La malattia mentale e il carcere, una svolta frettolosa di Gemma Brandi e Mario Iannucci* Corriere Fiorentino, 10 aprile 2018 Il parere della Commissione parlamentare speciale che si è insediata il 4 aprile per esaminare anche la riforma Orlando sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari non è vincolante per la ratifica governativa della riforma, che scade a un anno dalla legge delega 103 del giugno 2017. Nel 2017, abbandonati gli Ospedali psichiatrici giudiziari, si è inaugurata l’epoca delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Il prossimo governo dovrà completare la riforma. Ma esperti come gli psichiatri Gemma Brandi e Mario Iannucci, che lavorano a Sollicciano, lanciano un allarme. I posti nelle Rems sono pochi, un terzo degli internati negli Opg ne restano fuori, a piede libero o in carcere. E se all’Opg di Montelupo c’erano oltre 60 posti, nella Rems di Volterra solo 28. Troppi “folli rei” finiscono in carcere, dove la polizia penitenziaria potrebbe non avere più responsabilità su di loro, lasciando l’onere a pochi psichiatri, psicologi e operatori. Molti premono perché si affrettino i tempi, con vari rischi. Esamineremo la sola parte riguardante i folli autori di reato, sufficiente per farsi una idea del metodo, se non del merito, dell’intero decreto. Dal 2011, dopo la commissione ministeriale Marino sugli Opg, sono proliferate norme per il superamento di quei sedicenti ospedali psichiatrici giudiziari che Giorgio Napolitano definì “orrori indegni di un Paese appena civile”. Norme che, mentre promettono novità a favore dei fragili, allestiscono per loro nuovi “orrori”. E che risentono degli stessi pregiudizi presenti negli Stati Generali della Esecuzione Penale, a cui non presero parte esperti nella cura dei folli rei, ma noti sostenitori della abrogazione del “doppio binario” (ovvero di distinti percorsi tra semplici autori di reato e autori di reato soggetti a patologie mentali) secondo cui anche a un grave schizofrenico andrebbe restituito il “diritto alla pena”. Credenza, questa, di chi non conosce tecnicamente il folle o il carcere, tesa a demolire la ragione nobile da cui prese origine la psichiatria: salvare i deboli dal supplizio delle galere. Rinnovare questo supplizio complicherebbe la cura e il monitoraggio dei malati, mentre le carceri diventerebbero una caotica “grande Rems (Residenza per l’esecuzione misure sicurezza, ndr)”, come lamenta chi vi opera. Nondimeno, le leggi sul superamento degli Opg non sono del tutto negative. Era doveroso chiuderli e sostituirli con vere strutture sanitarie, le Rems, cui mancano, però, i posti (circa un terzo degli assegnati sono liberi, sebbene pericolosi socialmente, o in carcere) e la omogenea disponibilità geografica di posti letto: dai 91 del Lazio, ad esempio, ai 28 per Toscana e Umbria. Errori di programmazione hanno gettato scompiglio nelle attività giuridiche e penitenziarie: la discrezionalità delle Regioni sulla apertura delle Rems, a fronte di una assegnazione centralizzata, e il mancato allestimento preventivo di idonei spazi in carcere, cui era destinato per legge un terzo degli ospiti dell’Opg (i detenuti con “sopravvenuta infermità”, gli “osservandi” e i “minorati psichici”). La carenza di posti ha intanto ridotto la platea dei pazienti da Rems, con le prigioni convertite in improvvisati asili. Anche della riforma in fieri non tutto è censurabile. Va bene equiparare malattia psichica e fisica al fine del differimento pena per motivi di salute, ma non che ne discenda l’abolizione della “sopravvenuta infermità nel condannato”, visto il numero di folli condannati come sani. Validi sono anche l’affidamento terapeutico e la detenzione domiciliare per chi non sia curabile in carcere. Come si pensa, però, di farlo con i servizi di salute mentale che non avrebbero mezzi e intenzione di occuparsi di tale ingrato compito? Parti della riforma confermano il pregiudizio sul “doppio binario”: lo svuotamento di fatto della “seminfermità di mente” (non è stato abrogato l’articolo che la disciplina, ma si è abolito l’invio nelle Rems di chi è giudicato tale); l’eliminazione, in pratica, della “minorazione psichica”; l’annuncio che nessuna “osservazione psichiatrica” delle persone in attesa di giudizio si svolga nelle Rems ma che questi attendano il verdetto in carcere; l’intento di organizzare veri e propri manicomi nei penitenziari, a sola gestione sanitaria, togliendo ogni responsabilità agli agenti penitenziari. Se operatori competenti ripensassero la riforma senza fretta e pregiudizi, si potrebbe procedere in modo da tutelare i pazienti e la società civile. C’è da augurarsi che il nuovo Parlamento non deluda. *Esperti di salute mentale applicata al diritto Messa alla prova, una misura in continua crescita: +22% di Teresa Valiani Redattore Sociale, 10 aprile 2018 Le richieste di ammissione sono passate da 19.554 del 2016 a 23.886 nel 2017. Lucia Castellano: “Si tratta di una nuova cultura della pena, che abbatte il rischio recidiva e i costi del processo”. I dati nazionali e quelli dello Sportello sperimentale partito nel tribunale di Roma. Imputati messi alla prova: è in crescita continua il nuovo modello di sanzione che sospende il processo e permette agli imputati di lavorare, gratuitamente, in attività socialmente utili. Dai dati del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, emerge infatti che “a livello nazionale si continua a registrare un incremento significativo e costante delle richieste di ammissione alla messa alla prova che sono passate da 19.554 del 2016 a 23.886 nel 2017, con un incremento pari al 22 per cento”. Mentre per quanto riguarda le misure gestite, per adulti, l’incremento è ancora più marcato e sale al 28% dei casi di sospensione del procedimento negli ultimi due anni: dalle 19.187 del 2016 alle 23.492 registrate nel 2017. “Si tratta - spiega Lucia Castellano, dirigente generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità - di una nuova cultura della pena, che abbatte il rischio recidiva e i costi del processo: il buon esito della prova, infatti, estingue il reato e il processo non si celebra”. Se ne è parlato nel corso di un convegno promosso dalla Scuola superiore della Magistratura presso la Corte d’appello di Roma, dal titolo “Messa alla prova 2.0”: un incontro organizzato anche per fare il punto sui primi mesi di attività dell’ufficio per la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità (Mpa/Lpu), il primo in Italia, inaugurato nell’ottobre scorso all’interno del tribunale di Roma. Lo Sportello, ospitato al piano terra del tribunale, è un luogo in cui assistenti sociali, avvocati e funzionari del tribunale possono incontrarsi per facilitare le procedure e in cui gli imputati e gli indagati possano trovare risposte e facilitazioni: un ufficio sperimentale che, partendo da Roma, il Dipartimento ha in programma di diffondere sul resto del territorio italiano. Nato per semplificare l’iter burocratico e facilitare l’accesso a queste misure, come aveva spiegato nel corso dell’inaugurazione il Presidente del Tribunale di Roma, Francesco Monastero “è il primo Sportello in Italia che informa, fornisce il lavoro di pubblica utilità, invia direttamente all’Uiepe (l’Ufficio interdistretturale per l’esecuzione penale esterna) le domande Map per la redazione del programma di trattamento e assicura le attestazioni di presentazione”. In relazione alla sua attività, i dati del Dipartimento registrano già a febbraio di quest’anno “un’equa distribuzione tra le istanze depositate presso lo sportello (37) e quelle presso l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (38) - sottolinea Lucia Castellano, e ciò nonostante le limitate aperture e il fatto che il deposito avviene solo di martedì, mercoledì e giovedì. L’obiettivo di breve termine è rendere maggiormente fruibile lo Sportello, dandogli adeguata pubblicità, affinché sia un punto di accesso privilegiato per tutto ciò che concerne l’istituto della messa alla prova, consentendo all’ufficio di esecuzione penale esterna di dedicare le proprie energie ad altre attività”. “Nei tre mesi della sperimentazione - prosegue il direttore generale, sono stati numerosi gli ingressi per informazioni sia presso lo Sportello, sia presso l’Uiepe. In particolare, all’ufficio Map/Lpu si sono rivolti quasi esclusivamente gli avvocati, cosa comprensibile vista la localizzazione, mentre all’Uiepe c’è stata un’affluenza maggiore di imputati”. Né allo Sportello, né all’Uiepe si sono rivolti gli enti per informazioni sulle convenzioni con il tribunale per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità, mentre il numero di richieste di informazioni sugli enti convenzionati è risultato superiore presso lo Sportello. “Le convenzioni nella regione Lazio al primo marzo 2018 erano 231 - spiega Lucia Castellano, principalmente nel settore delle attività di manutenzione del verde e di mezzi. La prevalenza di un’attività generica che non presuppone alla base una qualche professionalità costituisce uno stereotipo di derivazione dell’esecuzione penale esterna, il cui target dei condannati ammessi alle misure alternative non si attesta prevalentemente su professionalità consolidate. Ma visto che questo non corrisponde del tutto alla tipologia di persone che fruisce della messa alla prova, sarà necessario, specialmente da parte degli operatori dell’Uiepe/Sportello, attivarsi maggiormente nel differenziare per tipologia di attività di lavoro di pubblica utilità l’offerta degli enti convenzionati”. Messa alla prova, quell’obbligo che “ripara” il danno senza punire di Carla Chiappini Redattore Sociale, 10 aprile 2018 Solo a Piacenza, grazie alla convenzione del Csv Svep con Uepe e tribunale, ben 38 associazioni accolgono 105 persone per compiere lavori di pubblica utilità allo scopo di evitare il processo per piccoli reati. E qualcuno alla fine continua a fare volontariato. “L’obbligatorietà non si vive bene, né all’inizio, né alla fine. Per quanto tu entri nel meccanismo e cerchi di cogliere tutti i lati positivi dell’esperienza, è sempre un obbligo, un impegno che non ti sei scelto tu ma che altri ti hanno dato”. Le parole di Antonio, manager sessantenne che ha da poco terminato la “messa alla prova”, svelano con onestà lo stato d’animo di gran parte delle persone imputate - e non condannate - che si vedono impegnate per tre-quattro ore la settimana in “lavori di pubblica utilità”. Il nuovo istituto - introdotto in Italia nel 2014 - è un’opportunità per chi, imputato di un reato la cui pena edittale non superi i quattro anni di detenzione, desideri impegnarsi in un percorso di “restituzione” che, se giunto a felice conclusione, gli permetta di non subire un processo e di mantenere immacolata la propria fedina penale. Ovviamente solo nel caso sia incensurato. Antonio ha svolto il suo lavoro di pubblica utilità presso un’associazione impegnata nella pubblicazione di un giornale che si occupa di temi legati alla giustizia sul territorio piacentino; ha scelto questo impegno a seguito di un colloquio con l’assistente sociale dell’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna) e con l’operatore di Svep, il Csv di Piacenza, che si occupa di inserire le persone messe alla prova in organizzazioni di volontariato, parrocchie e cooperative sociali. Questa attività di Svep è normata da un protocollo sperimentale con l’Uepe sottoscritto nel giugno del 2014 e successivamente nel 2017 da un protocollo con il tribunale di Piacenza. Il Centro di servizio si impegna in alcuni adempimenti tra cui “l’onere della copertura assicurativa Inail”. La questione Inail è un punto debole dell’istituto della messa alla prova, che ha rischiato seriamente di tagliare fuori tutte le piccole associazioni che realisticamente non potevano sostenere gli oneri e gli adempimenti previsti dall’Ente. Il Csv di Piacenza dal 2014 ad oggi ha visto salire in modo molto significativo sia il numero di persone coinvolte in lavori di pubblica utilità all’interno di enti del terzo settore, sia il numero di realtà accoglienti che hanno inteso condividere l’idea di una giustizia legata più all’aspetto riparativo che a quello punitivo. Segno evidente di quella nuova sensibilità tanto chiaramente auspicata all’interno del documento conclusivo prodotto dagli Stati generali sull’esecuzione penale, in special modo ove si afferma: “Le misure di comunità, infatti, hanno bisogno di un territorio accogliente, che condivida i principi posti alla base delle politiche di reinserimento. È quindi indispensabile agire sulla mentalità diffusa per far comprendere, sulla base di considerazioni razionali e non solo emotive, quanto la ricomposizione delle fratture sociali sia conveniente per tutta la comunità oltre che per il condannato, non fosse altro perché il suo reinserimento attivo nella collettività riduce drasticamente i rischi di recidiva” Al 31 dicembre 2017 Svep contava 38 realtà accoglienti e 105 persone segnalate sia per la messa alla prova che per attività di volontariato previste in progetti di “affidamento in prova”. Tra l’altro accade anche che, terminato il periodo di impegno fissato dal giudice, la persona decida liberamente di continuare la propria attività volontaria nello stesso ente presso cui ha svolto il lavoro di pubblica utilità. Come Antonio, ad esempio: “Ho scelto di rimanere in associazione perché è un impegno che avevo preso quasi subito. È necessario e c’è bisogno di persone che si dedichino a questi percorsi; una persona da sola fa più fatica”. Intercettazioni, riforma già minata prima dell’attuazione di Francesco Petrelli* Guida al Diritto, 10 aprile 2018 Sono molteplici e di non poco conto i problemi attuativi già segnalati nel corso dell’iter legislativo (modulazione del potere selettivo conferito alla Pg, mancanza di strutture idonee alla sistemazione degli archivi riservati e alla effettiva fruibilità dei files audio da parte dei difensori, carenza di regole che ne preservino la segretezza, irrazionalità della norma transitoria…) a rendere improbabile una entrata a regime delle nuove regole in tema di intercettazioni. Ben più ampi profili di illegittimità sembrano, tuttavia, inficiare in radice l’intera normativa. Molti di questi profili di criticità sono emersi nell’importante convegno, intitolato “Intercettazioni Telefoniche, Una riforma migliorabile?”, che si è tenuto a Roma il 23 marzo scorso, nell’ambito del quale si sono confrontate, assieme a Ucpi e Anm, le Camere penali e le Procure di Torino, Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo, registrando ampi punti di convergenza fra le posizioni dell’avvocatura e quelle della magistratura requirente. Molto si è detto in quel convegno sulla questione relativa alla evidente lesione del diritto di difesa nella parte in cui viene fatto divieto di copia dei files audio non acquisiti al fascicolo delle indagini, e alla compressione dei tempi nei quali i difensori dovrebbero operare la cernita dei materiali intercettativi da proporre alla valutazione del giudice. Ed è stata altresì denunciata la mancanza di una piena ed efficace tutela della funzione difensiva nell’ambito delle comunicazioni con gli assistiti, essendosi di fatto limitato l’intervento normativo a operare una tutela nei confronti della riservatezza “esterna” (attraverso il divieto di verbalizzazione - peraltro senza previsione di sanzioni - dei colloqui fra difensore e assistito) omettendo del tutto di tutelare la riservatezza “interna”, in base alla quale si dovrebbe interdire la conoscenza, da parte della Polizia giudiziaria e dei Pm, dei colloqui fra difensore e assistito. Ne risulta la vistosa mancanza di una efficace tutela della funzione difensiva alla luce dell’espresso divieto posto dall’articolo 103 del Cpp, alla quale Ucpi aveva invece dedicato un grande spazio nel corso delle diverse interlocuzioni con il Ministro, formulando una articolata proposta di legge che prevedeva un espresso “divieto di ascolto” di quelle conversazioni, corredato da un efficace regime sanzionatorio. Ciò che di fatto si è evidenziato è che la pur condivisibile intenzione di tutelare i soggetti terzi e gli stessi indagati dalla possibile diffusione di intercettazioni aventi a oggetto dati sensibili e contenuti attinenti alla vita privata, ha finito con il produrre una normativa che comprime inammissibilmente i diritti della difesa e la stessa funzione difensiva. Sotto questo profilo, la nuova norma risulta del tutto irragionevole nella parte in cui non prevede - come d’altronde era stato previsto nell’originario “schema di decreto” - che il confronto sulla prova non debba necessariamente avvenire nel contraddittorio pieno delle parti, oggi ritenuto solo eventuale e residuale in base a non meglio individuate esigenze del giudice, con ciò integrandosi anche un evidente violazione della delega. I limiti posti dalla legge a tale “piena” conoscenza sono tanto evidenti quanto numerosi. Si pensi alla selezione anticipatamente operata dalla Polizia giudiziaria in ordine al materiale intercettativo ritenuto rilevante ai fini dell’indagine e alla conseguente mancanza di indicazioni (cosiddetti “verbali muti”) circa il contenuto dei files audio inviati all’archivio riservato della Procura. Si pensi inoltre alla impossibilità di ottenere copia di tale sterminata congerie di tracce audio (anche la più modesta indagine ne conta a migliaia) e alla conseguente necessità di “immersioni alla cieca” all’interno di tali materiali da parte dei difensori (una attività di ricerca di inimmaginabile impegno e con costi inaccessibili alle parti processuali più deboli). E si consideri, inoltre, a quali attività di perquisizione e di controllo dovranno sottoporsi i difensori al fine di poter accedere ai locali dell’archivio, mentre - di converso - nessuna garanzia viene di fatto apprestata sul fronte della gestione dei server all’interno dei quali quella infinita mole di dati riservati verrà riversata (nulla è detto circa l’utilizzo di non meglio definite “modalità informatiche” di gestione degli archivi). Al di là di tali inaccettabili profili disfunzionali, non può sfuggire certamente come la mancata previsione del rilascio di copia delle tracce audio costituisca in sé un gravissimo vulnus al diritto di difesa, considerato che la stessa Corte costituzionale ha individuato da tempo una sorta di “automatismo” fra diritto di prendere visione di un atto e il diritto di ottenerne copia, che viene efficacemente qualificato come “contenuto minimo del diritto di difesa”. Si tratta di un nesso posto nella disponibilità del Legislatore che, tuttavia, per essere escluso deve avere un solido fondamento. Nel senso che il bilanciamento fra il diritto di difesa e altri differenti interessi deve rispondere a seri criteri assiologici. Cosa, in questo caso, difficile da sostenersi. Si consideri, infatti, come dalla mancata disponibilità di quel materiale (che si inabissa per andare a alimentare il “fiume carsico” del materiale irrilevante non appena un operante ne fiuti la inutilità ai fini dell’indagine), discendano conseguenze rilevantissime per le sorti di un indagato e per la conoscenza stessa del giudice, il quale dovrebbe invece potersi affidare alla capacità e possibilità della difesa di fondare anche su tali materiali di prova la prospettazione di alibi ovvero di letture o interpretazioni alternative dei fatti. *Segretario dell’Unione camere penali italiane Perché è sbagliato allontanare i figli dei boss dalle famiglie di Nicola Quatrano Corriere del Mezzogiorno, 10 aprile 2018 Il fatto è che la cultura del magistrato italiano, la sua stessa visione del mondo, sono autoreferenziali. Curvo sulla scrivania, avvolto nella sua funzione che gli sta comoda come la tuta che la madre gli ha regalato per Natale. Egli studia diligentemente i fascicoli, inseguendo un’astratta coerenza interpretativa. Trascurando a volte che si parla di uomini in carne ed ossa, anche se restano sullo sfondo, come fossero senza volto e senza vera vita. Succede così che l’arresto di una persona, qualche giorno dopo scarcerata dal Tribunale del riesame, venga spiegato come “la possibilità di punti di vista diversi nella fisiologica dialettica processuale”, e non come una tragedia personale e familiare che si poteva forse evitare. E anche adesso, con la questione dei bambini da sottrarre alle famiglie mafiose, lo scenario non cambia. Stavolta è il Csm, la Sesta Commissione, arricchita dalla presenza dell’intera rappresentanza napoletana, che va in giro a propagandare quest’ideuzza in tutta Italia: ha in programma addirittura un tour, come fosse il Cantagiro. La prima tappa ha avuto come location il carcere minorile di Nisida, dove si è discusso di baby gang e sottrazione dei bambini alle famiglie manose, giudicate recentemente dallo stesso Consiglio, con la sicurezza di chi si crede nel giusto, “di per sé maltrattanti”. Il vicepresidente Giovanni Legnini ha nell’occasione espresso apprezzamento per le esperienze di questo tipo prodotte dai Tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Napoli, definendole un “orientamento giurisprudenziale innovativo”. Rieccoci! Pare niente parlare di “orientamento giurisprudenziale innovativo”, sembra evocare solo fumose discussioni e barbosi convegni giuridici. Ma per chi lo subisce, questo “orientamento” ha una tragica concretezza: l’irruzione dei carabinieri alle 6 di mattina, il piccolo svegliato bruscamente, vestito in fretta e portato via in lacrime strappandolo alle braccia della madre, le grida dei parenti, la confusione, il terrore. Non pare davve ro un intervento fatto a favore dei minori. Sembra più il tributo ad un’idea astratta e terribile della Giustizia, simile a quella dea bendata con gli occhi marci e verminosi della nota poesia di Edgard Lee Master. Chiamiamolo dunque “orientamento”, ma ha tutta l’aria di una sanzione. E nemmeno verso il reato, piuttosto verso il contesto, verso la famiglia in cui si è nati. Nel mirino di questi “orientamenti giurisprudenziali innovativi” non c’è il reato in sé, piuttosto la criminalità della plebe (che certamente si accompagna ad ulteriori manifestazioni di degrado sociale e familiare) e l’iniziativa dei Tribunali per i minorenni costituisce, io credo, un’ulteriore drammatica escalation di quella “guerra” alla criminalità, di quella logica militare che considera chi delinque (ma non tutti) un “nemico” da annientare, e non un problema sociale da risolvere. Sottrarre i figli a chi delinque è una punizione collettiva vietata dalla Convenzione di Ginevra. È una rappresaglia, un atto di guerra. Di una “guerra” alla criminalità che si è già dimostrata ampiamente fallimentare, quanto meno perché gli arresti di massa non sono riusciti a chiudere una sola piazza di spaccio, e hanno invece allargato a dismisura l’area della illegalità, favorendo il reclutamento di tanti giovanissimi nei posti lasciati vuoti dagli arrestati. Una “guerra” alla criminalità che non ha ridotto gli atti criminali, ma ha piuttosto contribuito a selezionare un nuovo tipo di “delinquente”, non solo più violento ma anche rabbioso, “antagonista”. I consiglieri del Csm, e tutti quelli che si illudono di aver trovato la soluzione all’emergenza baby gang, farebbero meglio a interrogarsi su quanto l’allontanamento dei bambini, una misura vissuta come odiosa e discriminatoria da chi la subisce, possa accrescere ancora di più questa rabbia e questo “antagonismo”, fino a conseguenze imprevedibili ma potenzialmente terrificanti. Perché prima o poi qualcuno si ribellerà, e allora saranno guai. Quattro mesi al giornalista per aver accompagnato i No Tav di Adriana Pollice Il Manifesto, 10 aprile 2018 Condanna per Davide Falcioni. Documentò lo srotolamento di uno striscione. Il pm: doveva aspettare la polizia. Condannato a quattro mesi per aver raccontato un’azione dimostrativa dei No Tav. È successo ieri al giornalista marchigiano Davide Falcioni, il tribunale di Torino l’ha riconosciuto colpevole di violazione di domicilio e violenza sulle cose. La pena è stata sospesa. L’avvocato difensore, Gianluca Vitale, definisce la sentenza “un bavaglio per la stampa”. La vicenda inizia nel 2012, quando Falcioni scriveva per il portale Agoravox: “Un anno difficile per la Val Susa - spiega -, a febbraio Luca Abbà era precipitato da un traliccio dell’alta tensione, folgorato. C’erano manifestazioni e blocchi stradali continui. Ad agosto la redazione decide di mandarmi lì per un reportage sulle proteste, sei giorni a seguire il movimento contro la Tav dall’interno”. Il 24 agosto gli attivisti si presentano a Torino all’ingresso dello Geostudio, costola della Geovalsusa srl che partecipa al consorzio dei costruttori della tratta Torino-Lione. Doveva essere un volantinaggio, nell’ambito della campagna “C’è lavoro e lavoro”, ma poi hanno un’idea: citofonano agli uffici dicendo di dover consegnare una raccomandata, la porta viene aperta e una ventina di No Tav entrano. “Entrai anch’io - racconta Falcioni -, rimanemmo dentro circa trenta minuti. Srotolarono uno striscione, dal balcone accesero un fumogeno. Nessuna violenza, il clima era molto rilassato, gli impiegati scherzavano. All’interno non c’era la polizia né i carabinieri”. Le forze dell’ordine alla fine arrivano e 19 attivisti vengono denunciati, l’accusa per tutti è violazione di domicilio e pure violenza sulle cose, che si traduce in “un vasetto di yogurt che qualcuno, non identificato, avrebbe rovesciato in un cassetto e la sparizione di una spillatrice”, spiega Falcioni, che ora scrive per Fanpage ma all’epoca stava raccogliendo gli articoli necessari per iscriversi all’Ordine dei pubblicisti. Comincia il processo, uno degli imputati chiede al giornalista di testimoniare sul clima tranquillo nel corso dell’azione: “Durante la deposizione la pm Manuela Pedrotta mi ha informato che la mia posizione era stata stralciata e da testimone passavo a imputato. Se non fossi andato a raccontare cosa avevo visto, non avrei subito il processo”. La pm Pedrotta contesta a Falcioni di aver assistito all’azione allo Geostudio: “Non riesco a capire l’utilità di entrare dentro. Non poteva farsi raccontare quello che era successo dalle forze dell’ordine?”. E ancora: “Lei è marchigiano, cose le interessava della Tav?”. Infine: “Non era nemmeno un giornalista, ma anche se lo fosse stato non era scriminato” cioè non aveva una giustificazione perché, secondo la pm, “il diritto di cronaca è stato riconosciuto qualora ricorrano determinate condizioni, tra cui l’interesse pubblico” e in quel caso per la pm e la giudice Isabella Messina, che ha emesso la condanna, l’interesse pubblico non ci sarebbe stato. “Avrei dovuto rinunciare a fare il giornalista per non commettere il reato di violazione di domicilio - commenta Falcioni -. Se mi ritrovassi in quella situazione mi comporterei allo stesso modo sono però turbato perché è un attacco a tutta la categoria. Aspettiamo le motivazioni per fare appello, speriamo in un giudice che faccia giustizia e non politica”. Duro il commento dell’avvocato Vitale: “Da quanto si ricava dalla requisitoria della pm, il problema è soltanto il contenuto dell’articolo. Evidentemente non è piaciuto alla procura. Siamo alla teorizzazione del giornalismo embedded: bisogna stare in redazione e passare solo le veline. Le parole della pm sono pericolose per la democrazia”. Ieri è intervenuta anche la Federazione nazionale della stampa: “Il collega si è limitato a seguire i fatti. A meno che non venga dimostrato che Falcioni aveva preso parte alla violazione di domicilio, la condanna suona come un attacco al diritto di cronaca. L’auspicio è che in appello prevalgano le ragioni dell’articolo 21 della Costituzione”. Diritto d’asilo, dall’Ue arriva la stretta sui tempi: solo sei mesi per le risposte Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2018 Sei mesi al massimo per decidere sulle domande di protezione internazionale, e non 18 come si arriva ad attendere in Italia. Carico burocratico più lieve per gli Stati di primo ingresso. Una lista comune di “Paesi di origine sicuri” e liste nazionali di “Paesi terzi sicuri” verso i quali i richiedenti asilo potrebbero essere respinti, a patto però che rispettino la convenzione di Ginevra e che sia ravvisabile un “legame reale” con il migrante. Procedura di frontiera adottata facoltativamente da ogni Paese, con il divieto assoluto di detenzione per i minori. Rappresentanza legale gratuita in tutte le fasi. Sono le novità contenute nel testo del “Regolamento procedure”, proposto dalla Commissione europea nel 2016, nella versione “ammorbidita” e riformulata dalla relatrice Laura Ferrara, europarlamentare M5S. Oggi si terrà l’ultimo “shadow meeting” (l’incontro con i relatori di minoranza: ce ne sono stati 23) prima del voto nella Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento Il nuovo Regolamento, che abrogherà la direttiva 2013/32, sarà direttamente applicabile negli Stati membri, sostituendosi alle leggi nazionali, come il decreto Minniti. Dopo la presentazione da parte della Commissione, ha sollevato polemiche. Per l’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), il piano minacciava la garanzia del diritto d’asilo in Europa. Dopo un anno e mezzo di lavoro e trenta riunioni tecniche di staff, Ferrara si dice soddisfatta del risultato: “Abbiamo trovato un giusto equilibrio tra l’esigenza di garantire il rispetto del diritto all’asilo ai bisognosi di protezione e quella di assicurare una procedura veloce, efficace e non burocratica che possa ridurre gli abusi che hanno contribuito a sovraccaricare i sistemi di asilo degli Stati membri. Conviene a tutti rendere il sistema più snello”. La negoziazione, però, è stata lunga e complessa, e non è conclusa. I popolari del Ppe e i conservatori di Ecr tifavano per h “linea dura” - il criterio del “mero transito” perché un Paese possa dirsi sicuro - e soprattutto per l’inclusione della Turchia tra i Paesi terzi sicuri. Contrario il M5S: “Ci siamo opposti spiega Ferrara - e abbiamo mediato per inserire come requisito non soltanto la formale ratifica, mail rispetto sostanziale della convenzione di Ginevra. È evidente a tutti che la Turchia non è un luogo sicuro. Inoltre, ci sono sospetti che i fondi europei siano stati usati in maniera impropria per fare la guerra in Siria”. Anche sulla procedura accelerata di due mesi, il tentativo è stato quello di attenuarne la portata punitiva. Il lavoro dei pentastellati di Strasburgo segna un altro punto nella direzione di quella marcia di accreditamento e di quel riposizionamento verso il centro, utile anche a livello nazionale. Obiettivo: prendere le distanze dalle frange euroscettiche (dell’Ukip, con cui il M5S siede ancora nel gruppo Efdd) e dalle forze apertamente anti-immigrazione come l’Efn, dove sono Le Pen e la stessa Lega. Senza rinunciare a una dose di “eurocriticismo”, ma rendendolo responsabile. Vale per il Regolamento procedure, che dopo il voto in commissione entrerà nel ginepraio dei triloghi (le riunioni tra i rappresentati del Parlamento, della Commissione e del Consiglio), così come per la partita più divisiva ancora della revisione del Trattato di Dublino. Quello che disciplina l’ingresso in Europa e le quote, e che sconta l’alt dei Paesi Visegrad. “Ci batteremo - afferma Ferrara - perché il carico sui Paesi di primo ingresso, come l’Italia, non sia eliminato soltanto con un maquillage comunicativo. La riforma introduce criteri e filtri che di fatto faranno gravare su di loro tutte le responsabilità della gestione dei migranti e renderanno molto difficili i ricollocamenti. Il principio della solidarietà tra Stati va rispettato fino in fondo”. Domiciliari o pena differita per il pentito di mafia con problemi psichici di Patrizia Maciocchi Il Manifesto, 10 aprile 2018 Differimento della pena o domiciliari per il detenuto condannato per associazione di stampo mafioso che soffre di disturbi psichici e compie atti di autolesionismo. La Corte di cassazione, con la sentenza 15531, accoglie il ricorso di collaboratore di giustizia di 51 anni, finito in carcere per reati di mafia. Il tribunale di sorveglianza aveva respinto la richiesta di domiciliari o di differimento della pena, per fatti di rilevante gravità, con un residuo di pena superiore a 4 anni. I giudici del riesame avevano sottolineato che il codice penale prende in considerazione la sola infermità fisica nè era praticabile la strada del ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari (articolo 148 del Codice penale) ormai di fatto abrogati. La Cassazione nel fare il punto della situazione, prende atto anche dell’impossibilità di sostituire gli Opg con le Rems, attualmente indicate dalle come luoghi di esecuzione delle sole misure di sicurezza, mentre non è ancora applicabile la disposizione della delega (legge 103/2017) che dovrebbe consentire l’assegnazione alle residenze dei soggetti con grave infermità psichica, sopraggiunta nel corso della detenzione come nel caso esaminato. I giudici sollecitano un attento esame del micro sistema delle misure alternative alla detenzione ora centrato solo sulle malattie fisiche. Una “lacuna” che contrasta sia con la Costituzione sia con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Suprema corte sposta l’attenzione sulla finalità rieducativa della pena, che difficilmente può essere compresa da chi ha gravi problemi psichici e sulla necessità di evitare, in linea con Strasburgo, i trattamenti inumani e degradanti. La Cassazione, nel caso specifico, sottolinea la possibilità di interazione tra patologia fisica e psichica, un “confine” che va stabilito tramite perizia. La condizione di malattia “plurifattoriale” non è, infatti, fronteggiabile in ambito carcerario, a meno di non rendere la pena contraria al senso di umanità. Sul tema la Suprema corte si è espressa il 23 marzo scorso, con un’ordinanza (13382) di rinvio alla Consulta, con la quale si chiede di valutare la compatibilità con la Carta dell’articolo 47-ter, comma 1 ter dell’ordinamento penitenziario, proprio per la parte in cui non prevede l’applicazione dei domiciliari, anche nel caso di grave infermità psichica sopraggiunta nel corso delle detenzione. Estradizione ampia per auto-riciclaggio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2018 Corte di cassazione - Sentenza 14941/2018. Via libera all’estradizione negli Stati Uniti anche per il reato di auto-riciclaggio. E questo anche se all’epoca dei fatti il reato neppure esisteva nell’ordinamento penale italiano. È questa una delle conclusioni cui approda la Corte di cassazione con la sentenza n. 14941 della sesta sezione penale. È stato così respinto sul punto il ricorso presentato contro la decisione della Corte di appello di Firenze che aveva dichiarato l’esistenza delle condizioni per l’estradizione di un cittadino straniero indagato per una serie di reati, tra i quali anche la partecipazione a un’associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio di denaro. La Corte d’appello aveva espressamente escluso che la recente introduzione del reato di auto-riciclaggio potesse avere effetto sul requisito della previsione bilaterale del fatto, nell’ordinamento penale americano e italiano, perché le condotte potevano essere incasellate in altri reati già previsti all’epoca dei fatti. Tra i numerosi motivi di impugnazione da parte delle difese aveva trovato posto così anche la violazione del principio della doppia punibilità con riferimento al reato di auto-riciclaggio. Si sottolineava come le condotte contestate fossero state ascritte a un reato che ancora non era stato introdotto, al tempo della loro ipotetica commissione, nel Codice penale. La Cassazione respinge però la tesi difensiva osservando che, in materia di cooperazione giudiziaria, per l’esistenza del requisito della doppia punibilità è necessario che l’ordinamento italiano preveda come reato, al momento della decisione sulla domanda, il fatto per il quale la consegna è richiesta, “mentre non è necessaria la rilevanza penale del medesimo fatto alla data della sua commissione”. Conforta questa conclusione, ricorda la Corte, sia il testo del Trattato bilaterale di estradizione con gli Usa che richiede solo la previsione bilaterale del fatto, senza fare riferimento al tempo in cui sarebbe stato commesso il reato, sia la giurisprudenza internazionale. La Corte di giustizia europea e la Corte dei diritti dell’uomo, infatti, hanno spiegato che la collaborazione giudiziaria, nella forma del mandato d’arresto europeo e dell’estradizione, si pone al di fuori del perimetro del principio di legalità: l’arresto e la consegna infatti, azioni in cui si traducono le procedure, non hanno carattere punitivo; il giudice chiamato a decidere non entra nel merito della vicenda ma esercita un controllo sull’essenza delle condizioni previste. Genitori puniti per le foto osé sui cellulari dei figli di Maria Novella De Luca La Repubblica, 10 aprile 2018 Colpevoli per “omesso ruolo di genitori”. Condannati per non aver saputo educare i propri figli. E soprattutto per non averli dotati quel senso critico che permette, anche a un adolescente, di fermarsi prima di delinquere, di sbagliare, di fare del male. Può forse dividere, ma di certo fa pensare, la condanna che il giudice del tribunale di Sulmona Daniele Sodani ha deciso di infliggere ai genitori di un gruppo di ragazzi, rei di aver bullizzato in modo grave una loro coetanea. I colpevoli, che all’epoca dei fatti erano tutti minorenni, avevano fatto girare sui social la foto nuda di una loro coetanea. I ragazzi, prosciolti in sede penale, sono stati però condannati a pagare un risarcimento di 100mila euro alla loro compagna. Ma il giudice ha chiarito che quel risarcimento lo dovranno pagare i genitori dei colpevoli. Perché i fatti di quei giorni, “esprimono una carenza educativa degli allora minorenni, dimostratisi privi di senso critico, di capacità di discernimento e di orientamento delle proprie scelte nel rispetto altrui”. Infatti, pur se adolescenti, i ragazzi, a quell’età, se ben guidati dai genitori, avrebbero potuto avere la capacità di evitare quel gioco violento. Dunque del loro comportamento sono colpevoli gli adulti. Anche perché non tutti i giovani in possesso delle foto avevano poi deciso di divulgarle. Quindi secondo il severo giudice di Sulmona, erano stati i teenager più male-educati (dalle famiglie) a compiere il fattaccio. Ma nella lista dei “cattivi maestri” non ci sono soltanto i genitori dei “bulli”, ma anche quelli della ragazza, a cui il giudice ha negato il risarcimento assai ben più alto che chiedevano. Perché anche la madre e il padre della ragazzina si sarebbero macchiati di “omessa educazione”, non avendo vigilato abbastanza sulla condotta della figlia, che aveva diffuso tra i coetanei le foto osé. Insomma è il ribaltamento del proverbio che le colpe dei padri ricadono sui figli. Ma è anche il segno di quanto il tema educazione stia diventando centrale nella giustizia minorile. Dove sempre più spesso i genitori di “ragazzi che sbagliano” vengono coinvolti dai servizi sociali nel percorso di ricostruzione della vita dei giovani. La sentenza di Sulmona è particolare anche per un altro elemento. Il giudice, nello stabilire il risarcimento che ogni famiglia dovrà pagare, ha creato un vero e proprio tariffario. E cioè 2.000 euro per chi ha inviato il messaggio con la foto della ragazza nuda, mille per chi l’ha inviato a chi già la possedeva. Separazioni e divorzi, chi non paga l’assegno è ora punito dall’articolo 570-bis di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2018 Da venerdì 6 aprile è entrato nel Codice penale il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare anche quando è commesso dal coniuge divorziato o separato che non versi l’assegno all’ex o ai figli. A prevederlo è il nuovo articolo 570-bis, introdotto nel Codice dall’articolo 2 del decreto legislativo 21/2018, in vigore, appunto, dal 6 aprile. Con la nuova disposizione, le pene già previste dall’articolo 570 del Codice penale(reclusione fino ad un anno o multa da 103 a 1.032 euro) si applicheranno anche al coniuge che viola l’obbligo di corrispondere ogni tipo di assegno fissato dal giudice in caso di “scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio” o che si sottrae agli “obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli”. La riforma - introdotta in attuazione della delega prevista dalla riforma penale (legge 103/2017) - intende realizzare il principio della riserva di codice in materia penale trasferendo alcuni reati dalle leggi speciali che li hanno previsti in origine al Codice penale. In parallelo, vengono abolite le corrispondenti disposizioni delle leggi speciali. Così, la norma creata ad hoc per punire il mancato versamento dell’assegno divorzile e di mantenimento “in caso di separazione o divorzio” sostituisce due norme: l’articolo 12-sexies della legge 898/1970, che sanziona l’omesso pagamento dell’assegno divorzile, e l’articolo 3 della legge 54/2006, circa la “violazione degli obblighi di natura economica” verso il separato o i figli comuni. Nei confronti dei familiari tutelati, vale ora l’intero impianto di garanzie disegnato dall’articolo 570 del Codice penale a tutela dei vincoli di assistenza e solidarietà che nascono dal matrimonio (gli articoli 143 e 147 del Codice civile disciplinano gli obblighi dei coniugi, incluso quello di coabitazione la cui violazione è sanzionata dall’articolo 146 dello stesso Codice, e i doveri verso i figli) o dai legami di parentela (si pensi all’articolo 433 del Codice civile che indica il consorte come il primo obbligato agli alimenti). Non solo. Sono estese ai separati e ai divorziati anche tutte e tre le ipotesi di reato contemplate dall’articolo 570 del Codice penale che punisce chi “abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge”, chi “malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge” e, infine, chi “fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa”. L’intervento ha l’obiettivo di semplificare e di comporre i conflitti provocati dalla necessità di coordinare l’articolo 570 del Codice penale con norme speciali che prevedevano fattispecie pressoché identiche. La riforma non incide sul regime di procedibilità, che resta d’ufficio - in base a quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza 220 del 5 novembre 2015 - per chi malversi o dilapidi i beni del figlio minore o del coniuge o per chi faccia mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti minorenni e a querela della persona offesa nei restanti casi. Roma: il signor B., malato e incompatibile con il carcere è a Rebibbia al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 aprile 2018 Le criticità dell’istituto romano emerse nella visita dell’europarlamentare Eleonora Forenza. Uso eccessivo di psicofarmaci, eccesso di discrezionalità da parte della magistratura di sorveglianza che concede ordinanze diverse e discriminatorie tra detenuti che potenzialmente potrebbero accedere ai benefici, troppi detenuti in attesa di giudizio nelle sezioni di alta sicurezza, situazioni di persone gravemente malate. Come il caso emblematico del signor B., detenuto al 41bis, che ha raccontato di avere tre tumori alla testa e diverse altre patologie (pancreatite, riversamento pleurico, epatite B, infarto intestinale e altre minori) e di aver già subito ben 19 interventi chirurgici e di essere in attesa per altri quattro. Il signor B denuncia di non essere stato scarcerato - versione confermata verbalmente dalla direttrice del carcere e i dai comandanti del Gom e polizia penitenziaria - nonostante che gli sia stata riconosciuta l’incompatibilità con il regime carcerario. Ma si è in attesa di conoscere gli atti per capire meglio la sua posizione. Queste e altre ancora sono le criticità emerse durante la visita ispettiva del 30 marzo nei reparti del 41bis e di Alta sicurezza della casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso. Si tratta di un percorso di impegno e conoscenza sul tema della condizione carceraria in Italia intrapreso da qualche anno dalla parlamentare europea Eleonora Forenza de L’Altra Europa. Le sue visite, in collaborazione con l’associazione Yairaiha Onlus e in particolare la presidente Sandra Berardi - entrambe candidate alle scorse elezioni con Potere al Popolo e artefici del programma politico sulla giustizia relativa al superamento del 41bis e dell’ergastolo ostativo, sono soprattutto indirizzate nel visitare tutte le sezioni di Alta Sicurezza e quelle del regime di 41bis sparse tra diversi istituti penitenziari. “Al momento della visita ispettiva - si legge nella relazione - erano presenti circa 1.480 detenuti così suddivisi: 100 persone in AS3, 5 detenuti AS2 in attesa di essere trasferiti in struttura con sotto circuito dedicato, 35 detenuti in 41bis, 114 detenuti nella sezione protetti (appartenenti al circuito Alta e Media sicurezza), 12 nella sezione collaboratori e 1.219 in Media sicurezza. A questo si aggiunge la presenza di 150 detenuti provenienti dagli ex ospedali psichiatrici giudiziari. La sezione di AS3 (circuito carcerario riservato a condannati per reati di tipo associativo) risulta complessivamente in buone condizioni, tranne il funzionamento del servizio postale”. Durante il colloquio - si legge sempre nella relazione di Eleonora Forenza - è emerso che “molti dei presenti, pur avendo scontato da tempo i cd. reati ostativi, non hanno la possibilità di accedere ai benefici penitenziari perché lo scioglimento del cumulo rimane principio non applicato”. Ci si riferisce al cosiddetto “scorporo”, ovvero l’applicazione del principio della scindibilità del cumulo: espiata la pena relativa ai reati ostativi, per i rimanenti è teoricamente possibile accedere ai benefici richiesti. “Così come l’inesigibilità della collaborazione - si legge sempre nella relazione - rimane principio astratto per il persistere di relazioni delle diverse Dda (Direzioni distrettuali antimafia) datate al momento dell’arresto e che non tengono conto degli anni di carcerazione scontati e dell’assenza di collegamenti con le organizzazioni di appartenenza, nonostante le recenti circolari del Dap e delle sentenze che sanciscono l’imprescindibilità di questi fattori per una valutazione attualizzata”. Dai colloqui è emerso anche - come riscontrato durante le altre visite ispettive delle altre carceri - “l’eccessiva discrezionalità della magistratura di sorveglianza che, di fatto, determina decisioni sensibilmente diverse se non discriminatorie tra detenuti che potenzialmente potrebbero accedere ai benefici penitenziari”. A questo si aggiunge la mancata attuazione l’istituto della liberazione anticipata e condizionale nei confronti degli ergastolani. Nella relazione, la parlamentare Forenza sottolinea la violazione del “diritto alla speranza” sancito dalla sentenza Vinter della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Parliamo della sentenza del 2013 nei confronti della Gran Bretagna dove la Cedu ha accertato che la pena dell’ergastolo viola l’articolo 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani e degradanti) qualora il sistema interno non preveda la possibilità di riesame o di rimessione in libertà dopo un certo periodo di tempo, in generale venticinque anni di reclusione. La relazione poi si concentra su alcune problematiche del 41 bis del carcere di Rebibbia. Le sezioni del regime duro sono 4, dislocate nei reparti G7 e G13. Il reparto G7 è suddiviso in 3 sezioni che ospitano in tutto 22 detenuti, mentre 13 sono collocati nel reparto G13. Eleonora Florenza sottolinea che il nuovo decalogo del 41 bis non risulta completamente attuato visto che una delle due ore d’aria è infatti alternativo all’uso della saletta. Le sale colloquio che accolgono i familiari risultano piccolissime e durante la visita hanno registrato diverse segnalazioni in merito ai bambini: durante il colloquio avrebbero subito piccoli infortuni e patito il freddo causando ulteriori traumi sia nei loro confronti che soffrono il distacco dal genitore sia per i detenuti e per gli altri congiunti. La relazione poi si concentra sull’aspetto sanitario: tra i detenuti ristretti in regime di 41 bis hanno incontrato diversi soggetti che presentano gravissime patologie e il ricorso agli psicofarmaci risulta massiccio. Su tutti il caso emblematico del signor B. Nella relazione si denuncia il paradosso che il detenuto finirà comunque di scontare la pena tra due anni. In merito a questo Eleonora Forenza pone due questioni. La prima: “Come è possibile che la certificazione di incompatibilità carceraria di un soggetto con così tante e tali, gravi patologie, non venga riconosciuta?”. La seconda: “Come è possibile che le persone ristrette in 41 bis passino dalla pericolosità sociale alla libertà, anche dopo molti anni, senza aver fatto nessun percorso graduale di reinserimento?”. Altro aspetto denunciato è la questione dei detenuti in attesa di giudizio in situazioni di regime duro: nel reparto G7 ne risultano ristrette, anche per alcuni anni, diverse persone. In alcuni casi dichiarano di non capire le motivazioni per cui vengono collocati nel circuito di massima sicurezza, avendo commesso a loro dire “reati minori”. Si tratta di un altro aspetto sul quale Eleonora Forenza, nella relazione, pone altrettante riflessioni: ovvero la possibilità di essere detenuti tanto a lungo in regime di massima sicurezza in assenza di giudizio definitivo. Un ricorso sul tema - viene ricordato nella relazione - è pendente alla Cedu di Strasburgo. Nel reparto G13 hanno trovato un clima teso e si denunciano diverse problematicità. C’è il caso del signor R., diabetico sottoposto a terapia insulinica, da 10 anni in 41bis, che denuncia la carenza di assistenza sanitaria e l’inadeguatezza dell’alimentazione e l’impossibilità di acquistare alimenti specifici per la patologia. Le visite specialistiche cui dovrebbe essere sottoposto periodicamente - secondo quanto ha denunciato non verrebbero erogate puntualmente. Poi emerge il problema strutturale che creerebbe non pochi disagi. I detenuti sottoposti all’isolamento diurno nel reparto G13 denunciano che - nonostante la sezione sia di recente ristrutturazione - le temperature risultano umanamente insopportabili d’estate e che c’è una insufficiente areazione della cella per via della finestra collocata ad oltre 2 metri da terra. La relazione scaturita dalla visita ispettiva di Eleonora Forenza in collaborazione dell’associazione Yairaiha Onlus è stata inviata a tutte le istituzioni competenti. Non rimane che attendere delle risposte. Lucca: penalisti in sciopero “basta atti d’indagine passati alla stampa” di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 aprile 2018 Il Coordinamento delle Camere Penali toscane è a fianco della Camera Penale di Lucca, che ha proclamato cinque giorni di astensione dalle udienze, dal 9 al 13 aprile, in segno di protesta dopo la pubblicazione sui quotidiani locali e nazionali degli atti di indagine della cosiddetta inchiesta “doping”, “affinché gli uffici competenti adottino tutte le misure necessarie per la tutela e il rispetto dei principi regolatori del processo penale”. Audio di intercettazioni e altri atti coperti da segreto hanno infatti riempito le pagine della stampa, offrendo ai lettori ampi stralci di documenti che avrebbero dovuto rimanere riservati. Non solo, addirittura era stata data diffusione della notizia di arresti e perquisizioni in atto, prima ancora della conferenza stampa e persino prima ancora che gli interessati ne venissero informati. L’inchiesta, condotta dalla Squadra mobile della questura di Lucca e dalla Polizia di Stato e nata dalla morte sospetta di un ciclista ventunenne, è ancora in corso e riguarda l’ipotesi di una sistema di doping sistematico e diffuso ai danni di ragazzi molto giovani, da parte di direttori sportivi, presidenti dei team e genitori, anche con la connivenza degli stessi atleti. Eppure, nonostante la delicatezza delle indagini, sui media sono immediatamente circolate informazioni riservate, in spregio a qualsiasi rigore: oltre ad arresti e perquisizioni annunciati ancora prima di essere eseguiti, sono stati pubblicati atti coperti dal segreto istruttorio che nemmeno erano ancora stati depositati nel fascicolo delle misure cautelari a carico degli indagati. Non solo, è stato dato anche particolare risalto alla notizia di una perquisizione avvenuta nello studio di un avvocato, non interessato da alcuna misura cautelare. Alla luce di questi fatti, il Coordinamento delle Camere Penali ha ribadito in una delibera firmata dalla coordinatrice Laura Antonelli come “la libertà di stampa e il diritto all’informazione debbono essere temperati, in una società democratica, nel pieno rispetto di diritti di eguale rango costituzionale, quali la presunzione di non colpevolezza, il diritto di difesa, il diritto a un giusto processo e, più in generale, dal rispetto dei diritti della persona”. La Camera Penale di Lucca, infatti, aveva denunciato in due delibere come la trattazione sui quotidiani della vicenda integrava le ipotesi di arbitraria pubblicazione di atti in un procedimento penale e violava il divieto di pubblicazione degli atti coperti da segreto, scrivendo come “si assista ad una spettacolarizzazione della giustizia, che integra una pratica tanto diffusa quanto illecita; il circo mediatico a cui siamo oramai tristemente avvezzi comporta una violazione della privacy e della dignità delle persone, non colpevoli fino a una sentenza irrevocabile di condanna e si fonda su pratiche contrarie alle norme”. Il Coordinamento toscano ha ribadito quindi la “necessità di contrastare il deprecabile uso della pubblicazione indiscriminata degli atti di indagine e la conseguente spettacolarizzazione delle inchieste, che non soltanto lede i diritti degli indagati ma nuoce alla stessa giurisdizione e ai principi di equità, imparzialità e terzietà che devono caratterizzare l’amministrazione della giustizia”. La decisione degli avvocati lucchesi di astenersi dalle udienze, dunque, acuisce lo scontro con la Procura, che non ha in alcun modo commentato la presa di posizione dei legali. Rimini: “l’uomo non è il suo errore”, la Papa Giovanni XXIII per i detenuti di Stefano Filippi Il Giornale, 10 aprile 2018 Lo striscione è gigantesco, appeso sulla facciata: “L’uomo non è il suo errore”. La casa colonica è un centro che accoglie detenuti. Un carcere. Al quale però mancano cancelli, filo spinato, telecamere, celle, carcerieri. Si sconta una parte della condanna accompagnati da un gruppo di volontari della comunità Papa Giovanni XXIII, l’associazione fondata da don Oreste Benzi. I detenuti - ma qui li chiamano i “recuperandi” - ci vivono e ci lavorano. Se vogliono uscire devono farsi accompagnare. Ma se vogliono fuggire, cioè evadere, nessuno può trattenerli. “Sì, rare volte è successo”, ammette Giorgio Pieri, riminese, coordinatore di questa esperienza che si chiama Cec, Comunità educante con i carcerati. C’è anche chi chiede di tornare indietro, cioè di farsi rinchiudere nuovamente nel penitenziario da dov’è arrivato, perché la vita nelle Cec non è solo rose e fiori. Ma quasi tutti restano. Rimangono anche senza la guardia che li chiude in cella. E c’è chi non se ne va nemmeno a fine pena perché sceglie, liberamente, di trasformarsi da detenuto a volontario. Secondo le leggi della fisica un calabrone non dovrebbe volare. Anche le carceri senza carcerieri sembrano un controsenso. E invece eccole qui, sulle colline alle spalle di Rimini, aperte e funzionanti. Un casale nel cuore di Coriano, non lontano dal museo intitolato a Marco Simoncelli, dove don Benzi aprì nel 1973 la prima casa famiglia. Un altro, il primo a ospitare detenuti nel 2004, sorge poco lontano, a Taverna di Monte Colombo. Più in là, in cima a un poggio a Saludecio, una fattoria con stalla e caseificio. Altri luoghi di accoglienza si trovano in Abruzzo, Toscana e Piemonte. Al piano terra le sale comuni, la cucina e la cappella con il Santissimo dove si celebrano le messe e ci si ritrova per i momenti di verifica; di sopra le stanze, singole e doppie. Regnano ordine e pulizia. La rete si ispira all’esperienza brasiliana delle Apac (Associazioni di protezione e assistenza ai carcerati), dove i detenuti hanno le chiavi delle celle: l’Onu le ha definite il più efficace metodo di recupero al mondo. In Italia non è possibile arrivare a questo punto. Alle Cec approdano imputati in attesa di giudizio o condannati ammessi alle misure alternative. “Sono persone decise a fare un percorso di riabilitazione e a reinserirsi - spiega Pieri. Ladri, rapinatori, spacciatori, reati sessuali, qualche omicida: non ci facciamo mancare niente”. Leonardo è a Coriano da un mese. È entrato e uscito dal carcere per spaccio, rapina, lesioni. “Sono venuto qui perché non ci voglio più ricascare - racconta -. I miei genitori sono poveri, non ho studiato, non ho lavorato. Il primo a darmi una pacca sulla spalla e dirmi bravo non è stato mio padre ma un malavitoso. E quando sono uscito gli unici a mettermi in mano un telefono e qualche soldo sono sempre quelli del giro”. È un destino comune. Famiglie sfasciate, nessuna opportunità, amicizie sbagliate, scorciatoie per fare soldi. Camara in Senegal lavorava i campi. È arrivato con un barcone. È dentro per spaccio, ha una condanna a 3 anni: “In Italia conosco soltanto delinquenti. Devo mandare soldi alla famiglia”. Pieri lo redarguisce: “La droga uccide. Per aiutare i tuoi fratelli hai bruciato il cervello di altri giovani, i più deboli”. Loris è cresciuto con un padre violento e alcolizzato. Sfogava la rabbia facendo a botte: “Più le prendevo più mi caricavo”. È da due anni nelle comunità Cec: “Non voglio più essere quello di prima, devo riprendermi il mio lavoro”. Don Benzi diceva una grande verità: più importante della certezza della pena è la certezza del recupero. Le carceri senza carcerieri non offrono sconti, nemmeno di pena, ma opportunità. La vita nelle case di accoglienza non è facile. Vigono orari e regole precise: le sigarette sono razionate, l’alcol solo a tavola nelle occasioni speciali, niente telefonini. Per chiamare si chiede. Il percorso educativo è esigente. Occorre entrare in sé stessi, capire il perché della rabbia e della violenza, conquistarsi un’autonomia. Mustafà è giovane, ha l’aria sveglia. Arrivò dal Marocco come migliaia di altri minori non accompagnati. “In Italia avevo trovato quello che volevo: lavoro, soldi, una casa, una squadra di calcio. Eppure sono entrato in un giro di rapine”. Il datore di lavoro l’ha preso ai domiciliari, ma lui dopo 6 mesi è evaso. Quando è stato catturato, il titolare non ha voluto più saperne, gli amici idem, e Mustafà è tornato a delinquere. “In carcere a Rimini ho conosciuto Sergio, un volontario della Papa Giovanni. Mi ha detto: Dipende tutto da te. Aveva ragione. È colpa mia”. Le carceri senza carcerieri sono una scommessa: si punta tutto sul detenuto e la sua voglia di riscatto. Il “recuperando” riconosce gli errori e si rende conto della propria dignità attraverso il rapporto con gli altri. Già, gli altri: sono l’ostacolo maggiore. Lo ammette Gabriele, che finito il periodo alla Cec vuole tornare dietro le sbarre: “Magari mi avvicino a casa, forse avrò qualche permesso in più o i domiciliari”. Ma alla fine riconosce: “Preferisco stare dentro, ho fatto 9 anni, ho quei ritmi, ognuno si fa i fatti suoi e se voglio isolarmi o cambiare cella posso farlo. Invece qui devi convivere”. La convivenza è dura per chi si è preso responsabilità soltanto davanti a un boss. Nelle Cec, invece, ogni sera i detenuti si trovano assieme, scrivono com’è andata la giornata e affrontano anche i “richiami”: ciascuno cioè parla degli altri. E rompere l’omertà, la logica di darsi copertura reciproca, è uno scoglio durissimo. “Dentro è più forte chi fa a botte dice Marco, che entra ed esce dal 2010, qui prevale chi riesce a parlare, a tenere la calma, a trasmettere il valore delle persone”. Nella cucina della casa di Taverna è appeso un tabellone con i voti. Le materie sono parecchie: pulizie, stanze, rapporto con gli altri, coinvolgimento, responsabilità, disponibilità, resoconto, lavoro, verità e omertà, religione. Agli ultimi in classifica tocca il turno piatti. Il lavoro educativo viene fatto dai volontari, generalmente uno per ogni detenuto. Seguono un percorso di formazione e poi danno il tempo che possono. Alcuni di loro sono passati dal carcere. Del responsabile della comunità in Piemonte, Benedetto Basso, il giudice scrisse che era “irrecuperabile”. Ruoli di responsabilità sono affidati a persone che hanno commesso reati o assunto droghe. “Il loro sì vale più del mio”, ammette Pieri. Giancarlo, bresciano, 55 anni, 16 anni di condanne sulle spalle che a breve finirà di scontare, ha rifiutato un’offerta di lavoro come operaio per restare come volontario nella Cec: “In carcere non stavo male, avevo lavoro e responsabilità. Ma qui ho trovato la famiglia che pensavo di avere distrutto”. La scommessa è vinta? I numeri dicono di sì. La percentuale dei recidivi usciti dai penitenziari è sul 70 per cento, qui del 20, in linea con i dati delle Apac. In Brasile le strutture sono una cinquantina e un altro centinaio sono in costruzione. L’impulso è venuto dai magistrati che ne hanno verificato la validità. Gli Stati federati mettono i soldi. Spiega Pieri: “Hanno un risparmio sociale perché la recidiva è minore, e un risparmio economico rispetto a un carcere tradizionale. Le Apac funzionano in modo sussidiario tra pubblico e privato, come da noi una scuola paritaria o un ospedale accreditato. Allo Stato costa meno finanziare i privati organizzati”. Il successo è dovuto al metodo che le Cec puntano a replicare: coinvolgere la realtà esterna, cioè il territorio, le famiglie, le aziende, per assecondare il reinserimento; responsabilizzare il “recuperando”, che a sua volta aiuta a recuperare; favorire la formazione professionale, assieme a quella culturale e religiosa. In Brasile il responsabile della Fraternità che riunisce le Apac, Valdeci Antonio Ferreira, è stato premiato come imprenditore sociale dell’anno. “Il nostro obiettivo è portare tutto il metodo Apac in Italia”, dice Pieri, compresa la possibilità di scontare nelle carceri senza carcerieri non soltanto le misure alternative ma l’intera pena. La strada è lunga; del resto le riforme in questo campo sono ardue, come dimostra il continuo slittamento del nuovo ordinamento penitenziario promesso dal governo Gentiloni o la difficoltà a finanziare il lavoro nelle carceri, altro strumento efficacissimo per favorire il recupero e combattere la recidiva. La Papa Giovanni XXIII sta aprendo altre case: “I politici devono vedere che il metodo funziona”, è l’idea di Pieri. Quanti soldi ricevono dallo Stato? “Zero”. E chi paga? La risposta è il motto che ispirò don Benzi: “Dio provvede”. Tempio Pausania: è l’avvocato Baldino la Garante dei diritti dei detenuti di Tiziana Simula La Nuova Sardegna, 10 aprile 2018 L’incarico sarà svolto gratuitamente dal legale del Foro di Tempio per 5 anni “Sbagliato far diventare Nuchis soltanto Casa di reclusione per l’Alta sicurezza”. La sua figura è di fondamentale importanza per la tutela dei diritti umani dei detenuti e il comune di Tempio ha voluto essere uno dei primi e dei pochi in Italia a dare attuazione alle direttive, innanzitutto comunitarie, che ne prevedono la nomina sia a livello nazionale che territoriale. È il garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, incarico che il sindaco di Tempio Andrea Biancareddu ha recentemente affidato all’avvocato del Foro di Tempio Edvige Baldino che lo ricoprirà per cinque anni, a titolo gratuito. Il carcere di Nuchis. Dunque, anche la struttura carceraria di Nuchis e i detenuti galluresi ora hanno una figura di riferimento a tutela della propria condizione. “La presenza nel territorio, non soltanto comunale, del Garante, è di fondamentale importanza anche in funzione del sostegno che può fornire alle famiglie. Ciò a prescindere dal fatto che il parente sia detenuto nel carcere di Nuchis, a Tempio, o in altre carceri dell’isola o del continente, poiché grazie alla rete dei garanti territoriali e alla presenza del Garante nazionale, è possibile interagire e comunicare con tutti gli istituti regionali e nazionali”, spiega Edvige Baldino. Che mette subito l’accento su un disagio fortemente sentito dai familiari dei detenuti galluresi, costretti a raggiungere i loro parenti in altre carceri dell’isola. La protesta delle famiglie. Dopo la chiusura della storica “Rotonda” che era Casa circondariale, infatti, il carcere di Nuchis è stato trasformato in corso d’opera in Casa di reclusione per ospitare quasi esclusivamente detenuti di alta sicurezza (AS3) provenienti dal sud Italia. “In sostanza - rimarca l’avvocato Baldino - i detenuti sardi e in particolare della Gallura e i condannati con sentenze emesse dal Tribunale di Tempio Pausania o i soggetti in custodia cautelare in attesa di giudizio presso il nostro Tribunale, non possono essere ospitati nel carcere di Tempio, ma vengono “smistati” negli altri istituti sardi, con grave disagio, oltre che per gli stessi detenuti, allontanati dalle famiglie, anche per i loro familiari e per gli operatori penitenziari e giudiziari (avvocati e magistrati), costretti a spostarsi nei vari istituti. A ciò si aggiungono le spese e le risorse pubbliche utilizzate di volta in volta per il trasferimento dei detenuti nel Tribunale di Tempio. Il nuovo carcere di Nuchis - chiarisce Edvige Baldino - doveva essere come quello di Bancali, a Sassari: in parte casa circondariale e in parte casa di reclusione per l’alta sicurezza. Invece è stato distrutto quello che già esisteva”. I compiti. Compito del Garante è quello di vigilare affinché l’esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, delle persone sottoposte a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale, sia attuata in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti. Per questo, attraverso la redazione di protocolli di intesa, il Garante dei detenuti può visitare gli istituti penitenziari, gli ospedali psichiatrici giudiziari e le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive, le comunità terapeutiche e di accoglienza o comunque le strutture pubbliche e private dove si trovano persone sottoposte a misure alternative alla detenzione, nonché le camere di sicurezza delle forze di polizia. Lì può incontrarli e tenere colloqui con loro. Altro compito è promuovere le opportunità di partecipazione e di fruizione dei detenuti alla vita civile e sociale. E promuovere iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti delle persone private della libertà personale e della umanizzazione della pena detentiva. Ivrea (To): Garante dei detenuti, al via il bando per la nomina ilcanavese.it, 10 aprile 2018 Dovrà essere scelto fra tra persone d’indiscusso prestigio, residenti nella provincia di Torino, e di comprovata esperienza. Per la nomina del Garante dei diritti delle persone private della libertà ha preso il via il bando pubblico a Ivrea. Per candidarsi c’è tempo fino al prossimo 27 aprile. L’avviso è stato infatti pubblicato nei giorni scorsi sul sito del Comune. Dovrà essere scelto fra tra persone d’indiscusso prestigio, residenti nella provincia di Torino, e di comprovata esperienza. L’avviso pubblico - Il compito primario del Garante è quello di promuovere, anche attraverso iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica, l’esercizio dei diritti delle persone limitate nella libertà personale. Si tratta dunque dei detenuti nella Casa Circondariale di Ivrea, italiani o stranieri, con particolare riferimento alla tutela della salute, il lavoro, la formazione, e la cultura. Come partecipare - Le candidature devono essere indirizzate al Comune di Ivrea. Si deve usare il modulo “Presentazione della candidatura”, compilato e sottoscritto dal candidato. Il modulo deve essere completo di dati anagrafici, corredato da dettagliato curriculum vitae. Le candidature saranno presentate in carta semplice e dovranno essere consegnate esclusivamente alla Segreteria Generale del Comune - Piazza Vittorio Emanuele I, n. 1. I giorni sono dal lunedì al venerdì, dalle ore 09.00 alle ore 12.00 e il giovedì dalle ore 14.00 alle ore 17.30. Busto Arsizio: il carcere torna a scoppiare “ma i diritti umani sono rispettati” di Marco Corso varesenews.it , 10 aprile 2018 I detenuti sono 450 a fronte di una capienza di 240. Ma dalla condanna per trattamento inumano tante cose sono cambiate e dal carcere rassicurano: “Garantiamo 3 metri quadri a testa e più ore d’aria”. È di nuovo emergenza sovraffollamento per il carcere di Busto. I detenuti della struttura hanno toccato quota 450 a fronte di una capienza che è quasi la metà: 240 persone. Una situazione che riporta al 2013, quando l’Italia venne condannata per trattamento inumano anche per la situazione che si era venuta in via per Cassano, e che quindi ha spinto l’eurodeputata Lara Comi e il neo consigliere regionale Angelo Palumbo ad un’ispezione. Nonostante i numeri siano gli stessi di 5 anni fa, ora la situazione viene ritenuta meno grave. “Con i lavori di questi anni abbiamo aggiunto due sezioni e in questo modo la capienza è passata da 197 e 240 unità”, spiega il direttore Orazio Sorrentini. Un sovraffollamento che quindi è meno grave rispetto al passato anche perché “i detenuti rimangono più tempo fuori dalle loro celle” andando nelle stanze “quasi solo per il tempo della notte”. Quello delle celle rimane però il grosso problema: la legge dice infatti che ogni detenuto deve avere a disposizione tre metri quadri di spazio, senza però precisare se nel computo bisogna considerare solo lo spazio calpestatile o se aggiungere anche quello occupato dal mobilio e dal bagno. In questo vuoto legislativo a Busto si garantiscono i 3 metri quadri minimi “bagno e mobili inclusi”. Per quanto riguarda la vigilanza secondo Sorrentini “a livello di polizia penitenziaria l’organico tutto sommato è sufficiente, nonostante manchino alcuni ruoli”. Avere tanti detenuti aumenta comunque la probabilità di aggressioni agli agenti e nonostante i casi registrati nei mesi scorsi il direttore spiega che “in questo inizio di 2018 la situazione sembra essere nettamente migliorata”. Quella che è davvero sotto stress è l’area educativa: “qui avremmo davvero bisogno di un maggiore numero di operatori per fare al meglio il lavoro di rieducazione”. Dei 450 detenuti della struttura più della metà hanno una condanna definitiva da scontare (257 persone, il 60% del totale) mentre gli italiani sono 187 (40%). La nazionalità straniera più presente è quella dei marocchini (66) seguiti da tunisini (38) e nigeriani (23). Numeri che portano l’eurodeputata Lara Comi a ritenere che “se facessimo rientrare nei rispettivi paesi gli stranieri avremmo risolto il problema del sovraffollamento e avremmo più spazi per i delinquenti italiani”. Comi spera quindi che “il prossimo governo si impegni a siglare accordi con i Paesi di origine” anche perché “i detenuti con i quali ho parlato non vogliono rientrare spontaneamente; dicono che qui si sta bene”. In effetti negli ultimi anni sono stati effettuati tanti interventi per migliorare le condizioni di vita dei detenuti. “Abbiamo visto delle enormi disparità che ci sono tra chi è detenuto e chi qui ci lavora” dice Angelo Palumbo citando ad esempio “la presenza di nebulizzatori per rinfrescare i detenuti durante l’estate mentre per alcuni spazi degli agenti non hanno neanche l’aria condizionata”. A questo si aggiunge la retribuzione per alcuni dei detenuti che lavorano “che in alcuni casi arriva a 900 euro netti al mese”. C’è poi un problema strutturale più complessivo di tutto il carcere: l’umidità. Quando nel 1984 sono stati costruiti gli edifici - dalle sezioni fino alla caserma della polizia penitenziaria - è stata fatta l’improvvida scelta dei tetti piatti. Una soluzione non ideale che ora presenta il conto con infiltrazioni parecchie zone degli edifici ma per la quale all’orizzonte non si prevedono interventi. Viterbo: Casa circondariale, la presentazione del progetto “Semi Liberi” di Gaetano Alaimo newtuscia.it, 10 aprile 2018 “Rieducare e riqualificare i detenuti attraverso la definizione di percorsi legati alla costruzione di salute ed educare i consumatori a immaginare altri luoghi di produzione di benessere”. Operare l’integrazione sociale dei detenuti della Casa Circondariale di Viterbo attraverso la condivisione di un aspetto fondamentale della nostra vita: l’alimentazione. È questo l’obiettivo che si pone l’Amministrazione carceraria di Viterbo, accompagnata su questo cammino dall’Associazione O.r.t.o. (Organizzazione Recupero Territorio e Ortofrutticole). Partner del progetto Ancos Confartigianato, l’Associazione Nazionale Comunità Sociali e Sportive del sistema Confartigianato, che ha sposato fin dall’inizio l’iniziativa, riconoscendo il valore dell’agricoltura sociale. Esperti del sistema giudiziario, operatori dell’amministrazione e dei servizi educativi carcerari, il garante dei diritti dei detenuti, un esperto di agricoltura sociale e i volontari dell’associazione che ha promosso il progetto “Semi Liberi” si confronteranno venerdì 13 aprile 2018 a partire dalle 15,30 presso la Sala Cunicchio della Cciaa di Viterbo. Obiettivo dell’incontro è quello di valutare insieme metodologie e misure per arrivare alla realizzazione, all’interno del sistema carcerario, di progettualità e nuove modalità di rieducazione e formazione. La detenzione è un aspetto critico del sistema sociale Italia, una realtà che riveste un ruolo centrale nel sistema giudiziario e per questo merita attenzione da parte di legislatori e amministratori, ma anche della società civile. “Il progetto intende operare su due distinti versanti, finora mai associati: fornire prodotti per la cura del benessere e al contempo riqualificare persone sottoposte a restrizione della libertà, ridefinendo la destinazione di una struttura vivaistica già presente all’interno di un carcere” è quanto afferma il presidente di O.r.t.o. Marco Di Fulvio. Assume centralità, a fianco del reinserimento di detenuti nel mondo del lavoro, la produzione “dal basso” destinata a creare un punto di contatto fra la società civile esterna e le persone sottoposte a restrizione della libertà. “L’opera dei detenuti, che non avranno modo di presenziare all’incontro, sarà segnalata da un totem che farà da espositore della produzione attuale - continua Di Fulvio - a seguire verrà proposta una degustazione crudista di germogli per mettere alla prova la qualità dei “Semi Liberi” - conclude il presidente di O.r.t.o. Como: “Cucinare dal fresco”, le ricette dei detenuti del carcere del Bassone di Anna Campaniello espansionetv.it, 10 aprile 2018 Mangiare dietro alle sbarre senza rinunciare al gusto e ai piatti preferiti, rigorosamente preparati in loco naturalmente. Un gruppo di detenuti del carcere del Bassone, appassionati di cucina, si sono messi in gioco partecipando ad un laboratorio organizzato nella casa circondariale il cui risultato è racchiuso nel libro “Cucinare dal fresco”, una pubblicazione con 21 ricette. L’obiettivo dei detenuti è raccontare all’esterno del carcere come si cucina dietro le sbarre e quanto ci si debba ingegnare per preparare pranzetti degni di una tavola delle feste. I detenuti che hanno partecipato alla creazione del ricettario sono dodici e hanno frequentato il laboratorio “Parole da condividere”, coordinato dalle giornaliste Laura D’Incalci e da Arianna Augustoni. Il libro è un mix di ricette e racconti di vita, di storie e di ricordi, ma soprattutto, di tanta speranza. Il progetto, nato poco dopo le festività natalizie, è la storia di come si trascorrono le festività lontani dalla famiglia. Nel libro infatti, i detenuti hanno voluto spiegare come si organizzano per sentire meno la lontananza della famiglia cucinando e poi condividendo pranzi e cene. Dagli arancini “Fatti da me”, all’insalata di pesce, fino alla pasta al forno alla sancataldese, con un accenno alle cucine orientali fino ai dolci. Il ricettario è una carrellata di idee e di suggerimenti da riproporre nelle tavole di tutte le famiglie. “La cucina è sempre stata la nostra grande passione - commentano i detenuti -, sin dall’inizio abbiamo messo in pratica le diverse doti condividendo e insegnando ai compagni di cella cosa preparare e dispensando qualche suggerimento”. “Questo ero io”, di Curtis Dawkins recensione di Marta Traverso mangialibri.com, 10 aprile 2018 Carcere di Kalamazoo, Michigan. Nella sezione che trattiene i detenuti con tendenze suicide c’è George, la cui ragazza ha scoperto di avere il cancro e glielo ha comunicato attraverso lo spesso vetro infrangibile della sala visite. C’è Tommy, che nel trasferimento da un penitenziario all’altro ha nascosto 25 pasticche di Seroquel nel retto, e glielo si legge in faccia quanto sia faticoso tenerle là dentro. C’è Pepper Pie, che chiamano così perché in mensa mette il pepe sulla sua porzione di torta di mele come dissuasore per i golosi. C’è Pescegatto, che quando un aspirante suicida porta a termine il suo intento lo chiamano a ripulire tutto: era il suo lavoro anche là fuori, ed è sempre meglio che scrostare la merda dai cessi, dice. C’è Robert, che ogni giorno ne spara una più grossa, perché mentire sul suo passato è il solo rimedio che conosce per sopravvivere a quello schifo. Infine c’è lui, che si è iniettato la prima dose di quella roba in una stanza d’albergo, ed è proprio vero quello che dicono, che a un certo punto sei in pace con il mondo e arrivi a sentire i colori, o cose del genere. È un detenuto come loro, nella sezione dei suicidi, e da lì dentro ascolta e trascrive le storie di chi come lui dovrà passare in carcere molto, molto tempo. Una persona condannata all’ergastolo per omicidio ha il diritto di firmare un contratto con una casa editrice, vedere i suoi racconti pubblicati e tradotti in diverse lingue del mondo, e guadagnarci pure dei soldi? Se cerchi su Internet la storia (vera) di Curtis Dawkins, detenuto in Michigan da 14 anni, troverai la questione morale strettamente legata alla critica letteraria. Proviamo a dividerle, solo per un attimo, a soffermarci sulla scrittura. A ogni persona che scrive è suggerito di partire da ciò che conosce. Dawkins ha fatto proprio questo. Ha raccontato il luogo in cui passerà il resto della vita, da cui potrà sbirciare all’esterno solo attraverso le visite e le telefonate della famiglia, le udienze in tribunale, la televisione, i ricordi e i sogni. Chi di noi conosce la realtà del carcere solo per sentito dire, ha qui la possibilità di fare un passo all’interno, comprendere l’umanità che va oltre le azioni terribili che sono state compiute, osservare se e come e quanto le persone possano modificarsi, là dentro. Non redimersi, attenzione, non necessariamente: solo modificarsi. Ogni capitolo è una piccola storia, detenuti che condividono l’intimità del dormire in brande appiccicate, mangiare e fumare insieme, andare al gabinetto sotto gli occhi di tutti. C’è solo un confine, non scritto, che nessuno si permette di valicare: ogni volta che uno di loro ha gli occhi umidi, gli altri distolgono lo sguardo e tacciono. Ogni volta. Due migranti su 100 ancora oggi muoiono in mare di Leo Lancari Il Manifesto, 10 aprile 2018 Contrariamente a quanto afferma la retorica populista, impedire ai migranti di raggiungere l’Europa non serve a evitare che nel Mediterraneo si verifichino tragedie con decine e decine di morti. Ancora oggi, infatti, nonostante un drastica diminuzione del numero degli arrivi (passati dai 181.436 del 2016 ai 119.369 del 2017), due migranti ogni 100 perdono la vita mentre cercano di raggiungere l’Europa. la conferma, che spazza via molti dei luoghi comuni sentiti nell’ultimo anno, arriva dall’ultimo rapporto presentato ieri a Roma dal Centro Astalli, il sevizio dei gesuiti per i migranti. Un’analisi cruda del fallimento delle politiche di contenimento degli arrivi, a partire dagli accordi bilaterali siglati con i paesi attraverso i quali transitano i migranti. “Lo scorso anno esprimevamo la nostra profonda contrarietà all’accordo con la Turchia che impedisce l’accesso in Europa soprattutto di siriani in fuga da una guerra che dura da sette anni” ha denunciato ieri padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. “La nostra paura che accordi simili potessero essere fatti si è puntualmente manifestata quando è stato stipulato l’accordo con la Libia che ha ridotto notevolmente gli sbarchi, ma il prezzo che viene pagato in termini di violenza sulle persone è inimmaginabile, Quello che viene salutato come un successo - ha concluso padre Ripamonti - è per noi una grande sconfitta dell’Italia e dell’Europa”. Dal rapporto del Centro Astalli emergono anche le difficoltà presenti nel sistema di accoglienza dei richiedenti asilo Nonostante un ulteriore aumento dei posti letto disponibili, cresce infatti il numero di coloro che sono costretti a vivere in strada e a fare ricorso all’assistenza dei gesuiti. “I centri dia accoglienza straordinaria (Cas) - è scritto nel rapporto - restano oggi al soluzione prevalente, mentre la rete Sprar (sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) sia pure in crescita, a luglio del 2017 copriva poco meno del 15% dei circa 205 mila posti disponibili”. In queste condizioni dove non arriva lo Stato devono intervenire i privati perché molti richiedenti asilo “restano tagliati fuori da ogni forma di accompagnamento e di supporto, materiale e legale. Non è raro il caso n cui la procedura d’asilo resta sospesa e compromessa, aggravando le loro condizioni di precarietà”. In particolare a Roma dove una delibera comunale impedisce ad enti come il Centro Astalli di rilasciare il proprio indirizzo come residenza anagrafica. Nel 2017 i migranti che si sono rivolti alle associazioni e ai servizi del Centro Astalli sono stati 30 mila di cui 14 mila a Roma, con un totale di 59.908 pasti serviti distribuiti nelle mense gestite dai gesuiti. Da migranti a europei, il 20% dei nuovi cittadini Ue passa dall’Italia di Alberto Magnani Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2018 È l’Italia il paese Ue ad aver rilasciato più cittadinanze nel 2016: oltre 201.500, l’equivalente del 20% su quasi un milione (994.800) di documenti accordati due anni fa in tutta Europa. La Penisola “batte” Spagna (150.900 nuove cittadinanze, il 15% del totale) e Regno Unito (149.372, sempre al 15%), naturalizzando soprattutto persone in arrivo da Albania (il 18,3% di tutti i connazionali confluiti nella Ue), Marocco (17,5%) e Romania (6,4%). Il dato, evidenziato dall’agenzia di statistica Eurostat, rappresenta un incremento del 13% rispetto al 2015, leggermente sotto al +18% messo a segno dal resto dell’Unione europea. Nonostante il primato in valori assoluti, il nostro paese è comunque “solo” quarto per tasso di naturalizzazione, l’indicatore che misura il totale di persone che ottengono la cittadinanza rispetto al totale di stranieri registrati a inizio anno: la media italiana è del 4,1% (ovvero 4 naturalizzati ogni 100 cittadini in arrivo dall’estero), contro il 9,7% della Croazia, il 7,9% della Svezia, il 6,5% del Portogallo, il 4,2% di Romania e Grecia. Da dove arrivano e chi sono i nuovi italiani - Quanti sono, e da dove arrivano i nuovi italiani? Il bacino principale è quello che Eurostat classifica genericamente come “Africa settentrionale”, con 45.313 cittadini naturalizzati nel 2016. A seguire Albania (36.920), Marocco (35.212) e, per limitarsi ai singoli stati, Romania (12.967) e India (9.527). Nel confronto con i partner Ue, l’Italia ha acquisito il 54,9% dei cittadini in arrivo dal Bangladesh, il 54,7% degli albanesi, il 44,9% dei senegalesi, il 43,6% di romeni e il 34,8% dei marocchini. Al di là del passaporto d’origine, i numeri di Eurostat forniscono alcuni dettagli in più sull’identità di chi ha scelto il nostro paese in via definitiva (o quasi). L’età media è giovane, considerando che quasi 116mila dei 201.500 neo-italiani viaggia sotto ai 34 anni di età (il 57%), mentre il rapporto fra sessi si risolve con una distribuzione quasi al 50%:?98.328 le donne e 103.263 gli uomini. È probabile che il picco del 2016 sia il frutto di cittadinanze maturate da italiani di prima e soprattutto seconda generazione, viste le anagrafe (uno dei blocchi più corposi di nuovi cittadini è quello nella fascia 5-10 anni) e il calo, simmetrico, di nuovi arrivi. Nel 2016 si sono registrati 150mila “nuovi italiani” in più rispetto ai poco meno di 60mila nel 2009, mentre gli ingressi sono diminuiti in un periodo simile dai 527mila del 2007 ai 301mila del 2016 (-43%). L’identikit del neo cittadino Ue? Giovane e… già europeo - Quando si parla di “nuovi cittadini Ue”, Eurostat intende le cittadinanze rilasciate da un certo paese dell’Unione. Il risultato è che il principale bacino di “migranti” si rivela essere proprio l’Europa, terra d’origine del 32,5% dei nuovi naturalizzati. Seguono l’Africa (29,6%), l’Asia (20,6%), l’America (15,2%) e, con una percentuale minima, l’Oceania (0,5%). Il peso specifico maggiore è comunque quello dei paesi extra-europei, a partire dal Marocco (oltre 101mila), seguito da Albania (67.500), India (41.700) e Pakistan (32.300). Nel complesso dei nuovi cittadini, la donne superano di poco gli uomini (52% contro 48%), mentre l’età “mediana” di chi ha trasferito la propria residenza scende a 31 anni. Il 40% dei neocittadini Ue ha meno di 25 anni e un ulteriore 40% va dai 25 ai 44 anni, mentre la quota degli over 55 si riduce ad appena il 7%. Quanto ai giovanissimi, nella fascia dagli zero ai 14 anni, il record di nuove acquisizioni va a Estonia (il 58% del totale), Svezia (35%) e Francia (32%). Come si diventa connazionali - Ad oggi uno straniero può acquisire la cittadinanza italiana in maniera automatica o su richiesta. Nel primo caso, la cittadinanza automatica viene accordata per adozione da genitori italiani, ius sanguinis (quando si nasce da almeno un genitore italiano), ius soli (quando si nasce sul territorio italiano in stato di abbandono, da “genitori ignoti o apolidi” o senza aver ereditato una cittadinanza). Nel secondo caso, la cittadinanza su richiesta scatta per residenza e matrimonio. Per residenza quando si vive legalmente in Italia da almeno 10 anni, si è apolidi o rifugiati legalmente da almeno cinque, comunitari e residenti legalmente da almeno quattro, oppure quando si ha “prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato italiano”. Non solo. Lo stesso diritto è previsto per i maggiorenni adottati da un cittadino italiano e residenti nella Penisola da almeno cinque anni dopo l’adozione, i figli o nipoti di cittadini italiani per nascita e residenti in Italia da almeno tre anni e, infine, i nati residenti in Italia da almeno tre anni. Più ridotta la casistica per i matrimoni. Dopo le nozze con una cittadina o un cittadino italiano, la persona diventa nostro connazionale quando risiede legalmente in Italia da almeno 12 mesi (in presenza di figli nati o adottati) o dopo 24 mesi di “sola” residenza con il coniuge. Quando si vola all’estero, bisogna aspettare 18 mesi in presenza di figli nati o adottati da coniugi o 36 mesi dalla data del matrimonio. “Dati e profili usati per fini elettorali”: l’Italia chiede i danni Facebook di Martina Pennisi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 10 aprile 2018 I profili italiani finiti trattati da Cambridge Analytica sarebbero finiti nel mirino di messaggi su razzismo e migranti. La contestazione del garante della Privacy è chiara: Facebook ha permesso un trasferimento di dati alla società Cambridge Analytica senza il consenso degli interessati, cambiando la finalità d’uso. E quella finalità era di propaganda elettorale. Per questo l’Italia chiederà l’applicazione delle sanzioni previste dal Nuovo regolamento europeo - che saranno operative dal 25 maggio prossimo - pari al 4 per cento del fatturato globale della società. Ma soprattutto amplierà l’indagine alle altre aziende specializzate in marketing politico che avevano siglato accordi con il colosso californiano di Mark Zuckerberg. Il sospetto è che i profili italiani coinvolti nello scambio illecito di informazioni siano ben più dei 214.134 comunicati inizialmente. E finiti nella Rete della società britannica perché amici dei 216 connazionali - il dato, secondo il Garante, è maggiore di quello dichiarato dal social network mercoledì scorso (57) - che avevano scaricato la applicazione “this is your digital life” dell’accademico Aleksandr Kogan. Si teme, inoltre, che le “vittime” siano stati influenzate su alcuni temi come il razzismo e l’immigrazione. Secondo le verifiche svolte dagli analisti dell’intelligence, ci sono infatti stati scambi fra gli italiani profilati da Cambridge Analytica - che in queste ore stanno ricevendo un avviso sulla loro pagina Facebook della possibile violazione - e alcuni finti account che avevano come caratteristica quella di avere la parola “Salvini” nell’intestazione. La riunione Ue - L’incontro di questa mattina a Bruxelles tra i Garanti europei per la Privacy servirà a fornire i risultati dei controlli svolti da ognuno a livello nazionale, ma soprattutto a decidere le prossime mosse. Antonello Soro porterà il quadro della situazione italiana, ribadendo la necessità di ampliare i compiti della task force che era stata creata per verificare l’utilizzo delle informazioni degli utilizzatori di WhatsApp da parte di Facebook. In questa contesto, si parla di due piattaforme che fanno capo alla stessa società. Quella con sede a Menlo Park amministrata da Mark Zuckeberg, appunto. Ma in molti casi si è accertato che la procedura dello scambio di dati fra l’applicazione verde di messaggistica e il social network era stata attivata senza il consenso esplicito degli interessati e anche coinvolgendo persone che non si erano mai iscritte a Facebook ma avevano solo registrato il loro numero di telefono su WhatsApp. Il tasto dolente, quindi, è sempre lo stesso, come è accaduto per le aziende che si occupano di politica e come avviene per il resto del mercato della pubblicità su Internet: la consapevolezza delle condizioni d’uso di questi strumenti e della destinazione finale e intermedia di quanto ci riversiamo sopra quotidianamente. La possibilità di erogare le sanzioni in base al nuovo Regolamento europeo sarà operativa soltanto a partire dalla fine di maggio, ma il problema dei criteri da applicare è già sul tavolo. La linea prevalente è quella di procedere tutti insieme, in modo che sia l’Unione europea a far valere le proprie ragioni. Resta da stabilire se le multe debbano essere contestate dalla Gran Bretagna - dove ha la sede Cambridge Analytica - o dall’Irlanda. Finora i casi riguardanti la privacy dei cittadini dell’Unione europea sono stati infatti trattati esclusivamente dal garante irlandese, perché la sede di Facebook in Europa si trova a Dublino. I finti profili - È stato Christopher Wylie, l’analista di Cambridge Analytica che ha rivelato l’uso illecito di dati compiuto dall’azienda di cui Steve Bannon è stato vice presidente, a parlare dell’Italia come “unico Paese che ha lavorato con noi”. E qualche giorno dopo è stata accreditata la possibilità che un partito fosse stato favorito proprio grazie alla propaganda effettuata attraverso Facebook. Questo ha fatto attivare le verifiche dell’intelligence e della Polizia postale, delegata dai magistrati romani. Secondo i primi controlli, nelle settimane precedenti le ultime elezioni, sarebbero stati utilizzati almeno cinque finti profili per scatenare il dibattito o comunque inviare messaggi sui temi “caldi” della campagna elettorale, soprattutto l’immigrazione, coinvolgendo le persone profilate dai britannici. In tutti compare la parola “Salvini”. Al momento è stato escluso che siano riconducibili alla Lega. Gli analisti ritengono che potrebbero essere stati creati addirittura per danneggiare il partito, ma su questo si stanno effettuando ulteriori controlli proprio per stabilire che tipo di influenza possano aver avuto sugli utenti e se davvero - così come è stato chiesto dai pubblici ministeri - una simile attività sia in grado di influenzare il voto come si sta cercando di valutare se sia accaduto in altri Paesi e soprattutto negli Stati Uniti. Siria. Trump pronto ad attaccare, l’ipotesi di un intervento con Parigi di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 10 aprile 2018 L’ambasciatrice americana Nikki Haley al Consiglio di Sicurezza Onu: “Un mostro usa armi chimiche e Putin lo sostiene ma questo non ci impedirà di rispondere”. La decisione di Donald Trump, attaccare o no la Siria, è attesa già nella notte o, al massimo, nella giornata di oggi. Gli Stati Uniti preparano “una forte risposta all’atto barbarico”, l’attacco chimico attribuito a Bashar al Assad contro la popolazione di Douma, venerdì 7 aprile: almeno 60 morti, molti bambini, e circa 1000 feriti. E, questa volta, tutto lascia pensare che gli americani non saranno soli. Domenica sera Trump si è sentito al telefono con il presidente francese Emmanuel Macron. Nel comunicato della Casa Bianca si legge: “I due leader hanno concordato di coordinare una forte, comune risposta”. L’asse sulla Siria tra Washington e Parigi non è una novità. In diverse occasioni il presidente francese si era impegnato pubblicamente a partecipare con gli americani a blitz punitivi contro Assad. Trump ha detto esplicitamente che “ogni opzione è sul tavolo”, compresa quella militare. L’attesa è per un raid, simile a quello del 7 aprile 2017, quando gli Usa colpirono con 59 missili Tomohwak l’aeroporto di Shayrat, dopo la strage con il sarin nel villaggio di Khan Sheikhun. “Prenderemo una decisione importante entro 24-48 ore”, ha aggiunto il presidente americano, rivolgendosi ai giornalisti, prima di cominciare la riunione del suo governo: “È stato un’azione atroce, orribile. Qui stiamo parlando di umanità, non possiamo permettere che accadano queste cose. Stiamo studiando la situazione in modo molto accurato. Sapete che la zona è circondata e quindi è difficile raccogliere elementi. Se dicono di essere innocenti, perché hanno chiuso l’area? Vedremo di chi sono le responsabilità, se della Russia, della Siria, dell’Iran o di tutte e tre insieme. Lo scopriremo presto e la nostra reazione sarà rapida”. E per una volta Trump non scantona una domanda su Vladimir Putin. Chiede un cronista: “Putin ha qualche responsabilità?” “Potrebbe, sì potrebbe averne. E se è così, la questione diventa molto dura, molto dura”. E ancora: “Per quanto mi riguarda non ho il minimo dubbio su che cosa sia accaduto e chi sia il responsabile, ma i nostri generali ci stanno ancora lavorando e avremo risultati, credo, nelle prossime 24 ore”. L’impressione è che possa prendere rapidamente forma una mini-coalizione pronta a “punire” il regime di Damasco. Ci potrebbe essere anche il Regno Unito: la premier Theresa May ci sta riflettendo. Gli israeliani sono pronti. Anzi, gli iraniani, i russi e i siriani hanno accusato l’aviazione di Benjamin Netanyahu di aver bombardato la base aerea militare T-4 non lontano da Homs, controllata dall’esercito di Bashar al Assad: 14 morti tra cui due militari di Teheran. Israele non ha né smentito, né confermato il raid. I media americani, però, sostengono che Washington sarebbe stata preavvertita dagli alleati. Veemente la reazione russa e ieri si è sviluppata nella riunione di urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’ambasciatore di Mosca, Vassily Nebenzia, ha smentito su tutta la linea: “Non ci sono prove di attacchi chimici”. E poi si è scagliato contro gli Stati Uniti, la Francia e il Regno Unito: “Avete avviato una campagna di aggressione contro la Russia e contro la Siria, un Paese sovrano. State usando toni offensivi che vanno ben oltre quelli della Guerra Fredda. Non vi rendete conto fino a che livello di rischio state spingendo la situazione internazionale. Noi non vi chiediamo niente, noi non vogliamo essere vostri amici. Vogliamo solo delle relazioni civili, che voi disprezzate”. Durissima la replica dell’ambasciatrice americana Nikki Haley: “In Siria la Russia sostiene un mostro. Ma l’ostruzionismo russo non impedirà agli Stati Uniti di rispondere”. Italia-Brasile: il derby dei Pm che odiano lo stato di diritto di Piero Sansonetti Il Dubbio, 10 aprile 2018 Una delle notizie più clamorose del 2018 è l’arresto di Ignacio Lula. Probabilmente Lula avrebbe vinto le prossime elezioni presidenziali e dunque possiamo dire che è stato arrestato il futuro presidente del Brasile. L’indagine è stata condotta dal giudice Sergio Moro, che è un allievo e un ammiratore del pool mani pulite italiano, e in particolare del dottor Davigo. E mentre Lula veniva incarcerato, i grillini riuniti a Ivrea applaudivano entusiasti il comizio giustizialista di Nino Di Matteo, il magistrato della trattativa. Una delle notizie più clamorose del 2018 è l’arresto di Ignacio Lula, anche se i giornali non le hanno dato molto spazio. Non tanto perché è stato arrestato l’ex presidente di uno dei più importanti paesi del mondo, ma perché è stato arrestato il probabile futuro presidente. In ottobre in Brasile si vota e Lula era pronto a tornare candidato, con il favore dei sondaggi che lo davano largamente e sicuramente vincente. Lo hanno bloccato mettendolo in prigione. Lula non è un presidente qualsiasi, è il primo presidente socialista del Brasile, è l’uomo che ha rilanciato il paese e gli ha restituito un’immagine, dopo gli anni bui della dittatura, e un periodo “opaco” di transizione, è il presidente che ha strappato alla fame alcune decine di milioni di persone, modificando in modo profondo gli assetti sociali ed economici del Brasile. È stato un grande riformista, nel senso antico e forte della parola, e naturalmente non è visto bene da settori larghi e potenti della borghesia brasiliana, e non solo brasiliana. L’America latina, lo sapete, è stata per decenni terra di colpi di stato e di dittature. L’ultimo tentativo di realizzare democraticamente il socialismo, in un grande paese occidentale, sapete anche questo, fu quello realizzato in Cile nei primi anni settanta. Allora la cosa fu risolta, con l’appoggio degli americani, in modo spiccio: i carri armati, l’uccisione del presidente, l’arresto di tutti i dirigenti dei partiti democratici, i campi di concentramento, le fucilazioni, circa 30 mila desaparecidos. Quindi possiamo anche dire che stavolta è il caso di festeggiare. Lula è stato tolto di mezzo dalla corsa alle presidenziali con metodi assai meno cruenti. Un’inchiesta della magistratura, una condanna senza l’ombra di una prova e l’ordine di carcerazione, che peraltro è stato motivato dalla procura con queste parole: “Occorre evitare che il Paese abbia la sensazione che Lula sia onnipotente”. Diciamo pure che l’intento golpista della magistratura brasiliana è stato dichiarato. La vicenda è stata raccontata altre volte. La riassumo in modo brevissimo. II giudice Sergio Moro - che è un allievo e un ammiratore del pool mani pulite italiano, e in particolare del dottor Davigo - è riuscito ad ottenere la condanna di Lula in primo e in secondo grado, sostenendo che Lula avesse ricevuto un appartamento in cambio di alcuni favori concessi a imprenditori privati. Lula ha sempre negato e ha spiegato che quell’appartamento non lo aveva mai ricevuto, e che infatti non è suo, ma i giudici se ne sono infischiati, considerando irrilevante il particolare, e lo hanno condannato. In effetti l’appartamento non risulta né appartenere a Lula, né che sia mai appartenuto né a lui né a sua moglie (che nel frattempo è deceduta). Ma i giudici hanno stabilito che comunque c’era qualcosa di poco chiaro e hanno decretato: 12 anni di carcere per corruzione. Ora si aspetta la sentenza definitiva della corte suprema, ed esistono buone probabilità che sia favorevole a Lula, perché il processo intentato dal giudice Moro contro di lui non sta in piedi. Però la sentenza arriverà dopo le presidenziali di ottobre, e Lula, con ogni probabilità, non potrà partecipare, e dunque non potrà vincere. C’è la destra dietro la magistratura brasiliana che ha intrappolato Lula? Probabilmente sì, anche se non è mai facile capire esattamente qual è il rapporto di causa ed effetto tra politica e protagonismo (spesso eversivo) di pezzi della magistratura. È difficile in Italia e tanto più in Brasile. Appunto, torniamo un attimo in Italia, perché è stata proprio l’Italia il modello per i magistrati brasiliani. Sabato scorso a Ivrea si è tenuto un convegno del Movimento 5 stelle che ha fatto notizia più che altro per la cacciata del giornalista della Stampa, Jacoponi, considerato dai grillini un nemico. Episodio, effettivamente, molto, molto imbarazzante. Però in quel convegno è successa anche qualche altra cosa. Per esempio la standing ovation (alla quale ha partecipato vistosamente anche il candidato presidente del Consiglio Luigi Di Maio), ad un Pm, Nino Di Matteo, il quale ha svolto un comizio, di stampo nettamente e dichiaratamente giustizialista, che ha mosso ad entusiasmo i 5 Stelle. Di Matteo prima ha sostenuto che Berlusconi e Dell’Utri hanno trattato per 18 anni con la mafia, entrando nel merito di un processo in corso (e nel quale lui è Pm) e che peraltro non ha Berlusconi tra gli imputati. E poi ha, dettato, sempre tra gli applausi della platea e dei capi del M5S, il programma politico sulla giustizia. Che consiste in questi quattro punti: abolizione della prescrizione (cioè fine della prescrizione dal momento nel quale iniziano le indagini), aumento delle intercettazioni (che attualmente è il più alto del mondo intero, dopo la caduta del muro di Berlino: le intercettazioni in Italia sono circa 100 volte più di quelle che si fanno in Gran Bretagna), aumento delle pene per i reati di corruzione, che potrebbero anche superare quelle per i reati di sangue e per gli omicidi volontari, e infine abolizione della legge Gozzini (sugli sconti di pena) e dei vari i benefici di legge per i detenuti, compresi quelli contenuti nell’ultima riforma carceraria, che Di Matteo vuole cassare. Non è un’esagerazione sostenere che il programma di Di Matteo sia quello di trasformare la nostra Repubblica in uno stato di polizia. Sicuramente più simile alla Germania Orientale degli anni 70 e 80 che a qualunque altro paese dell’Europa libera. Poi Di Matteo ha svolto anche un ragionamento meno netto ma abbastanza chiaro: ha parlato dell’indipendenza della magistratura tratteggiandola come il diritto della magistratura ad essere un corpo separato dello Stato, insindacabile e superiore a qualunque altro potere. Ora, noi possiamo stupirci finché vogliamo se questo programma è stato accolto con un’ovazione della platea e dallo stato maggiore del più grande partito politico italiano. Possiamo stupirci, ma non dire che i 5Stelle non abbiano il diritto di sostenere il programma politico che più gli piace. Il problema è un altro. È questo: secondo le attuali leggi, può un Pubblico Ministero in funzione (che oltretutto è anche diventato il numero 2 della Superprocura antimafia) usare un’assemblea politica, e lo strumento- comizio, per condizionare un processo ancora in corso, nel quale lui svolge la funzione della pubblica accusa? Cioè, mi spiego meglio, e tralascio per un momento il problema della incompatibilità tra magistratura e politica (detto tra parentesi Di Matteo ha invocato l’aumento dei magistrati in Parlamento): in Italia è legittimo che i processi si svolgano parallelamente in tribunale e in piazza, con la partecipazione a entrambi gli eventi dello stesso pubblico ministero? E se invece ciò non è consentito, come mai non c’è stata una sollevazione politica, come mai i 5 Stelle hanno applaudito, come mai non sono piovute interrogazione parlamentari, e in che modo intendono reagire gli organi di autogoverno della magistratura e le sue associazioni? Il Pm che ha svolto la requisitoria durante una manifestazione di un partito politico, può mantenere la funzione di pubblica accusa nel processo ufficiale? Capisco che sono domande molto ingenue. Io le butto lì. Brasile. Noi e il “caso Lula”, la sinistra e i diritti degli amici di Paolo Mieli Corriere della Sera, 10 aprile 2018 Politici e sindacalisti italiani hanno firmato un manifesto a difesa dell’ex presidente. Ma non avevano sempre sostenuto che le sentenze vanno rispettate? Adesso che si è consegnato alla giustizia del proprio Paese, nella sede di polizia di Curitiba, vale la pena di soffermarci a riflettere sulle modalità con le quali il settantaduenne Luiz Inacio Lula da Silva, ex operaio, sindacalista e infine Presidente del Brasile dal 2003 al 2011, si è reso disponibile a scontare la condanna a dodici anni di carcere (per corruzione e riciclaggio) inflittagli da due sentenze. Per cominciare, però, vanno messe in chiaro due o tre cose. La prima: non è venuta alla luce una prova definitiva e incontrovertibile del fatto che all’ex presidente sia stato regalato un superattico su tre piani con piscina, terrazza e strepitosa vista sul mare come vorrebbe il capo d’imputazione di Sergio Moro, titolare dell’inchiesta “Lava Jato” (“autolavaggio”, una “Mani pulite” in versione brasiliana. Esistono, però, un contratto d’acquisto firmato nel 2005 dalla moglie di Lula, Marisa Leticia, e ritrovato nella loro casa; fotografie che documentano sue ispezioni ai lavori di ristrutturazione dell’appartamento; testimonianze unanimi del portiere dello stabile, dei vicini, degli operai secondo i quali Lula e la moglie si comportavano, in tutto e per tutto, come se fossero i “padroni di casa”. Ed esistono altresì molteplici indizi che, stando alle sentenze, dimostrano come anche i lavori di ristrutturazione del favoloso appartamento fossero a carico dei corruttori, riconducibili alla compagnia petrolifera Petrobras. Secondo punto: il processo, a detta dei difensori di Lula, è stato molto più veloce di altri dallo stesso impianto. Terzo punto: il prossimo ottobre si terranno in Brasile le elezioni presidenziali e Lula, stando ai sondaggi, godrebbe di un vantaggio di circa venti punti sui suoi competitori. Talché può essere presa in considerazione l’ipotesi di un complotto per impedirgli di essere eletto. Cospirazione ordita dai suoi avversari politici e da non meglio identificati poteri economici. Questo almeno è quel che affermano i suoi sostenitori, prima tra tutti Dilma Rousseff, la donna che ne ha raccolto l’eredità, ha guidato il Brasile dopo di lui (2011-2016), ha provato a sottrarre Lula alla giustizia con un escamotage (nominandolo ministro) e alla fine, due anni fa, è stata anche lei travolta dal Parlamento con l’accusa di aver truccato i dati del deficit del bilancio pubblico. Per essere poi destituita. Ma veniamo alle modalità con le quali Lula si è consegnato alla giustizia. Dapprima l’ex presidente si è rifugiato per alcuni giorni nella sede del “suo” sindacato a Sao Bernardo do Campo in attesa che quelli che lo sostengono si radunassero attorno all’edificio. Poi ha avviato una trattativa con le autorità, politica e giudiziaria, per ottenere un volo privato che lo portasse al luogo predisposto per la detenzione e una sistemazione carceraria più confortevole di quella prevista per gli altri detenuti. Faceva questo, sosteneva, per tranquillizzare i suoi seguaci e “prevenire i disordini” che avrebbero potuto verificarsi in caso di suo arresto “manu militari”. Ottenute le due cose, Lula ha lasciato scadere, senza onorare l’impegno a consegnarsi, i termini ordinari per l’esecuzione della sentenza e ha ottenuto un giorno di permesso in più per la celebrazione, in sua presenza, di una funzione religiosa in ricordo della moglie, la Marisa Leticia di cui si è detto, scomparsa un anno fa. Tempo che gli è stato concesso sicché ha potuto aver luogo quella che Rocco Cotroneo su queste pagine ha descritto come “una cerimonia che assomigliava vagamente a una messa con preghiere e canzoni amate dall’ex primeira dama celebrata da don Angelico Sandalo Bernardino “già vescovo, compagno di strada del partito di Lula”. E mentre il prete “parlava a vuoto” (proseguiva Cotroneo), l’ex presidente abbracciava le persone che salivano sul palco, salutava a pugno chiuso, leggeva ad alta voce i bigliettini che gli venivano consegnati. Finché prendeva lui stesso la parola e per un’ora abbondante arringava la folla contro gli orditori della congiura ai suoi danni: “Hanno voluto togliere di mezzo l’unico Presidente senza titolo scolastico, colui ha fatto di più per i poveri di questo paese”, ha gridato. Finita la “messa”, ha annunciato che avrebbe voluto assistere alla partita di calcio tra le squadre del Palmeiras e del Corinthians e qui sono stati i suoi stessi avvocati a fargli presente che sarebbe stato più saggio consegnarsi all’autorità. Cosa che lui ha fatto tra ali di folla che, senza essere scoraggiate, lo imploravano di “resistere”, di “non consegnarsi”. Nel frattempo il Movimento Sem Terra paralizzava, bruciando copertoni, trentasette autostrade in tutto il Paese e il suo leader, Joao Pedro Stedile annunciava che il loro beniamino “verrà liberato da grandi manifestazioni di massa”. Lula è un personaggio fuori dal comune, amatissimo dal “suo popolo” e chi conosce anche superficialmente l’America Latina non può stupirsi del modo con cui i suoi seguaci hanno ritenuto di testimoniargli affetto. Stupisce, semmai, che qui in Europa ciò che è accaduto sia stato trattato alla stregua di un episodio folkloristico, privo di qualsiasi implicazione politica. In Italia poi, la sinistra - nelle ore in cui era dilaniata sul tema se accettare o meno le profferte di Luigi Di Maio - per qualche ora ha sospeso le ostilità fratricide e si è “riunificata” per firmare un impegnativo manifesto pro Lula. In esso si poteva leggere che, non essendo “emerse a suo carico prove tali da dimostrare che egli si sia appropriato di risorse pubbliche o abbia ricattato imprese per ottenere benefici personali”, era da biasimare il fatto che venisse incarcerato (pur se si riconosceva essere ciò avvenuto in osservanza di specifiche norme). A leggere tra le righe, un’esibizione di certezza - da parte dei firmatari - circa l’inconsistenza delle prove a carico di Lula e una implicita pesantissima accusa nei confronti dei magistrati brasiliani. Il documento esprimeva poi “grande preoccupazione e un vero e proprio allarme per il rischio che la competizione elettorale in un grande Paese come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie che potrebbero impedire impropriamente a uno dei protagonisti di prendervi parte liberamente”. Praticamente quei magistrati o quantomeno le loro “azioni giudiziarie” venivano accusati di aver “avvelenato” la vita politica del Brasile in combutta, si presume, con i nemici del Partido dos Trabalhadores. Firmato, tra gli altri, da Romano Prodi, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Susanna Camusso, Pier Luigi Bersani, Lia Quartapelle, Vasco Errani, Guglielmo Epifani. Ora, a nessuno dei sottoscrittori può essere sfuggita qualche assonanza tra quel che in quella loro pagina si scrive a favore di Lula e ciò che qui in Italia negli ultimi trent’anni è stato detto e scritto da avversari della sinistra a proposito di “competizioni elettorali” distorte per effetto di azioni giudiziarie. Siamo altresì certi che ognuno dei firmatari in passato ha sostenuto che le sentenze della magistratura - a meno che non siano state emesse da tribunali speciali di un qualche regime - vanno sempre e comunque rispettate. Anche quando si nutre qualche dubbio sul merito delle decisioni e sull’operato dei giudici. Cosa peraltro non infrequente tra gli imputati. Avranno sostenuto anche, Prodi e gli altri, che la solidarietà di appartenenza non dovrebbe modificare il giudizio, neanche nel caso in cui un atto giudiziario modifichi i termini della competizione politica (ciò che qui da noi è capitato più di una volta). E cosa è cambiato adesso? Quando tocca a uno dei “nostri” valgono criteri diversi? Quel manifesto, diciamolo, sarebbe stato un atto davvero rilevante se, invece che essere stato steso a favore di una personalità della propria “famiglia”, fosse stato redatto per difendere i diritti di un politico del campo avverso. In questo caso, apporre quella firma, sarebbe stato un modo per dimostrare che, per gli autorevolissimi sottoscrittori, i principi valgono più di ogni spirito familistico di appartenenza. Sarà per un’altra volta. Colombia. La Giornata del ricordo delle vittime del conflitto armato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 aprile 2018 In occasione della Giornata nazionale del ricordo e della solidarietà con le vittime del conflitto armato, Amnesty International ha sollecitato il governo colombiano a riconoscere l’aumento della violenza nei confronti dei difensori dei diritti umani e degli attivisti di comunità già duramente colpite dal conflitto e a prendere misure urgenti per garantire queste persone. Nonostante l’accordo di pace, la tremenda escalation di intimidazioni, minacce e omicidi contro chi difende i diritti umani e chi ha un ruolo di primo piano nelle comunità devastate dal conflitto non accenna a diminuire (nella foto, la comunità di San José de Apartadó, tra le più colpite in questi anni e anche di recente). Secondo dati ufficiali, dal 1° gennaio 2017 al 27 febbraio 2018 in Colombia sono stati assassinati 148 difensori dei diritti umani. Le autorità sono assenti, il paramilitarismo occupa le terre lasciate dalla guerriglia e in molte regioni del paese non c’è la minima garanzia di protezione. A rafforzare questo clima di paura e d’impunità, non mancano le dichiarazioni di alti funzionari dello stato secondo i quali non è vero che le persone vengono uccise a causa del loro impegno nelle comunità e in difesa dei diritti umani. Se si vuole arrivare a una pace seria e duratura, secondo Amnesty International il governo colombiano dovrà prestare la massima attenzione e fornire piena assicurazione ai leader comunitari, ai contadini, alle vittime, a coloro che difendono il territorio e le risorse naturali e, infine, a chi pretende l’attuazione a livello locale dell’accordo di pace e del processo di restituzione delle terre sottratte durante il conflitto.