizzato sia dal magistrato di sorveglianza di Spoleto che dal tribunale di sorveglianza di Perugia. Finora solo il Garante nazionale aveva potuto effettuare colloqui riservati coi boss al 41bis Ecco i dati di Minniti: “in calo gli sbarchi, diminuiti i reati” di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 aprile 2018 Al 166° anniversario della Polizia di stato. Dalla terrazza del Pincio con vista mozzafiato su Piazza del Popolo e i ranghi schierati in alta uniforme della Polizia di Stato per la cerimonia del 166° anniversario, è il Ministro dell’Interno Marco Minniti a dare i numeri di quella che in Italia è stata definita “emergenza sicurezza”, o almeno presunta tale, che è stata arma di scontro soprattutto in campagna elettorale: “Nel 2017 in Italia si è registrato il più basso tasso di reati degli ultimi 10 anni” e “siamo al decimo mese consecutivo di diminuzione degli sbarchi: dal 1 luglio ad oggi sono arrivati in Italia 95.600 migranti in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. I numeri del Viminale parlano chiaro: tra il 2016 e il 2017 i delitti sono calati del 9,2%, passando da 2.457.764 a 2.232.552. Diminuiti dell’ 11.8% gli omicidi, calano dell’ 11% anche le rapine, che passano da 32.147 del 2016 a 28.612 del 2017. I furti sono diminuiti del 9,1%: erano stati 1.319.383 nel 2016, contro i 1.198.892 del 2017. Lo stesso vale per i flussi migratori: già nel 2017 gli sbarchi erano in calo del 34,3%, con 181.436 migranti arrivati nel 2016 e 119.310 nel 2017. Oggi continuano a diminuire. “La storia e la collocazione geografica dell’Italia ci dicono che la sfida è governare i grandi flussi demografici: siamo al decimo mese consecutivo di diminuzione degli arrivi nel nostro Paese”, ha spiegato Minniti, parlando di “colpo straordinario ai trafficanti di esseri umani. I numeri ci dicono che questi processi possono essere governati tenendo insieme umanità e sicurezza. L’Italia ha dimostrato al mondo di saperlo fare”. Insomma, un’emergenza che esiste ma che in Italia è stata gestita, anche se “dobbiamo essere consapevoli della fragilità dello scenario in cui ci moviamo. Nulla è acquisito per sempre”. Poi il ministro ha analizzato il terrorismo e il timore di possibili attentati anche in territorio italiano: “L’Islamic State è stato colpito al cuore nella sua forza militare, ma non è morto e continua a colpire: finito il sogno dannato del terrorismo che voleva farsi Stato, resta la sfida più sfuggente, dai contorni meno definiti e più pericolosi: i combattenti stranieri che tornano e i lupi solitari che si auto-innescano, elementi di una rete la cui profondità e diffusione non sono note nemmeno ai capi di IS”. Sul fronte interno, dunque, “questo è il nuovo orizzonte della minaccia con cui l’Italia ha fatto i conti e dovrà continuare a farli. L’operazione degli ultimi giorni hanno dimostrato le nostre capacità di analisi e di intervento concreto ma non si può mai dire mai. Se guardiamo però a quanto finora non è avvenuto, non può essere merito della fortuna: l’Italia è un grande Paese”. Secondo gli ultimi dati forniti dal Viminale, infatti, sono stati arrestati 26 estremisti islamici, con altri 105 allontanati dal territorio nazionale (contro i 66 dell’anno scorso). I foreign fighters monitorati nel 2017 sono stati 129 (di cui 42 deceduti e 24 rientrati in Europa) contro i 116 del 2016 (di cui 34 i deceduti 20 rientrati in Europa) con un + 11%. In tutto: sono state controllate 372.769 persone contro le 132.321 del 2016, con un + 182%; i veicoli sottoposti a controllo 134.929 contro i 36.310 del 2016 (+ 272%). “Quello che presentiamo è un risultato straordinario, che l’Italia farebbe bene a non sottovalutare”, ha concluso Minniti, il quale però non ha trascurato l’elemento che ha fatto da traino alla passata campagna elettorale: “La sicurezza è un sentimento e non le si può opporre solo la fredda logica dei numeri: servono vicinanza, prossimità e capacità di controllo del territorio”, ha detto, rivolgendosi alla Polizia di Stato che fa proprio del controllo del territorio uno dei pilastri della sua struttura. Del resto, mentre i dati raccontano un Paese mediamente più tranquillo rispetto alla media europea e addirittura con una situazione in continuo miglioramento, la percezione dell’opinione pubblica rimane un’altra, cavalcata sia dai media che dalla politica in un intreccio in cui è complicato individuare causa ed effetto. Un dato su tutti, fornito dal Rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza, lo mostra in modo chiaro: se in dieci anni il numero di reati è sceso, il 78% degli intervistati continua a ritenere che la criminalità in Italia sia cresciuta rispetto a cinque anni fa. E in questo paradosso sta tutta l’anomalia della situazione italiana. I dati dei servizi segreti, una traccia per il governo di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 11 aprile 2018 Nella relazione per il Parlamento ci sono spunti utili per il programma del nuovo esecutivo: affrontare bassa natalità e sviluppo, non solo terrorismo. Gli autori del programma del prossimo governo, al momento ignoti perfino a se stessi, farebbero bene a usare come traccia per il proprio lavoro il capitolo di un testo dei servizi segreti. Si tratta della parte che riguarda le “minacce al sistema-Paese” nell’ultima “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, scritta come ogni anno per il Parlamento. Nei resoconti di giornali e tv su quel rapporto sono rimasti in ombra versanti della realtà né criptati né occulti, se non per quanti nell’attribuirsi di fare politica confondono questa con la mera propaganda. L’attenzione si è concentrata sugli aspetti del documento dei servizi più associabili nell’immaginario di tanti al lavoro delle spie: lotta al terrorismo, al crimine organizzato, alle incursioni in rete. Ma nelle 128 pagine del testo ci sono anche valutazioni sullo stato della nostra società e della nostra economia che meritano non minore preoccupazione. Due in particolare sono i fenomeni negativi che troppi si ostinano a non vedere: la società italiana risente di una “sensibile riduzione della natalità” e di un “aumento della diseguaglianza economica”. Elaborata sulla base delle analisi delle agenzie informazioni e sicurezza esterna (Aise) e interna (Aisi), e del Dipartimento Dis che ne coordina le ricerche informative, la relazione li indica tra i problemi da non trascurare. I servizi segreti constatano che nel 2107, malgrado la ripresa globale, si è avvertito in Italia il peso di una crescita dei salari “contenuta”. Che “l’esposizione debitoria diretta dello Stato continua a rappresentare un fattore di relativa vulnerabilità”. Che altri punti fragili del nostro sistema consistono in un incremento della produttività “tuttora debole” rispetto a concorrenti stranieri, nell’”alta evasione tributaria”, in una “carenza di capitale umano” dotato dei gradi di formazione necessari per competere con efficacia a livello internazionale. L’Italia ne viene fuori come “un Paese in ripresa, ma ancora provato nel suo tessuto economico-produttivo e relativamente vulnerabile su diversi fronti”. Che siano i servizi segreti a farlo presente non significa che svelino enigmi: è una prova che questi fattori influiscono già o potranno influire sulla nostra sicurezza. Che alcune diagnosi sulla nostra società e l’andamento dell’economia fornite nella relazione assomiglino a quelle tratteggiate da sindacati, o da centri sociali, e che determinate interpretazioni coincidano con quelle di gruppi finanziari o combacino con considerazioni di voci della Chiesa, è un segno del realismo degli analisti. Alle autorità tenute a prendere decisioni politiche, i servizi devono saper riferire anche le verità scomode. Negli anni 80 fu il Kgb, nefasto per il resto della sua attività, a far percepire prima a Yuri Andropov e poi a Michail Gorbaciov che l’Unione Sovietica poteva essere prossima al crollo. L’Italia di oggi non è altrettanto corrosa, tuttavia il rapporto inviato al Parlamento in febbraio è, in modo analogo, il frutto di un lavoro di rami dello Stato che hanno funzioni di antenne, tenute a percepire quali sono per un Paese i rischi nascosti e non. È in questo contesto, tra l’altro, che viene notata dai servizi “la maggiore permeabilità di alcune aziende nazionali - di rilevanza strategica o ad alto contenuto tecnologico - rispetto a manovre esterne indirizzate ad acquisirne il controllo”. La relazione segnala che acquirenti stranieri, talvolta, per impadronirsi di un’azienda si avvalgono di “esautoramento o avvicendamento preordinato di manager e tecnici italiani”. Scopo di determinati ingressi in azionariati è copiare tecnologie avanzate, obiettivo perseguito anche attraverso “ingerenze di carattere spionistico per l’acquisizione indebita di dati sensibili”. Sono dati di fatto. A leggerli sembrano almeno un pezzo dell’agenda sulla quale le forze politiche si sarebbero dovute concentrare, in campagna elettorale, per dire agli italiani come avrebbero garantito un ruolo solido al Paese in un mondo nel quale “l’unica certezza è divenuta l’incertezza”. Non è rassicurante che, troppo spesso, le varie formazioni parlino di altro. La stesura del programma di governo può essere un’occasione per rimediare. I gesuiti e la meglio gioventù contro la mafia di Umberto Rosso La Repubblica, 11 aprile 2018 Quel gesuita fanatico che pensava di vivere nel Paraguay del 1600, riuscì a raccogliere la meglio gioventù contro la mafia. Anche se correvano gli Anni Ottanta, seconda metà, eravamo a Palermo, ed era la stagione feroce della mattanza corleonese. Padre Ennio Pintacuda a dispetto dell’anatema del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, o forse proprio perché in fondo si sentiva davvero un missionario nella giungla amazzonica circondato dagli infedeli, s’insediò in una roccaforte liberata. Un lembo di territorio, forse uno dei pochi, sottratto all’assedio delle cosche e degli uomini politici che le rendevano, allora, invincibili. Una specie di Fort Apache, solo alle spalle di viale Lazio. Via Franz Lehar 6, Istituto di formazione politica dei gesuiti Pedro Arrupe. Diventò un indirizzo celebre, prima a Palermo e presto in tutto il Paese. La scuola-laboratorio della primavera di Palermo e dell’avventura di Leoluca Orlando, figlio spirituale e allievo politico di Pintacuda. Per Bettino Craxi semplicemente un “covo di imbroglioni”, e più di tutti lo era proprio lui, padre Ennio Barracuda. Ma il segretario aveva i suoi motivi, i socialisti erano stati messi alla porta a Palazzo delle Aquile. Craxi minacciava di far cadere il governo a Roma con la Dc. “Voi mi volete mettere nei guai coi socialisti”, urlava al telefono Ciriaco De Mita con Sergio Mattarella, in quel 1987 regista dietro le quinte dell’eretica giunta anomala. Accanto all’uomo che oggi è il capo dello Stato, nei momenti drammatici e decisivi per la nascita stessa del penta-colore, un altro gesuita. Padre Bartolomeo Sorge, sbarcato in Sicilia per guidare il centro Arrupe, raffinato teologo ma soprattutto acuto politologo con il sogno di rinnovare e salvare la Democrazia cristiana prima del diluvio. Che poi infatti puntualmente arrivò, e la travolse. Pintacuda e Sorge, i gemelli diversi ispiratori dell’esperimento Palermo, che tremare il pentapartito fa. Sorge e Pintacuda, uniti nel teorizzare la teologia della liberazione applicata a Palermo (“Assurdo, uno schema terzomondista in un paese occidentale”, polemizzava Gianni Baget Bozzo, gesuita pure lui ma socialista) però divisi sulla prospettiva finale della guerra. La nascita di un’altra Dc per poi andare a braccetto con il Pci, nel progetto del direttore di “Civiltà cattolica”. Un partito ex novo, trasversale, per far saltare gli schemi l’obiettivo invece di Pintacuda. Però entrambi uniti e convinti su un principio, un passaggio chiave: mai insieme al Partito socialista di Craxi, in Sicilia poi esibito nella sua versione peggiore di corruzione e collusione con la mafia. La benzina stessa, in qualche modo, che consentì di mettere in moto queste “convergenze parallele” dell’Istituto Arrupe, lo strano tandem che lanciò il centro dei gesuiti sulla scena nazionale. Padre Sorge più con Mattarella, la fatica della mediazione, del confronto paziente, dell’analisi puntigliosa, ma senza l’allora capo della sinistra dc siciliana che fece da scudo e garante per Orlando con i vertici del partito furiosi, la primavera non sarebbe mai nata. Padre Pintacuda più con Orlando, rompere e spaccare, sempre al centro della scena e sotto i riflettori, chi non sta con noi è contro di noi. E siccome l’antimafia siamo noi, chi ci ostacola o critica è colluso. Pintacuda lo teorizza: il sospetto è l’anticamera della verità. Con Luca Orlando, che nel frattempo ha imbarcato anche il Pci al Comune, si lancia presto in una nuova avventura. Impossibile riformare la dc dall’interno, il sistema si abbatte e non si cambia. Nel ‘90 fonda la Rete. E la strana coppia del centro Arrupe si separa, prende strade diverse. Non serve un altro partito, obietta Sorge, che in una lunga, appassionata, liberatoria conferenza stampa convocata nel fortino dei gesuiti sconfessa Pintacuda. Il sospetto come metodo è solo caccia alle streghe. Basta demolire, ora serve il filo a piombo per ricostruire. Dopo la primavera, c’è l’estate. Mette fuori il fratello gesuita dal centro di via Lehar. L’estate a Palermo non arrivò. Pintacuda romperà con la Rete e con Orlando, accusato di non fare più gli interessi della città, va a dirigere una scuola della Regione sul castello Utveggio e finisce in Forza Italia. Che a Palermo vuol dire Marcello Dell’Utri, condannato per mafia. Una parabola sconcertante. Ai suoi funerali, Luca non c’era. Padre Sorge se ne va a Milano, a guidare la rivista dei gesuiti “Aggiornamenti sociali”, di cui tuttora è direttore emerito. La Dc che voleva cambiare è stata spazzata via, insieme a tutto il resto della prima Repubblica. Ma la passione dell’alchimista politico in lui non si è spenta. Ha scommesso su Renzi. Caso Cucchi. Parlamentare della Lega condannato per diffamazione Corriere della Sera, 11 aprile 2018 Il segretario del Sindacato di polizia Sap e neoeletto in parlamento con la Lega dovrà pagare una multa per un post su Facebook contro sorella e genitori di Stefano Cucchi. Il tribunale di Bologna ha condannato a 500 euro di multa Gianni Tonelli, segretario generale aggiunto del sindacato di polizia Sap e neoeletto in parlamento con la Lega, per diffamazione nei confronti della sorella e dei genitori di Stefano Cucchi, il giovane morto nel 2009 nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. “Non mi faccio intimidire” - Al centro della vicenda, che ha portato a un decreto penale di condanna, un post che Tonelli aveva pubblicato su Facebook, commentando un altra vicenda giudiziaria che contrappone Tonelli alla famiglia Cucchi, per le dichiarazioni rilasciate in alcune interviste. “Tonelli - ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano - specialista del fango sulle famiglie di vittime di abusi e ora promosso a parlamentare, ha fatto e fa politica sulla nostra pelle. Ora aspetto di incontrarlo al Tribunale di Roma, dove sarà a processo per imputazione coatta assieme ai sui colleghi Maccari e Capece per aver offeso più volte me e la mia famiglia”. Il deputato leghista ha annunciato che farà opposizione al provvedimento. “Per me sarebbe più comodo pagare per estinguere il reato - ha detto Tonelli - ma non mi faccio intimidire. Continuerò a sostenere la stessa posizione perché gli atti processuali sono chiari”. Auto-riciclaggio: sì all’estradizione anche se il reato non era nel codice al tempo dei fatti di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2018 Corte di cassazione - Sezione VI -Sentenza 4 aprile 2018 n. 14941. Via libera all’estradizione per auto-riciclaggio se il reato è previsto dal codice interno al momento della domanda, anche se la condotta non era penalmente rilevante quando è stato commesso il fatto. La Cassazione, con la sentenza, 14941, fa chiarezza sulla doppia incriminabilità. La Corte di cassazione con una decisione del 4 aprile scorso si esprime su una domanda di estradizione avanzata da due paesi. Gli stati uniti d’America e gli stati uniti del Messico, in merito ad una serie di reati commessi dall’imputato appartenente ad un’associazione delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, al riciclaggio, all’auto-riciclaggio e alla frode bancaria. I giudici di legittimità mettono al veto alla consegna alle autorità messicane in linea con Strasburgo che vieta l’estradizione verso stati in cui esiste un rischio di trattamenti inumani e degradanti. Per la Suprema corte il Messico è appunto nella black list in virtù di rapporti di organismi non governativi e di report di organismi ufficiali che denunciano le gravi carenze del sistema carcerario. La Cassazione afferma, al contrario, il nulla osta verso gli stati uniti d’America, superando una delle numerose obiezioni della difesa. Tra i motivi che impedirebbero la consegna, ad avviso del ricorrente, ci sarebbe la violazione del principio della doppia incriminabilità per quanto riguarda il reato di auto-riciclaggio. La Corte d’appello secondo i legali del ricorrente non avrebbe considerato che alcuni capi d’accusa riguardavano condotte qualificabili secondo l’ordinamento italiano come auto-riciclaggio. Le azioni contestate tuttavia erano state commesse, prima dell’introduzione del reato nel Codice penale, facendo così scattare in caso di semaforo verde, una doppia incriminabilità retroattiva. Le stesse fattispecie non sarebbero comunque, sempre per il ricorrente, assorbibili in altre fattispecie previste all’epoca dei fatti, come l’impiego di denaro di provenienza illecita (articolo 648 ter). La Suprema corte però non è d’accordo. I giudici della sesta sezione penale, ricordano infatti, che nell’ambito della cooperazione giudiziaria ai fini della consegna di persone ricercate per esigenze di giustizia penale, il requisito della doppia incriminabilità, è soddisfatto se al momento della decisione sulla domanda la condotta è prevista come reato, mentre non serve la sua rilevanza penale nella data in cui il fatto è stato commesso. Consulta. Sui reati Iva vale la prescrizione accelerata Italia Oggi, 11 aprile 2018 I giudici non sono tenuti ad applicare la regola Taricco che impone la prescrizione lunga sui reati in materia di Iva, stabilita dalla Corte di giustizia Ue con la sentenza dell’8 settembre 2015. Pertanto, anche per questi reati, rimangono applicabili gli articoli 160, ultimo comma, e 161 del codice penale, articoli che prevedono la prescrizione accelerata. La Corte costituzionale, riunita ieri in camera di consiglio, ha infatti dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato di Lisbona (la numero 130 del 2008), là dove dà esecuzione all’articolo 325 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue) come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza Taricco. Le questioni erano state sollevate dalla Corte di cassazione e dalla Corte d’appello di Milano sul presupposto che la regola Taricco fosse senz’altro applicabile nei giudizi in corso, in contrasto con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, in particolare con il principio di legalità in materia penale (articolo 25 della Costituzione). Secondo i giudici costituzionali, però, questo presupposto è caduto con la sentenza Taricco bis del 5 dicembre del 2017, in base alla quale l’articolo 325 del Tfue (come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nel 2015) non è applicabile né ai fatti anteriori all’8 settembre 2015 (e dunque nei giudizi a quibus) né quando il giudice nazionale ravvisi un contrasto con il principio di legalità in materia penale. Puglia: pasti nelle carceri a prezzi stracciati, il Tar annulla gli appalti “insostenibili” di Cenzio Di Zanni La Repubblica, 11 aprile 2018 Tre euro e 90 centesimi per colazione, pranzo e cena. O meglio, tre euro e 90 centesimi per la fornitura delle “derrate alimentari” con cui servire i pasti quotidiani ai detenuti delle carceri pugliesi e lucane. Una somma più che sufficiente secondo il Provveditorato regionale per la Puglia e la Basilicata del ministero della Giustizia. Nient’affatto secondo il Tar di Bari: “Sono oneri manifestamente incomprensibili o sproporzionati”, hanno detto i giudici di Palazzo Diana. Che con tre sentenze depositate il 6 aprile scorso (numero 526, 527 e 528) hanno annullato la gara indetta nel luglio 2017. Perché “la determinazione della diaria in euro 3,90 non è stata preceduta da un’adeguata e sufficiente istruttoria”. Risultato: “Base d’asta irragionevole e rapporto contrattuale insostenibile”. Gara da rifare. Anche perché il ministero aveva chiesto che una parte delle forniture dovesse essere bio. Oppure a marchio doc. O ancora, nel caso del pesce, provenire da forme di pesca ecosostenibile. Tutto a 3,90 euro per preparare colazione, pranzo e cena. “Un prezzo impossibile” secondo le tre società che hanno portato il ministero davanti ai giudici amministrativi pugliesi, ovvero la Saep spa, la Rag. Pietro Guarnieri e figli Srl e la D’Agostino Srl. E se per convincere Roma che quello fosse un prezzo fuori mercato sarebbe bastata una qualsiasi casalinga, le tre società hanno fatto di più. Hanno presentato un parere giurato a firma del professor Amedeo Maizza, ordinario di Economia e gestione delle imprese all’università del Salento. E una relazione tecnica di Paolo Cupo, docente di Economia ed estimo rurale alla Federico II di Napoli. Nessun dubbio per entrambi gli esperti, così come ha ricordato la seconda sezione del Tar presieduta da Giuseppina Amato: “I pareri evidenzierebbero l’irragionevolezza delle previsioni di gara; in particolare, l’obbligo di fornire determinate percentuali di prodotti derivanti da agricoltura biologica o dop e igp (indicazione geografica protetta, ndr) apparirebbe assai complesso se non impossibile da adempiere”. Dal canto suo, il ministero ha provato a difendere il bando di gara. E tuttavia, almeno stando ai provvedimenti del Tar, è stato un boomerang. Prima ha detto che la base d’asta è stata calcolata alla luce degli appalti per la mensa negli istituti penitenziari: gare aggiudicate di recente, nei primi tre mesi dell’anno scorso, e con “analoghe caratteristiche di sostenibilità ambientale”. Dai prezzi aggiudicati per la mensa degli agenti - ha spiegato l’ente - sarebbero stati sottratti i costi riferibili al “servizio di ristorazione”. Poi, sempre il ministero, ha detto che quella percentuale è stata calcolata prendendo a riferimento “uno studio per la fornitura dei pasti a beneficio di asili nido, scuole per l’infanzia e scuole primarie del 2012/13”, che sarebbe stato redatto da una società privata, la Conal, per conto di un’azienda pubblica di servizi alla persona, l’Asp di Viareggio. Tutti argomenti rispediti al mittente dal Tar, perché relativi a servizi diversi, in contesti diversi e per utenti diversi. Anzi, proprio nello studio Conal, hanno osservato i magistrati, “si evidenzia che confrontare i costi di erogazione di un pasto in situazioni diverse, anche se similari, non è metodologicamente corretto”. Altro argomento: “In periodi di crisi poteva ammettersi una contrazione dell’utile”, hanno sostenuto da Roma. Ma neanche questa obiezione è bastata a convincere i magistrati. Che nel loro verdetto hanno ricordato come su casi, stavolta sì, “del tutto simili alla gara impugnata”, si erano già espressi i colleghi dei Tar di mezza Italia: Napoli, Palermo, Cagliari, Milano, Catanzaro e Venezia. E Bari. Venezia: certificato per i migranti in tribunale, il Garante lo boccia: discriminante di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 11 aprile 2018 Il protocollo veneziano sulla gestione delle udienze sullo status per i migranti (che chiede tra l’altro ai legali di segnalare l’eventuale stato di malattia del cliente) finisce nel mirino del ministero della Giustizia. Il Guardasigilli ha chiesto un parere al “Garante” che boccia le nuove regole: “Discriminano e violano i diritti delle persone”. Dopo le polemiche di avvocati specializzati (Asgi), correnti dei giudici (Magistratura democratica), cultori della dottrina (Giuristi democratici), ora il protocollo veneziano sulla gestione delle udienze sui migranti che hanno richiesto protezione internazionale finisce nel mirino anche del ministero della Giustizia. Nei giorni scorsi infatti il dicastero guidato da Andrea Orlando ha chiesto e ottenuto un parere dal “Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”, un organismo indipendente formato da tre esperti che dopo quasi un ventennio di dibattito è diventato operativo un paio di anni fa. E il Garante ha bocciato senza mezzi termini il protocollo firmato il 6 marzo scorso dalla presidente del tribunale di Venezia Manuela Farini e dal presidente dell’Ordine degli avvocati lagunari Paolo Maria Chersevani: “Colpiscono negativamente sia il tenore complessivo del documento, sia alcuni aspetti inaccettabili per la loro possibile interpretazione discriminatoria - è scritto nel parere trasmesso al ministero. E, in un punto specifico del documento, per il rischio di violazione di diritti fondamentali della persona”. Il protocollo è nato per gestire una questione che da tre anni sta mettendo in ginocchio il tribunale lagunare, competente per l’intero Triveneto e sommerso da migliaia di ricorsi contro le decisioni con cui le commissioni territoriali (che in Veneto sono a Padova e Verona) abbiano rigettato la richiesta di protezione internazionale. Ogni giorno in tribunale arrivano decine di migranti per le udienze, la cui parte centrale è proprio la loro audizione. Farini e Chersevani hanno dunque voluto stabilire delle linee guida in particolare per ottimizzare le udienze (per esempio prevedendo che l’audizione sia condotta dal giudice senza l’intervento dell’avvocato, oppure che qualora il legale sia in ritardo quei minuti vengano sottratti all’udienza per evitare tempi morti) e anche per rispondere ad alcune preoccupazioni di magistrati e personale sul rischio sanitario, chiedendo ai difensori di segnalare in anticipo, qualora ne siano a conoscenza, l’eventuale stato di malattia del cliente (in particolar modo la tubercolosi, come già accaduto in passato), in modo da poter predisporre le contromisure adeguate: per esempio l’udienza in aule più “decentrate” o in orari meno affollati e l’uso di mascherine. Proprio quest’ultimo aspetto è stato tra i più contestati anche dal Garante nel parere reso noto ieri, in cui lo definisce “il punto di maggiore e inaccettabile criticità”. “Colpisce innanzitutto l’impostazione culturale che tale disposto sembra esprimere - scrive il collegio di tre esperti guidato da Mauro Palma - Esso lede la tutela dei dati sensibili garantita dalla legge, il diritto alla riservatezza, il rispetto della dignità della persona” C’è anche un problema deontologico per gli avvocati: “La disposizione viola il rapporto di fiducia intrinseco all’esercizio del diritto di difesa e si pone in insanabile contrasto con i doveri di riservatezza e di segretezza riguardo a tutte le informazioni ricevute nello svolgimento del mandato difensivo”. Viene poi sottolineata la disparità di trattamento con gli altri procedimenti, dove non viene chiesto lo stato di salute delle persone che vi partecipano. “Abbiamo già risposto a tutte le questioni sollevate, spiegando che ci sono delle norme precise sul diritto alla salute, mi dispiace che ci sia ancora qualcuno che vuole strumentalizzare la questione - afferma Chersevani - Io ritengo che sia stato un accordo fatto nell’interesse del migrante”. Ora però è sceso in campo il ministero. “Se ci chiederanno spiegazioni non faremo altro che girare quelle che avevamo già dato - continua. Se ci chiederanno delle modifiche le valuteremo. Credo però che qui a Venezia ci siano problemi ben più gravi di cui nessuno parla, tipo il Giudice di pace allo sbando”. In realtà il Garante ha letto anche la replica e critica pure quella. “La prevalenza di “esigenze di salute pubblica” viene legittimata con il richiamo del tutto improprio a fonti sovranazionali – conclude. Queste ammettono esplicitamente e tassativamente la possibilità di restrizioni eccezionali e specifiche all’esercizio dei diritti, contemplate esclusivamente in forza di legge. Non di un Protocollo che indica regole meramente organizzative”. Napoli: volontariato in carcere, via al corso di Roberta De Maddi Il Roma, 11 aprile 2018 “Il volontariato dentro e fuori dal carcere: strumenti ed esperienze”, questo il tema di un corso di formazione avviato oggi nel Centro europeo di studi di Nisida a cura del Centro di Servizio per il Volontariato (Csv) di Napoli. Al via ieri il corso di formazione “Il volontariato dentro e fuori dal carcere: strumenti ed esperienze” nel Centro europeo di studi di Nisida a cura del Centro di Servizio per il Volontariato (Csv) di Napoli. Un’iniziativa che va a stimolare l’interesse verso il volontariato in arca penale. Tra gli argomenti che verranno trattati: le caratteristiche principali dell’ordinamento penitenziario italiano, il ruolo del volontariato e degli strumenti da utilizzare per ottenere una relazione efficace con le persone detenute e le persone soggette a provvedimenti restrittivi della libertà personale. Il corso è organizzato in incontri frontali e tirocini formativi altamente specializzati per 40 referenti di organizzazioni di volontariato di Napoli e provincia, sono gratuiti e andranno avanti fino a novembre. Si alterneranno discussioni di gruppo, casi di studio, simulazioni, ma anche esperienze sul campo con incontri esperienziali in istituti penitenziari nella provincia di Napoli. con ex detenuti, in comunità residenziali o presso Enti del Terzo Settore con esperienza di inserimento lavorativo, di lavori di pubblica utilità socialmente utili o affidamento in prova al servizio sociale. Ieri a Nisida ad aprire i lavori c’era il direttore del Carcere minorile di Nisida, Gianluca Guida: “Siamo arrivati alla seconda edizione e riteniamo che sia pienamente soddisfacente in termini di feedback per i risultati che dà nel settore della detenzione e delle devianze. Le esigenze di chi è detenuto cambiano di mese in mese, sempre più velocemente, e gli operatori del settore devono aggiornarsi continuamente. L’interazione è fondamentale”. A portare uno spaccato della situazione in Campania, Samuele Ciambriello, Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania, che ha sottolineato quanto sia importante il ruolo degli operatori nelle carceri: “C’è una differenza sostanziale tra educatore e liberatore. Il molo di un operatore non è meramente quello di chi ha la sindrome del “crocerossino”, deve metterci il cuore e quello che conta non è ciò che dice ma ciò che comunica senza parole. Un gesto, un sorriso, un pianto, uno sguardo, la postura, una stretta di mano”. Ciambriello pone l’accento sull’aumento del carcere preventivo e ricorda che la recidiva in ambito penitenziario rappresenta un rischio altissimo. In Campania ci sono attualmente 7.321 detenuti, altri 7.100 sono nell’area esterna affidata ai servizi sociali, l’80% vive una recidiva. Chi è detenuto quando riacquista la libertà ritorna poi subito in carcere. Occorre invece trasformare il carcere in un luogo alternativo al carcere. Chi non vive una recidiva è perché ha incontrato qualcuno che è stato faro e ha portato luce dove c’era il buio e si è aggrappato a questa persona”. Presente inoltre anche Giovanna De Rosa, direttore del Csv di Napoli: “Il molo che ha il volontariato si basa sull’attenzione alla responsabilità sociale che ha anche nel sistema penitenziario”. Viterbo: l’ex Garante Angiolo Marroni presenta il suo libro sulle carceri di Sabina Cantarella tusciaweb.eu, 11 aprile 2018 “Il volontariato dentro e fuori dal carcere: strumenti ed esperienze”, questo il tema di un corso di formazione avviato oggi nel Centro europeo di studi di Nisida a cura del Centro di Servizio per il Volontariato (Csv) di Napoli. Presentazione dell’ultimo libro dell’avvocato Angiolo Marroni scritto in collaborazione con il giornalista Stefano Liburdi. La presentazione si terrà venerdì 13 aprile, alle ore 15, presso l’aula di corte d’assise del tribunale di Viterbo nell’ambito del corso per difensori d’ufficio coordinato dalla Camera penale di Viterbo. Il libro “Passami a prendere. In carcere oggi” è una osservazione analitica sul sistema carcerario nel nostro paese, raccontata attraverso l’esperienza personale di Angiolo Marroni, volontario in carcere dal 1985 e poi Garante dei diritti dei detenuti dal 2003 al 2015, nonché attraverso i racconti di vita di alcuni detenuti. Il libro pone a tutti noi la domanda se la pena detentiva rispetti il dettato dell’articolo 27 della Costituzione e se sia ad esso funzionale e quali, nel caso, le possibili riforme. Catania: “Oltre i confini”, la voce dei detenuti stranieri in un documentario cataniatoday.it, 11 aprile 2018 Il documentario, ideato e prodotto da Cooperativa Prospettiva Futuro Onlus di Catania, con Fondazione con il Sud, è il risultato di un progetto svolto in tutte le carceri della Sicilia Giorgia Landolfo. “Oltre i Confini” è il documentario realizzato da Giuseppe Di Maio e Alessandro Aiello per raccontare il progetto portato avanti da Cooperativa Prospettiva Futuro Onlus di Catania, cofinanziato da Fondazione con il Sud, con il sostegno del Ministero della Giustizia per offrire ai detenuti stranieri di tutte le carceri siciliane assistenza legale, psicologica e sociale. In collaborazione con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Centro Astalli, Consorzio Il Nodo, Arci Sicilia, Koiné, A Buon Diritto, Cooperativa Sociale Golem, Rete Fattorie Sociali Sicilia, Fenice e Jesuit Social Network, Cooperativa Prospettiva Futuro, dal 2014 al 2017 con “Oltre i confini - Percorsi di recupero e di integrazione sociale dei detenuti stranieri presenti nelle carceri siciliane” ha sostenuto e aiutato oltre 1200 detenuti di 26 nazionalità diverse. Psicologi, mediatori culturali, avvocati ed educatori inviati negli istituti penitenziari di tutta l’isola hanno potuto elaborare con i detenuti progetti individuali mirati a risolvere problematiche di diverso genere. Sedici di loro hanno avuto accesso a tirocini di inserimento-reinserimento lavorativo in ristoranti, aziende agricole, fattorie sociali e in qualche caso è stato addirittura possibile trasformare gli stessi tirocini in veri e propri contratti di lavoro a tempo indeterminato. “Il problema maggiore che il progetto ha cercato di superare - afferma Domenico Palermo, coordinatore per Cooperativa Prospettiva Futuro - è proprio quello dei documenti. Molti detenuti stranieri sono arrivati in Sicilia con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, per poi scoprirsi innocenti, vittime loro stessi della disperazione di arrivare in Italia a tutti costi. La difficoltà vera è che durante la detenzione è quasi impossibile ottenere i documenti o richiedere il rinnovo”. “Per questa ragione - dichiara Domenico Palermo - abbiamo incontrato anche molti casi paradossali di cittadini stranieri che da oltre 20 anni risiedevano regolarmente nel nostro paese, che si sono visti negare il rinnovo del permesso di soggiorno, dopo decenni di contributi pagati allo stato italiano. “Oltre i confini”, grazie alla sinergia con le strutture penitenziarie, ha introdotto buone pratiche per evitare ingiustizie e casi paradossali, perché i detenuti stranieri purtroppo, non godono ancora degli stessi trattamenti degli italiani”. Fofana, Hamza, Hangu, Mamurani sono alcuni dei protagonisti del progetto e del documentario “Oltre i Confini” che con l’impegno ed e il sostegno di Cooperativa Prospettiva Futuro Onlus hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo. Oltre le sbarre, ritrovando fuori dal carcere occasioni di reinserimento vero nella società. Napoli: “La Cella Zero”, lo scempio delle carceri a teatro Di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 11 aprile 2018 Lo spettacolo è terminato con una dedica: “Come sempre vogliamo dedicare questo spettacolo a tutti i corpi delle forze dell’ordine, agenti penitenziari compresi. A tutti coloro che indossano con dignità una divisa e che compiono il loro dovere nel rispetto delle istituzioni”. Siamo al teatro Maria Aprea di Volla, tra circa 40 minuti avrà inizio lo spettacolo. Dalla sala si sentono gli attori che stanno facendo le ultime prove prima di entrare in scena. Pietro Ioia, autore del libro da cui è tratto “La Cella Zero” ci ha accolto e accompagnato sotto il palcoscenico. È qui che abbiamo incontrato l’autore Antonio Mocciola, il regista Vincenzo Borrelli (anche interprete) e gli attori Ivan Boragine, Marina Billwiller e Diego Sommaripa. Una scenografia essenziale, una scrivania per gli interrogatori, due celle e un gioco di luci e di suoni che hanno ben trasmesso il dramma di un carcere. La storia è veramente accaduta ed è tutta narrata all’interno del libro scritto da Ioia. Una tragedia che però è terminata in modo positivo attraverso la redenzione e la “rinascita” del suo protagonista. Ioia, infatti, è un ex detenuto che ha denunciato le violenze subite all’interno della maledetta Cella Zero, un luogo oscuro del carcere di Poggioreale dove i reclusi erano costretti a subire violenze psicologiche e fisiche. Questa cella è stato il simbolo di un sistema che non funziona. La Costituzione all’articolo 27 afferma che la pena deve essere educativa, non deve consistere in pene disumane e degradanti e deve avere l’obiettivo di reinserire il detenuto in società. Purtroppo, spesso, all’interno dei penitenziari italiani avviene l’esatto contrario, così ai detenuti oltre che la libertà è stata anche tolta la dignità. Il carcere si è trasformato in un luogo chiuso ed estraneo alla società, dove lo Stato sta operando una sua “vendetta” nei confronti di chi ha sbagliato e deve pagare il suo conto con la giustizia. E poi, il rapporto tra i detenuti, il ruolo delle mogli, donne forti che aspettano la libertà del proprio marito e che per stargli vicino, subiscono anni di umiliazioni e fatiche anche solo per un colloquio. Ioia ha interpretato il ruolo del (suo) carnefice. Un agente della Polizia penitenziaria che ha rappresentato un incubo per i detenuti. Ma si è trattato di un personaggio che ad un certo punto ha tirato fuori tutta la sua umanità. “La mia condizione è come quella di un ergastolano. Un fine pena mai”, ha urlato il violento aguzzino. Ed è vero, il sistema carceri in Italia sta rappresentando una vera emergenza per tutta la comunità penitenziaria, agenti compresi. Il corpo della polizia penitenziaria è costretta a lavorare in perenne emergenza, in strutture carenti, con scarse risorse e con un costante sovraffollamento delle carceri. Queste ultimi sono come un candelotto di dinamite pronto ad esplodere. Il libro e lo spettacolo “La Cella Zero” hanno rappresentano una denuncia, un grido per non lasciare che tutto questo cada nell’indifferenza. Intanto l’autorità giudiziaria ha avviato un processo dove 12 indagati sono ritenuti i presunti responsabili di violenze e torture ai danni dei detenuti. Ci auguriamo che la verità venga a galla affinché venga resa giustizia alle vittime e quegli agenti che appunto “indossano con dignità una divisa e che compiono il loro dovere nel rispetto delle istituzioni”. “Bad news”: gli studenti imparano a contrastare l’odio che viaggia sui media di Giada Conti Redattore Sociale, 11 aprile 2018 In alcune scuole di Pavia la sede del Csv Lombardia Sud ha sperimentato l’efficacia di un nuovo strumento didattico scaturito dal progetto “Brave”. Dall’analisi degli stereotipi e dei contenuti d’odio verso i migranti alla consapevolezza di fare attenzione prima di condividere le notizie. Quali sono le cause dell’odio e della violenza che caratterizzano parte della comunicazione che riguarda i migranti? Come nascono le etichette che stigmatizzano queste persone, e perché? Ci sono analogie con il modo in cui venivano rappresentati gli italiani che emigravano in cerca di fortuna? E che ruolo hanno i social media, ma anche il semplice passaparola, nel costruire l’immagine negativa del “diverso”? A partire da queste domande è nato “Bad news” (Bad sta per Be Aware of Dangerous media), uno strumento didattico per lavorare con i giovani tra i 13 e i 29 anni sul tema degli estremismi violenti collegati alla produzione e diffusione di informazioni cariche di odio tramite i media. “Bad news” è uno degli esiti del progetto Erasmus “Brave - Building resilience against Violent extremism” a cui ha partecipato anche il Csv Lombardia Sud, sede territoriale di Pavia. Si tratta di un progetto mirato a conoscere e prevenire le forme di violenza e incitamento all’odio, realizzato dal Csv di Belluno con la partnership di 9 associazioni non profit di altrettanti paesi europei e del Mediterraneo, tra cui CSVnet. Dal progetto “Brave” sono nati cinque strumenti educativi creati dagli stessi partecipanti, incentrati sulle tematiche del cyberbullismo, violenza di genere, violenza domestica, hate speech (discorsi d’odio) e xenofobia. E proprio su quest’ultimo argomento è stato costruito “Bad news”, per stimolare i giovani a riflettere sul ruolo che i media hanno nella formazione di stereotipi, pregiudizi e atteggiamenti razzisti. Nelle scorse settimane la sede di Pavia del Csv Lombardia Sud ha sperimentato “Bad news” con 10 classi di istituti superiori della città, verificandone l’efficacia in particolare con i ragazzi di questa fascia di età. “Bad news”, infatti, inizialmente permette loro di interagire e di riflettere sugli stereotipi negativi che consciamente o inconsciamente associano attraverso i media ad alcune popolazioni migranti presenti in Italia - ad esempio: i Rom rubano, i richiedenti asilo non vogliono lavorare, gli est europei sono violenti, gli arabi sono terroristi... - e poi di scoprire che molti di quegli stessi stereotipi un tempo erano rivolti agli emigranti italiani. Come il cartello fuori dai bar svizzeri che recitava “Interdit aux chiens et aux italiens”, ossia “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. L’utilità dello strumento sta nel far emergere il ruolo positivo che ognuno può giocare, individualmente o collettivamente, nel contrastare gli effetti negativi dei media in questo campo. Nel permettere, insomma, di rispondere alle domande su cui i ragazzi si sono confrontati dopo aver analizzato gli stereotipi: come si sono formate queste convinzioni? come mi informo e quali notizie condivido sui social? cosa posso fare per combattere la xenofobia promossa dai media? Dalla sperimentazione gli studenti sono usciti con tanti quesiti e dubbi sulle informazioni che di solito leggevano in modo acritico, ma soprattutto con la consapevolezza di dover fare più attenzione ai contenuti e alle fonti delle notizie prima di considerarle attendibili e condividerle, evitando di collaborare alla diffusione dell’odio che potrebbe generare episodi di violenza. “Bad news” è stato finora sperimentato in sessioni da 20 e 50 minuti ed è raccontato anche in questo video. Dirigenti e docenti scolastici e organizzazioni del terzo settore possono richiedere informazioni in merito ai seguenti recapiti: tel. 0382 526328; e-mail volontariato@csvpavia.it. Privacy, ecco a chi giova la depenalizzazione italiana di Virginia Della Sala Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2018 Dal Telecom Tiger Team allo spionaggio: tutti i casi in cui è stato contestato l’uso “doloso” dei dati, che il governo vuole eliminare. Almeno 19 sentenze in cui è stato applicato l’articolo 167 del codice Privacy, quello che punisce il trattamento illecito dei dati personali (con pene fino a tre anni di reclusione) e che è sparito nella bozza di decreto con cui il governo ha recepito a marzo il nuovo Regolamento europeo sulla Privacy. In pratica, il reato è stato depenalizzato. Al suo posto, solo sanzioni amministrative. L’elenco è di Stefano Aterno, docente di diritto penale dell’informatica alla Luiss. “L’art. 167 - ha scritto invece sul suo sito l’avvocato Giusella Finocchiaro, a capo della commissione che ha elaborato la bozza di decreto - non è stato applicato che in pochissimi procedimenti bagatellari dalle Corti italiane”. Non sembra proprio così. Nel 2004, ad esempio, un giudice del tribunale di Como ha condannato un uomo a 2 mesi di reclusione (sostituiti con una multa) per aver minacciato una donna con lettere anonime e diffuso i suoi dati (generalità indirizzo, telefono) senza autorizzazione. Aveva aperto a nome della donna un dominio internet e l’aveva iscritta a un sito di messaggi erotici. Nello stesso anno, un ragazzo è stato condannato per aver pubblicato il video dello spogliarello della sua ragazza. Ma ci sono anche casi più grossi. Come Telecom Tiger Team: condanne, patteggiamenti, 70 persone offese, 4 ministeri e la presidenza del Consiglio parte civile. Tiger Team era accusata di aver spiato chi veniva considerato pericoloso per l’azienda attraverso tabulati telefonici, intelligence e intercettazioni. Tra i reati contestati, oltre l’associazione per delinquere e l’accesso abusivo a sistemi informatici, proprio l’articolo 167 “per aver acquisito e comunicato al fine di trarne profitto informazioni... su conti correnti, saldi, giacenze, fidi”. Con le stesse accuse sono stati condannati dal Tribunale di Roma anche diversi investigatori privati. Enorme, poi, la condanna anche per trattamento illecito dei dati personali nel caso dell’azienda che aveva utilizzato senza consenso e senza informativa 457mila dati personali. Inoltre, l’articolo 167 in questi giorni è contestato nel caso dei fratelli Occhionero (è stata chiesta la condanna a 9 anni di reclusione), accusati di avere spiato per anni personaggi istituzionali e le mail di esponenti politici. “Non proprio una bagatella”, spiega Aterno. Con la depenalizzazione del reato, in caso di violazioni sulla privacy le procure - che procederebbero comunque per altri reati - dovrebbero trasferire gli atti al Garante della Privacy che, senza strumenti investigativi giudiziari, dovrebbe accertare le violazioni e poi, in caso, irrogare le sanzioni. Spesso, però, chi compie il reato o non ha soldi o ne ha di difficilmente aggredibili. Improbabili quindi le sanzioni milionarie. E vale anche per le aziende. “La norma - spiega Aterno - non sembra incompatibile con il regolamento Ue. Potrebbe essere riformulata ma non abrogata”. Chi ha scritto il decreto sostiene che le norme penali non devono essere in contrasto con il principio del cosiddetto ne bis in idem, che vieta un sistema di doppia sanzione e di doppio processo. “Vero. Ma due sentenze della Corte di giustizia europea (2017 e 2018) hanno sottolineato che il principio vada applicato dal giudice caso per caso e che vada accertato che il fatto sia lo stesso”. Non è un compito del legislatore. Semplificando: due eventi sono comparabili solo se uguali per contenuti e per evoluzione. Il ne bis in idem, poi, sussiste quando la sanzione amministrativa assume natura penale. “Fino ad oggi - spiega Aterno - in Italia i reati privacy che si vogliono abolire hanno previsto sanzioni amministrative collegate a quelle penali e mai si è posto un problema di ne bis in idem. Se non sarà abrogata, la norma potrà continuare ad essere un deterrente efficace”. Sta al legislatore, a questo punto, assumersi la responsabilità politica della scelta. Privacy. Le cattive compagnie di “Cambridge Analytica” di Vincenzo Vita Il Manifesto, 11 aprile 2018 Eppur si muove. Un risveglio di primavera. Dopo l’orrenda storia dei dati e dei profili ceduti alla società “Cambridge Analytica”, Facebook è finalmente finita sul banco degli imputati. La creatura di Mark Zuckerberg, impasto post-moderno di anarchismo all’acqua di rosa e di adesione profonda alle culture liberiste, è scesa dal cielo ed è atterrata nei luoghi dei corpi reali i cui diritti sono stati ripetutamente violati. Il ragazzo prodigio, è stato sentito dal congresso degli Stati uniti e ha scosso i Garanti per la privacy europei riunitisi a Bruxelles ieri, per disegnare il percorso previsto dal nuovo Regolamento europeo (2016/679) effettivamente applicabile dal prossimo 25 maggio. Chiare sono state le parole pronunciate, sulla relazione tra l’attendibilità del settore e l’innovazione digitale, dalla commissaria europea Mariya Gabriel. E lucido avamposto si è rivelato il Garante italiano, cui si deve l’iniziativa di maggiore concretezza, vale a dire la contestazione precisa dell’uso illecito dei dati. Per quale obiettivo sono stati utilizzati i profili italiani (214.134 dichiarati a fronte degli 87 milioni nel mondo, ma Antonello Soro sospetta ben di più)? È vero che se ne evince una precisa finalità politica? Tra l’altro, “Cambridge Analytica” non è sola ed è verosimilmente in cattiva compagnia. Troppi indizi, infatti, portano a ritenere che nell’ultima campagna elettorale (quella lunga, non solo gli ultimi trenta giorni) un bel numero di persone abbia subito una propaganda personalizzata. Le identità digitali, che gli interessati neppure conoscono, vengono plasmate anche attraverso banali esche - giochetti, prove di intelligenza, induzioni al piccolo narcisismo privato - che incrociate a tutto il “tracciato” descrivono le appartenenze culturali e politiche (o pure antipolitiche). Un mostruoso registro di un bel pezzo di umanità. Al confronto spy story e trame gialle appaiono letteratura fiabesca. Solo la migliore fantascienza ci ha fatto immaginare qualcosa. “Stiamo ancora lavorando per stabilire se Facebook ha raccolto illecitamente dati grazie alle rubriche telefoniche di chi non è iscritto al social ma ha scaricato l’applicazione WhatsApp che è di sua (Facebook, ndr) proprietà”. Così ha sottolineato Soro, per evidenziare l’espansione imprevedibile dei confini del caso. La vicenda è la punta evidente di un sommovimento profondo che è avvenuto nella trama democratica, e testimonia quanto le forme classiche della politica e delle istituzioni non reggano il livello del conflitto. Altro che “errore personale”, come si è schermito Zuckerberg di fronte alla commissione del congresso americano. Si tratta di una strategia lungamente preparata. Con il Regolamento dell’Unione europea si definiranno le sanzioni economiche, salate. Tuttavia, il capitolo decisivo che si apre riguarda l’urgenza di conoscere gli algoritmi, nei termini suggeriti nei suoi testi da Michele Mezza; nonché di “negoziarli”. Non è lecito che un procedimento di calcolo, ancorché sofisticato, detenga le leve del comando. A parte le problematiche antitrust sollevate dall’Autorità per la concorrenza, il vero nodo è quello politico, nel senso profondo del termine, vale a dire l’organizzazione della pòlis e la formazione dell’opinione pubblica. Il potere ha divorziato dalla politica, ci ha ammonito Bauman. Gli oligarchi della rete e i loro cugini delle finanze sono la cupola dominante. Se la sfera politica non ritorna in scena con competenza e dignità, prepariamoci ad un’era davvero imbarazzante. Migranti. Diritti violati nell’hotspot di Lampedusa. “La struttura resta inadeguata” Redattore Sociale, 11 aprile 2018 È un quadro di illegalità e violazione dei diritti umani quello messo in luce dal dossier realizzato da Asgi, Cild e Indie watch, sulla situazione dell’hotspot di Lampedusa. “Nonostante l’annunciata chiusura, il centro è ancora parzialmente funzionante. La situazione è esplosiva”. Persone fatte dormire all’aperto subito dopo lo sbarco. Minori e adulti lasciati in un’unica stanza in situazione di promiscuità. Notti intere senz’acqua. E poi atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, percosse, violenze. Il rapporto presentato oggi alla Camera dei deputati mette nero su bianco la condizione di “limbo giuridico” dell’hotspot di Lampedusa, come sottolinea il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. “Quella di Lampedusa era e continua ad essere una struttura incongrua e inadeguata - spiega Palma in conferenza stampa. L’hotspot dovrebbe essere un punto di semplice identificazione e smistamento. Mentre lì ho avuto modo di incontrare persone presenti da mesi, come nel caso del ragazzo che si è suicidato a gennaio ed era arrivato a ottobre”. Il Garante ricorda che nei centri hotspot le persone dovrebbero restare al massimo 48 ore: “Parlo di limbo giuridico perché se rimangono lì più di 48 ore ci deve essere un’autorità giudiziaria confermi quella privazione della libertà”. A questo si aggiunge un’inadeguatezza strutturale: “In generale si tratta di una situazione scarsamente accettabile per 48 ore, quindi assolutamente inaccettabile se la situazione si prolunga. Non c’è una mensa, si mangia per terra o sui muretti”. Anche se la struttura verrà ristrutturata, come previsto, difficilmente secondo il Garante potrà raggiungere gli standard previsti. “Tra l’altro - ricorda Palma - il decreto Minniti del febbraio 2017 prevede che vengano istituiti Cpr nelle varie regioni, strutture più piccole che rispondono a una logica radicalmente diversa, ma di questa logica e di quel disegno aspetto di vedere ancora qualcosa. Finora non si è mosso niente”. Il dossier di Asgi, Cild e Indie Watch, racconta dettagliatamente cosa gli avvocati e i ricercatori hanno trovato durante la visita del 6 e 7 marzo scorsi. In quel momento erano presenti 170 persone, due nuclei familiari, diversi minori anche non accompagnati. “C’erano situazioni di doppia, tripla vulnerabilità - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Cild. Il nostro è un racconto in itinere, molto di quello di cui stiamo parlando è sotto giurisdizione della Corte europea dei diritti umani, sappiamo che c’è stata una prima richiesta di chiarimenti ed è arrivata la risposta governo, dopodiché il centro è stato temporaneamente chiuso”. Gennaro Santoro, avvocato di Cild spiega che le “violazioni dei diritti umani riscontrate nell’hotpot non si sono riscontrate in altri contesti. Formalmente sono centri aperti ma non è vero, da questi luoghi non ti puoi allontanare. La situazione è esplosiva. Una mattina abbiamo incontrato una bambina 8 anni, qualche giorno dopo abbiamo appreso che nello scontro del 9 marzo quella bambina ha ricevuto lesioni”. Le violenze e le percosse ricevuto dai migranti presenti a Lampedusa, sono dettagliate nelle fotografie contenute all’interno del rapporto. Come quelle che ritraggono la mano sanguinante di Ahmed, un ragazzo minorenne, morso dal cane della polizia, o ancora quelle in cui si vedono sui corpi di adulti e bambini i segni di manganellate. Ma ci sono anche foto di atti di autolesionismo: esasperati dai tempi di attesa e con la pura di essere rimpatriati, alcuni degli ospiti si sono cuciti la pelle con il filo spinato. Nel dossier si pone l’accento anche sulla situazione dei Cpr di Torino, Brindisi e Potenza in cui un centinaio di persone sono state trasferite dopo la chiusura temporanea della struttura. “Quello che abbiamo trovato a Lampedusa non ha nulla a che fare con l’accoglienza, in questo luogo spesso si ritraumatizza il trauma - spiega Fabrizio Coresi di Indie Watch -. Quello che chiedono le persone è libertà di movimento, una libertà di cui sono privati in maniera illegittima dentro l’hotspot”. Dopo la visita gli avvocati delle organizzazioni hanno presentato ricorsi d’urgenza alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che con la chiusura temporanea del centro hanno in parte perso ragione d’essere per il sopravvenuto trasferimento in strutture idonee nella provincia di Agrigento dei ricorrenti. “Nel loro interesse presenteramo comunque ricorsi ordinari per chiedere la condanna dello Stato italiano al pagamento di un indennizzo per le condizioni disumane in cui sono stati costretti a vivere per oltre un mese - spiegano gli avvocati. Due ricorsi, entrambi relativi a nuclei familiari con minori, sono già stati presentati: un nucleo familiare, composto da madre, padre e bimba di soli 8 anni è arrivato a Lampedusa il 15 febbraio 2018, dopo 3 giorni di navigazione durante i quali la minore è svenuta per la fame e la sete”. Giulia Crescini, di Asgi, sottolinea, in particolare, che “per tutti gli assistiti i ricorsi si fondano su violazioni della Cedu, perché le persone sono state sottoposte a trattamenti inumani e degradanti: per alcuni come i minori, questi trattamenti sono amplificati, ma in generale l’accoglienza predisposta anche per uomini adulti è disumana”. Tra i diritti violati anche l’accesso negato alle procedure per chiedere la protezione internazionale. La preoccupazioni ora è che il centro vengo riaperto. Secondo gli avvocati, infatti, l’hotspot è ancora parzialmente funzionante: “Sappiamo che ci sono stati degli sbarchi e che le persone sono trattenute lì - aggiunge Cristina Laura Cecchini di Asgi. Quello che vogliamo capire è se ci sarà solo una ristrutturazione che permetterà di riaprire l’hotspot e permettere un maggiore trattenimento”. Sulla vicenda l’onorevole Giuditta Pini del Pd ha annunciato un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Marco Minniti e a quello della Giustizia, Andrea Orlando. Droghe. Riduzione del danno, diritto esigibile di Susanna Ronconi Il Manifesto, 11 aprile 2018 La Riduzione del Danno è un diritto. Non si tratta dello slogan del movimento che da 25 anni lavora per una politica di RdD in Italia. Si tratta di un fatto: dal 2017 gli interventi di RdD sono parte dei Lea, i livelli essenziali di assistenza che, nel sistema sanitario nazionale, definiscono servizi e prestazioni a cui ogni cittadino ha diritto, in qualsiasi regione si trovi a vivere. Insomma, i Lea disegnano la mappa dei diritti (esigibili) alla salute. Un passo in avanti importante, rivendicato per anni da associazioni, operatori, regioni, almeno quelle che la RdD l’hanno inclusa nelle proprie strategie di intervento. Dalla metà degli anni 90 ad oggi la mappa della RdD in Italia è stata contrassegnata da profonde diseguaglianze: secondo il monitoraggio del Cnca, Coordinamento Comunità di Accoglienza (nella prolungata assenza di una mappatura istituzionale), su venti regioni solo sei possono vantare una costante e relativamente stabile politica di RdD, le altre o hanno interventi sporadici e discontinui, o non ne contano affatto. Anche in alcune regioni “virtuose”, poi, i servizi hanno spesso garanzie di copertura economica a tempo, di uno, due anni. Perché? Perché la politica governativa, dopo aver boicottato la RdD con i governi di centrodestra e il Dipartimento antidroga del tandem Giovanardi-Serpelloni, con gli esecutivi via via succedutisi non ha messo mano alla questione delle politiche nazionali sulle droghe: nessuna Conferenza nazionale che ridisegnasse un indirizzo adeguato e non ideologico, nessun Piano d’azione (fermo al 2010, un Piano fortemente contestato ai tempi da associazioni e regioni), blocco alle proposte di modifica della legge 309, nonostante un consistente e trasversale gruppo di parlamentari riformisti. E nessun atto che indirizzasse le politiche di RdD e soprattutto le sostenesse politicamente come un pilastro cruciale, come avviene nei Piani d’azione europei. Così le regioni sulla RdD hanno continuato a provvedere da sé: in modo virtuoso, alcune, poco o in nessun modo altre, e operatori e associazioni hanno continuato a portare avanti la loro battaglia, fatta di mobilitazione, di tenuta e di sperimentazione. I Lea della RdD giungono qual buona novella in questo scenario stagnante, e sparigliano la partita. È passato però un anno: cosa è successo, nel frattempo? Poco. Quasi nulla, a livello governativo, fatto salvo il Piano Nazionale Aids che alla RdD esplicitamente si riferisce. La domanda di un tavolo per linee guida nazionali, portata dalle associazioni al Dipartimento Antidroga, non ha avuto alcun riscontro. Per andare avanti, la rete delle associazioni per la RdD chiede alle regioni un dialogo e un confronto: l’appuntamento è a Torino, il 14 giugno, per una giornata di lavoro comune: per capire, insieme agli operatori del pubblico e del terzo settore, come fare dei Lea della RdD un diritto esigibile, base di una strategia e di un sistema di intervento che, pur nel rispetto delle autonomie regionali, stabilisca linee di indirizzo comuni. Le evidenze e le competenze su cui basare un sistema di RdD adeguato ed efficace sono oggi più che solide, e la ventennale esperienza in alcune regioni italiane è una base importante. Basta leggere i Lea relativi alla RdD elaborati dal gruppo ad hoc della regione Piemonte, per vedere un impianto coerente, concreto, sostenibile. Ciò che fino ad oggi è mancata è la volontà politica dei governi. L’alleanza - basata su decenni di collaborazione e lavoro comune - tra regioni, associazioni e settore pubblico ha le carte in regola per un deciso passo avanti. Le info sull’evento di Torino del 14 giugno e i Lea RdD della Regione Piemonte on line su Fuoriluogo.it. Guerra in Medio Oriente, la necessità di avere un’informazione onesta di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 11 aprile 2018 Purtroppo non possiamo dire cos’è successo a Ghouta. Ma sappiamo che non dobbiamo fidarci degli “elmetti bianchi”, della contro-propaganda di Russia Tv e neppure delle dichiarazioni dell’Amministrazione Usa. Attenzione a dare per certa la responsabilità degli attacchi chimici in Siria. Accusare Assad è facile. A difenderlo invece si finisce nel mucchio dei complottardi o, peggio, dei complici. Però dubitare di quel che ci viene detto (molto) e mostrato (poco) è un obbligo. La guerra siriana, nonostante i mille canali social che la raccontano live dai telefonini, è la meno vista della storia. Il problema è che non ci sono giornalisti indipendenti a guardarla. Ce ne sono molti “social”, ce ne sono alcuni di regime e anti-regime, ma sono tutti di parte. Perché? Perché andare tra i ribelli è pericoloso, tra chi piange per i gas c’è quel che resta dell’Isis. Questo non vuol dire che i giornalisti siano sempre una garanzia. Abbondano gli errori fatti dal fior fiore della stampa libera. Uno, clamoroso, fu credere alla figlia dell’ambasciatore kuwaitiano che si spacciava per infermiera: “I soldati di Saddam Hussein rubano le incubatrici e lasciano morire i bambini”. La guerra del 1991 si giustificò anche così. Altro abbaglio fu l’antrace che lo stesso Saddam Hussein sarebbe stato pronto a scagliare sull’Europa nel 2003. I geniacci della comunicazione decisero che “antrace” (un’arma batteriologica, guarda caso) fosse una parola poco efficace e la sostituirono con “pistola fumante”. Funzionò, andammo in Iraq convinti, peccato che di antrace non c’era traccia. Un conto è la scelta politica pro o contro una guerra che spetta legittimamente ai governi. Un altro è l’informazione che gli elettori devono poter ricevere. Purtroppo non possiamo dire cos’è successo a Ghouta. Ma sappiamo che non dobbiamo fidarci degli “elmetti bianchi”, della contro-propaganda di Russia Tv e neppure delle dichiarazioni dell’Amministrazione Usa. Nel 2003 mentì il segretario di Stato Colin Powell all’Onu, oggi potrebbe farlo Donald Trump via Twitter. Abbiamo bisogno di prove, di informazione onesta e di prima mano, non di abboccare a chi è più convincente. Siria. Si muovono le navi Usa, l’ipotesi di un attacco con i missili cruise di Guido Olimpio Corriere della Sera, 11 aprile 2018 La Marina militare americana ha annunciato la partenza di una nave dotata di armamenti da Cipro. Israele spinge per un attacco, con lo scopo di impedire che l’Iran allarghi la sua presenza in Siria. Ispettori internazionali pronti a recarsi a Douma per indagare. Le opzioni in mano a Trump. In attesa delle decisioni e delle mosse di Trump, il “fronte” mediorientale è in pieno movimento. Ognuno sposta pedine, “sistemi”, apparati in vista del peggio. Iniziative militari ma anche messaggi lanciati attraverso i media e i social. Gli ispettori - Quadro teso dove si è aperto uno spazio per un’iniziativa dell’Opcw, l’organismo che si occupa delle violazioni alle intese sulle armi chimiche. I responsabili sono pronti a compiere un’ispezione immediata a Douma, in Siria, per indagare su quanto è avvenuto. Passo che potrebbe anche essere sostenuto, nelle prossime ore, da una risoluzione Onu. I russi e siriani, che per mesi hanno osteggiato l’intervento degli ispettori, ora si sono detti pronti a collaborare. Servirà a rallentare le operazioni belliche? Il presidente Usa, da parte sua, ha annullato un previsto viaggio in Perù proprio per seguire gli sviluppi del confronto. Un’ulteriore manovra per sottolineare che si è vicini a decisioni importanti. In allarme - Siriani, russi e iraniani hanno messo in stato d’allarme le basi temendo un possibile attacco. In particolare la difesa anti-aerea gestita da Mosca scruta l’orizzonte e il mare antistante la costa del Paese alleato. Tra gli scenari prefigurati c’è un possibile bombardamento con missili da crociera, la ripetizione di quanto avvenne un anno fa quando la Casa Bianca fece sparare una cinquantina di ordigni contro installazioni del regime. Due aerei da ricognizione russi IL 38 sono stati segnalati “al lavoro” in uno spazio di mare molto affollato. Gli israeliani hanno spostato alcune batterie anti-missile Iron Dome nella zona del Golan. E secondo la rete NBC sempre i russi avrebbero disturbato elettronicamente l’attività dei droni statunitensi rendendo difficili le loro incursioni a caccia di dati. Navi in movimento - Ieri la Us Navy ha annunciato pubblicamente, con tanto di foto, la partenza da Larnaca (Cipro) della nave “Donald Cook”, unità dotata di cruise (nella foto in alto). In zona c’è anche una “gemella”. Fonti turche hanno sostenuto che velivoli russi avrebbero compiuto azioni di disturbo. Notizia smentita dagli americani. Episodio analogo avrebbe coinvolto la fregata francese Aquitaine. Probabile che la formazione sia tenuta d’occhio, fa parte del gioco. Così come è di routine la presenza di un aereo pattugliatore P8 Poseidon statunitense tra Cipro e la Siria, jet che decolla regolarmente da Sigonella, in Sicilia. Le schermaglie, anche sul web, sono una componente fissa di questo confronto. Il monito - Il quotidiano israeliano Haaretz apriva il suo sito questa mattina con un articolo netto nei contenuti. Gerusalemme - scrive - sostiene un approccio deciso e d’attacco per impedire che l’Iran allarghi la sua presenza in Siria. Concetto appoggiato da Difesa e sicurezza nella loro totalità, Israele agirà per tutelare i suoi interessi. Posizione nota da tempo, ma rafforzata dal raid sferrato 24 ore fa contro la base siriana T4, considerata uno degli snodi iraniani in territorio siriano. E tutto questo va ben oltre l’episodio delle armi chimiche. È una sfida regionale che oppone lo stato ebraico (con Usa e monarchie del Golfo) ai mullah di Teheran. Duello che può trascinare dentro il Libano, cuore dell’Hezbollah pro-iraniano. Le opzioni - Come in passato dagli Usa emergono scenari sulle opzioni in mano a Trump. 1) Azione limitata con i cruise lanciati da navi e sommergibili. 2) Strike massiccio contro una serie di target militari (aerei, caserme, piste). 3) Attacco accompagnato da una nuova campagna di pressione diplomatica. 4) Esperti, al solito, sono divisi: c’è chi ritiene che questo tipo di incursioni non abbiano alcun effetto reale ma siano solo uno show mentre altri sostengono che sia necessario comunque reagire. 5) Molta inquietudine nel caso possano essere coinvolti militari russi. Mosca ha già promesso una risposta su più livelli, l’Iran ha minacciato una ritorsione per “i crimini di Israele”. 6) Putin gode di una posizione di forza, però ha bisogno di “normalità”, ogni lampo nella crisi allontana il progetto di ridurre l’impegno e richiama il rischio del “pantano”. Neppure lo zar se lo può permettere. 7) Gli Usa - se agiranno - lo faranno da soli? Oggi si dava per scontata una partecipazione francese e forse britannica. Ma non sono stati esclusi neppure altri partner regionali. Ulteriore prova di come la dimensione del conflitto in Siria sia ormai internazionale, con tutte le conseguenze che comporta. Libia. “Esecuzioni e torture sui detenuti”, l’Onu accusa ministero Interno di Sarraj di Marco Pasciuti Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2018 Al dicastero fanno capo due milizie - la “Central Security Abu Salim” e la “Special Deterrence Force” - accusate dalla missione Unsmil di commettere violazioni dei diritti umani nelle sue strutture di detenzione. Dallo stesso ministero dipende il “Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale” che gestisce diversi Centri nei quali viene rinchiuso chi viene fermato nel Mediterraneo in base all’accordo firmato da Gentiloni e Al Sarraj. Un uomo sui 50 anni. Una milizia controllata dal ministero dell’Interno lo aveva sottoposto a interrogatorio. Nel giugno 2017, quattro giorni dopo il fermo, i familiari erano stati informati della sua morte. Un rapporto visionato dalla Human Rights, Transitional Justice, and Rule of Law Division della missione Unsmil certificava che l’uomo era stato “sottoposto a pestaggi e torture”. Il suo è uno dei 37 corpi portati senza vita negli ospedali di Tripoli lo scorso anno con inequivocabili segni di tortura addosso. È la punta di un iceberg gigantesco fotografato nell’ultimo report dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights e fatto di “orribili abusi, detenzioni illegali e violazioni dei diritti umani” che avvengono almeno dal 2015 nelle prigioni gestite dalle milizie alleate del governo di unità nazionale patrocinato dall’Occidente e guidato da Fayez Al Sarraj. Cui l’Italia ha affidato il compito di fermare i barconi carichi di migranti diretti verso la Sicilia. Il ministero dell’Interno è controllato dagli uomini di Al Sarraj. È il dicastero cui fa riferimento una delle due “Guardie costiere” di Tripoli che, in base al memorandum firmato da Sarraj e Paolo Gentiloni il 2 febbraio 2017, hanno il compito di fermare in mare i migranti diretti verso l’Italia. “La detenzione di migranti, richiedenti asilo e rifugiati non è l’oggetto di questo report”, si legge, ma dal ministero guidato da febbraio dal generale di brigata Abdul Salam Ashour dipende anche il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale che gestisce diversi centri di detenzione nei quali viene rinchiuso chi viene fermato nel Mediterraneo, definiti il 14 novembre 2017 dalle Nazioni Unite “un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Allo stesso dicastero fa capo anche il gruppo detto Central Security/Abu Salim, che controlla il sobborgo sud-occidentale della Capitale. I suoi uomini sono responsabili, secondo l’Onu, di diverse sparizioni forzate e della morte di un uomo trovato senza vita a Tripoli nel luglio 2016, con addosso pesanti segni di percosse, frutto del trattamento subito nelle due settimane trascorse nel centro di detenzione gestito dalla milizia armata, guidata da Abdel Ghani al-Kikli. Che fin dall’aprile 2016 garantisce la sicurezza del Consiglio Presidenziale nella capitale insieme alla Tripoli Revolutionaries Brigade e alla Special Deterrence Force. Quest’ultima dipende sempre dal ministero dell’Interno, il Governo di Accordo Nazionale lo ha pubblicamente elogiato “per la funzione svolta nella lotta al crimine”, e gestisce il carcere di Mitiga. Un inferno in terra, secondo le testimonianze e le prove raccolte dalla United Nations Support Mission in Libya. La Human Rights Division “è stata in grado di documentare” la morte di un 20enne avvenuta tra le sue mura nel giugno 2016: “Il suo corpo era coperto di cicatrici, aveva gli arti spezzati e presentava diverse ferite da arma da fuoco”. Il ragazzo era uno delle migliaia di ospiti del compound che, secondo i dati forniti dalla Sdf durante l’unica visita concessa, nel 2016 ospitava “1.500 detenuti di sesso maschile e 200 di sesso femminile, compresi i bambini”. Un anno dopo le celle si erano riempite ulteriormente: “In base alle informazioni ricevute da un membro dell’Ufficio del procuratore generale, alla fine di novembre 2017 erano detenute 2.600 persone”. Che vengono detenute in “condizioni inumane”: “Dal dicembre 2015, la HRD ha documentato nella struttura gravi violazioni dei diritti umani - si legge nel documento - come la detenzione arbitraria, tortura, isolamento prolungato, decessi in custodia ed esecuzioni sommarie”. Tra le vittime preferite dei miliziani in servizio a Mitiga ci sono le donne, che vengono “percosse e frustate”: “In alcuni locali, le detenute sono costrette a spogliarsi e sono sottoposte a ricerche invasive nelle cavità da parte delle guardie o sotto lo sguardo di funzionari di sesso maschile”. Brasile. 20 morti nel tentativo di evasione di massa da prigione Corriere della Sera, 11 aprile 2018 Almeno 20 persone sono morte e altre quattro sono rimaste ferite in uno scontro a fuoco con la polizia durante un tentativo di evasione di massa da una prigione nel nord del Brasile. Secondo quanto hanno reso noto fonti della sicurezza pubblica dello stato di Para, 19 delle vittime sono detenuti del penitenziario Santa Izabel di Belem, o loro sostenitori. Il numero dei detenuti che sono risusciti a fuggire sarà reso noto soltanto quando sarà stato completato il conteggio e le verifiche, hanno fatto sapere le fonti. Salta in aria muro di recinzione - L’ispettore di polizia Rodrigo Leao ha frattanto riferito che due armi da assalto, tre pistole e altre armi da fuoco sono state sequestrate ad un gruppo che tentato di dare l’assalto alla prigione per facilitare l’evasione di massa. Secondo informazioni diffuse dalla segreteria di sicurezza di Para, tutto è iniziato quando poco dopo le 13 (le 19 in Italia): un gruppo di uomini armati è arrivato davanti al Santa Isabel e ha fatto saltare in aria uno dei muri di recinzione della prigione. Alcuni dei detenuti all’interno del carcere erano anch’essi armati, per cui è iniziata una intensa sparatoria, durata almeno un’ora, durante la quale sono morti un funzionario della prigione e altri 19 uomini. In immagini trasmesse dalle tv locali si sono visti corpi coperti di sangue, ammucchiati sul pavimento all’ingresso della prigione. Brasile. Ha ragione Paolo Mieli: non si può essere garantisti solo per Lula di Piero Sansonetti Il Dubbio, 11 aprile 2018 Paolo Mieli ha scritto un articolo sul “Corriere della Sera”, a proposito dell’arresto di Ignacio Lula, ex presidente del Brasile, nel quale pone una questione molto seria. Come mai si chiede - diversi esponenti della sinistra italiana oggi solidarizzano con Lula e mettono in discussione una sentenza di un tribunale brasiliano, avanzando l’ipotesi di un complotto politico contro di lui - e comunque una interferenza della magistratura nella battaglia elettorale - e in passato non solidarizzarono mai con i loro avversari politici danneggiati elettoralmente dalle inchieste, dagli avvisi di garanzia, dalle sentenze? Il riferimento di Mieli è abbastanza esplicito ed è soprattutto a Berlusconi e ai molti processi contro di lui, e anche, forse, se andiamo indietro nel tempo, a Bettino Craxi e all’inchiesta Mani Pulite. Ci sono diversi passaggi dell’articolo di Mieli che non condivido. Soprattutto quelli sul merito del processo brasiliano e della sentenza. Mieli sostiene che nel processo contro Lula è stato dimostrato che esiste un contratto di acquisto di un superattico (che sarebbe l’oggetto della corruzione da parte di una società privata in cambio di favori da Lula) firmato dalla moglie dell’allora presidente del Brasile. Il punto è che questa firma non c’è, e che non esiste nessuna carta che dimostra che quell’appartamento fosse diventato proprietà di Lula, anzi, esistono molte carte che dimostrano il contrario. Tanto che, recentemente, la società che avrebbe corrotto Lula regalandogli l’appartamento, ha offerto lo stesso appartamento come garanzia per ottenere un prestito bancario: e questo rende francamente infondata l’ipotesi che l’appartamento fosse stato regalato a Lula, anche perché le banche, in genere, prima di accettare una garanzia farlocca fanno qualche accertamento. E quindi crollano tutti i presupposti di un processo indiziario costruito esclusivamente sulle testimonianze di alcuni pentiti che assomigliano tantissimo ai famosi pentiti del processo Tortora. Tuttavia ora Lula è in carcere e difficilmente potrà partecipare alle elezioni, a ottobre, mentre i sondaggi lo davano per vincente con il 20 per cento di scarto sul più forte dei suoi avversari. E di conseguenza, probabilmente, il Brasile sarà riconsegnato alla destra, e si porrà la parola fine dell’esperienza socialista democratica del Pt (il partito dei lavoratori) guidata da Lula e che ha cambiato abbastanza profondamente le condizioni sociali del Brasile, togliendo dalla povertà svariate decine di milioni di persone. Tuttavia il punto essenziale dell’articolo di Mieli mi pare indiscutibile. La domanda che pone a Prodi, a D’Alema, a Fassino e a tanti altri esponenti della sinistra che hanno firmato l’appello pro-Lula, sta lì e aspetta una risposta. Possibile che la sinistra sia capace di assumere coraggiose posizioni garantiste solo quando le vittime del giustizialismo - o dello strapotere di settori della magistratura - sono vittime amiche? È vero che il problema si pone anche a parti invertite. E cioè succede, talvolta, che la destra lasci per strada il suo garantismo per colpire esponenti della sinistra. Però bisogna ammettere che questo avviene meno frequentemente. E che nella storia dell’ultimo quarto di secolo il tratto principale del giustizialismo (e l’effetto principale dell’azione della magistratura) è stato l’attacco alla destra, e non alla sinistra. Così come in Brasile è stato alla sinistra e non alla destra. In particolare, è cosa stra-nota, la vittima del giustizialismo in Italia è stato Berlusconi. Prendiamo solo l’esempio dell’ultima condanna - che peraltro è anche l’unica condanna su circa 70 processi avviati dai Pm - quella per evasione fiscale di Mediaset che è costata a Berlusconi un anno di servizi sociali, più l’esclusione dal Senato e l’impossibilità di candidarsi alle elezioni (e probabilmente diversi milioni di voti perduti dal suo partito sia nelle elezioni del 2013 sia, soprattutto, nelle ultime). La sentenza venne al termine di un processo indiziario e fu molto pesante (quattro anni, tre dei quali furono cancellati solo perché era ancora in vigore l’indulto del 2006), sebbene la consistenza dell’evasione non fosse enorme (mi pare circa 4 milioni di euro su un fatturato miliardario). Non fu provato in nessun modo che Berlusconi, che all’epoca dell’evasione era presidente del consiglio, potesse essere al corrente delle dichiarazioni dei redditi di Mediaset. È anzi estremamente probabile che non lo fosse, e che quindi non fosse responsabile di nessun reato. La condanna di Berlusconi fu un’ingiuria al diritto esattamente come ora lo è la condanna a Lula. Però allora le forze politiche dissero: “Le sentenze non si discutono”. Frase sempre utile per evitare la discussione di merito, e che poi viene messa in discussione quando i condannati non sono tuoi nemici (recentemente l’ha messa in discussione addirittura il Pm Di Matteo, condannato in un processo contro Giuliano Ferrara). La verità è che il problema non è quello della insindacabilità delle sentenze, ma è che ciascuno usa le sentenze per colpire gli avversari. E i partiti politici che hanno un rapporto migliore con l’ala reazionaria della magistratura sono decisamente avvantaggiati nella lotta politica. Questo, negli ultimi 25 anni, è stato un elemento che ha distorto il funzionamento della nostra democrazia. L’appello di D’Alema, Prodi, Fassino e tutti gli altri a favore di Lula segnerà una svolta? Cioè torneremo a vedere una sinistra garantista (grande assente di questi decenni nella politica italiana)? Se è così evviva. Si può solo essere contenti. Ma sarà così? È giusto essere ottimisti.