“Riforma, il governo ha deciso di non esercitare la delega” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2018 Il Garante nazionale ha inviato all’esecutivo il proprio parere sul decreto riscritto ex novo. “Il governo ha deciso di non esercitare la delega relativamente alla revisione di modalità e presupposti di accesso alle misure alternative, di revisione delle procedure di accesso alle medesime, di eliminazione di automatismi e preclusioni, di valorizzazione del volontariato, di riconoscimento del diritto all’affettività, nonché di revisione delle misure alternative finalizzate alla tutela del rapporto tra detenute e figli minori”. Ne prende atto il Garante nazionale delle persone private delle libertà Mauro Palma dopo aver inviato al governo il proprio parere sul decreto rifatto ex novo della riforma dell’ordinamento penitenziario. Il Garante ritiene che gli elementi di delega costituissero nel loro insieme “un corpus complessivo volto a ridefinire l’esecuzione penale con l’obiettivo di perseguire un reinserimento sociale che non apra al rischio di esclusione e di conseguente recidiva” e che le singole proposte presenti nel nuovo decreto “appaiono più rivolte ad affrontare aspetti settoriali che a ridefinire tale corpus complessivo”. Nel merito, il Garante nazionale apprezza le disposizioni che tendono a migliorare la quotidianità detentiva e che, peraltro, riprendono alcuni aspetti sui quali il aveva già formulato un positivo parere. In attesa di leggere, nel dettaglio, i pareri del Garante che dovranno essere trasmessi alle commissioni giustizia delle due camere, Il Dubbio, nei giorni scorsi, ha colto diversi cambiamenti volti non solo ad eliminare tutto ciò che riguarda fuori dal carcere, ma anche per quanto riguarda la vita interna. Tutto revisionato e riscritto. Tanto da aggiungere delle parole a diversi commi, oppure facendo rimanere così com’è alcuni commi del “vecchio” ordinamento e con il rischio evidente di fuoriuscire dal perimetro delle legge delega che puntava soprattutto a una graduale decarcerizzazione che parte dalla vita detentiva finalizzata alla riabilitazione, fino all’implementazione delle pene alternative concesse dai magistrati di sorveglianza quando accertano che si verificano le condizioni. Il pratica non è stato recepito, come dice il Garante, il “corpus complessivo” della legge delega. Tolto ogni riferimento alle regole penitenziarie europee, tolta la parte dedicata alla sorveglianza dinamica. La perquisizione corporale è stata mantenuta come dal vecchio ordinamento, mentre la riforma originale l’aveva cambiato prendendo in considerazione diverse sentenze della cassazione che sottolineavano il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e il ricorso a tale metodo “solo nel caso in cui sussistano specifiche e prevalenti esigenze di sicurezza interna o in ragione di una pericolosità del detenuto risultante da fatti concreti”. Così come è stato modificata la concessione dei benefici e, addirittura, quello sui colloqui coi familiari: il nuovo testo riscritto prevede di poter favorire i colloqui coi famigliari “ove possibile”, mentre nel testo della riforma originale al posto del potenziale verbo “potere” si leggeva che era un dovere. Anche l’assistenza sanitaria è stata modificata, prendendo in considerazione solo l’aspetto organizzativo: tolta l’equiparazione tra i detenuti infermi di mente con quelli fisici e cancellato anche l’articolo che prevede sezioni adeguate per i detenuti psichiatrici. Nel frattempo i disagi aumentano, compreso l’escalation dei suicidi in carcere. L’ultimo nel carcere di Poggioreale, il terzo nello stesso penitenziario nel giro di poco tempo. Si è impiccato alle inferriate della sua cella, approfittando dell’assenza dei quattro compagni di stanza che erano nei passeggi. Con questa ennesima tragedia, siamo a quota 34 suicidi dall’inizio dell’anno. La parola che meglio riassume lo stato delle persone private delle libertà l’ha data proprio il Garante nazionale Palma nella sua ultima relazione: è “attesa”, che sottolinea lo stato di sospensione protratta in cui vivono le persone private della libertà personale che, secondo prospettive diverse e per motivi diversi, sono tutti soggetti accomunati dall’attesa di un segnale, un mutamento, esprimendo così dubbi, incertezze, ma anche la speranza di veder evolvere la loro condizione per non rimanere - si legge nella relazione. “En attendant Godot”, ovvero nell’ineluttabilità di una condizione. Che Godot non arrivi più, ora è diventata quasi una certezza con la riscrittura della riforma. Carceri, la rieducazione passa dalla formazione professionale di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 9 agosto 2018 Formazione professionale cardine del trattamento rieducativo del condannato. Più attenzione alla vicinanza alla famiglia nella individuazione del carcere e più ore d’aria. È quanto prevede lo schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, in attuazione della delega 103/2017, ora all’esame delle commissioni parlamentari per il prescritto parere. Un primo testo del provvedimento è già stato sottoposto al parere delle Commissioni parlamentari, ricevendo un parere negativo su alcuni articoli del precedente decreto. Così il consiglio dei ministri ha riscritto lo schema di decreto, in modo da tenere conto delle indicazioni espresse dal Parlamento. Vediamo le principali novità. Parere negativo. Lo schema di decreto tiene conto degli indirizzi politici della maggioranza uscita dalle elezioni politiche del marzo 2018. Il Parlamento si è espresso negativamente sul complesso della riforma e il governo ha ritenuto, conseguentemente, di non dare attuazione alla delega nella parte complessivamente finalizzata alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative e alla eliminazione di automatismi preclusivi alle misure alternative. In sostanza lo stralcio concerne misure di attenuazione del carico sanzionatorio. Pene accessorie. Si applicano da subito e non al termine delle misure alternative. In caso di applicazione di una misura alternativa alla detenzione sono messe in esecuzione anche le pene accessorie, salvo che siano state sospese dal giudice. Polizia. La verifica dell’esecuzione della pena fuori dal carcere coinvolge le forze di polizia penitenziaria. Viene attenuato il carico sugli assistenti sociali, molto spesso a disagio con compiti estranei alle loro competenze e al loro specifico professionale. Esecuzione esterna. L’esecuzione penale esterna presuppone l’analisi comportamentale. Si allarga l’oggetto della verifica con il coinvolgimento di una équipe multidisciplinare. Istituto. Si deve scegliere l’istituto carcerario in base a un criterio di vicinanza alla famiglia, salvo esigenze di sicurezza. L’assegnazione in luoghi lontani e trasferimenti inaspettati sono ostacoli al diritto all’affettività e, in casi gravi, sono stati cause di suicidio. Alimentazione. Prevista la considerazione di regime alimentari adeguati alle convinzioni culturali e religiose dei condannati, sempreché ciò sia materialmente fattibile. Ore d’aria. Sono portate a quattro le cosiddette ore “d’aria” e cioè i periodi di permanenza all’aperto. Prevista la possibilità di riduzione a due ore per giustificati motivi. Lo schema di decreto si preoccupa anche della protezione dagli agenti atmosferici e quindi contro solo, freddo, pioggia e così via. Formazione. Fa parte del trattamento e non è solo frutto di una libera scelta del condannato. La formazione professionale viene inserita tra gli elementi fondamentali del trattamento rieducativo. Colloqui. Si prevede che siano svolti con modalità riservate (sempre con controllo a vista del personale) quelli con i familiari, evitando promiscuità e situazioni rumorose. Si deve tenere conto degli impegni scolastici dei figli dei detenuti, prevedendo colloqui nei giorni festivi in cui non ci sono lezioni. Mediazione culturale. Incentivato il ricorso agli operatori di mediazione culturale. Sezioni protette. Si deve tenere conto della esigenza di evitare comportamenti vessatori e di sopraffazione ai danni di persone soggette a discriminazioni, senza cadere in ghettizzazioni carcerarie (omosessuali, persone transessuali ospitati insieme a aggressori sessuali). Avvocati. Lo schema di decreto prevede la facoltà del condannato di effettuare colloqui con il difensore senza limiti fino dall’inizio dell’esecuzione della pena. Telefonate. È il direttore del carcere (e non più il magistrato di sorveglianza) dopo la sentenza di primo grado a disciplinare i colloqui telefonici del condannato. Servizi sociali. Un chiarimento molto importante riguarda la residenza dei detenuti e internati ai fini della competenza all’erogazione dei servizi sociali. Se l’interessato è privo di resid3enza viene iscritto dal direttore nei registri del comune dove è ubicata la struttura. Al condannato è richiesto di scegliere tra il mantenimento della precedente residenza anagrafica e quella della struttura dove è detenuto/internato. La scelta può essere sempre modificata. Scarcerazione. I detenuti saranno dimessi con documenti validi, se ci sono le condizioni per il rilascio. Le carceri si coordineranno con i comuni. Trattamento penitenziario. Nessuna distinzione per i “colletti bianchi” di Claudia Morelli Italia Oggi, 9 agosto 2018 Nessun distinzione tra i detenuti “colletti bianchi” e gli altri per quanto riguarda criteri e percorsi per la individuazione del trattamento ai fini rieducativi: scompare infatti il criterio del “disadattamento sociale” che nel regime del 1975 portava a identificare i detenuti con persone disagiate e fuori contesto sociale. Con la riforma penitenziaria in corso, l’osservazione scientifica - anche ai fini dell’applicazione delle misure alternative e comunque di recupero rieducativo del delinquente - dovrà tenere conto di tutte le ragioni che hanno portato a delinquere e che non sono identificabili necessariamente in “carenze psico-fisiche”. E niente più casi “Cucchi”: la prima visita in carcere avverrà all’atto di ingresso della persona sottoposta a detenzione o custodia cautelare ed il medico dovrà refertarne lo stato di salute della persona allegando una documentazione anche fotografica. Tra le tante novità rispetto al testo precedente della riforma delle carceri, forse queste sono quelle che saltano più all’occhio. Ma ve ne sono anche altre, come quelle che riguardano il trattamento delle detenute donne (appena il 4% della popolazione carceraria), che dovrà godere di meccanismi anti discriminatori, o dei transgender, che dovranno poter contare sul collocamento in istituti o sezioni compatibili al loro sesso di identificazione e messi in condizione di poter proseguire la transizione di sesso durante il periodo carcerata. La vita nei penitenziari è una vita complessa per tutti coloro che - a qualsiasi titolo ne prendano parte - e certo sarà importante capire come i “buoni intenti” di mettere al riparo da sopraffazioni e aggressioni categorie “deboli” di detenuti, creando “raggruppamenti omogenei” (a cui il detenuto potrà far parte previo consenso) saranno tradotti in pratica per non trasformarsi in una nuova edizione di forme di discriminazione. Di cosa parliamo. Il governo Conte ha approvato il 2 agosto scorso un nuovo testo di decreto delegato che attua la riforma penale della legge 103/2017 nell’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), sostituendo lo schema precedente elaborato dal Governo Gentiloni, oggetto di u parere ostativo da parte delle commissioni parlamentari della nuova maggioranza giallo-verde. L’approvazione è venuta nell’ultimo giorno utile per non lasciare cadere la delega, e ora il nuovo testo potrà godere di una proroga di 60 giorni per essere approvato definitivamente (entro il 2 ottobre). Attualmente è all’esame delle commissioni parlamentari. Il nuovo testo si occupa di sanità in carcere, di semplificazione delle procedura di sorveglianza, disciplinando le reciproche competenze tra giudice del procedimento penale e magistrato di sorveglianza, e di vita penitenziaria, con interventi relativi - tra gli altri - alle condizioni di isolamento, agli orari di aria, ai trasferimenti, ai colloqui, agli elementi del trattamento rieducativo che comprendono - oltre la istruzione e il lavoro anche la formazione e l’aggiornamento professionale. La riforma dimezzata. La nuova riforma rinuncia a mettere mano alle condizioni di accesso alle misure alternative e non intervenire più per impedire l’automatismo delle preclusioni, anche se cerca di facilitare in alcuni passaggi la procedura volta alla loro concessione se pur alle condizioni vigenti. Così è per esempio nel caso di condannato in stato di libertà, per il quale il giudice monocratico può disporre in via provvisoria l’accesso ad una misura alternativa nel caso di pena (anche residua) pari a un anno e sei mesi, salvo la ratifica o la revoca da parte del tribunale. La riforma interviene anche sul rapporto tra pene accessorie e misure alternative e sul tema dei controlli relativi all’osservanza delle prescrizioni: attività in cui sarà maggiormente coinvolta la polizia penitenziaria, in rete con gli uffici di esecuzione penale esterna e le forze di sicurezza. Boom di suicidi in cella, nessuno chiuda gli occhi di Antonio Mattone Il Mattino, 9 agosto 2018 Ancora un suicidio nel carcere di Poggioreale. Il terzo nel giro di venti giorni. Questa volta è stato un giovane di 29 anni a togliersi la vita. Ha atteso che i suoi compagni di cella andassero al passeggio, mentre un altro detenuto dormiva sulla sua branda per impiccarsi. Era recluso nel padiglione Napoli dopo essere transitato nel reparto clinico, e nulla lasciava prevedere il suo proposito disperato. Tuttavia, nel 2009 per un tragico destino un altro suo fratello si era suicidato proprio nel penitenziario napoletano. Gli altri due erano detenuti nel reparto di alta sicurezza e nel padiglione Torino, forse il più difficile dell’istituto. In questa sezione sono rinchiusi i collaboratori di giustizia marginali o i loro familiari, gli appartenenti alle forze dell’ordine, o le persone che hanno commesso reati “odiosi” per cui vengono separati dagli altri per il timore di ritorsioni. Si tratta di individui problematici e instabili che spesso fanno uso di tranquillanti per calmare le proprie ansie. Sembra che le cause che hanno indotto il detenuto del reparto Torino a compiere il gesto estremo, siano legate a problemi avuti con la moglie, in attesa di un bambino. Sempre nel carcere intitolato alla memoria di Giuseppe Salvia, un agente di custodia impegnato nel sindacato, è stato arrestato mentre si accingeva a far entrare alcune dosi di droga nel penitenziario. Questi episodi hanno destato molto sconcerto tra il personale del carcere napoletano, dove si sta riproponendo anche l’allarme per la ripresa del sovraffollamento, dopo che sono state superate le 2.250 presenze. È un’estate calda quella che si preannuncia all’interno delle galere italiane. Oltre al caldo, i suicidi, già 34 dall’inizio dell’anno, e le aggressioni contro gli operatori penitenziari fanno salire la tensione. C’è un clima di spaesamento ed incertezza che si coglie tra i detenuti e il personale penitenziario. Le aspettative che in tanti avevano riposto nell’approvazione della Riforma sembrano ormai andate deluse. Il Consiglio dei Ministri ha rimandato alle Camere un testo che penalizza le misure alternative e che si basa su una impostazione carcero-centrica della detenzione, in netto contrasto con la responsabilizzazione e la rieducazione di chi ha commesso reati che invece era emersa nella proposta elaborata durante gli Stati Generali dell’esecuzione penale. I sindacati di polizia penitenziaria imputano l’aumento di violenza al regime delle celle aperte, che consentirebbe maggiore libertà di movimento ai carcerati, oltre a dare la sensazione di essere più liberi e quindi di esprimere con più facilità la prepotenza e il sopruso. Ma io non credo che siano queste le cause del rigurgito di aggressività. Piuttosto vanno ricercate nella consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici, difficili da contenere. Ho assistito alla scena di un carcerato che, in preda ad una crisi, ha scaraventato per terra un grande mobile di legno. A questo bisogna aggiungere il clima di aggressività diffusa che si respira nelle nostre città. Basti pensare alle numerose liti che scaturiscono da questioni di viabilità o peggio dalle brutali aggressioni con cui si pensa di risolvere questioni di cuore. La violenza e la mancanza di rispetto che alberga quotidianamente nella nostra società, attraversano anche le spesse mura delle galere. Bisogna poi considerare la mancanza cronica del personale che è sottoposto a turni e ritmi massacranti. La soluzione non può essere quella di avallare la “sacrosanta sofferenza” per chi si è macchiato di crimini. Tuttavia, nel mezzo di questi eventi tragici e sconcertanti l’impegno del personale e dei volontari continua senza sosta. In un pomeriggio di inizio agosto si è svolta una piccola festa nel padiglione Genova, recentemente visitato da Roberto Saviano e dal Presidente della Camera Roberto Fico. Alla manifestazione, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio, non vi hanno potuto partecipare tutti i detenuti del reparto, poiché una circolare emanata dal provveditorato limita lo svolgimento degli eventi nelle ore pomeridiane nel periodo estivo, per la carenza di personale, proprio quando ci sarebbe più bisogno di iniziative della comunità esterna. Più di trenta carcerati hanno potuto trascorrere un’ora di svago tra poesie e canzoni che hanno suscitato emozioni e ricordi nostalgici, mentre qualcuno accendeva l’accendino come si fa nei concerti. Nel mezzo della festa una piccola gara canora, una sorta di festival di Napoli dietro le sbarre, ha accesso gli entusiasmi. Anche gli agenti sembravano divertiti e rilassati. Antonio, con una magistrale interpretazione di “Tu ca nun chiagne”, è risultato vincitore. Nella sua vita, prima di allora non aveva vinto mai niente. Poi un gelato, questo per tutti i 100 gli occupanti del Genova, ha dato un po’ di frescura. Al termine saluti e abbracci, poi tutti sono tornati dentro le celle roventi. Morire d’estate insieme alla riforma penitenziaria di Chiara Formica 2duerighe.com, 9 agosto 2018 In galera d’estate non si muore solo di caldo, 4 morti in poco più di una settimana ci informano d’altro. 32 suicidi dall’inizio dell’anno: gente che se ne va nell’indifferenza e nell’anonimato generale. Morti delle quali, nella maggior parte dei casi, nessuno ne spiegherà le ragioni. Morti senza nome, senza storia: non conta che a morire siano persone, l’importante è che ne muoiano i reati. Nella maggior parte dei casi “Il carcere ti lascia la vita, ma ti divora la mente, il cuore, l’anima e gli affetti che fuori ti sono rimasti. […] La galera è spesso una macelleria che non ha nessuna funzione rieducativa o deterrente, come dimostra il fatto che la maggioranza dei detenuti ritorna a delinquere in continuazione”. Dalla lettera dell’ergastolano Carmelo Musumeci, pubblicata da Beppe Grillo, qui. Hassan è morto il 30 luglio nell’ospedale di Belcolle a Viterbo, dopo essersi impiccato nel carcere di Mammagialla (Viterbo), ormai noto come “carcere punitivo”, in cui raccogliere detenuti trasferiti per motivi di “ordine e sicurezza”. Aveva 21 anni Hassan, era egiziano, e sarebbe stato scarcerato per fine pena il 9 settembre. È morto, dopo una settimana di coma: si è impiccato due ore e mezzo dopo essere stato trasferito in una cella della sezione di isolamento, il 23 luglio. È il terzo detenuto che perde la vita nel carcere viterbese dall’inizio dell’anno, il secondo a seguito di un tentativo di suicidio compiuto nel reparto di isolamento. La Procura di Viterbo ha nominato due periti per l’autopsia sul ragazzo, ma il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, solleva una questione affatto marginale: “nel caso specifico di questo ragazzo poi c’è da accertare se corrisponda a realtà quanto starebbe emergendo, ovvero che il ventunenne fosse in carcere per un reato commesso da minorenne. Se così fosse avrebbe dovuto essere recluso presso un Istituto di Pena per Minorenni”. La legge prevede infatti che fino a 25 anni, se il reato è stato commesso da minorenne, la pena sia da scontare nel penitenziario per minori. Era stato condotto in isolamento soltanto due ore e mezzo prima che tentasse il suicidio. Il motivo: un’azione disciplinare riguardante un fatto del marzo precedente. In merito al suo caso Stefano Anastasia, garante dei detenuti della regione Lazio, aveva richiesto il trasferimento - mai avvenuto - di Hassan in un altro istituto penitenziario: “il 21 marzo scorso, una delegazione del mio ufficio aveva incontrato Hassan, all’indomani del fatto per cui solo quattro mesi dopo sarebbe stato sottoposto alla sanzione disciplinare dell’isolamento. In quell’occasione, Hassan avrebbe riferito di essere stato picchiato il giorno precedente da alcuni agenti di polizia che gli avrebbero provocato lesioni in tutto il corpo e probabilmente gli avrebbero provocato anche la lesione del timpano dell’orecchio sinistro, da cui sentiva il rumore “come di un fischio”. Mentre raccontava la sua versione dei fatti, Hassan velocemente si spogliava, così da mostrare i segni sul corpo e la delegazione effettivamente poteva vedere molti segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto. Alla fine dell’incontro, Hassan chiedeva aiuto, dicendo di avere paura di morire”. Sulla colluttazione tra gli agenti e Hassan, la provveditrice dell’Amministrazione penitenziaria informava che questa sarebbe avvenuta perché Hassan e il suo compagno di cella avevano opposto resistenza a una perquisizione della loro camera da cui avrebbero svolto un traffico di psicofarmaci verso il piano inferiore. Secondo la versione del Dap, dunque, il ragazzo non fu picchiato, ma si ricorse all’uso della forza perché si era opposto ad un controllo nella sua cella. È lo stesso ordinamento penitenziario a prevederlo e stando ai sanitari del Dap, le sue lesioni erano “incompatibili con un’azione offensiva in suo danno”. Eppure Anastasia aggiunge che nelle settimane successive all’aggressione “altri detenuti lamentavano di essere stati vittime di abusi, in specie nella sezione di isolamento, e tra questi uno confermava di essere stato testimone dell’aggressione denunciata da Hassan”. Una detenuta transessuale trentatreenne si è tolta la vita nel bagno del carcere maschile di Udine lo scorso 31 luglio, dopo solo 4 ore di detenzione. Non era la sua prima detenzione: era già stata detenuta nella casa Circondariale di Udine. Un uomo senegalese di 30 anni si è tolto la vita lo scorso sabato nel carcere di Marassi a Genova, impiccandosi nella sua cella con una cintura. Anche questa volta si tratta di un giovane immigrato, senza relazioni familiari sul territorio, arrestato per detenzione di sostanza stupefacenti di lieve entità. Il garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, lo definisce “un giovane senegalese, con paternità e maternità sconosciute, disoccupato, senza fissa dimora. In sintesi povero e solo”. Nadir Garibizzo: ex medico imperiese sessantenne, detenuto nel carcere di La Spezia con l’accusa di tentato omicidio, si è tolto la vita recidendosi l’arteria femorale. L’incidenza dei suicidi in carcere supera di 17 volte quella riscontrata nella società esterna e Mauro Palma, riflettendo sui tragici avvenimenti degli ultimi giorni, ha posto un interrogativo nel quale è racchiuso il senso generale della logica punitiva e non solo: è doveroso interrogarsi “su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate giovani vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere”. Cosa siamo disposti a fare per prevenire anziché punire?. Una riforma penitenziaria che non ripensa il carcere si limita ad incrementarlo. Ammesso che i recenti interessi di Beppe Grillo, circa le realtà del crimine, delle condizioni di vita dei detenuti e delle possibilità di riscatto, non siano soltanto vane provocazioni, sembra in ogni caso che il Movimento da lui partorito stia prendendo tutt’altra direzione. Il 2 agosto scorso, infatti, il Consiglio dei ministri ha approvato l’ennesima versione dell’ordinamento penitenziario, di fatto riscrivendo quasi completamente la riforma penitenziaria proposta nella scorsa legislatura dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. Tale riforma, finalmente orientata verso la rieducazione e la risocializzazione delle persone recluse, era il risultato di un lavoro portato avanti da una squadra di giuristi guidata da Glauco Giostra, notoriamente sensibile alle reali criticità e mancanze degli istituti penitenziari italiani. Il nuovo esecutivo invece, come si legge in una nota, “ha ritenuto opportuno intervenire con una revisione e riscrittura del testo, in modo da tenere conto delle indicazioni espresse dal Parlamento”. Sulla riforma Orlando ne sono state dette fin troppe: dal decreto “svuota carceri” alle accuse di buonismo mosse dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Falsità. Tra gli intenti della riforma bocciata comparivano le tanto discusse pene alternative, ossia possibilità reali per i reclusi di scontare le condanne meno gravi non interamente in carcere, ma usufruendo di misure alternative alla detenzione, più utili al reinserimento sociale, come i lavori di pubblica utilità e la “messa alla prova”. Ne rimanevano, tra l’altro, escluse alcune categorie, come i detenuti per reati ostativi. Proprio le misure alternative hanno rappresentato il primo bersaglio da sterminare per il nuovo esecutivo, nonostante i dati riguardanti le percentuali europee sulla recidiva dimostrino che misure punitive alternative alla detenzione facilitino il reinserimento sociale e dunque riducano drasticamente la probabilità di tornare a delinquere. Per quanto riguarda l’utilizzo delle misure alternative alla detenzione l’Italia è tra le ultime posizioni in Europa: mentre in Italia più della metà dei condannati finisce in carcere (55%), in Germania sono solo il 28%, il 30% in Francia, il 36% in Inghilterra e Galles e il 48% in Spagna. Con il risultato che in Italia il tasso di recidiva arriva fino al 68 per cento, mentre in Inghilterra e Germania è fermo a meno della metà rispetto ai livelli italiani. Il numero dei detenuti sale, rispetto all’anno scorso, di 1.740 unità, raggiungendo le 58.506 persone private della libertà, come riporta il rapporto di Antigone. Non hanno avuto sorte migliore neanche le disposizioni riguardanti l’eliminazione degli automatismi preclusivi alla concessione di forme attenuate di esecuzione della pena con affidamento, caso per caso, alla maggiore discrezionalità della magistratura di sorveglianza circa la decisione del percorso punitivo/rieducativo di ciascun detenuto. I tre decreti legislativi riguardanti la riforma dell’ordinamento penitenziario, che era stata già adottata in via preliminare dal precedente governo lo scorso 16 marzo, introducevano disposizioni volte a modificare l’ordinamento penitenziario, a revisionare la disciplina del casellario giudiziale e ad armonizzare la disciplina delle spese di giustizia funzionali alle operazioni di intercettazione. Stefano Anastasia in merito alle nuove disposizioni del ministero Bonafede: “sulla base della confusione tra certezza della pena e certezza del carcere, sono stati cancellati dalla proposta del governo tutti i riferimenti alle alternative al carcere. Il rifiuto ideologico delle alternative al carcere arriva fino al punto che nel nuovo schema di decreto sono state cancellate finanche la sospensione della pena per gravi motivi di salute psichica (cosa su cui è chiamata a pronunciarsi a breve la Corte costituzionale, che non potrà che parificare la malattia mentale alle patologie fisiche) e l’alternativa terapeutica per i malati di mente”. Questione carceri, emergenza che non interessa a nessuno di Valter Vecellio lindro.it, 9 agosto 2018 Fabio Valcanover è un avvocato di Trento da sempre impegnato sul fronte dei diritti civili e nella difesa dei più deboli.. Assieme al consigliere provinciale Lorenzo Baratter ha effettuato una visita ispettiva nel carcere della sua città. Ecco il suo rapporto: “Scabbia e tubercolosi le malattie infettive più diffuse. Le problematiche relative alle strutture carcerarie in Regione si accumulano. Non ci sono abbastanza infermieri, ne mancano sicuramente due o di più a seconda di quali numeri si voglia tenere in considerazione (in particolare: i numeri della previsione iniziale (220 unità) o numeri a cui si è attestato ora (318 unità)”. Una carenza che, dicono gli addetti, potrebbe essere contrastata con una specifica indennità di medicina carceraria, che è compito dell’Azienda sanitaria prevedere. Mancano inoltre i turni notturni (ci sono solo due turni e finiscono entrambi nel tardo pomeriggio), “in caso di urgenze, in assenza di personale sanitario è d’obbligo l’alternativa tra ridimensionare e aspettare la mattina o inviare direttamente in ospedale, non essendo presente personale infermieristico o medico. Con ciò organizzando un’uscita che fa diminuire ulteriormente il numero del personale della polizia penitenziaria in effettivo lavoro nella casa circondariale”. Insufficiente anche la presenza dei medici e “in caso di emergenze notturne una comunità di 350 persone in quelle condizioni necessiterebbe della presenza di un medico di turno”, così da evitare ricoveri cautelativi. “Chi deve provvedere? Sicuramente, anche in questo caso, l’Azienda sanitaria”. Valcanover rende inoltre noto che “ci sono circa una trentina di detenuti che frequentano il Ser.D. (servizi per le dipendenze) interno con terapie di mantenimento o scalari, tuttavia maggiore è il numero di persone che si dichiarano tossicodipendenti all’ingresso in carcere, va da sé che non tutti coloro che ne hanno bisogno usufruiscono del servizio per tossicodipendenti. Scabbia e tubercolosi sono le malattie infettive diffuse all’interno della Casa Circondariale trentina, che vengono prese in carico e controllate. Inoltre una decina di persone dovrebbero essere in cura con terapie psichiatriche costanti, e il 40% dei detenuti fa uso sistematico di benzodiazepine, come ad esempio il valium”. È da credere che quello di Trento non sia un caso limite. Anzi, è probabile che vi siano carceri ed istituti di pena che versano in condizioni peggiori e molto più critiche. Si prendano i suicidi in carcere. Sono una sorta di cartina al tornasole per comprendere quello che accade nelle prigioni e negli istituti di pena. I suicidi in carcere continuano al ritmo di quasi uno al giorno. L’ultimo nel carcere di La Spezia (ma non è detto che quando leggerete questo articoli altri detenuti siano “evasi” definitivamente). La vittima è Nadir Garibizzo, ex medico di 60 anni, detenuto nel carcere di La Spezia con l’accusa di tentato omicidio. Con questo suicidio siamo arrivati a quota 33 dall’inizio dell’anno. Il giorno prima un altro suicidio avvenuto nel carcere Marassi di Genova e riguarda un giovane poco più che trentenne per la prima volta in carcere. Il garante nazionale delle persone private delle libertà Mauro Palma fa sapere che era detenuto da meno di una settimana e il suo reato era spaccio di lieve entità: “La sua collocazione sociale”, dice Palma, “era quella di giovane senegalese, con paternità e maternità sconosciute, disoccupato, senza fissa dimora. In sintesi, povero e solo”. Stefano Anastasia, Coordinatore dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, e Garante per le Regioni Lazio e Umbria, parla di “lunga estate calda delle carceri italiane”. Anastasia e gli altri Garanti richiamano l’attenzione della società civile e delle istituzioni locali e nazionali sulle condizioni di vita dentro e fuori le carceri, e su quanto potrebbe essere fatto per garantire loro una speranza di vita migliore prima ancora che vengano arrestati: “È il vecchio tema sollevato tanti anni fa dal migliore dei magistrati di sorveglianza e dei capi dell’amministrazione penitenziaria che questo Paese abbia avuto, il caro Sandro Margara, che denunciava la natura del carcere come discarica sociale e che proprio per questo elaborò una proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario volta a liberare la marginalità sociale dal carcere”. Sconsolato Anastasia annota che “quelle proposte sono rimaste lettera morta. Così come sono destinate a restare lettera morta le proposte elaborate nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale e della Commissione ministeriale di attuazione della delega alla riforma penitenziaria”. Intanto, al 31 luglio, i detenuti sono arrivati a 58.506, 1.740 in più dell’anno precedente; e incancreniscono ogni giorno di più i problemi e le inefficienze legate ad un sistema penitenziario perennemente sovraffollato. La giustizia (non solo il carcere e le condizioni di “non” vita dell’intera comunità penitenziaria) è la madre di tutte le emergenze del Paese. Una giustizia che non funziona allontana gli investimenti; la non certezza del diritto e la lunghezza dei procedimenti giudiziari allontanano impauriti investitori stranieri e alimentano la fuga di capitali; le detenzioni ingiuste comportano milioni di risarcimento ogni anno… eppure questa emergenza è stata completamente espulsa dall’agenda politica; maggioranza e opposizione ignorano la questione e le sue drammatiche implicazioni. Non se ne parla, non se ne discute, non ci si confronta, non si elaborano proposte concrete per un avvio di soluzione degli innumerevoli, annosi, problemi. Va tutto bene, madama la marchesa, sembra essere la comune parola d’ordine. Ma, per usare la nota espressione salviniana, tutto fa pensare che presto “la pacchia” finirà. E nessuno potrà dire: non sapevo, non potevo. Potrà solo dire: non ho voluto. Prescrizione: ascolti i suoi, caro ministro di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2018 Questo giornale da sempre sostiene che una seria riforma della prescrizione non può prescindere dalla considerazione che tale istituto - che non ha nulla a che vedere con il principio costituzionale della “ragionevole durata dei processi”, che esprime un diverso valore giuridico - costituisce una ipotesi di rinunzia dello Stato ad esercitare la pretesa punitiva nei confronti di colui che si ritiene essere l’autore di un reato. È evidente, quindi, che - manifestata la volontà punitiva dello Stato attraverso l’esercizio dell’azione penale da parte del pm (citazione diretta, richiesta di rinvio a giudizio) - la prescrizione non ha più ragione di essere ed il processo deve proseguire fino a quando il giudice non emetta sentenza definitiva (sia essa di assoluzione o di condanna). Si era, così, evidenziato come fosse privo di significato giuridico collegare la prescrizione alla sentenza di I grado, collegamento al quale sembra, invece, credere il ministro di Giustizia Bonafede. Egli, circa un mese fa, annunciava: “Stop alla prescrizione dopo la sentenza di I grado” e, intervistato da La Repubblica il 25 luglio, ha ribadito: “Il punto di partenza è il blocco dopo la sentenza di I grado”. Inspiegabilmente il ministro non ha fatto alcun cenno alla circostanza che il 22 giugno 2018 era stata presentata una proposta di legge, di iniziativa dei deputati Colletti, Businarolo, Ascari, Cataldi, Aiello, Scutella e Sarti di “modifica al codice penale in materia di prescrizione dei reati”. La sorpresa è che tale proposta - che proviene da parlamentari dello stesso partito del ministro (M5S) - finisce per sconfessare sostanzialmente il Guardasigilli, modificando l’attuale art.159 del codice penale nel senso che “il corso della prescrizione rimane sospeso in tutti i casi di esercizio dell’azione penale. La sospensione nel corso della prescrizione per l’esercizio dell’azione penale si verifica con l’assunzione della qualità di imputato ai sensi dell’art. 60 del codice di procedura penale”. Di particolare interesse, sia dal punto divista giuridico che fattuale, come risulta dalla relazione illustrativa della proposta, sono le ragioni sottese a tale modifica. Sotto il primo aspetto, correttamente si afferma: “Se è vero, come è vero, che con l’esercizio dell’azione penale e il rinvio a giudizio lo Stato, attraverso gli organi a ciò deputati, manifesta la specifica volontà punitiva rispetto ad un determinato reato, la prescrizione non dovrebbe mai poter decorrere durante il processo in corso posto che proprio la pendenza del processo attesta per sé l’attualità del suo intento persecutorio”. Quanto al secondo profilo, incisivamente, si afferma: “Inoltre si valuti come la sospensione del termine prescrizionale al momento dell’assunzione della qualità di imputato consentirebbe anche di evitare l’impunità dei reati dei cosiddetti colletti bianchi (politici, faccendieri, dilapidatori di denaro pubblico), particolarmente gravi per la comunità e consistenti anche nella truffa, nella corruzione, nei reati ambientali, in tutti i reati societari come il falso in bilancio e il falso in prospetto che rappresentano un allarme, non solo sotto il profilo strettamente penale, ma anche sotto quello economico e culturale”. Se così stanno le cose, non si comprende perché mai, di fronte ad una ineccepibile proposta di legge - che, anche attraverso la rimodulazione dei termini di prescrizione di cui all’art. 157 c.p., elimina in radice gli effetti perversi dell’attuale normativa sulla prescrizione - proveniente da parlamentari del suo “partito”, il ministro non appoggi tale soluzione e ne porti avanti una diversa che non risolve, in termini radicali di efficienza e di giustizia, la scandalosa situazione della prescrizione determinatasi, a partire dal 2005, per effetto della cosiddetta ex Cirielli - (estinzione di circa 1.700.000 reati) - approvata con il concorso dell’attuale “partner” del “governo del cambiamento”, la Lega, che contribuì all’approvazione, sotto i governi di centrodestra di cui allora faceva parte, delle peggiori leggi sulla giustizia. Potrà il ministro sostenere la “giusta” riforma proposta, coerentemente a quanto promesso in campagna elettorale, da parlamentari del suo “Movimento”? Bocciata dal Csm, vince tutti i ricorsi: “Inutile, addio toga” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 agosto 2018 La giudice della Corte d’appello di Milano Maria Rosaria sodano racconta la sua odissea. consiglio di stato e tar hanno condannato tre volte (con spese da record) Palazzo dei Marescialli per aver negato alla magistrata incarichi da Presidente di sezione. Sentenze ignorate come “da prassi”. “Basta, mollo tutto e vado in pensione. Sono stanca di presentare ricorsi che tanto non sortiscono alcun effetto contro il Csm”, dichiara al Dubbio Maria Rosaria Sodano, attualmente giudice presso la Corte d’Appello di Milano. La vicenda della dottoressa Sodano sicuramente sorprenderà anche chi pensa di aver visto tutto nella storia della giurisdizione italiana. Dopo una vita trascorsa al Palazzo di giustizia di Milano, a settembre del 2015 Sodano decide di presentare domanda per un incarico semi-direttivo: presidente di sezione civile in Tribunale. Un’aspirazione più che legittima per una toga dal curriculum ricco e variegato. Esclusa la Cassazione, Sodano ha infatti svolto tutte le funzioni che offre la giurisdizione: giudice, sia al civile che al penale, in primo e secondo grado, pm, magistrato di sorveglianza. Le valutazioni di professionalità sono sempre state ottime. Particolarmente lusinghiera, poi, quella dell’ex presidente della Corte d’Appello di Milano, Giuseppe Tarantola, magistrato noto alle cronache per essere stato il giudice del processo Enimont. Sulla carta, quindi, le chance dovrebbero essere buone. Archiviato il requisito dell’anzianità di servizio, gli incarichi di vertice negli Uffici giudiziari vengono assegnati dal Csm in base al parametro del “merito” e della “attitudine”. Il tentativo però non va a buon fine ed a luglio del 2016 il Plenum punta su un’altra toga. So- anni di nomine a Palazzo dei Marescialli. La riforma voluta dal governo Renzi di abbassare da 75 a 70 anni l’età massima di trattenimento in servizio dei magistrati ha determinato centinaia di scoperture. Posti che il Csm mette a bando senza soluzione di continuità e con ritmo frenetico. In totale saranno oltre 1000 le nomine effettuate dall’attuale consiliatura. Considerando queste numerose vacanze organiche, a marzo del 2016 il Csm mette a concorso un’altra presidenza di sezione civile al Tribunale di Milano. Sodano presenta nuovamente domanda che, il successivo luglio, il Csm boccia però per la seconda volta. Finiti i tentativi in primo grado, Sodano punta allora alla Corte d’Appello. Giocando in casa, crede, ci saranno maggiori possibilità di successo. A luglio del 2016 presenta dunque domanda per presidente di sezione civile in Corte. Ma anche questo terzo tentativo fallisce: a giugno del 2017 nuova bocciatura del Csm. Il giudice Sodano, nonostante tre bocciature in stecca, non si perde d’animo e decide di impugnarle al Tar. Il Csm tenta di resistere ma il giudice amministrativo stronca le scelte effettuate dall’organo di autogoverno delle toghe. “Non è stata fatta alcuna valutazione comparativa fra i candidati”, scrivono i giudici, Sodano in tutti e tre i casi era la più titolata e qualificata. A non perdersi d’animo questa volta è il Csm. Non ottempera alle sentenze del Tar e presenta ricorso. La strategia difensiva del Csm viene bocciata in toto dalla Quinta sezione del Consiglio di Stato, presidente Giuseppe Severini. Gli appelli sono respinti in blocco con contestuale condanna al pagamento delle spese, oltre agli oneri di legge (compreso il contributo unificato per ciascun ricorso, si raggiunge la cifra record di 20mila euro e rotti, che il Csm ha già versato nei giorni scorsi al giudice Sodano). “In questo momento ci sono tre presidenti di sezione a Milano che non dovevano essere nominati dal Csm”, dice Sodano, forte delle sentenze del Consiglio di Stato. Un triplete che comunque non sposta una virgola, in quanto “il Csm di norma non ottempera alla pronunce della giustizia amministrativa, riproponendo i medesimi candidati bocciati”. Motivo, questo, che spiega come mai i ricorsi delle toghe contro le nomine siamo molto pochi. Per uscire dall’impasse, la prassi del Csm è la cosiddetta “compensazione”: ai ricorrenti viene proposto alla prima favorevole occasione un posto alternativo rispetto a quello per il quale avevano inizialmente fatto domanda. Sodano, però, non ha voglia di aspettare la nomina “riparativa” da parte del nuovo Csm che si insedierà a settembre. Sulla decisione di appendere la toga al chiodo a fine anno è irremovibile. Traffico di stupefacenti: è organizzatore dell’associazione solo chi coordina di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 8 agosto 2018 n. 38240. Per far scattare il ruolo di organizzatore, nell’ambito di un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, non basta che il soggetto si occupi e gestisca il traffico della droga, prendendo contatti con venditori e acquirenti, ma serve un compito di coordinamento dell’attività degli associati. La Corte di cassazione, con la sentenza 380240 di ieri, accoglie il ricorso dei due imputati, condannati per il traffico di stupefacenti messo in atto da un’associazione criminale, per la parte in cui negavano di avere all’interno del “sodalizio” il ruolo di organizzatori. Una posizione, data per certa dalla corte d’appello, in virtù della quale i due avevano avuto un aumento considerevole di pena. La Corte territoriale aveva desunto il ruolo di organizzatori da un preminente ruolo direttivo. I giudici avevano però trascurato che la direzione organizzativa dell’associazione si trovava in Nigeria e che gli associati che operavano in Italia, eseguivano le direttive che arrivavano dal paese africano. La Suprema corte chiarisce che il ruolo di organizzatore non può essere contestato solo perché il soggetto gestisce il traffico della droga prendendo contatti con i venditori e con gli acquirenti. Se così fosse - sottolinea la Cassazione - tutti i soggetti dediti allo spaccio in forma organizzata dovrebbero essere considerati “organizzatori”. In realtà ciò che caratterizza il ruolo, e giustifica il ben più grave trattamento sanzionatorio rispetto al semplice partecipante, “è l’assunzione di un compito di coordinamento dell’attività degli associati, tale da assicurare la piena funzionalità dell’organismo criminale, attraverso una continua assistenza per l’intera durata dell’associazione”. Sebbene - conclude la Suprema corte - non sia richiesto “che il ruolo organizzativo risalga da un momento cronologico che coincida con la formazione della stessa associazione e debba ammettersi la possibilità di interscambiabilità tra gli associati, tuttavia l’organizzatore deve essere un soggetto molto vicino al vertice dell’associazione, quindi a chi la dirige”. Associati all’Isis anche i “lupi solitari” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 38208/2018. Il giuramento di fedeltà al Califfato, fa scattare il reato di associazione terroristica, se dopo il “chiamato” alla Jihad compie una serie di azioni utili agli scopi dell’Isis. E ai fini del reato associativo è del tutto ininfluente che l’atto sia compiuto in solitaria e con mezzi personali. La Cassazione (sentenza 38208) ha confermato la condanna di un cittadino tunisino e di un pachistano per il reato di associazione terroristica, smontando le obiezioni della difesa, secondo la quale il verdetto si reggeva solamente su un giuramento di fedeltà all’autoproclamato Califfo dello stato islamico Abu Bakr al Baghdadi. Ma l’assunto dei difensori è sbagliato perché non c’è solo l’adesione alla guerra “santa”. Il giuramento è solo il dato di partenza, che dimostra comunque l’adesione ad un’ideologia che impone la soppressione degli “infedeli”. Ma in più c’è un’attività di propaganda, proselitismo e istigazione ad atti di terrorismo, svolta anche sui social facendo ricorso a browser, come il Tor, che assicurano l’anonimato. La sentenza ha valorizzato anche l’uso del manuale di addestramento “How to survive in the west” con le istruzioni per l’uso di azioni terroristiche. Quanto alla posizione di “cani sciolti” o “lupi solitari”, i giudici non hanno difficoltà a spiegare che la condizione non è affatto in contrasto con la particolare struttura, “globalizzata” dell’Isis, ma anzi funzionale all’obiettivo di destabilizzare il “nemico” con la minaccia di un pericolo che può arrivare ovunque e da chiunque. La partecipazione all’associazione scatta dunque anche con le iniziative autonome e prive di programmazione, che rientrano nei piani dell’organizzazione, pronta a rivendicare e ad esaltare gli atti dei suoi “soldati”. Il dato dell’inserimento in una struttura “a rete”- avvertono i giudici - è del tutto diverso dalla partecipazione alle associazioni tradizionalmente conosciute. E per il reato non serve di certo il contatto tra vertici e singoli aderenti. Sottrazione fraudolenta con la finta separazione di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2018 Corte di cassazione - sentenza 32504/2018 della Cassazione. Si amplia la portata del reato di sottrazione fraudolenta: dopo il fondo patrimoniale, la scissione societaria e la cessione di azienda, anche la separazione consensuale dei coniugi può integrare il delitto. È quanto emerge dalla sentenza 32504/2018 della Cassazione del 16 luglio scorso. Nella vicenda a base della decisione un contribuente nell’ambito di un accordo di separazione aveva trasferito un immobile di sua proprietà alle figlie minori a titolo di contributo del loro mantenimento. L’amministrazione finanziaria dubitava della separazione sia sulla base dei contenuti risultanti dai profili di Facebook, sia per il fatto che sulla cassetta postale di un coniuge apparivano entrambi i nominativi. Poiché la separazione era successiva alla notifica di un avviso di accertamento con il quale era ipotizzato il reato di dichiarazione infedele, l’Ufficio segnalava alla Procura anche l’ipotesi del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Il Gip del Tribunale ordinava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme di denaro e di immobili per equivalente al profitto dei reati. La misura era confermata anche in sede di riesame. L’indagato ricorreva così in Cassazione eccependo tra gli altri, anche un vizio di motivazione della sentenza per il reato di sottrazione fraudolenta. Il ricorrente e la moglie, infatti, erano effettivamente separati e residenti in comuni diversi. Nessuna indicazione contraria poteva desumersi dai profili di Facebook, estratti peraltro dai funzionari dell’Agenzia delle entrate e non da organi investigativi, tanto meno dalla circostanza che il nome appariva sulla cassetta postale dell’altro coniuge. La separazione consensuale omologata ed i relativi accordi non possono essere simulati, con la conseguenza che ai fini del delitto manca la fraudolenza che nemmeno può ravvisarsi nell’epoca in cui tale separazione è stata attuata. Inoltre, il contribuente aveva tentato la procedura di accertamento con adesione e nessun atto coattivo per il recupero del credito era stato avviato. I giudici di legittimità, respingendo il ricorso, hanno ricordato che la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri beni, così pregiudicando la possibile azione dell’Erario per il recupero delle somme. La condotta di alienazione simulata, alternativa agli atti fraudolenti, è attuata quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente alla effettiva volontà dei contraenti. Sicuramente, nell’alienazione simulata rientrano anche i trasferimenti a titolo gratuito, poiché la norma non pone limiti in tal senso. L’atto fraudolento invece è il comportamento idoneo a rappresentare a terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero. In sintesi, la Cassazione ha affermato che il reato può essere integrato con ogni atto di disposizione del patrimonio che abbia la sua causa nel pregiudizio alle ragioni creditorie dell’Erario. Con riferimento all’accordo di separazione, la Suprema Corte ha rilevato che la giurisprudenza civile in materia lo ha ritenuto non impugnabile per simulazione. Peraltro, i coniugi possono, senza l’intervento del giudice, far cessare gli effetti della sentenza con comportamenti univoci, incompatibili con lo stato di separazione. La Cassazione ha così rilevato che il ripristino della comunione di vita e d’intenti materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale, fa venir meno gli effetti della separazione. In tale contesto, l’omologa, essendo venuti meno gli originari intenti di divisione, diventa improduttiva di effetti e non è vincolante per i coniugi per gli obblighi patrimoniali assunti. La sussistenza della fraudolenza, secondo i giudici, era quindi riconducibile all’evidente dissociazione tra la realtà documentata con la separazione e quella effettiva, ossia l’unione dei coniugi. Antiriciclaggio, favor rei esteso sulle sanzioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2018 Corte di cassazione - Sentenza 20647/2018. Applicazione ampia per il favor rei in materia di sanzioni per mancato adempimento degli obblighi antiriciclaggio. La Corte di cassazione, con la sentenza della seconda Sezione civile n. 20647, depositata ieri, ha chiarito il perimetro applicativo del nuovo articolo 69 del decreto legislativo n. 231 del 20017 (introdotto nel 2017 dal decreto legislativo n. 90). La disposizione prevede, tra l’altro, che per le violazioni commesse in una data antecedente all’entrata in vigore della nuova misura, sanzionate sul piano amministrativo, “si applica la legge vigente all’epoca della commessa violazione, se più favorevole, ivi compresa l’applicabilità dell’istituto del pagamento in misura ridotta”. È stato così accolto sul punto il ricorso presentato dalla difesa dell’ex amministratrice delegata di una fiduciaria, considerata responsabile, insieme al presidente del cda e all’altro ad, della mancata trasmissione di segnalazioni antiriciclaggio. Dopo una serie di accertamenti dell’Ufficio italiano cambi era stata inflitta una sanzione di 6,7 milioni. La difesa aveva contestato la determinazione dell’importo della sanzione, sottolineando il fatto che, in corso di giudizio, la normativa di riferimento fosse cambiata per effetto dell’inserimento della nuova misura nel testo del decreto 231: ne chiedeva così l’applicazione, mettendo in evidenza le precarie condizioni economiche della donna, la circostanza che non avesse tratto un vantaggio dalle operazioni non segnalate, l’assenza di pregiudizio per i terzi e di precedenti violazioni contestate. L’Avvocatura dello Stato, invece, pur riconoscendo la natura del favor rei, al debutto per le sanzioni antiriciclaggio, ne aveva limitato l’area di applicabilità, sostenendo che la retroattività della norma più favorevole, che avrebbe comportato un drastico abbattimento dell’importo, è condizionata alla mancata conclusione del procedimento. E, nel caso in questione, visto che la sanzione era già stata inflitta al momento dell’entrata in vigore della riforma, non sarebbe stato possibile invocare lo “sconto”. Ora la Cassazione accoglie l’impugnazione, imponendo una rideterminazione della cifra da pagare per la violazione. Per la Corte il tenore della norma è chiaro con il riferimento alle violazioni commesse in data anteriore alla data dell’esordio della novità, senza alcun accenno al requisito della mancata adozione del provvedimento di sanzione. Inoltre, ricorda la sentenza, corrobora la conclusione raggiunta, anche il riferimento a quanto previsto per le sanzioni tributarie e valutarie, dove l’unico limite alla regola del favor rei è rappresentato dal fatto che il provvedimento sanzionatorio sia diventato definitivo, con l’esaurimento di conseguenza anche della fase di impugnazione davanti all’autorità giudiziaria. Neppure potrebbe essere contestato l’aggravamento delle condizioni della finanza pubblica per l’interpretazione data: è vero che la nuova norma prevede che l’Erario non sia penalizzato, ma in questo caso si tratta di procedimenti ancora in corso per i quali gli importi non sono ancora assestati. Sul market abuse limiti al doppio binario di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2018 Resta la norma sul ne bis in idem, ma sparisce il riferimento al ragguaglio tra sanzioni pecuniarie e pene detentive. Possibilità per la Consob di applicare cumulativamente sanzioni pecuniarie, misure alternative e confisca. Sono le modifiche più significative introdotte nella versione finale del decreto legislativo che adegua la disciplina italiana al Regolamento Ue n. 596 del 2014 in materia di abusi di mercato, approvata ieri sera definitivamente dal Consiglio dei ministri. Tra le misure più sensibili, la norma che modifica il Tuf (all’articolo 187 terdecies, commi 1 e 2) sulla questione del doppio binario penale/amministrativo per la repressione delle medesime condotte di market abuse. Un doppio binario censurato sotto molti aspetti dalle sentenze della Corte di giustizia europea del 20 marzo. La soluzione messa in campo dal decreto prevede la necessità che l’autorità giudiziaria o la Consob, nella determinazione delle sanzioni di loro competenza, tengano conto delle misure punitive già decise. Cosa abbastanza semplice da stabilire nel caso di sanzioni di natura pecuniaria, ma più complicata quando si dovrà trattare del ragguaglio tra pene detentive e misure amministrative. Sul punto, il riferimento d’obbligo è l’articolo 135 del Codice penale, con l’equivalenza tra un giorno di detenzione e 250 euro. Riferimento inserito nel testo del decreto fino a ieri sera, ma poi stralciato in aderenza a quanto sollecitato dalle commissioni parlamentari e in attesa di una riflessione più approfondita, davanti alle quali peraltro la stessa Consob, con l’audizione del commissario Giuseppe Maria Berruti, aveva espresso fortissime perplessità, prefigurando una possibile amnistia per effetto dell’applicazione della norma sul ne bis in idem. Venendo all’area del penalmente rilevante, lo schema di decreto interviene sulla fattispecie della manipolazione del mercato, allargando la misura della contravvenzione oltre che alle condotte che hanno per oggetto strumenti finanziari negoziati su Mtf, anche alle condotte relative a strumenti finanziari negoziati, come prevede Mifid, su Otf, derivati e quote di emissioni. Ma in maniera esplicita rientreranno nel penale anche le condotte di manipolazione del benchmark. L’intervento sul versante amministrativo dell’abuso di informazioni privilegiate fa aumentare il massimo della misura pecuniaria che può essere inflitta facendola salire da 3 a 5 milioni. La decisione di non intervenire sul minimo deve essere letta in parallelo alla conservazione dell’effetto moltiplicatore che ammette un incremento fino al triplo o fino al maggior importo di 10 volte non solo del profitto conseguito ma anche delle perdite evitate nel caso di inadeguatezza delle sanzioni applicate nel massimo. Ipotesi che potrà scattare adesso non solo a causa delle qualità del colpevole, ma anche della gravità della violazione e del suo impatto sistemico. Per quanto riguarda la Confisca, questa potrà prevedere il prodotto oppure il profitto dell’illecito, ma non i beni utilizzati per commettere la violazione. Napoli: choc a Poggioreale, terzo detenuto impiccato in cella in poche settimane di Nico Falco Il Mattino, 9 agosto 2018 Anche il fratello si era tolto la vita in carcere. Un altro suicidio in carcere, il terzo in poche settimane. E, ancora una volta, in quello di Poggioreale. Continua la scia nera che ha travolto la casa circondariale napoletana, tra le più carenti sotto il profilo della pianta organica: l’esiguo numero di poliziotti in servizio, denunciano i sindacati, non permette un’adeguata copertura dei turni e per ora alle promesse politiche degli scorsi mesi non c’è stato seguito. E.V., 30 anni, è stato trovato impiccato. Si era costruito una sorta di corda con un lenzuolo e l’aveva fissata alle sbarre, mentre gli altri detenuti erano lontani per l’ora di passeggio. A nulla sono valsi i tentativi di soccorso degli agenti: al loro arrivo era già deceduto. Un fratello dell’uomo si era tolto la vita allo stesso modo in carcere cinque anni fa. L’uomo, originario di Maddaloni, in provincia di Caserta, era in attesa del processo di appello; accusato di rapina e tentato omicidio, sarebbe uscito da galera nel 2027. Nel carcere di Poggioreale era arrivato a giugno scorso, dopo essere stato detenuto nella casa circondariale di Avellino, ed era stato assegnato al Padiglione Napoli. Una decina di giorni fa l’estremo gesto era stata la scelta di M. C., originario di Torre del Greco, che aveva approfittato dell’ora d’aria, mentre i compagni di cella era fuori, per togliersi la vita. E, solo pochi giorni prima, un altro detenuto si era ucciso nel carcere napoletano. Una sequenza che ovviamente genera allarme. “L’inferno dei vivi”. Emilio Fattorello, segretario nazionale per la Campania del Sappe, parla di “un’estate tragica nel carcere di Poggioreale”. “Il terzo suicidio in pochi giorni - dice - è un ulteriore dramma che rappresenta una sconfitta per tutte le componenti che operano nella struttura detentiva. Tali continui drammatici eventi incidono sulla psiche della Polizia Penitenziaria. Gestire la morte di un essere umano in maniera violenta come il suicidio di certo lascia il segno e con altri mille elementi aumenta lo stress lavorativo in un ambiente particolare come quello del carcere napoletano, non a caso definito “l’inferno dei vivi”. Contenere e convivere con circa 2200 detenuti con una afa insopportabile in una struttura di un secolo con angusti spazi non è segno di una civiltà degna di questo termine”. Solo promesse - In Italia, solo nel primo semestre del 2018, 24 detenuti si sono tolti la vita in carcere. Quattro al mese, uno ogni settimana. Solo in Campania sono 48 i suicidi sventati, mentre il dato nazionale parla di 585 episodi. “Una delle cause - dice Leo Beneduci, segretario regionale dell’Osapp - è la carenza di personale, che non permette di avere un numero di unità in servizio adeguato a prevenire certe tragedie. Poggioreale è uno dei carceri dove questa penuria è particolarmente grave. Il comportamento dell’amministrazione penitenziaria ci fa ritenere che questo servizio di prevenzione non faccia parte delle priorità. Il 17 settembre scorso il Corpo scese in strada per chiedere nuove assunzioni, almeno 8mila, e a quella manifestazione prese parte anche Matteo Salvini, che si impegnò assicurando che una volta al Governo se ne sarebbe occupato. È vero che sono passati soltanto 70 giorni dall’insediamento, ma per ora non è cambiato nulla”. Napoli: Poggioreale, l’sos delle associazioni “un inferno per i detenuti” di Giuliana Covella Il Mattino, 9 agosto 2018 “Potersi curare con dignità è un diritto umano, curare senza dignità è un peccato umano”. A mettere nero su bianco la propria sofferenza è Gennaro Granieri, 56 anni, detenuto da circa tre anni nel carcere di Poggioreale. Dal 2 agosto Gennaro, che è difeso da Beatrice Salegna ed è in attesa di giudizio dalla Cassazione per il reato di spaccio, ha iniziato lo sciopero della fame. “Non lo faccio perché voglio uscire - spiega nella lettera che ha indirizzato all’Associazione Ex Detenuti - ma perché voglio essere curato”. Gennaro è affetto da epatite cronica dal 1994. Ma soffre anche di tiroide, che gli porta numerosi scompensi ed in tre anni è dimagrito di 30 chili. Motivo per cui necessita di cure periodiche, se non giornaliere, come un’ecografia al fegato: “durante la mia detenzione - scrive - mi hanno ridotto la terapia e non vedo l’endocrinologo da oltre due mesi. Inoltre mi sono sorti forti dolori alle ossa per i quali chiedo solo di essere curato”. Un disperato grido d’allarme che getta luce sulle condizioni in cui vivono i detenuti di Poggioreale, dove ieri c’è stato l’ennesimo suicidio (un uomo di 29 anni, originario di Maddaloni, che si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo). Tanti i problemi all’interno del penitenziario, descritti, punto per punto, da Granieri nella sua lunga lettera. Oltre le cure mancate, il calvario dei colloqui e i costi esosi per i prodotti acquistati dai reclusi. Tasselli di un quadro molto più ampio, che riaccende i riflettori su quello che più che un carcere sta diventando sempre più un inferno in terra, a detta di detenuti, familiari e associazioni. “Il legale di Granieri farà un esposto alla Procura - annuncia Pietro Ioia, presidente dell’Associazione Ex Don, che ha denunciato le violenze e i soprusi presumibilmente commessi in passato da alcuni agenti penitenziari nella cosiddetta cella zero - perché il suo cliente chiede un diritto che dovrebbe essere garantito, quello alla salute, che invece in questo “mostro di cemento” viene negato ogni giorno. Ma il fatto più grave è che con quello di ieri siamo al terzo suicidio in tre settimane a Poggioreale. Evidentemente c’è qualcosa che non funziona”. Ma cosa porta un carcerato all’esasperazione e quindi a commettere un gesto estremo come togliersi la vita? “I segnali ci sono e potrebbero emergere se vi fossero più psicologi e assistenti sociali per i detenuti. Invece a Poggioreale c’è uno specialista per ogni 200 reclusi. A spingere molti al suicidio è la brutalità di questo istituto di pena, la sopravvivenza in una cella dove le pareti sono incandescenti con le temperature di questi giorni, dove vivono in 12 in 10 metri quadrati”. Altra nota dolente i colloqui. Proprio ieri una donna di 70 anni è rimasta coinvolta in una rissa, dato che lo spazio a pianterreno per accedere ai colloqui diventa una cappa di calore e fumo, dove i familiari, tra cui molti bambini, sono stipati l’uno sull’altro. “Un’odissea - incalza Ioia - poiché ieri molti familiari sono usciti alle 19, dopo un’attesa iniziata alle 7, che incrementa risse e svenimenti con queste temperature africane. Gli stessi detenuti in attesa del colloquio vengono parcheggiati in una stanza a 70-80 per volta”. Infine, ma tutt’altro che trascurabile, la questione vitto. “I carcerati pagano il doppio per ogni prodotto acquistato. Un chilo di pasta arriva a costare anche un euro e 70 centesimi, mentre all’esterno costa 90 centesimi. Ma c’è di più, come riferiscono gli stessi detenuti. Le marche sono scadenti, molti prodotti arrivano scaduti e le ditte fornitrici sono sempre le stesse da anni. Verrebbe da chiedersi: come mai? Ecco perché invitiamo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a venire subito a Poggioreale”. Paola (Cs): detenuto in sciopero della fame muore, a rischio ospite del carcere di Rossano quicosenza.it, 9 agosto 2018 L’uomo che ha perso la vita per contestare le condizioni detentive nelle carceri calabresi era un ragioniere campano, a Rossano un ingegnere anch’egli in sciopero della fame dal 10 maggio rischia di fare la stessa fine. In Calabria si continua a morire di carcere. Qualche giorno fa un detenuto ristretto nella Casa Circondariale di Paola, è morto nel locale Presidio Ospedaliero, dopo uno sciopero della fame. Si chiamava Gabriele Milito, 75 anni, ragioniere di Sapri. Accusato di aver ucciso la moglie era in attesa di giudizio. Dopo un periodo trascorso nella Casa Circondariale di Potenza, aveva ottenuto gli arresti domiciliari in un appartamento di Scalea. Pare avesse trasgredito gli obblighi impostigli dall’Autorità Giudiziaria competente, ragion per cui venne tradotto presso il Carcere di Paola. Con la sua morte, nel 2018 sino ad oggi, i decessi nelle Carceri italiane, salgono ad 80 di cui 34 per suicidio (2.814 morti, 1.020 dei quali per suicidio, dal 2000 ad oggi). “Un altro detenuto - spiega Emilio Quintieri dei Radicali - ristretto nella Casa di Reclusione di Rossano, rischia di fare la stessa fine. Sempre per lo sciopero della fame. Si tratta di Victor Pereshacko, Ingegnere Informatico ed Imprenditore nel settore pubblicitario, ex Paracadutista dell’Armata Rossa, Forza Armata della Federazione Russa, in espiazione della pena dell’ergastolo per un duplice omicidio commesso - insieme ad un altro connazionale - in Sardegna nel 2005. A Pereshacko, il 30 aprile 2014, venne proposto dallo Stato Italiano, di essere trasferito nel suo Paese, in Russia, per scontare la pena residua. Ed ha immediatamente accettato, firmando tutti gli atti necessari. Nonostante il notevole lasso di tempo trascorso (oltre 4 anni), la procedura di trasferimento, non è stata definita. Pare che la causa di tutto ciò sia da attribuire allo Stato Italiano ed in modo particolare al Ministero della Giustizia poiché non avrebbe trasmesso, nonostante le ripetute richieste del Ministero della Giustizia della Federazione Russa, tutti gli atti del processo conclusosi con la condanna al fine pena mai. Per tale ragione, l’ex militare russo recluso a Rossano, dal 10 maggio, sta praticando lo sciopero della fame per protestare “contro la inoperosità premeditata della Autorità Italiana”. Nell’ultima visita che ho fatto al Carcere di Rossano, il 23 giugno, sono passato a trovarlo, pregandolo di interrompere lo sciopero. Era molto debilitato, a malapena riuscí a raccontarmi un po’ la sua vicenda dicendomi “grazie per il suo interessamento, ci penserò se smettere lo sciopero”. Ma non ha smesso, come emerge da una lettera che mi ha scritto: “Ho perso più di 20 chili di peso e come sto potete immaginare. Molti cercano di convincermi di smettere. E perché? Per far tornare il tutto come prima? Qualche anno fa, nel Carcere di San Gimignano, ho avuto il piacere di incontrare Marco Pannella. Ho conosciuto quest’uomo e sempre avuto rispetto per la sua lotta per i diritti civili. Ora però tocca a me, il mio diritto che è stabilito dalle leggi internazionali, è violato e di brutto. La procedura di estradizione dura da anni, io sono sempre qui e non si muove niente. Non ho intenzione di smettere lo sciopero della fame finché non mi venga riconosciuto il diritto ad essere estradato nel mio Paese”. Spesso, e di recente ancora più frequentemente, leggo varie dichiarazioni pubbliche di alcuni Ministri, Sottosegretari e Parlamentari (principalmente della Lega Nord, del Movimento Cinque Stelle e di Fratelli d’Italia) che parlano di trasferimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi per sfollare le nostre carceri. Ovviamente sono soltanto chiacchiere e la situazione di Victor Pereshacko ne è la prova evidente. Naturalmente non è il solo caso di cui sono a conoscenza. Negli Istituti Penitenziari della Calabria (come nel resto d’Italia) vi sono altri detenuti stranieri con decreto di espulsione emesso dal Magistrato di Sorveglianza che non viene eseguito e tanti altri ancora che vorrebbero essere trasferiti nei loro Paesi per espiare la loro pena ed a cui, per svariati motivi, tale diritto viene negato. Mi chiedo a cosa servano le Convenzioni multilaterali e gli Accordi bilaterali stipulati dall’Italia con numerosi Paesi Esteri visto che poi non vengono messi in attuazione? L’Italia (al pari della Federazione Russa), ha aderito e ratificato la Convenzione per il trasferimento delle persone condannate, fatta a Strasburgo il 21 marzo 1983. Quindi, per quale motivo, dopo oltre 4 anni, non viene definito l’iter per il trasferimento dell’ergastolano russo Pereshacko dall’Italia alla Russia? Cosa si aspetta ? Che anche lui come Gabriele Milito debba passare a miglior vita? Oltre a garantire un diritto previsto dal nostro Ordinamento, si libererebbe un posto e si risparmierebbero tanti soldi per la vigilanza, il trattamento ed il suo mantenimento in Istituto (137 euro al giorno). Aspettiamo fiduciosi che alle parole seguano i fatti. In ogni caso, prossimamente, segnalerò la questione alle Autorità Penitenziarie, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti presso il Ministero della Giustizia (oltre a sollecitare una Interrogazione Parlamentare al Governo). Il tutto, in Calabria, viene ulteriormente “aggravato” perché sono completamente inesistenti i Garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Quello regionale, seppur istituito, non viene eletto dal Consiglio Regionale. Quelli Provinciali e Comunali (salvo Reggio Calabria) non sono stati ancora nemmeno istituiti dalle Province e dai Comuni competenti (e non credo che abbiano intenzione di istituirli). Nei prossimi giorni, autorizzato dal Dap del Ministero della Giustizia, faró visita alle Carceri di Cosenza, Paola, Castrovillari e Rossano”. La Spezia: aperte due inchieste sul suicidio in carcere di Nadhir Garibizzo di Paolo Isaia Il Secolo XIX, 9 agosto 2018 Doppia inchiesta sul suicidio in carcere a La Spezia, domenica sera, di Nadhir Garibizzo, l’ex medico imperiese di 59 anni arrestato il 12 giugno per il tentato omicidio del figlio di un avvocato del capoluogo, Elena Pezzetta, che l’aveva assistito in alcune cause civili: era entrato nell’abitazione della legale con corde, nastro adesivo e un coltello, e poi si era scagliato contro il bambino, di soli 8 anni. Lo avevano fermato il padre, assieme ad un amico, consegnandolo poi ai carabinieri. A fare luce sulle circostanze della morte di Garibizzo, che si è reciso un’arteria femorale utilizzando la lametta del rasoio da barba (il cui possesso era consentito), saranno la Procura della Spezia e la polizia penitenziaria, attraverso un’indagine interna. Oggi o domani, verrà eseguita l’autopsia. L’obiettivo è stabilire, in particolare, se il regime di detenzione adottato per l’ex medico fosse adeguato alle sue condizioni di salute mentale. Garibizzo, infatti, era in attesa di essere sottoposto a una perizia psichiatrica, chiesta sia dalla Procura di Imperia che dal suo difensore, l’avvocato Andrea Artioli. La consulenza, che doveva essere ancora affidata, avrebbe dovuto stabilire l’eventuale vizio di mente dell’uomo, parziale o totale, e quindi se fosse o meno necessario trasferirlo in una struttura protetta, ossia un Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Anche perché l’uomo, nel 2001, aveva ucciso l’amante, Ornella Marcenaro, occultandone poi il cadavere, salvo poi confessare il delitto: proprio in seguito a quell’omicidio, era stato dichiarato parzialmente incapace di intendere e volere, con conseguente riduzione della condanna. Per avere ucciso l’amante, aveva scontato 12 anni di reclusione. Che Nadhir Garibizzo non fosse una persona completamente “lucida”, insomma, era noto, anche davanti alle sue ossessive battaglie giudiziarie che portava avanti fin da quando era stato scarcerato. Con denunce contro avvocati, giudici e chiunque si mettesse sulla sua strada. In questo quadro, le due inchieste puntano come detto ad accertare se sia stato fatto tutto il possibile per impedire il suicidio dell’uomo: era sufficientemente sorvegliato? Bergamo: in carcere controlli più rigidi anche per avvocati e volontari di Armando Di Landro Corriere della Sera, 9 agosto 2018 Il nuovo “regime” dopo i ruoli saltati a causa delle indagini. Un mondo ribaltato, stravolto, rispetto a prima. Come se l’11 giugno fosse arrivato un terremoto capace di costringere tutti a cambiare abitudini. Per forza. Perché quel giorno non è stato arrestato semplicemente l’ex direttore del carcere di via Gleno, Antonino Porcino, che era già formalmente in pensione da 11 giorni. Ai domiciliari erano finiti anche il direttore sanitario Franco Bertè, oggi libero, il comandante della polizia penitenziaria Antonio Ricciardelli, era stata perquisita e poi trasferita la responsabile infermeria Adriana Teresa Cattaneo. Era successo di tutto, con una conseguente situazione di tensione e incertezza, a tratti. Ma con una reazione anche puntuale, coincisa con l’incarico ad interim, e quindi provvisorio, di Teresa Mazzotta come direttrice, in parallelo al ruolo di direttore aggiunto a San Vittore. La gestione della polizia penitenziaria avviene tramite responsabili, anche loro temporanei, distaccati da altri istituti di pena in Lombardia, commissari capi in particolare. E le perquisizioni all’interno delle celle sono diventate sicuramente più frequenti rispetto al passato. Ma accade anche altro: sembra esserci una stretta, infatti, anche sulle abitudini del passato di chi entra in carcere dall’esterno, per lavorare, in particolare avvocati e operatori sociali. Più di un penalista, ad esempio, sarebbe stato invitato a lasciare la borsa nelle cassette di sicurezza, prima di andare a incontrare il suo assistito, tenendosi i documenti in mano. E ai volontari sarebbe stato imposto di lasciare all’ingresso portafogli, chiavi dell’auto o occhiali da sole. Tutti a “ripassare” le regole, insomma, che sotto certi aspetti sembravano un po’ sbiadite, o quantomeno poco applicate, da un po’ di anni. Se questa resterà la prassi, per il carcere di via Gleno, non è chiaro. Sembra però che Teresa Mazzotta, 59 anni, voglia chiedere l’incarico permanente proprio nella casa circondariale di Bergamo, dopo l’interim e dopo anni di esperienza a Milano. Torino: conferenza “L’esecuzione penale tra vecchie e nuove emergenze” notizieinunclick.it, 9 agosto 2018 “Le relazioni periodiche sullo stato delle carceri hanno il pregio di presentare dati inoppugnabili che ci aiutano a stabilire la verità su quanto ci viene raccontato a proposito di quanto avviene nel nostro Paese. E la verità dei dati su quanto succede in Italia dimostra chiaramente che non ci troviamo dinanzi a un’emergenza criminalità, dal momento che nel 2018, rispetto al 2017, i reati sono scesi da 25.160 a 24.000. E dimostra anche che non è vero che l’invasione degli immigrati sta mettendo in dubbio la sicurezza delle nostre vite e delle nostre famiglie, se consideriamo che i reati commessi nel 2008 dai 3 milioni di stranieri residenti in Italia sono stati 21.000 e quelli commessi dai 6 milioni di residenti nel 2018 sono stati 19.000”. Con queste parole il presidente del Consiglio regionale Nino Boeti ha aperto la conferenza stampa sull’esecuzione penale in Italia e in Piemonte che si è svolta questa mattina a Palazzo Lascaris. All’incontro, organizzato e moderato dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano, sono intervenuti il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Liberato Guerriero, i garanti comunali dei detenuti di Torino e di Alba Monica Cristina Gallo e Alessandro Prandi e Benedetta Perego dell’Associazione Antigone. Tra le criticità più rilevanti, hanno sottolineato con sfumature differenti i relatori, spicca il ciclico riproporsi del sovraffollamento: al momento i detenuti nelle 13 carceri piemontesi sono 4.402. Torino, che dovrebbe ospitarne 1.000, ne ha oltre 1.400 e la capienza totale per il Piemonte è di 3.900 detenuti. Accanto al sovraffollamento rappresentano un ostacolo troppo spesso insormontabile la presenza di carceri e strutture logorate da anni di utilizzo e la mancata capacità dell’amministrazione di adeguarsi alle nuove norme, che chiedono al carcere di promuovere attività formative e lavorative che facciano del tempo trascorso in carcere qualcosa di diverso dal semplice essere rinchiusi dietro le sbarre. “Tra le cose che è necessario migliorare - ha concluso Mellano - c’è certamente la necessità di un’interlocuzione più forte, più chiara e più netta tra l’amministrazione penitenziaria, che ha competenza generale sul carcere dal punto di vista custodiale e progettuale, l’amministrazione regionale per quanto riguarda la sanità, il lavoro, la formazione e l’istruzione e gli enti locali, soggetti irrinunciabili per la pianificazione di tutti i percorsi di reinserimento”. Padova: l’Istituto scolastico Belzoni da tinteggiare, ci pensano i detenuti Il Gazzettino, 9 agosto 2018 Saranno alcuni detenuti della Casa di reclusione di Padova a tinteggiare, durante l’estate, le aule scolastiche dell’Istituto Belzoni. L’iniziativa nasce grazie a un progetto elaborato dall’associazione Onlus Gruppo Operatori Carcerari Volontari (Ocv), approvato anche dalla Provincia, proprietaria dell’immobile in cui ha sede il Belzoni, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che ha stanziato un finanziamento, e dalla direzione della Casa di reclusione. Il protocollo d’intesa operativo è stato già firmato dal presidente della Provincia Enoch Soranzo e sarà sottoscritto nei prossimi giorni anche dagli altri enti coinvolti. “Siamo felici di poter dare il via a questo progetto - ha detto Soranzo. Il messaggio che arriverà agli studenti stessi, oltre che ai cittadini, sarà infatti molto forte e avrà molteplici letture. È giusto dare una chance di riscatto a chi, pur avendo commesso degli errori, ha dimostrato di averli compresi e di voler cambiare strada. Solo per il 2018 come Provincia siamo riusciti a mettere a bilancio 12 milioni e 875 mila euro per lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria negli istituti scolastici superiori di nostra proprietà. Non è poco, viste le difficoltà degli anni scorsi causate dai tagli ai bilanci voluti dallo Stato, soprattutto questo ci garantisce di riavviare una serie di lavori sui nostri edifici. A questo si uniscono opere di riqualificazione energetica per oltre 5 milioni 700 mila euro, che verranno assicurate grazie al progetto”.I lavori dureranno per tutto agosto, per finire prima dell’inizio del nuovo anno scolastico.”Siamo di fronte a un’aula fatiscente che tornerà alla bellezza e alla vita grazie all’impegno e all’onesto lavoro di questi detenuti - ha sottolineato il consigliere delegato della Provincia Luciano Salvò. È un segnale educativo forte, stiamo dicendo che c’è sempre speranza per il futuro. Ed è un momento positivo anche per queste persone che, una volta chiuso il conto con la giustizia, avranno qualche chance in più per reinserirsi nel mondo del lavoro. Il carcere dovrebbe servire a rieducare le persone e le istituzioni padovane dimostrano di guardare lontano collaborando insieme per il bene della comunità e del territorio. Ora mi auguro che, una volta iniziato l’anno scolastico a settembre, i ragazzi abbiano cura della loro scuola e capiscano quanto sia faticoso reintrodursi nella società dopo il carcere”. L’Associazione Onlus Ocv e la Casa di reclusione individuano e promuovono azioni rivolte a persone detenute per offrire, mediante lavoro all’esterno, occasioni di formazione professionale e di esperienza lavorativa utili al reinserimento sociale a fine della pena. In questo modo l’intento è quello di ridurre le possibilità di recidiva. Roma: “Rebibbia 24”, il racconto del teatro “segreto” dei detenuti di Emanuele Amarisse farodiroma.it, 9 agosto 2018 Gli allievi del Dams dell’Università di Roma Tre hanno realizzato il docu-film “Rebibbia 24”, regia di Fabio Cavalli, con la partecipazione dei detenuti nel Teatro di Rebibbia. Il docu-film, realizzato anche con l’utilizzo di droni e smart-phone, racconta come studenti e venti detenuti hanno collaborato per portare in scena l’Amleto attingendo alla storia personale dei protagonisti. Il teatro di Rebibbia si trasforma in un “teatro segreto”, come lo definisce con stupore la studentessa cinese Yaya Jia, un tempio dove l’arte livella le differenze, rompe le barriere, infrange le pareti della prigione materiale e di quella del pregiudizio nei confronti di uomini e donne che, seppure detenuti, hanno un cuore che brucia per il dolore o per la gioia, hanno una storia, un passato ma anche un futuro. Il docu-film dimostra, infatti, che la prigione dove è rinchiuso non deve oscurare l’orizzonte del detenuto, come testimonia uno di loro alle telecamere: “Io sono in carcere da tanto tempo. Sono stato arrestato che avevo solo la seconda elementare. L’anno prossimo mi laureo in giurisprudenza. Oggi mi ritengo un uomo di legge. “ Sul palcoscenico del teatro di Rebibbia si è manifestata la “contraddizione, bellezza e fascino dell’arte: non importa da dove vieni, chi sei, cosa hai fatto di giusto o sbagliato”, perché nell’arte l’uomo ritrova sé stesso. Ferrara: con “Limbici” i detenuti si scoprono fotografi e modelli estense.com, 9 agosto 2018 La mostra fotografica in carcere è inserita nel programma del Festival di Internazionale. Nelle giornate di venerdì 5 e sabato 6 ottobre, all’interno della casa circondariale di via Arginone, sarà possibile visitare una mostra fotografica a più mani in cui gli stessi detenuti, nei sei mesi di laboratorio, si sono ritratti attraverso fotografie realizzate direttamente da loro e tra di loro sotto forma di scatti ed autoscatti, diventando al tempo stesso fotografi e modelli e trasformando così l’aula del carcere in uno studio fotografico dove poter esprimere liberamente le proprie emozioni. La mostra intitolata “Limbici”, curata da Cristiano Lega e dall’associazione Feedback e resa possibile grazie al patrocinio del Comune di Ferrara e al supporto di Rce Foto Rovigo e Coop Alleanza 3.0, farà parte del programma del Festival Internazionale di Ferrara e delle iniziative riguardanti il progetto “La città incontra il carcere”, il cui scopo è quello di far conoscere alcune fra le diverse attività formative in atto all’interno dell’istituto penitenziario. Dal punto di vista organizzativo, per visitare la mostra sarà obbligatorio prenotarsi entro il 5 settembre, inviando una e-mail a info@giornaleastrolabio.it indicando: nome e cognome, luogo e data di nascita e allegando la scansione della carta di identità per potervi accedere il 5 ottobre, con ingresso gratuito, partecipando a “La città incontra il carcere” oppure il 6 ottobre, partecipando allo spettacolo teatrale “Ascesa e caduta degli Ubu”, prodotto da Teatro Nucleo, con gli attori della casa circondariale di Ferrara, per cui sarà necessaria però la prenotazione, sempre entro il 5 settembre, inviando una e-mail a teatroccferrara@gmail.com in modo da poter acquistare il biglietto di partecipazione allo spettacolo con posto unico di 10 euro. Gli addetti ai lavori tengono a precisare infine che l’ingresso alla casa circondariale è consentito ai maggiori di 18 anni incensurati e non è permesso ai parenti dei detenuti reclusi nel carcere di Ferrara. Metà della popolazione mondiale non ha accesso a cure sanitarie di base Il Sole 24 ore, 9 agosto 2018 Ogni anno 100 milioni di persone sono spinte verso la povertà estrema a causa delle spese sostenute per la salute. Lo scrive un nuovo rapporto della Banca Mondiale e dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Secondo il documento quasi 800 milioni di persone nel mondo spendono più del 10% delle proprie entrate per la salute, e tra queste per 180 milioni la percentuale supera il 25%. Secondo lo studio ogni giorno più di 800 donne muoiono per cause legate alla gravidanza e al parto. E quasi 20 milioni di bambini non ricevono le vaccinazioni di cui hanno bisogno, correndo quindi il rischio di morire di malattie come la difterite, il tetano, la pertosse e il morbillo. Anche quando i servizi sanitari sono disponibili, utilizzarli può significare andare in rovina da un punto di vista finanziario. Ogni anno 100 milioni di persone sono spinte alla povertà a causa della spesa sanitaria e 179 milioni di persone spendono più di un quarto del proprio bilancio familiare per l’assistenza sanitaria - un livello che consideriamo essere “spesa sanitaria catastrofica”. Migranti. L’ipocrisia dopo le stragi di Alessio Viola Corriere del Mezzogiorno, 9 agosto 2018 Tutti colpevoli, nessun colpevole dunque. Ma questa è una strage annunciata. Preparata, attesa e prevista. Ed è una strage per cui ci sono i colpevoli, eccome se ci sono. Le estati del 1969/70, per dire. Gli studenti del movimento furono inviati nelle campagne di Puglia sul modello maoista, a conoscere la durezza di quel lavoro. E a partecipare alla lotta al caporalato, quello del tempo identico a quello di oggi. Nelle campagne del Salento, a Taurisano o a Corsano, fino al Tavoliere di Trinitapoli, San Ferdinando, Cerignola, gruppi di studenti insieme ai braccianti della Cgil e a quadri del Pci inseguirono per tutta l’estate i caporali. Con blocchi stradali, picchetti, azioni di volantinaggio e propaganda nei paesi, manifestazioni e cortei mandarono di traverso ai caporali il loro pranzo fatto di carne umana. Era facile bloccarli. Tutti sapevano, come sappiamo oggi, dove sono i caporali, dove riuniscono gli schiavi di chi sono i furgoni, chi riscuote le tangenti, e soprattutto chi tutto questo mette a profitto. Certo possiamo fare del moralismo un tanto al chilo, e batterci il petto perché il nostro ketchup e i nostri pelati sanno di sangue, ma è fariseismo ideologico. Follow the money, chi guadagna dal mercato degli schiavi? E c’è bisogno di riunire tavoli faraonici, inutili e costosi per capirlo? Tutti colpevoli? No. I colpevoli hanno nomi e cognomi. Per evitare elenchi lunghissimi: i ministri di questi ultimi anni dell’agricoltura, al massimo capaci di varare leggi che non hanno fatto mai applicare, compreso il nuovo. I ministri dell’Interno, compreso l’ultimo, che si lavano la coscienza mandando dopo una strage o dopo ogni omicidio il contingente che va via dopo una settimana, e dopo aver fermato “i soliti sospettati”. I sindaci. Si proprio loro, quelli cui la legge attribuisce poteri che prima non avevano e che non fanno nulla perché lo schiavismo scompaia: guardiamo chi sta dietro certe elezioni per capire le responsabilità. La Regione, quella di Vendola come questa di Emiliano. Sulle precedenti meglio tacere. Due presidenti buoni a tutto per tenere alta l’immagine della Puglia e la loro personale, ma a nulla per cancellare dalla geografia le terre degli schiavi. La Protezione civile ha dotazioni strumentali e di organico in grado di fronteggiare emergenze improvvise e straordinarie. È in grado di mettere su una tendopoli in poche ore per supplire al crollo mai avvenuto di un palazzo di giustizia. Ma non viene impiegata in quelle terre. Basterebbe spianare tutto, e invece di andare via una volta spente le telecamere, mandare i volontari a mettere su tendopoli, mense e ospedali da campo, garantire vigilanza intorno a questi villaggi del lavoro e non della schiavitù. I sindacati manifestano dopo le stragi, i partiti di sinistra in via di estinzione sono da censurare. E poi le forze dell’ordine, che dovrebbero pattugliare le piazze degli schiavisti, arrestarli, braccarli, non dargli respiro. È insopportabile l’ipocrisia dopo la strage. È una passerella di vanità dietro la commozione pelosa. Resta il tema dell’accoglienza che sollevammo tempo fa sul Corriere del Mezzogiorno. Tutti bravi a dire “accogliamoli”. Ma il problema non sono gli sbarchi, è quello che lasciamo sia fatto loro a rendere orribile questa parola. Accoglienza per farli massacrare? Fate qualcosa, maledizione. Se esiste un dio, vi maledirà in eterno. Migranti rinchiusi o annegati di Paolo Lambruschi Avvenire, 9 agosto 2018 Amnesty contro Ue, Italia e Malta “complici” della Libia. Sempre più morti sulla rotta del Mediterraneo centrale a fronte del drastico calo delle partenze e la crescita esponenziale di migranti detenuti arbitrariamente nei 20 centri libici in condizioni estreme dopo essere stati fermati dalla Guardia costiera tripolina. Conseguenze per Amnesty International delle politiche europee di chiusura e delle scelte recenti del nuovo governo italiano e di Malta, messi sotto accusa nel documento intitolato ‘Tra il diavolo e il mare blu profondo. L’Europa fallisce su rifugiati e migranti nel Mediterraneo centrale”‘ che punta il dito contro “l’impatto devastante delle politiche che hanno provocato oltre 721 morti in mare solo da giugno e luglio 2018” nonostante la diminuzione dell’85% delle partenze rispetto al 2017. E per Amnesty lasciare i migranti alla Guardia Costiera di Tripoli equivale ad esporli a violenze e abusi una volta a terra. “La responsabilità per il crescente numero di vittime è riconducibile ai governi europei, più preoccupati di tenere le persone lontane che di salvare vite umane”, afferma Matteo de Bellis, ricercatore su asilo e migrazione per Amnesty International. “Le politiche europee - prosegue - hanno autorizzato la Guardia costiera libica a intercettare le persone in mare, tolto la priorità ai salvataggi e ostacolato il lavoro vitale delle Ong”. Amnesty segnala il drammatico aumento del numero di detenuti arbitrariamente nei centri sovraffollati e roventi in Libia, più che raddoppiato negli ultimi mesi, dai circa 4.400 a marzo ai più di 10.000 - tra cui circa 2.000 donne e bambini - a fine luglio. “Praticamente tutti portati nei centri dopo essere stati intercettati in mare e riportati in Libia dalla Guardia costiera libica, equipaggiata, addestrata e supportata dai governi europei”, accusa Amnesty che definisce i piani per espandere l’esternalizzazione dei controlli nella regione “profondamente preoccupanti” e accusa Ue, Italia e Malta di complicità con i libici. L’organizzazione in difesa dei diritti umani ricorda il fallimento europeo che ha impedito di rivedere le regole di Dublino sulla redistribuzione dei richiedenti asilo e che ha indotto l’Italia a negare l’ingresso nei porti alle navi che trasportavano le persone salvate, fossero di Ong, mercantili o navi militari straniere, perché venissero accolti da altri Stati. Così, sottolinea Amnesty International, sono state bloccate per giorni in mare persone che necessitavano di assistenza urgente. L’accusa all’Italia è “usare le vite umane come moneta di scambio”. Il report denuncia anche illegalità come il respingimento in Libia da parte della nave commerciale italiana Asso 28 il 30 luglio, che avrebbe violato le norme europee sui respingimenti soccorrendo e riportando a Tripoli 100 migranti tra cui 5 donne e 5 bambini. Per far luce sulla vicenda ieri personalità della cultura, della società civile, politici, giuristi e intellettuali hanno presentato un esposto alla procura di Napoli. Migranti. Amnesty: “Italia e Malta colluse con la Libia” di Marina Della Croce Il Manifesto, 9 agosto 2018 Non è vero che tenendo i migranti bloccati in Libia e impedendogli di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia gli si salva la vita. Così come non è vero che al calo degli arrivi nel nostro paese corrisponde una diminuzione delle tragedie in mare. Anzi, è vero proprio il contrario. Tra giugno e luglio del 2018, cioè nei due mesi appena trascorsi, sono stati ben 721 i rifugiati e i migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale dopo essersi imbarcati in Libia, 1 ogni 16 rispetto all’1 ogni 64 registrato nei primi cinque mesi dell’anno, vale a dire prima che le politiche ulteriormente restrittive del nuovo governo giallo verde entrassero in vigore. A denunciare quanto davvero accade quotidianamente nel tratto di mare tra Libia e Italia è Amnesty international in un rapporto intitolato “Tra i diavolo e il mare blu profondo. L’Europa viene meno ai rifugiati e ai migranti nel Mediterraneo centrale”, 27 pagine in cui l’ong accusa Italia, Malta e la stessa Unione europea di complicità con i libici per le continue violazioni dei diritti umani perpetrate a danno dei migranti nel paese nordafricano. Ma nelle quali si spiega anche come continuare rifornire di mezzi la Guardia costiera libica (il decreto che autorizza la fornitura di altre 12 motovedette a Tripoli è stato approvato solo tre giorni fa dal parlamento) serva solo a far aumentare il numero di reclusi nei centri di detenzione libici, donne e bambini compresi. “Nonostante il calo del numero di persone che tentano di attraversare il Mediterraneo negli ultimi mesi, il numero dei morti è aumentato”, spiega Matteo de Bellis. ricercatore su asilo e migrazione per Amnesty. “La responsabilità per il crescente numero di vittime è riconducibile ai governi europei che sono più preoccupati di tenere le persone lontane che a salvare vite umane”. Sono anni che si conoscono le condizioni disumane in cui i migranti vengono tenuti prigionieri nei centri libici, anche quelli gestiti da Tripoli e non solo dai trafficanti. Al punto che dopo il vertice tra Unione europea e unione africana che si è tenuto nel novembre scorso in Costa d’Avorio, si è deciso di avviare un lavoro di svuotamento - seppure lento - dei campi con il contributo dell’Unhcr e dell’Oim e il trasferimento in Niger delle persone che vi sono rinchiuse. Centri di detenzione, denuncia adesso Amnesty, che si stanno di nuovo riempiendo proprio per le operazioni di contrasto della Guardia costiera libica, tanto che negli ultimi mesi il numero dei detenuti è più che raddoppiato, passando dalle 4.400 persone di marzo (nei centri governativi) alle oltre 10.000 della fine di luglio, tra le quali circa 2.000 sono donne e bambini. “Praticamente tutti sono stati portati nei centri dopo essere stati intercettati in mare e riportati in Libia dalla Guardia costiera libica, che è equipaggiata, addestrata e supportata dai governi europei”, accusa il rapporto. U concetto reso ancora più esplicito da de Bellis: “Le politiche europee hanno autorizzato la Guardia costiera libica a intercettare le persone in mare, tolto la priorità ai salvataggi e ostacolato il lavoro vitale delle Ong - spiega il ricercatore -. Il recente aumento delle morti in mare non è solo una tragedia: è una vergogna”. A peggiorare la situazione c’è l’incapacità dimostrata dalla Ue di arrivare a una modifica del regolamento di Dublino che eliminasse il principio del paese di primo sbarco, permettendo una distribuzione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri. “In risposta a ciò - prosegue de Bellis - l’Italia ha cominciato a negare l’ingresso nei suoi porti alle navi che trasportavano persone salvate”, divieto rivolto no solo alle navi delle Ong, ma anche a quelle mercantili e perfino a quelle militari straniere, costringendo così persone spesso già fortemente traumatizzate a prolungare la loro permanenza in mare. “nel suo insensibile rifiuto di permettere ai rifugiati e ai migranti di sbarcare nei suoi porti, l’Italia sta usando vite umane come merce di contrattazione - conclude de Bellis. Inoltre le autorità italiane e maltesi hanno denigrato, intimidito e criminalizzato le Ong che cercando di salvare vite in mare, rifiutando alle loro barche il permesso di sbarcare e le ha anche confiscate”. Il rapporto si chiude chiedendo agli stati e alle istituzioni europee di riprendere le operazioni di salvataggio nel Mediterraneo assicurando “che i soccorsi siano sbarcati tempestivamente in paesi in cui non saranno esposti a gravi abusi e dove possono chiedere asilo”. “Il ministro dell’Interno Salvini non può continuare a far finta di niente, autoincensandosi - ha commentato l’esponente di Possibile -: il suo operato disumano sta facendo aumentare il numero di persone morte in mare. Tutte le storielle che racconta su business dell’immigrazione si stanno rivelando per quello che sono: fandonie e propaganda sulla pelle degli ultimi”. Migranti. A Foggia la doppia protesta contro lo sfruttamento di Gianmario Leone Il Manifesto, 9 agosto 2018 Le due manifestazioni dopo la strage dei braccianti stranieri. I campi chiusi per sciopero. Una giornata di protesta e di lotta come non si vedeva da tempo. Uno sciopero che ha avuto un’adesione totale da parte dei braccianti stagionali e due grandi manifestazioni che hanno riempito le strade di Foggia e della sua provincia. Per dimostrare che nonostante l’indifferenza e un sistema difficile da debellare, fatto di caporalato, di sfruttamento dei migranti in molte aziende agricole, dell’ombra della mafia e degli interessi enormi della filiera della grande distribuzione, c’è ancora voglia di lottare e non arrendersi. La giornata è iniziata molto presto. Alle 8 è infatti partita dal ghetto di Rignano, nel comune di San Severo, cuore della protesta, la marcia dei berretti rossi organizzata dall’Usb e Rete Iside alla quale ha partecipato anche il governatore Michele Emiliano. “È stata totale l’adesione dei lavoratori allo sciopero. Nessuno è al lavoro nei campi intorno al ghetto di Rignano” hanno assicurato dall’Usb. Centinaia di lavoratori hanno sfilato con i cappellini indossati dalle vittime, distribuiti da Usb e Rete Iside “per aiutare i braccianti a proteggersi dal solleone e idealmente dallo sfruttamento e dalla mancanza di diritti”. Le rivendicazioni della marcia sono state le stesse esposte un mese fa al ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, “che aveva accolto le richieste - sottolinea il sindacato - promettendo un tavolo che non c’è mai stato. Chiediamo sicurezza, diritti e dignità per tutti i lavoratori agricoli”. “Basta morti sul lavoro”, “schiavi mai” alcuni degli slogan che hanno accompagnato la manifestazione mattutina, giunta davanti alla prefettura di Foggia dove centinaia di migranti, sostenuti da cittadini e associazioni, si sono radunati durante l’incontro che la delegazione ha avuto con il prefetto. All’arrivo è stato osservato un minuto di silenzio per ricordare i 16 morti nei due incidenti stradali avvenuti negli ultimi giorni sulle strade foggiane e tutti i caduti sul lavoro, compresi gli italiani morti nella miniera di Marcinelle l’8 agosto del 1956. Aboubakar Soumahoro, sindacalista italo-ivoriano dell’Usb, al termine della riunione ha raccontato di “risposte immediate” ricevute da prefetto e questura. Aggiungendo che il prefetto si è impegnato a “convocare dopo ferragosto una conferenza sul lavoro”, mentre sul rinnovo dei permessi di soggiorno, che in tanti aspettano da mesi, “la questura ha dato la disponibilità a ricevere un elenco che l’Usb presenterà ogni due settimane per affrontare i casi di rinnovo”. In più di duemila hanno invece sfilato per le strade del capoluogo dauno nella seconda manifestazione organizzata da Cgil, Cisl, Uil, con l’adesione di Arci, Libera e altre associazioni. In marcia, accanto a sindacalisti e migranti, ancora il governatore Emiliano e poi l’europarlamentare pugliese Elena Gentile, il deputato Roberto Speranza e l’attore Michele Placido. “Un senso di sconfitta è quello che si avverte quando accadono queste tragedie immani” hanno sottolineato i sindacalisti, per i quali “questa manifestazione è il momento del cambiamento, per dire basta a morti ammazzati di lavoro”. Il momento più toccante c’è stato quando sul palco ha preso la parola Mohamed, lavoratore migrante: “Non è una pacchia lavorare tutto il giorno per pochi euro o pagare 5 euro per salire sui furgoni della morte - ha gridato -. Come siamo giunti a questo punto? Come siamo passati dall’accoglienza diffusa al degrado diffuso? Chiediamo diritti, non l’impossibile. Vogliamo pari diritti per pari doveri”. Un altro lavoratore ha ricordato il dramma vissuto da ogni singolo migrante: “Le famiglie di quelle 16 persone in Africa soffrono per i loro cari che avevano lasciato tutto per venire in Italia a lavorare. Prima sono stati trattati come animali e poi sono morti”. Sul palco si sono poi alternati gli interventi dei segretari di Cgil, Cisl, Uil, le cui delegazioni sono giunte da tutta Italia, e dei presidenti delle associazioni che hanno aderito alla manifestazione. “Non sono incidenti, sono omicidi. Siamo stanchi - le ultime parole dal palco - di chi incita all’odio e ci accusa di buonismo”. Migranti. Trafficanti e caporali, due anelli di una lunga e feroce catena di Tonino Perna Il manifesto, 9 agosto 2018 Dopo l’ultima strage è aperta la caccia ai “caporali”. Si è scatenata una gara a chi attacca in maniera più dura i “caporali”, individuati come origine dello sfruttamento e della stessa morte dei lavoratori immigrati. Il cliché è esattamente lo stesso di quanto avviene da ormai troppo tempo rispetto alle stragi di migranti nel mar Mediterraneo: è tutta colpa dei mercanti di carne umana. Pertanto, lotta dura e senza paura contro i mercanti, per mare e per terra. L’attuale governo ha le idee chiare in proposito: eliminiamo “trafficanti e caporali” e il fenomeno immigratorio si spegnerà da solo così come le migliaia di braccianti che raccolgono pomodori nel foggiano o arance nella piana di Rosarno troveranno finalmente un lavoro regolare e pagato a tariffa sindacale. L’immaginario collettivo costruisce lo scenario: trafficanti di carne umana rapiscono i giovani dell’Africa, li costringono a lasciare la loro terra per venire in Europa, o nel migliore dei casi li ingannano con promesse di lavoro e ricchezza. Così come i “caporali” sfruttando i braccianti africani li costringono a lavorare per quattro soldi: scompare il ruolo dei proprietari terrieri, delle multinazionali del food, della grande distribuzione. Chi conosce le dinamiche che hanno investito in questi ultimi decenni le strutture agricole del Mezzogiorno, sa bene che finora quasi nulla si è fatto per affrontare seriamente il fenomeno dei braccianti africani, ridotti in condizioni di semi-schiavitù. I “caporali”, figura odiosa di un’ampia letteratura, sono solo un anello di una filiera di sfruttamento che si è intensificata in agricoltura da quando son venuti meno, per le piccole e medie aziende agricole, i contributi della Ue. Fino agli inizi di questo secolo la Comunità europea erogava, ad esempio per agrumi e pomodori, un contributo rilevante alle aziende di trasformazione in base alle fatture che presentavano. In breve tempo si è creato un cortocircuito illegale: le aziende agricole fatturavano alle imprese di trasformazione che presentavano a Bruxelles il conto per prendersi l’incentivo, indipendentemente da ogni controllo, facilmente aggirato con relativa corruzione. Consigliamo la lettera del volume di Fabio Mostaccio “La guerra delle arance”: nella piana di Gioia Tauro-Rosarno si producevano sulla carta quantità di succo di arancia superiori a quelle prodotte da Brasile e Spagna messe assieme, mentre le arance restavano sugli alberi e poi marcivano a terra nella bella stagione. Quando i contributi della Ue son venuti meno ed è caduto l’incentivo diretto alle aziende di trasformazione, allora i proprietari agricoli hanno dovuto ritornare sul mercato e tentare di vendere questi prodotti che subiscono una concorrenza spietata a livello internazionale, ma ancora di più subiscono i diktat della grande distribuzione che fa i prezzi ed affama chi produce. Quando un chilo di pomodoro viene pagato a meno di dieci centesimi o un chilo delle arance di Rosarno a 12 centesimi, piccole e medie imprese agricole sopravvivono solo grazie allo sfruttamento selvaggio della manodopera africana. Se non ci fossero questi immigrati che lavorano per venti euro al giorno, non avremmo più arance, pomodori e altri beni agricoli made in Italy. C’è una sola alternativa credibile anche se non immediata: la trasformazione della filiera agro-alimentare. Decine di casi di aziende agricole hanno assunto regolarmente braccianti italiani e stranieri che pagano rispettando i contratti nazionali grazie all’inserimento in reti di economia solidale (Gruppi di acquisto solidali, botteghe del Commercio equo, le associazioni e gruppi di “fuori mercato”, ecc.), che acquistano ad un prezzo anche cinque volte maggiore e vendono ai loro acquirenti e soci a prezzi spesso inferiori a quelli dei supermercati. Come è possibile ? Semplice saltano tutte le intermediazioni parassitarie. Più volte le inchieste della rivista “Altreconomia” ne hanno dato conto, mostrando la sostenibilità e l’efficacia di queste relazioni sinergiche, tra produttori e consumatori “consapevoli”, del Nord e del Sud del nostro paese, dove prezzo “giusto” e tutela ambientale (valorizzazione del bio, recupero essenze antiche, ecc.) vanno a braccetto. Francia. Allarme suicidi nel carcere dov’è rinchiuso anche Salah Abdeslam Reuters, 9 agosto 2018 Dall’inizio dell’anno undici detenuti si sono tolti la vita nella prigione a sud di Parigi. Inquietante catena di suicidi tra i detenuti del penitenziario di Fleury-Mérogis, uno dei più grandi d’Europa, dov’è attualmente incarcerato in condizioni di massima sicurezza anche Salah Abdeslam, l’ultimo superstite del commando terrorista responsabile degli attentati parigini del 13 novembre 2015. Dall’inizio dell’anno undici detenuti si sono tolti la vita nell’immensa prigione a sud di Parigi: dieci uomini e duna donna. In sette mesi, il macabro bilancio ha già superato il livello dei due anni precedenti. Una situazione inedita, scrive Le Monde, che preoccupa l’amministrazione penitenziaria. Con 70’710 detenuti nell’insieme del Paese, la Francia ha recentemente battuto il suo ultimo record nelle stime relative alla popolazione carceraria. Medio Oriente. Dopo i raid le forze di difesa israeliane potrebbero entrare a Gaza La Stampa, 9 agosto 2018 La reazione dopo i razzi di Hamas sulla città di Sderot, che hanno causato undici israeliani feriti. Poi 3 palestinesi sono morti sotto il bombardamento di risposta. Settanta razzi sono stati sparati dalla Striscia di Gaza verso Israele. La maggior parte sono finiti in aree aperte e non abitate. Quattro hanno invece colpito la città di Sderot, mentre 11 sono stati intercettati dal sistema Iron Dome. Lo hanno riferito militari e polizia israeliani. Due persone sono rimaste ferite, secondo le televisioni israeliane, che trasmettono le immagini di una casa e di auto danneggiate dai razzi. Secondo quanto riportano i servizi di pronto soccorso il primo ferito - di 34 anni - è stato colpito da schegge di vetro su braccia e gambe mentre il secondo ha riportato lievi lesioni. Altre otto persone sono state curate per attacchi di panico, tra cui donne incinte. La risposta di Israele è arrivata poco dopo - È seguita una notte di guerra da Gaza. Circa 150 tra razzi e colpi di mortaio sono stati sparati, secondo l’esercito, verso il sud di Israele che ha risposto colpendo circa 140 postazioni nella Striscia e causando tre morti, in base a informazioni dei media palestinesi, tra cui una donna incinta e la figlia. Undici i feriti in Israele, tra cui una donna in condizioni serie. Le sirene di allarme nel sud di Israele sono suonate 125 volte e il sistema anti missili ha intercettato almeno 25 razzi. A causa della situazione, in nottata il premier Benyamin Netanyahu e il ministro della difesa Avigdor Lieberman hanno tenuto una riunione di emergenza: secondo le prime informazioni è stato deciso di inviare ulteriori soldati attorno alla Striscia nel sud di Israele e di richiamare riservisti addetti al sistema di difesa Iron Dome. Ulteriori misure sono state prese per la popolazione delle aree intorno a Gaza. L’esercito ha fatto sapere di aver colpito negli attacchi nella Striscia almeno 20 postazioni militari di Hamas, tra cui una fabbrica per componenti per i tunnel, un’area usata dal comando navale di Hamas, un deposito di armi e una posto di raccolta per ufficiali a Khan Younis. Questa mattina presto, un velivolo israeliano ha colpito una squadra di lanciatori di razzi che aveva “appena tirato verso Israele”. Secondo i media palestinesi, i morti a Gaza nell’attacco israeliano alla parte centrale della Striscia sono 3 e almeno 12 i feriti: tra i primi la donna incinta e sua figlia di 18 mesi. A Sderot in Israele, la cittadina più colpita dai lanci da Gaza, i feriti sono appunto 11 tra i quali una donna di 30 anni considerata in condizioni serie. La nuova fiammata di guerra è cominciata ieri sera con i primi tiri da Gaza verso il sud di Israele che si sono intensificati durante la notte. Hamas aveva preannunciato che avrebbe risposto all’uccisione da parte di Israele di due suoi militanti nei giorni scorsi. In previsione, l’esercito aveva chiuso le strade nelle aree israeliane attorno all’enclave palestinese ed aveva messo in preallarme la popolazione. Dalle forze di difesa israeliane trapela la possibilità di una loro entrata a Gaza. Arabia Saudita. Diritti umani, contro Riad si muove solo il Canada di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 9 agosto 2018 Si è mosso solo il Canada. Lunedì 6 agosto la ministra degli Esteri Chrystia Freeland aveva chiesto al governo saudita di rilasciare alcuni attivisti arrestati. Tra di loro Samar Badavi, figura simbolo del movimento per la difesa dei diritti delle donne, già incarcerata in passato e sorella del blogger Raif Badawi, condannato a io anni di prigione e a mille frustate, cinquanta delle quali già eseguite. Il regime di Riad ha reagito con furore. Il principe Mohammed Bin Salman ha espulso immediatamente l’ambasciatore canadese Dennis Horak e ha interrotto le relazioni economiche, denunciando “l’inaccettabile interferenza” di Ottawa. Ciò che colpisce è l’imbarazzato silenzio della comunità occidentale. Il Canada è un Paese membro del G7, di cui fa parte anche l’Italia. E nonostante gli screzi tra il premier Justin Trudeau e Donald Trump, il rapporto speciale tra Canada e Stati Uniti resta fuori discussione. Eppure, al momento, c’è traccia solo di una sintetica dichiarazione della portavoce del Dipartimento di Stato americano, Heather Nuaert: “E una questione che devono risolvere diplomaticamente le due parti; non possiamo farlo noi”. Nel vuoto politico si è prontamente inserita la Russia. Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, ha diffuso una nota per appoggiare “gli sforzi riformatori in campo economico-sociale intrapresi dall’Arabia Saudita”, aggiungendo che c’è bisogno di “un’ostentata superiorità morale”. Trudeau ha replicato che “il Canada continuerà a parlare e a difendere i diritti umani”. Resta da vedere se continuerà a farlo in perfetta solitudine. Certo le ragioni dell’economia e della geopolitica pesano molto negli atteggiamenti delle capitali occidentali. Ma la difesa universale dei diritti umani, non a rate o solo quando è possibile, costituisce il patrimonio distintivo delle democrazie. Almeno finora è stato così. Bangladesh. Attacchi ai giornalisti, in carcere famoso fotografo di Raimondo Bultrini La Repubblica, 9 agosto 2018 Protesta delle associazioni professionali per l’ondata di violenze contro i reporter che documentavano le proteste degli studenti. Ultimatum di 72 ore al governo, poi i responsabili saranno resi pubblici in una campagna di stampa. Allarme per la sorte di Shahidul Alam, arrestato dopo un’intervista. I giornalisti del Bangladesh hanno dato un ultimatum di 72 ore al governo per arrestare i responsabili degli attacchi contro otto colleghi - qualcuno dice oltre venti - che documentavano le proteste degli studenti di Dacca sulla sicurezza stradale. L’Unione professionale ha annunciato in caso contrario una campagna di stampa a cominciare dall’11 agosto, per indicare al pubblico i responsabili, tutti a quanto pare membri dell’ala giovanile del partito di governo. È una sfida senza precedenti nel Paese con uno dei record più bassi di libertà di stampa, effetto collaterale ma strettamente legato alle proteste degli alunni delle secondarie superiori che dopo l’uccisione di due loro compagni da un autobus in corsa hanno paralizzato per più di una settimana le strade della capitale. I danneggiamenti iniziali di auto e bus, poi cessati, hanno dato il pretesto per le vendette violente da parte dei membri della Chaatra e della Awami League. Oltre all’alto numero di giornalisti feriti dai militanti pro governativi, a scuotere i social progressisti ci sono le circostanze inquietanti dell’arresto del noto fotografo bengalese Shahidul Alam, 63 anni, accusato di aver usato “commenti infiammatori” e giustificato le rivolte attribuendole a ben altri problemi che non quelli della sola sicurezza delle strade. Alam è stato portato via da uomini in borghese nella serata di domenica poco dopo la messa in onda di una sua intervista ad Al Jazeera. Alla domanda se le proteste studentesche riguardassero semplicemente la sicurezza stradale o qualcosa di più grande, Alam ha risposto “Molto più grande”. Ha parlato esplicitamente di un “bavaglio dei media”, del “saccheggio” delle banche nazionali, delle uccisioni extragiudiziali, della corruzione e della necessità di pagarsi una protezione armata. Quando Alam è apparso dopo qualche giorno in tribunale non era in grado di camminare da solo e mostrava segni di essere stato picchiato. Pochi i dubbi che i suoi commenti abbiano particolarmente irritato i leader della Awami Legue, timorosa di un complotto delle opposizioni per sovvertire il suo governo attraverso le manifestazioni di piazza per un diritto innegabile a una maggiore regolamentazione del traffico di 18 milioni di abitanti nella sola Dacca metropolitana. I commenti più duri del fotografo, che è molto stimato e ha ricevuto diversi premi per i suoi lavori, riguardavano la reazione spropositata alle proteste. “Oggi la polizia ha chiesto l’aiuto dei militari armati per combattere gli studenti disarmati”, aveva detto Alam. E aggiunto: “Il governo ha sbagliato i calcoli, pensava che la paura e la repressione sarebbero stati sufficienti ma non si può domare un’intera nazione in questo modo”. L’associazione Reporter senza frontiere ha detto che quello di domenica “è un giorno buio per la libertà di stampa” in Bangladesh, dopo che 23 giornalisti, senza contare l’arresto di Alam, sono stati attaccati mentre riferivano sulle proteste di quel giorno. L’organizzazione assegna al Bangladesh il numero 146 su 180 paesi nell’indice di libertà di stampa 2018. Nonostante i rischi, numerosi giornalisti e semplici cittadini hanno continuato a lavorare nelle strade di Dacca per documentare i tumulti e altri casi delicati per il partito di maggioranza. Alam nel frattempo è accusato di aver violato la sezione 57 dell’Information Communications Technology Act del Bangladesh, una legge definita draconiana per azzittire i media e il dissenso politico, contro chiunque “intenda depravare e corrompere” il pubblico, o sia causa di un “deterioramento della legge e dell’ordine”, oppure “pregiudichi l’immagine dello stato o di una persona”. Per questo un lavoratore delle piantagioni di gomma è stato arrestato dopo un post Facebook contro la primo ministro Shehik Hasina, seguito in cella da un altro blogger, categoria già presa di mira da un’ondata di delitti attribuiti ai radicali dell’Islam, a loro volta nemici della premier. Ma il fotografo Alam era stato il più esplicito di tutti dai canali di un media internazionale come l’araba Al Jazeera. Via Skype ha descritto l’uso di “bravi” armati dalla Chhatra League, mentre “la polizia sta osservando che succede”, e “In alcuni casi - ha precisato - sta davvero aiutandoli”.