La nuova riforma: detenuti psichiatrici, questi sconosciuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2018 Nel nuovo testo è stata eliminata l’equiparazione tra l’infermità psichica con quella fisica. Tolta l’equiparazione tra infermità psichica con quella fisica e la creazione di sezioni adeguate per gli infermi psichici. Questo è altro ancora è stato cancellato dal testo della riforma originale riguardante l’assistenza sanitaria. Se ieri su Il Dubbio abbiamo affrontato gli aspetti della vita detentiva completamente stravolti dal testo originale, oggi affrontiamo quello dal punto di vista sanitario. Il governo attuale ha in pratica recepito i pareri negativi delle commissioni parlamentari e ha lasciato intatto solo l’articolo 11 nel testo originale della riforma. È stato eleminato l’introduzione del nuovo art 11 bis relativo all’accertamento delle infermità psichiche. La novità della norma, di importanza sostanziale ma anche operativa nella difesa dei diritti alla salute mentale del detenuto, disponeva una volta per tutte l’accertamento delle condizioni psichiche degli imputati, condannati e internati, al fine di consentire l’adozione dei provvedimenti previsti dall’ordinamento che finora sono garantiti solamente per i detenuti con patologie fisiche: parliamo del rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena anche per infermità fisica, all’applicazione delle misure di sicurezza, nonché alla materia dell’accertamento della capacità di intendere e di volere finalizzata a stabilire l’imputabilità, ma anche di quella di stare in giudizio ai fini della eventuale sospensione del processo. Tutto però rimane come prima. Quella novità introdotta - buttata nel cestino dall’attuale governo - era volta proprio per allineare il codice penale alle nuove previsioni della riforma: il testo originale della riforma aggiornava anche il codice penale nella parte dell’art 147 (in tema di rinvio facoltativo dell’esecuzione per infermità fisica), laddove avrebbe dovuto essere aggiunta l’infermità psichica come ulteriore dicitura accanto a quella fisica. La nuova disposizione dell’art 11 bis, eliminata con un colpo di spugna nel decreto riscritto, prevedeva anche i termini dell’operatività dell’accertamento: anche d’ufficio, nei confronti degli imputati, il giudice procedente o il magistrato di sorveglianza - a seconda che si trattasse di imputato o condannato e internato - avrebbero potuto procedervi, disponendo che fosse svolto presso le apposite sezioni - anch’esse introdotte con un nuovo articolo 65 dal precedente testo di riforma e non recepite in quello nuovo, oppure presso un’idonea struttura indicata dal competente dipartimento di salute mentale, nel caso l’autorità giudiziaria avesse ritenuto di disporre in tal senso. Non solo, al fine di garantire celerità e certezza al procedimento di accertamento, la nuova norma fissava un termine per l’osservazione, che non sarebbe potuta durare per più di trenta giorni. Ma torniamo alle sezioni dell’art 65, che il vecchio testo aveva previsto e che il nuovo testo non ha recepito assieme all’art 11 bis. Si trattavano di sezioni per detenuti con infermità, previste proprio per colmare una lacuna operativa, per i casi in cui non fosse stato possibile in concreto applicare al detenuto una misura alternativa alla detenzione che gli consentisse un adeguato trattamento terapeutico-riabilitativo: le sezioni erano infatti previste, oltre che per i detenuti in corso di osservazione per l’accertamento della infermità, per i condannati con pena diminuita per accertato vizio parziale di mente nel corso del processo e per i detenuti affetti da infermità psichiche sopravvenute o per i quali non fosse stato possibile disporre il rinvio dell’esecuzione. Si trattavano dunque di sezioni volute dalla riforma, nell’evidente intento della tutela della finalità rieducativa della pena, ma anche del rispetto del diritto alla salute mentale - equiparata a quella fisica - del detenuto, per consentirgli cioè che l’esecuzione avvenisse senza rinunciare al trattamento terapeutico; del resto, proprio la finalità terapeutica giustificava la previsione della gestione di queste “sezioni speciali” da parte esclusivamente di operatori sanitari, e con l’obbligo, una volta terminato con buon esito il trattamento, di far rientrare il detenuto nelle sezioni ordinarie. Tutto questo è stato disatteso dal nuovo governo. La salute psichica era l’animo della riforma Orlando dal punto di vista sanitario, perché puntava sul detenuto psichiatrico come persona. Giustizia e democrazia, contro la clava della maggioranza di Grazia Zuffa Il Manifesto, 8 agosto 2018 L’insegnamento di Sandro Margara, che non ebbe paura di andare contro corrente. Ripartire da Sandro Margara, da un magistrato che tanto si è speso per un sistema penale più giusto, più umano, più garantista. L’incontro di Firenze dello scorso 29 luglio si proponeva di ricordare Margara (nel secondo anniversario della morte) traendo forza per l’oggi dal suo pensiero e dalle sue pratiche. Un’iniziativa ben ripagata, perché in tanti sono arrivati, in quella domenica di mezza estate, a discutere con passione. Nella consapevolezza che una riflessione approfondita è oggi necessaria di fronte a un governo che ha scelto di qualificarsi, anche sul piano simbolico, per la centralità del carcere a garanzia della “certezza” della pena. Da qui il primo interrogativo: l’enfasi pan-carceraria è “solo” un facile espediente in chiave populista? Oppure il populismo è chiave di lettura insufficiente a fronte dello “slittamento” di ruolo e di senso del diritto penale nel contesto dell’architettura istituzionale democratica? È una domanda senza risposte facili, dunque va intesa come un filo di riflessione strategica attuale sulla giustizia. In questa luce sono state riprese alcune suggestioni, come quella di Giovanni Fiandaca (Il Foglio, 26 luglio), che ha sottolineato l’uso del diritto penale come arma contro i “nemici sociali” da parte di questo governo, in aperto contrasto al garantismo liberale. E ancora è stato ricordato come il respingimento delle navi coi migranti a bordo e la chiusura dei porti configurino violazioni sia del diritto internazionale che di norme del nostro codice penale, secondo quanto denunciato da Luigi Ferrajoli in un recente appuntamento promosso dal Crs: senza peraltro alcun richiamo mediatico al governo perché rispetti la legge. Da un lato il diritto penale e il carcere sono agitati come clava “certa” contro i socialmente indesiderati (migranti e Rom in prima linea); dall’altro, traballa la “certezza” del principio costituzionale di uguaglianza di fronte alla legge. C’è chi può violare la legge e chi non può. “Meno stato e più galera”: così si esprimeva profeticamente Margara qualche anno fa. Da qui lo slittamento della cornice di democrazia cui si accennava: la legge e la stessa Costituzione come “legge della legge” sembrano perdere il significato di regole di garanzia del vivere civile e di svolgimento di una corretta dialettica democratica per diventare armi “discrezionali” a disposizione della maggioranza di governo. Su questi concetti fondanti, la sintonia fra Lega e Cinque Stelle appare forte. Del resto, il tramonto della democrazia rappresentativa (a favore della partecipazione telematica) è già stato benedetto da autorevoli esponenti grillini. È il passo conseguente all’aver ridotto e stravolto la rappresentanza a casta e notabilato: cancellando il legame (di scambio e di fiducia) fra rappresentati e rappresentanti, che è parte integrante della rappresentanza stessa, in rapporto (e non in contrapposizione) alla partecipazione dei cittadini. Come ripartire dunque? Costruendo e ricostruendo un progetto compiuto di giustizia e democrazia, con costanza, determinazione, ma anche con urgenza, si è detto. Che leghi i fili di questioni attuali, da rilanciare nel dibattito: alcune impellenti, come droghe e carcere, cronicamente ingolfato da una legge antidroga punitiva e sbagliata; e come il compimento di un nuovo sistema di misure di sicurezza dopo l’abolizione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Altre più di lunga lena, l’ergastolo e il 41 bis, su cui Margara tanto ha detto senza paura di andare contro corrente. Scriveva ironicamente Margara che “i progetti sono consentiti solo ai vecchi”. Ossia a chi - intendo io - indipendentemente dall’anagrafe, sa e vuole guardare lontano, davanti a sé così come dietro di sé. Prendiamolo in parola, è il nostro impegno comune. Stranieri in carcere, anche l’emergenza criminalità è un falso problema di Tania Careddu Left, 8 agosto 2018 Sono sempre tanti in rapporto alla capienza regolamentare ma sono sempre in diminuzione gli ingressi in carcere: 764 persone in meno rispetto al 2017 e anche il tasso di detenzione degli stranieri si è ridotto di oltre due volte negli ultimi dieci anni. E, gli stranieri detenuti, sono diminuiti anche in termini assoluti: rispetto al 2008, il cui tasso di detenzione era pari allo 0,71%, nel 2018 è lo 0,33. Tanto per avere un’idea, il numero degli immigrati extracomunitari regolari in carcere - circa tremila - è il 5% della popolazione detenuta, pari ai reclusi di origine lombarda. Stessa proporzione fra italiani e ucraini che hanno un tasso di detenzione più o meno identico; di poco superiore è quello dei moldavi, degli etiopi, degli ungheresi e dei romeni che, negli ultimi cinque anni, sono addirittura diminuiti di mille e cento unità, nonostante sia aumentato il numero degli immigrati (romeni) presenti in Italia, rappresentando una comunità longeva e ben radicata. Segno che il patto di inclusione paga e garantisce sicurezza, contribuendo alla diminuzione del rischio di commettere crimini. E qualora li commettano, stando ai dati del Rapporto semestrale sulle condizioni di detenzione, elaborato dall’associazione Antigone, sono meno gravi di quelli di cui si macchiano gli italiani: considerando il reato di criminalità organizzata, il 98,75% dei detenuti condannati è italiano e solo l’1,25% è straniero come il 5,6% degli ergastolani. Nel 57% dei casi, i detenuti stranieri sono meno informati sui loro diritti, percentuale che, negli italiani, scende al 21%. E se per gli italiani, i colloqui col difensore che precedono le direttissime avvengono in troppo poco tempo e senza la necessaria riservatezza, per il 25% degli stranieri arrestati, il colloquio non è stato proprio fatto, anche a causa dei ritardi degli interpreti, quasi sempre poco formati e mal pagati. In mancanza della riforma dell’ordinamento penitenziario, che avrebbe consentito di trattare - almeno a livello normativo - la malattia psichica al pari di quella fisica, la presenza di persone detenute che necessitano di cure dei servizi di salute mentale è crescente: i disagi psichici sono le patologie più diffuse nelle carceri italiane. Un malessere così diffuso tanto che dall’inizio dell’anno sono stati trenta i suicidi dietro le sbarre. Compreso quello del 23 luglio, a Viterbo: Hassan Sharaf di ventuno anni, si sarebbe impiccato nella cella di isolamento, nella quale era finito per un reato compiuto (forse) quando era minorenne. E, quindi, caso mai, sarebbe dovuto essere in un Istituto di pena per minorenni. Nei quali, secondo i dati più recenti, sono detenuti quattrocento sessantuno ragazzi, di cui duecento stranieri, comprese ventinove ragazze. Non perché siano più delinquenti dei loro coetanei italiani ma perché sono la rappresentazione più tangibile della debolezza sociale del territorio in cui sarebbero dovuti essere presi in carico e dell’assenza di percorsi alternativi. Ancora troppo pochi anche per gli adulti: per troppi detenuti, infatti, la pena si sconta tutta in carcere, riducendo all’osso i contatti con l’esterno e innalzando il tasso di recidiva. Su oltre 58mila reclusi, sono 28mila quelli in misura alternativa. Il numero è ancora insufficiente se si pensa, anche, che molti detenuti sono rinchiusi in luoghi lontani dai loro cari: a parte per la collocazione del carcere, che nel 56% dei casi è situato in aree extraurbane ed è difficilmente raggiungibile, le criticità nel collegamento si fanno insostenibili quando lo spostamento avviene dal sud al nord del Belpaese. E le pene alternative risolverebbero, pure, il problema della carenza di personale visto che il rapporto medio fra educatori e detenuti è pari a uno ogni sessantanove; i medici lavorano, mediamente, quarantotto ore ogni cento reclusi mentre per gli psichiatri le ore lavorate scendono a nove. Nessuna emergenza in termini di criminalità tra gli stranieri, dunque. L’emergenza è tutta italiana. Cassa Ammende-Regioni: accordo per l’inclusione sociale dei detenuti regioni.it, 8 agosto 2018 La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nella riunione del 26 luglio ha approvato il testo di un accordo con la Cassa delle Ammende per la promozione di una programmazione condivisa, relativa ad interventi d’inclusione sociale a favore delle persone in esecuzione penale. Il testo è stato poi inviato da Stefano Bonaccini a tutti i Presidenti delle Regioni e delle Province autonome con l’obiettivo di garantire un comportamento uniforme su tutto il territorio nazionale. Con l’Accordo, le Amministrazioni che vorranno aderire potranno promuovere forme di collaborazione per una programmazione condivisa degli interventi per l’inclusione sociale delle persone sottoposte a misure dell’Autorità Giudiziaria restrittive o limitative della libertà personale. Via libera dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ad un “Accordo quadro” con la Cassa delle Ammende per una programmazione condivisa degli interventi per l’inclusione sociale delle persone sottoposte a misure dell’Autorità Giudiziaria restrittive o limitative della libertà personale. “L’Accordo - spiegano il Segretario Generale della Cassa delle Ammende, Sonia Specchia, e il Segretario Generale Marina Principe - ha l’obiettivo di rafforzare le “politiche di inclusione”, mettendo “a sistema le risorse” destinate all’inserimento sociale, formativo e lavorativo delle persone sottoposte a misure dell’Autorità Giudiziaria restrittive o limitative della libertà personale”. Un’azione quella prevista dall’accordo (sottoscritto dal Presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini e dal presidente della Cassa delle Ammende, Gherardo Colombo), che si dovrà sviluppare attraverso: a) programmi di reinserimento di detenuti, di internati, di persone in misura alternativa alla detenzione o soggette a sanzioni di comunità, consistenti nell’attivazione di percorsi di inclusione lavorativa e di formazione, anche comprensivi di eventuali compensi a favore dei soggetti che li intraprendono, e finalizzati all’acquisizione di conoscenze teoriche e pratiche di attività lavorative che possano essere utilizzate nel mercato del lavoro; b) programmi di assistenza ai detenuti, agli internati o alle persone in misura alternativa alla detenzione o soggette a sanzioni di comunità e alle loro famiglie, contenenti, in particolare, iniziative educative, culturali e ricreative, nonché di recupero dei soggetti tossicodipendenti o assuntori abituali di sostanze stupefacenti o psicotrope o alcoliche, di integrazione degli stranieri sottoposti ad esecuzione penale, di cura ed assistenza sanitaria. A questo scopo è istituita un’apposita “cabina di regia e di coordinamento nazionale” tra le Regioni e la “Cassa delle Ammende” per una specifica progettazione di livello territoriale e regionale. Tale organismo sarà composto da rappresentanti designati dalla Cassa e dalle Regioni e dovrà: - garantire il flusso informativo sul tema per consolidare un processo di condivisione dei reciproci programmi di attività; - monitorare le azioni progettuali territoriali e regionali poste in essere con risorse congiunte; - individuare e diffondere le buone prassi nel settore; - promuovere, sui singoli territori e a livello interregionale, reti e servizi per l’inserimento socio-lavorativo rivolti alle persone in esecuzione penale; . ricavare dalle esperienze realizzate indicazioni per impostare in futuro nuovi interventi; - definire e realizzare azioni di cooperazione per azioni e servizi comuni; - individuare i criteri generali per la valutazione delle proposte progettuali a livello territoriale. Con l’adesione al presente Accordo la Cassa delle Ammende e le Regioni che lo recepiscono si impegnano a: -promuovere una strategia integrata di interventi per migliorare l’efficienza e l’efficacia dei servizi di inclusione socio-lavorativa delle persone in esecuzione penale. -promuovere un sistema di servizi territorialmente omogeneo ed individuare modelli organizzativi sostenibili ed eventualmente esportabili. - avviare interventi per l’inclusione socio-lavorativa dei soggetti in esecuzione penale in coerenza con gli obiettivi programmatici stabiliti congiuntamente in attuazione dei rispettivi Statuti. Quanto agli aspetti finanziari la realizzazione degli interventi sarà sostenuta dalla Cassa delle Ammende e dalle Regioni o Province autonome, compatibilmente con le rispettive disponibilità finanziarie e secondo accordi operativi. Le leggi confuse rendono confusa la giustizia di Andrea R. Castaldo Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2018 La giustizia è amministrata in nome del popolo. Una scelta di campo forte e solenne, consacrata all’articolo 101 della Costituzione, non a caso ripresa all’articolo successivo, che affida alla legge il compito di regolarne la partecipazione diretta. Dunque, siamo noi attori e destinatari delle decisioni giudiziarie. Ma che accade se i cittadini non riescono a comprenderle e perdono fiducia nella magistratura? Le statistiche insegnano come l’Italia si discosti in basso - significativamente - dalla media degli altri Paesi europei quanto a intelligibilità dei provvedimenti dei giudici. Una dura presa d’atto, dagli effetti noti e dalle cause più incerte. E infatti il minore appeal produce almeno due conseguenze distorsive. La prima, di natura economica, è la perdita di consistenti chance d’investimento e di attrazione di capitali e risorse: non solo come riflesso di una litigiosità esasperata e spesso strumentale, ma soprattutto per la durata eccessiva del contenzioso, connotato dall’inestirpabile incertezza del risultato. La seconda, a valenza psicosociale, alla lunga più temibile, consiste nella non credibilità dell’istituzione, nel convincimento semplificato dell’ingiustizia di fondo della legge, fino al diffuso sentimento dell’inutilità del comando normativo e della convenienza della trasgressione, legata alla non deterrenza della minaccia. Un virus purtroppo pervasivo, presente in ogni ramo dell’ordinamento, ma particolarmente inquietante nel settore penale. Ma perché accade tutto ciò? Ovviamente non esiste un’unica risposta, ma un concorso di fattori che giocano a sfavore e si influenzano reciprocamente. Una prima ragione riposa sull’instabilità parlamentare. La mancanza di maggioranze forti politicamente e il periodo limitato del mandato per le ricorrenti crisi condizionano negativamente il processo di formazione della legge, che diventa il frutto di mediazioni e tecniche di compromesso. Il testo finale è così, inevitabilmente, confuso ed esposto alla necessaria opera di interpretazione. E qui subentra il secondo motivo: la giurisprudenza, alla quale compete l’applicazione della norma con la correlata attività di chiarificazione, è incline (e si compiace) a riempire di contenuti i presunti vuoti di tutela lasciati dal legislatore, finendo per creare, supplendo. Un cortocircuito autoreferenziale, in virtù della presenza della (ritenuta) debolezza e incompetenza della classe politica. Gli esempi potrebbero sprecarsi, ma forse due sono più significativi degli altri. Nell’abuso d’ufficio, il requisito della violazione di legge è stato esteso fino a ricomprendervi l’articolo 97 della Costituzione; nel falso in bilancio, il parametro valutativo è stato fatto rientrare dalla finestra e costituisce reato, a dispetto della riforma. Il problema si trasforma così da stilistico a sostanziale, in quanto il giudice attribuisce un significato valoriale al precetto, tramutandosi nel detentore reale delle scelte di politica criminale. A ben vedere, andando a valle del fenomeno, tale espansione punitiva innesca un meccanismo di imprevedibilità in concreto della decisione: cioè, il destinatario della norma, al momento del suo agire, non è in grado di percepire con chiarezza il perimetro relativo di liceità, poiché esso è esposto alla dilatazione applicativa giurisprudenziale. Una deriva pericolosa sul fronte della legalità, costata già all’Italia sentenze di rimbrotto della Corte europea dei diritti umani. Non da ultimo, il tasso di mutevolezza della pronuncia all’interno del processo penale è incredibilmente alto; a distanza di anni, una riforma in appello o in Cassazione dalla condanna all’assoluzione (o alla prescrizione) alimenta il senso di ingiustizia e il convincimento dell’incertezza naturale, sia per il colpevole che per la vittima. Con la tentazione di fare i furbi e sfruttare un quadro complessivo non esaltante. E i rimedi? Sono come sempre nella semplicità, anzi banalità del quotidiano: ognuno torni a fare il proprio mestiere, il legislatore come il giudice. Ma qui l’ossimoro è d’obbligo: proprio perché semplice, è difficile. Difendere un imputato di mafia non significa difendere la mafia ma i diritti di noi tutti di Beniamino Migliucci* e Francesco Petrelli** Il Dubbio, 8 agosto 2018 Non è vero che la professione di avvocato e quella di membro di una Commissione antimafia siano fra loro incompatibili, né risulta inopportuno che un avvocato penalista sieda in un simile consesso. Tuttavia, certamente il problema si pone, così pare, se l’avvocato difenda o abbia difeso dei mafiosi. Per alcuni, infatti, che si difenda un imputato di mafia significa sostanzialmente difendere la mafia e la sua cultura. E, pertanto, o si sta di qua o di là. Quale weltanshaung si ponga oggi nel nostro Paese a fondamento di tale opinione e della cultura che lo giustifica e lo alimenta, non è agevole comprendere. Ma crediamo, tuttavia, sia fondamentale e forse più utile, oltre che doverosamente scagliarsi contro queste posizioni, a difesa dei colleghi vittime di questa odiosa forma di mobbizzazione, cercare di comprenderne le radici e le origini, anche quelle eventualmente inconsapevoli, che hanno generato questo livello sub-liberale del pensiero collettivo, che occupa purtroppo una così vasta congerie di ambienti politici e intellettuali. Se difendo un imputato di un grave fatto di corruzione, difendo la cultura dell’illecito contrabbando e del mercimonio delle pubbliche funzioni? O forse difendo, nei diritti del singolo accusato, la regola sostanziale e processuale che sta a fondamento dell’intero sistema della legalità? Se così non fosse, come potrebbe un magistrato che ha assolto un accusato di mafia sedere in una Commissione antimafia? Ne dovrebbe essere escluso? E se così fosse, a chi far difendere e giudicare gli accusati di questi più odiosi reati, ad una corporazione di “paria”, ad un “ceto” di giuristi “monatti”, iscritti all’albo speciale degli “avvocati intoccabili”, esclusi da qualsivoglia altro pubblico incarico? Esclusi dalla società civile? Cosa ha prodotto questa sub- cultura tanto oscena quanto dilagante, così tracotante da ergersi addirittura a paradigma della “pubblica virtù”? E perché dovremmo mai trovarci incautamente a “difendere” i colleghi Veneto e Zampogna, del delitto di aver esercitato davanti a giudici della Repubblica italiana, la suprema funzione difensiva, alla quale erano stati chiamati. Se quel diritto di difesa è già detto “inviolabile” secondo la Costituzione. La domanda che occorre che tutti noi, ora, ci poniamo è quale strada inclinata abbiamo iniziato a percorrere e dove essa abbia avuto origine. Quale memoria si sia persa di quella cultura inclusiva dei diritti e delle garanzie che fonda la libertà di ogni popolo democratico. E perché non siamo riusciti a convincerci ed a convincere tutti, che il processo penale è il vero crogiuolo di tutte le libertà, la pietra di paragone della civiltà democratica di un Paese. Che lì si celebra la vita e la morte di una democrazia. Quando il processo diviene solo uno strumento di “lotta al male”, va da sé che chi si pone dalla “parte sbagliata” sia già moralmente e civilmente condannato all’esclusione. In fondo la radice della mala pianta illiberale è tutta qui. E qui i nuovi e i vecchi cantori della “legalità” e del “cambiamento” si ritrovano assieme, specchiandosi in questo banale rito di mortificazione della loro stessa intelligenza *Presidente Unione Camere Penali **Segretario Unione Camere Penali Il volto più nero dello Stato Il Foglio, 8 agosto 2018 Perché tassare le rimesse degli immigrati incentiva l’economia sommersa. Una proposta di legge presentata il 26 marzo scorso da esponenti della Lega sta facendo discutere in questi giorni: tassare le rimesse degli immigrati, ovvero i soldi guadagnati qui e mandati alle famiglie nei paesi d’origine, per girare i proventi così ottenuti alle famiglie italiane affinché facciano più figli. L’idea è contro la logica. La proposta è di introdurre una imposta di bollo sui trasferimenti di denaro all’estero effettuati dalle apposite agenzie, ovvero del 3 per cento sull’importo trasferito con ogni singola operazione, con un minimo di prelievo pari a 5 euro. Secondo Banca d’Italia, le rimesse registrate nel 2017 sono state di 5 miliardi di euro (tre decimi di punto di pil), in calo di 2,7 miliardi rispetto al 2011. Un terzo di queste transazioni passa attraverso canali informali, che sfuggono a eventuali imposte. Chi verrebbe colpito sono gli immigrati che utilizzano canali legali per mandare denaro a casa: si andrebbe a vessare quella parte della popolazione immigrata che non ha necessità di nascondersi perché svolge un’attività lecita alla luce del sole. È poi possibile che a quel punto i lavoratori, sensibili a un aumento dei costi, preferiscano i canali informali e non regolamentati sfuggendo alla legge e aumentando i rischi per la sicurezza. Un governo che volesse affrontare la questione della legalità e della dignità del lavoro potrebbe dare invece la priorità al problema del caporalato. L’incidente sulle strade di Foggia di lunedì scorso - in cui sono morti 12 migranti che avevano appena finito la loro giornata lavorativa nei campi - ha riaperto il dibattito sullo sfruttamento della manodopera e sul lavoro nero. Incentivare il sommerso, anche nelle transazioni finanziarie, andrebbe in senso contrario. Inoltre, per tornare agli effetti ipotizzabili, sarebbe un’operazione altamente regressiva: di base il reddito dei migranti è già tassato nel paese ospitante, colpire le rimesse equivarrebbe a una doppia tassazione per loro. Dal momento che solitamente sono i lavoratori con un reddito basso a spedire i soldi a casa dai parenti rimasti in patria, sarebbero proprio questi ultimi a risentirne perché riceverebbero meno soldi. Così non potremmo “aiutarli a casa loro”, per usare uno slogan caro a Matteo Salvini, perché a casa loro staranno sicuramente peggio di prima. Mettere le mani nelle tasche degli immigrati per aiutare gli italiani è propaganda. In realtà l’autorità statale manifesta così il suo lato più oscuro e odioso: il potere di tassare senza limiti chiunque. Non sarebbero gli italiani a guadagnare sugli stranieri, sarebbero gli stranieri a essere trattati né più né meno come gli italiani: super tassati a casa propria. Campania: bando su percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti di Serena Bonvisio cinquecolonne.it, 8 agosto 2018 Pubblicati sul Burc gli esiti relativi all’avviso pubblico per la realizzazione dei percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti e delle detenute, adulti e minori della Regione Campania con una dotazione finanziaria di 4 milioni di euro. In particolare, saranno finanziati percorsi sperimentali di formazione e di inclusione socio-lavorativa volti al conseguimento di qualifiche professionali, anche tramite esperienze lavorative e soprattutto la certificazione delle competenze pregresse, anche non formali ed informali. I percorsi nascono dalla collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale della Campania e il Dipartimento della Giustizia Minorile per la Campania con il supporto del Garante dei detenuti della Regione Campania. “La Regione Campania - spiega l’Assessore Chiara Marciani - vuole fornire uno strumento innovativo capace di attivare percorsi formativi con il coinvolgimento delle organizzazioni del terzo settore, delle forze produttive e delle parti sociali, volti a potenziare le competenze professionali dei detenuti e delle detenute ed a favorire la loro futura occupabilità, anche tramite percorsi personalizzati”. Gli interventi formativi, strutturati in accordo con gli Istituti penitenziari, tengono conto dei diversi requisiti di ingresso e delle caratteristiche soggettive dei destinatari, nonché delle esigenze dei fabbisogni formativi espresse dagli istituti penitenziari campani, in particolare nei settori edilizia, idraulica, elettricità- elettrotecnica, cucina-ristorazione, giardinaggio-floricoltura, sartoria, acconciatura. Roma: saranno i detenuti a riparare le buche e rifare le strisce cancellate Corriere della Sera, 8 agosto 2018 Il progetto “Mi riscatto per Roma” di Autostrade, ministero della Giustizia e Comune di Roma prevede la formazione di 15 detenuti a bassa pericolosità. Avranno un attestato professionale e la possibilità di essere inseriti nel mondo del lavoro. Quindici detenuti, selezionati tra quelli a bassa pericolosità e pene ridotte, verranno formati in carcere e da Autostrade per l’Italia per due mesi e mezzo, al termine dei quali otterranno un attestato professionale e poi potranno mettersi al lavoro per la manutenzione delle strade della Capitale e dell’area metropolitana, dove svolgeranno interventi di pulizia delle caditoie, riparazione delle buche a caldo e ripasso delle strisce pedonali, in particolare nel Centro storico di Roma. Dopo la cura del verde, ora tocca alla strade - È il contenuto del protocollo di intenti “Mi riscatto per Roma” firmato da Autostrade per l’Italia, il ministero della Giustizia, Roma Capitale e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per riqualificare le strade della Capitale attraverso il lavoro dei detenuti, presentato martedì mattina nel corso di una conferenza stampa in Campidoglio dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi, dall’amministratore delegato di Atlantia e Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, dal capo della Polizia penitenziaria, Francesco Basentini, e dalla presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, Maria Antonia Vertaldi. “Siamo qui per presentare e rinnovare un progetto che avevamo già iniziato in forma sperimentale e in cui abbiamo creduto tantissimo, ovvero la possibilità di poter dare ai detenuti una seconda chance reintroducendosi in società attraverso la ricucitura di quel patto che si è spezzato grazie ad attività in favore della collettività”, ha spiegato Raggi. “L’anno scorso la sperimentazione è avvenuta sul verde di Roma, che ha aree verdi per oltre 40 milioni di chilometri quadrati, con lo sfalcio, il taglio dell’erba e il ripristino dei parchi con il duplice risultato di riqualificare queste persone, che hanno svolto un corso di formazione, e dare il via anche a una visione e un rapporto diverso con l’ambiente che li circondava, unito a un grandissimo apprezzamento da parte dei cittadini che ha contribuito a ricostituire un legame. È il segno che questo progetto è riuscito a creare un ponto che secondo la Costituzione è fondamentale per funzione rieducativa della pena”. Segnaletica e pulizia caditoie - Il progetto, ha spiegato la sindaca, “ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo deciso non solo di replicarlo ma di ampliarlo, e stavolta abbiamo deciso di concentrarci sulle strade, in particolare sulla segnaletica orizzontale e la pulizia delle caditoie e dei tombini, che a Roma sono circa 800mila. Riteniamo che questo porti benefici non solo alla città di Roma, ma anche ai romani e ai detenuti in primis, che possono ritornare nella loro città con un rapporto di rispetto”. Gli interventi: si parte dalla zona Rebibbia - I primi interventi interesseranno le strade adiacenti al penitenziario di Rebibbia che, una volta risanate, diverranno il laboratorio di formazione dei detenuti. Autostrade per l’Italia fornirà gratuitamente la formazione tramite capisquadra, dispositivi di protezione individuale, attrezzature e materiali, mentre i cantieri saranno responsabilità del Campidoglio. La collaborazione permetterà di testare delle nuove smart technology utilizzate da Autostrade per l’Italia in collaborazione con Google e Pirelli che con foto geolocalizzate delle buche e pneumatici intelligenti capaci di fornire informazioni sul manto stradale permetteranno di pianificare e gestire al meglio la manutenzione delle strade della Capitale. Il ministro Bonafede: “Modello da esportare” - “Continueremo ad investire su questo tipo di progetti, è un punto di partenza prestigioso e chiederò agli altri sindaci d’Italia di portare avanti questo tipo di iniziative. Ho intenzione di mettere su una task force proprio per estendere queste pratiche virtuose”, ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Milano: la “casetta rossa” di Bollate, un’oasi per i figli dei detenuti di Francesca Bonazzoli Corriere della Sera, 8 agosto 2018 Ideata con gli studenti del Politecnico. In ottobre l’inaugurazione. I sogni? Si avverano. Come certifica la seconda puntata della storia raccontata su queste stesse pagine lo scorso gennaio. Loro, gli studenti di Architettura del Politecnico di Milano, ci avevano sempre creduto al punto da fare in massa richiesta di iscrizione, a ottobre 2017, al laboratorio dove avrebbero dovuto ideare nuove soluzioni per l’edilizia carceraria: “Un tema aperto a visioni utopiche”, l’aveva definito Cristiano Gerardi, 23 anni, motivando la sua partecipazione. Ma adesso anche i loro docenti ne hanno avuto la prova: con i sogni si possono abbattere persino i muri. Quello che poteva sembrare un mero esercizio accademico, si sta concretizzando in questi giorni nella forma di una struttura di legno, una “casetta” rossa, già eretta nel giardino del carcere di Bollate, aperta e ariosa, pensata come luogo di incontro per i colloqui con i famigliari, in particolare i bambini. Si chiama “Traccia di libertà” ed è il risultato delle idee sviluppate insieme - studenti, docenti, detenuti e polizia penitenziaria - durante gli incontri mensili tenuti dentro la casa circondariale di Bollate e all’interno del Politecnico dove lo scorso maggio un gruppo di detenuti, in permesso speciale accordato dal direttore Massimo Parisi, ha ricambiato la visita degli studenti. Un mecenate milanese, Federico Sassoli de Bianchi, aveva letto la storia e con l’associazione onlus Civicum ha deciso di sostenerla attraverso una donazione di quindicimila euro. “Per gli studenti è stata una bellissima opportunità. L’esito concreto è un aspetto tanto fondamentale quanto raro in ambito accademico, in particolare se è legato a una così evidente necessità sociale. Era importante lasciare nel carcere un segno tangibile della ricerca condivisa per mesi con i detenuti così come per questi realizzare un progetto di cui sono stati protagonisti in prima persona”, racconta Andrea Di Franco, il docente che coordina la ricerca con i colleghi Chiara Merlini, Michele Moreno e Lorenzo Consalez. I fondi hanno permesso di realizzare la struttura lignea presso il laboratorio di falegnameria interna alla “Fabbrica recuperata Rima-flow” di Trezzano sul Naviglio, un altro interessante esperimento sociale. E sono serviti anche a commissionare un filmato che documenta l’intero iter del progetto con lo scopo di divulgare questa storia in vista di un nuovo impegno nel carcere di San Vittore. La casetta, la cui forma riprende quelle disegnate dai bambini, simbolo domestico e rassicurante per eccellenza, è già stata posizionata nel giardino del carcere, pronta per essere attraversata, scavalcata, scalata e sfruttata fino al tetto soprattutto dai bambini che, per tenerli al riparo dai traumi, sono in maggioranza all’oscuro del fatto che il papà è “in galera”. Manca ancora l’albero che sbucherà dal tetto: un prunus che sarà messo a dimora per il 22 ottobre, giorno dell’inaugurazione ufficiale. “Non sarà solo una celebrazione”, spiega Andrea Di Franco che sta organizzando la giornata. “Ma anche l’opportunità per fare una riflessione e un dibattito con le amministrazioni e l’università in merito alle potenzialità generate dalla collaborazione fra le istituzioni”. Campobasso: detenzione ospedaliera, la Garante visita i locali dell’Ospedale Cardarelli cblive.it, 8 agosto 2018 La Garante Regionale dei Diritti della Persona, Leontina Lanciano, a seguito della segnalazione ricevuta dal Garante Nazionale dei Diritti delle Persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, si è recata all’Ospedale “A. Cardarelli” di Campobasso per verificare le condizioni della cella adibita al ricovero dei carcerati, in merito alla quale sono state segnalate delle criticità riguardanti le condizioni di vivibilità della stessa. Durante il sopraluogo la Garante Regionale, Leontina Lanciano, ha avuto anche la possibilità di incontrare il detenuto che attualmente è ricoverato nel nosocomio del capoluogo. “Per le persone private di libertà - scrive Lanciano - il ricovero in ospedale rappresenta un passaggio molto delicato dal punto di vista psicologico, spiega Leontina Lanciano, in quanto pur restando confinati all’interno di una stanza, come nelle case di reclusione, perdono il loro contesto abituale, aumentando quel senso di solitudine che incide negativamente sull’approccio psicologico ai problemi di salute, spesso gravi, che richiedono il ricovero in ospedale”. “Durante la mia visita - prosegue Leontina Lanciano - ho potuto riscontrare un’ottima assistenza sanitaria, anche se dal punto di vista degli spazi e del loro allestimento ci sono dei margini di miglioramento che è importante sfruttare. A tal proposito chiederò un incontro ai vertici dell’A.S.Re.M. per concordare alcuni interventi di facile realizzazione, come la presenza di un televisore, che permetteranno di migliorare gli standard attuali e creare un ambiente più accogliente, con ricadute positive per i detenuti ricoverati. Sono certa - conclude la garante regionale - che anche in questo caso lo spirito di collaborazione dimostrato dall’A.S.Re.M. in altre circostanze permetterà di fornire, in tempi brevi, una risposta positiva alle richieste pervenute al Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute a cui, come Garante regionale dei Diritti della Persona, conto di fornire un riscontro positivo in tempo brevi”. Nisida (Na): torna il Premio “Amato Lamberti” sulla responsabilità sociale Ristretti Orizzonti, 8 agosto 2018 La cerimonia sarà aperta da Toni Servillo. L’attore napoletano ospite d’onore della quinta edizione che premia la cittadinanza attiva e la sensibilità sociale. L’evento, organizzato dall’associazione Jonathan e da Gesco, è accreditato all’Ordine dei giornalisti. Sarà Toni Servillo ad aprire il Premio Responsabilità Sociale “Amato Lamberti” che si terrà presso il Centro di Studi Europeo di Nisida sabato 22 settembre 2018 a partire dalle ore 18. L’artista, dopo una conversazione pubblica con Conchita Sannino, riceverà il premio speciale di questa quinta edizione, accreditata presso l’Ordine dei Giornalisti e organizzata dall’Associazione Jonathan e dal gruppo di imprese sociali Gesco con il sostegno di Whirlpool Corporation. L’iniziativa ha carattere nazionale ed è intitolata al compianto Amato Lamberti, a lungo presidente della Provincia di Napoli, fondatore dell’Osservatorio sulla Camorra, distintosi per la sua battaglia culturale e sociale contro la criminalità organizzata. Il Premio si rivolge a cittadini ed esponenti del mondo della cultura, del giornalismo, del lavoro, delle istituzioni e del terzo settore che si siano impegnati per la tutela delle persone più deboli, la giustizia, la promozione della cittadinanza attiva e della responsabilità sociale. L’edizione 2018 vedrà premiati: Bruno Usai e Giorgio Attori, operai della ex Alcoa ora Sider Alloys, fabbrica sarda di alluminio in cui gli operai sono entrati a far parte della gestione (categoria Impresa); il parroco di Santa Maria della Sanità don Antonio Loffredo con la cooperativa sociale l’Officina dei Talenti (categoria Lavoro sociale); il direttore del museo di Capodimonte Sylvain Bellenger (categoria Cultura); la giornalista del TG1 Rai Ambiente-Società Isabella Schiavone (categoria Giornalismo); il presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria Roberto Di Bella (categoria Menzione Speciale dedicata al magistrato Paolo Giannino). Al direttore del Goethe Institut di Napoli Maria Carmen Morese andrà il premio “Napoli Città Solidale” assegnato ogni anno dal portale media partner dell’evento. Come lo scorso anno, affiancano il Premio Lamberti alcuni artisti di rilievo internazionale che hanno donato ciascuno un’opera da assegnare ai vincitori. Per l’edizione 2018 contribuiscono generosamente Danilo Ambrosino, Lucia Ausilio, Anna Fusco, Sergio Fermariello, Cherubino Gambardella, Francesco Manes, Ana Gloria Salvia, Emmanuele Stanziano, Carla Viparelli. La serata vedrà la partecipazione straordinaria di alcuni ragazzi dell’Istituto penale per i minorenni di Nisida, coinvolti nel rinfresco a cura del catering Monelli tra i fornelli. In conclusione si terrà una performance del cantautore Giovanni Block. La cerimonia di premiazione sarà condotta dalla giornalista Ida Palisi. È stato invitato il presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico. L’evento è aperto alla partecipazione dei giornalisti per i quali darà diritto a 6 crediti formativi (è possibile iscriversi dal 3 al 17 settembre sulla piattaforma Sigef, titolo corso: “La responsabilità sociale nelle carte deontologiche del giornalista”). L’edizione 2018 ha i patrocini di: Ministero della Giustizia; Regione Campania; Comune di Napoli; Ordine dei Giornalisti della Campania; Università degli Studi Suor Orsola Benincasa. Media partner il portale Napoli Città Solidale. La regia e l’allestimento sono a cura di Exit Communication. Segreteria Organizzativa: Pina Vanacore comunicazione@gescosociale.it. Ufficio stampa: Maria Nocerino 3207880510 stampa@gescosociale.it. Cinema. “Prigioniero della mia libertà”, di Rosario bErrico Il Tempo, 8 agosto 2018 Il dramma infinito degli errori giudiziari. Il giovane architetto Alejandro Torres è stato ingannato due volte. La prima da un amico d’infanzia, che lo imbroglia convincendolo a partecipare insieme a una gara d’appalto, e poi, quando lui capisce di essere stato truffato e ridotto al lastrico, lo denuncia per minacce e tentata estorsione. La seconda dalla giustizia. Invece di verificare a fondo le accuse, il magistrato titolare dell’inchiesta lo sbatte in carcere. È la trama del film “Prigioniero della mia libertà” diretto da Rosario Errico che firma anche la sceneggiatura con Stefano Pomilia e Michela Turchetta. Il lungometraggio con Jordi Mollà, Martina Stella, Antonella Ponziani, Marco Leonardi, Marco Leonardi, Andrès Gil, Monica Scattini, Lina Sastri e Giancarlo Giannini (fotografia Blasco Giurato, montaggio Massimo Quaglia, musiche Claudio Simonetti) e lo stesso Errico (autore anche dell’omonimo libro) è stato presentato l’altra sera all’Isola del Cinema, preceduto da un dibattito sul tema degli errori giudiziari. All’incontro hanno preso parte magistrati come Salvatore Cosentino, David Monti, Gennaro Francione, avvocati come Antonino Battiati, Aldo Minghelli e Maria Luisa Tatoli, Francesco Carbone Presidente APS Associazione delle vittime di Ingiustizie, la radicale Rita Bernardini, Vittorio Gallo, vittima di un “errore”, il giornalista Fabio Amendolara e il regista e scrittore Rosario Errico. Moderatore l’avvocato Valter Cara. Ha concluso Cesare Placanica, presidente Camera Penale di Roma. Libri. La periferia torinese e la “cattiva strada” di Marc Tibaldi Il Manifesto, 8 agosto 2018 “La mia cattiva strada. Memorie di un rapinatore”, di Marcello Ghiringhelli edito da Milieu. Il terribile fulmine di vendetta raccontato nel prologo del libro di Marcello Ghiringhelli, La mia cattiva strada. Memorie di un rapinatore (Milieu, pp. 229, euro 15), ricorda quello che attraversa la frase di Carlo Emilio Gadda (Lettere agli amici milanesi): “la sconcia bestia è stata appesa in Piazzale Loreto”. Due fatti dello stesso momento storico: il linciaggio di una collaborazionista e l’esposizione del corpo del capo. L’analogia tra i due scrittori si ferma qui. Ghiringhelli scrive i suoi libri raccontando la sua nuda vita vissuta, Gadda si vendicò con le parole contro un dittatore e contro la sua “rinnegata” adesione al primo fascismo. La frenetica e telegrafica scrittura di Ghiringhelli è agli antipodi del lavoro sulla lingua del “gran lombardo”. Costruzione di una sintassi innovativa, lavoro sul lessico con invenzioni neologistiche e sprofondamenti etimologici non riguardano Ghiringhelli, e a noi in fondo non interessa se l’efficace struttura del libro è opera dei curatori o dello scrittore, qui è la vita che parla. La mia cattiva strada racconta l’esistenza dell’autore dal secondo dopoguerra alla fine degli anni ‘70, “va letto con mente aperta, come testimonianza tremendamente vera e sincera”, sostengono i curatori Davide Ferrario e Marilena Moretti. Ragazzo proletario della periferia torinese intrisa di sentimenti antifascisti, tra ribellione, fame, cure in manicomio con l’elettroshock, e poi la fuga in Francia, legionario a 17 anni durante la guerra algerina, “carnefice e carne da cannone”, fa in tempo a “vergognarsi” e a fuggire ancora, entrando nella mala, con scorribande tra Milano e Parigi. Poi ancora imprenditore a Torino, dove si accorge che la “cattiva strada” è più onesta dell’accumulo del plusvalore e la ripercorre per qualche decennio, tra rapine e amori. È un libro mozzafiato dove l’avventura e le scelte esistenziali lasciano spazio a una visione politica, a un’analisi di classe, che lo porteranno, a inizio degli anni ‘80, quando il libro si chiude come a preannunciare un seguito, alla militanza nelle Brigate Rosse. “È un libro all’insegna del banditismo, con storie d’affare e malaffare, quelle storie che non si leggono sui giornali”, dichiara l’autore. Prima che gli archivi di polizia vengano rispolverati e le vite degli “uomini infami” siano rilette dagli storici, un senza-storia racconta la propria storia. L’attenzione al particolare della microstoria permette di accedere a verità altrimenti inattingibili e di scoprire aspetti del passato che rischiano di andare perduti. Questa microstoria scuote “più fibre di quante ne solleciti quella che normalmente chiamiamo letteratura”, come scriveva Foucault a proposito dei documenti analizzati in La vita degli uomini infami. Anche nella scrittura di Ghiringhelli “è tale la stringatezza delle cose dette, che non si sa se l’intensità che le attraversa dipenda maggiormente dal risplendere delle parole o dalla violenza dei fatti” che in esso si agitano. Leggendo questo memoir denso di termini gergali dell’argot e di vari idiomi, viene da chiedersi se nel meritevole catalogo della Milieu non possa trovar posto la traduzione di Les princes du jargon di Alice Becker-Ho, un testo fondamentale, come sostiene Giorgio Agamben, per rimettere in discussione “la catena esistenza del linguaggio-grammatica (lingua)-popolo-Stato”. Razzismo, contagio in redazione di Norma Rangeri Il Manifesto, 8 agosto 2018 Eppure una strage è una strage. Che non possiamo derubricare a dato statistico, perché mette in evidenza le condizioni di lavoro e di vita di decine di migliaia di persone. I problemi dei braccianti e del caporalato si conoscono da troppo tempo, esiste perfino una legge, mai applicata. Siamo curiosi di vedere cosa farà l’attuale governo per contrastare una piaga che dovrebbe farci vergognare davanti al mondo intero. Ma nel frattempo, nelle redazioni dei giornali, dei Tg, dei siti internet dovrebbero interrogarsi, ponendosi una semplice domanda: “Stiamo diventando razzisti e neppure ce ne rendiamo conto?” Qualcuno vedendo la nostra prima pagina di ieri avrà pensato, ecco il solito manifesto terzomondista che dà maggior risalto all’incidente di Foggia. Solo che quello che è accaduto a Foggia non poteva e non doveva essere raccontato dai media come un fatto qualsiasi. Perché non è stato un semplice incidente - seppure spettacolare e con un morto come quello avvenuto sulla A1 di Bologna- ma una autentica strage: 12 morti. Che vanno ad aggiungersi ai quattro migranti morti nei giorni passati. Uniti dalla stessa fine, erano tutti braccianti, e tutti africani. E così sono stati trattati dai siti per tutta la giornata e da larga parte dei quotidiani del giorno dopo. Alcune testate, qualcuna scontata altre inaspettate, hanno giudicato la notizia neppure degna della prima pagina. Domando: cosa sta succedendo a questo paese e al nostro giornalismo se si arriva al punto di non riuscire a valutare le notizie? Perché se noi sopravalutiamo, altri minimizzano, nascondono, censurano, sorvolano. Perciò domando ancora: se invece di 12 uomini, di pelle nera fossero stati dodici ragazzi italiani di pelle bianca, l’incidente sarebbe stato considerato una strage o no? Possiamo scommettere che tutti i media - compresi quotidiani razzisti e fascistoidi - avrebbero messo la notizia di apertura, accompagnata da commenti indignati. La realtà è che il liquame razzista venuto a galla con l’exploit della Lega, sta diventando un’onda che tocca e coinvolge tutti. Compresi quelli che dovrebbero essere considerati democratici e progressisti. È come una malattia che sta contagiando buona parte dell’opinione pubblica e in particolare contribuisce a plasmarla. Nei quotidiani si conferma la regola del mercato. Detto che quello delle edicole è in pesante flessione, essere dalla parte degli immigrati fa vendere di meno, non è gradito dall’elettore-lettore? Di questi tempi di sovranismo crescente e sempre più aggressivo, non porta consensi. Anzi, il contrario. Altrimenti il gradimento e la popolarità di papa Bergoglio non sarebbe passata da un 88 per cento di consensi tra la popolazione a un 71 per cento e proprio a causa - hanno spiegato i ricercatori - delle sue posizioni sui migranti. Tra l’altro molto alta nella decrescita dai consensi, la percentuale dei giovani. Se persino la popolarità del pontefice è fortemente intaccata dalla cultura del “prima gli italiani” viene da pensare che il timore della impopolarità per chi punta su questi argomenti ha una sua ragion d’essere. Focalizzare l’attenzione sull’immigrazione non fa aumentare le vendite - i migranti, pagati pochi euro per spaccarsi la schiena a raccogliere pomodori non leggono i giornali. E così il razzismo mediatico si insinua anche in redazione. La paura del nero non solo è contagiosa, ma condiziona le scelte di tutti. Tir, licenza di uccidere di Fabrizio Gatti L’Espresso, 8 agosto 2018 Autisti costretti dalle aziende a guidare per giorni senza dormire. Guidatori che si tengono su con la cocaina. E nessun rispetto delle leggi. Ecco il diario di due settimane sugli autotreni. Scendiamo nella notte con il rimorchio che rimbalza sulle buche. Oltre il grande parabrezza, la superstrada sembra più stretta. Un camion bomba, ecco cos’è questo trasporto di scatoloni, pacchi e pacchettini da consegnare a Roma da parte di una famosa società di posta privata. Non serve diventare terroristi per fare una strage. Undici tonnellate di motrice, nove di rimorchio e quindici di merce sotto il telone sono un ordigno: trentacinque tonnellate in discesa a cento all’ora non le ferma nessuno. Basterebbe una coda invisibile dietro la prossima curva. Oppure una macchina in sosta a destra per un guasto. Lungo la E45 che da Cesena porta a sud non c’è nemmeno la corsia d’emergenza. Le crepe e i rattoppi nell’asfalto sarebbero la vergogna di qualunque amministrazione in Europa, ma non in Italia. Il Tir sussulta e sfiora i guard-rail a destra e a sinistra come dentro una pista per bob. A cento all’ora si percorrono 27,8 metri ogni secondo: la lunghezza esatta di sette Fiat Punto messe in fila. Trentacinque tonnellate in un secondo e bum, sette auto e le vite a bordo disintegrate. Eppure il limite su tutta la superstrada è 70 all’ora. Luca, l’autista, 38 anni e tre ore di sonno in due notti e un giorno di lavoro senza sosta, non prova nemmeno a frenare. Appaiono due autotreni che a loro volta corrono a più di 90 orari. Luca prende la mira tra il paraurti del primo rimorchio che si avvicina e lo spartitraffico. Si butta dentro con la testa che gli ciondola più per la stanchezza che per i sobbalzi. Poco fa, in un altro sorpasso millimetrico, è andato così vicino all’altro camion che all’autista brillavano le otturazioni d’oro, lucidate dai fari riflessi dentro gli specchi retrovisori. Nessuno rallenta. Nessuno cede il passo. Il mondo dei trasporti su strada in Italia è ormai una corrida. Una corsa senza scrupoli che riguarda l’85 per cento delle merci che produciamo, vendiamo, compriamo, consumiamo. Cioè l’85 per cento della nostra economia. E se continua così sarà guerra. Altri scioperi, blocchi stradali, barricate. Si comincia il 21 aprile con l’annunciata protesta degli autisti di bisarche, i camion che trasportano auto. Perché la resistenza fisica di dipendenti e padroncini è al collasso. I camionisti assunti dalle ditte che lavorano in conto terzi devono correre il più possibile o vengono licenziati. I padroncini che guidano il proprio camion devono adeguarsi o perdono i contratti. Qualcuno per non addormentarsi alla guida ha cominciato a sniffare cocaina. Altri, per salvarsi, sono fuggiti a lavorare in Francia. Molte attività sono scomparse: undicimila ditte di trasporto nel 2007 hanno chiuso. Gli orari di guida, i cronotachigrafi, i tempi di riposo riguardano norme europee da rispettare soltanto all’estero. Una volta rientrati in Italia è un tutti contro tutti. L’aumento del costo del gasolio c’entra solo in parte. Perché la deregulation che sta riempiendo strade e autostrade di camion bomba comincia prima della corsa del petrolio. Parte dall’illegalità diffusa, dall’evasione di fisco e contributi previdenziali, dalla concorrenza sleale di imprenditori che costringono i dipendenti a ritmi massacranti con metodi da criminalità organizzata, anche perché a volte ne fanno parte. Uno sfruttamento che sale soprattutto dalle richieste sempre più frenetiche dei committenti: le grandi catene di distribuzione, i centri commerciali, la produzione industriale in tempo reale che non fa più scorte di magazzino. Per mantenere i guadagni, molte aziende di trasporto del nord e della Toscana si sono adattate. Hanno aperto sedi nell’Europa dell’est. Hanno licenziato gli autisti italiani e li hanno sostituiti con colleghi slovacchi, polacchi e romeni. Li pagano al massimo 700-900 euro al mese contro una base contrattuale italiana di 1400 più le trasferte. Qualcuno prende anche meno. E se vivono sul camion, trattengono loro 150 euro dallo stipendio per l’affitto della cuccetta come casa. L’ultima frontiera sono i moldavi: cinque giorni di lavoro dichiarati in busta paga anche se guidano tutto il mese, 35 euro al giorno in nero. Trasferta, vitto e spese compresi. E poi gli stranieri hanno il vantaggio della patente estera: se vengono sorpresi dalla polizia a commettere irregolarità gravi, non perdono punti e non rischiano di rimanere a piedi. È già successo nell’edilizia, nell’agricoltura, nella cantieristica di Stato con l’introduzione di manodopera non qualificata e sottopagata. Schiavi moderni: in un Paese senza legalità vincono i più furbi o quelli che accettano le regole e non protestano. Solo così pesce e verdura arrivano in 24 ore ai banchi di vendita e a prezzi abbordabili, le fabbriche vengono rifornite in tempo di materie prime, gli scaffali dei supermercati restano pieni. Alla fine, in cima alla filiera ci siamo sempre noi: i consumatori. Ma il prezzo da pagare è un conto macchiato di sangue che può essere presentato in qualunque momento. Perché in città o in autostrada può capitare a tutti di incrociare la roulette russa di un autista troppo stanco per sopravvivere alla sfida. Ecco il resoconto di due settimane in cabina di guida. Da Reggio Calabria a Parigi. Dall’Italia alla Francia. Dalla pirateria economica al rigoroso rispetto delle regole. E ritorno. Alcuni camionisti, per non essere licenziati, hanno chiesto l’anonimato. Per questo non vengono rivelati i nomi delle aziende per cui lavorano. Quelli come Luca, l’autista che stanotte sta guidando verso Roma, hanno deciso di stare al gioco. Sono pagati a cottimo: 250 euro a viaggio. Più viaggiano, più guadagnano. Tre viaggi a settimana da sud a nord rendono tremila euro al mese. “In busta ti danno 1.700 euro, il resto in nero”. Stasera non ha nemmeno cenato. Luca non cena mai. “Non ci fermeremo”, avverte, “cenare mi fa venire sonnolenza”. Si viaggia senza riscaldamento, mentre fuori la temperatura è vicina allo zero: “Fa freddo, sì, ma se accendo l’aria calda mi viene sonno”. Anche a pranzo ha mangiato pochissimo. Mezzo piatto di penne al pomodoro e una bottiglietta di acqua naturale. È finita l’epoca della trattoria del camionista, la garanzia di un pasto dignitoso e a buon mercato. Non c’è tempo per una sosta. Stanotte non ci si ferma nemmeno per andare in bagno. Fare pipì è diventato un lusso che un autista non si può permettere. Soprattutto nei viaggi lunghi che trasportano primizie ai mercati all’ingrosso del nord. “Per ogni sosta se ne vanno almeno quindici minuti”, racconta Roberto, 44 anni, dipendente di una ditta campana che consegna verdura siciliana a Bologna, Milano e Torino: “Rallenti, cerchi posto all’autogrill, parcheggi, riparti. A Milano se ti presenti ai mercati generali dopo la mezzanotte non ti fanno nemmeno scaricare. Allora la pipì te la tieni. Oppure ti arrangi. C’è chi la fa dentro una bottiglia. Senza fermarsi, ovvio. Io mi porto sempre una bottiglia vuota, quelle da latte con l’imboccatura larga. Meglio così che perdere il lavoro”. E le soste obbligatorie? Le direttive europee prevedono 45 minuti di riposo ogni quattro ore e mezzo di guida, un massimo di nove o dieci ore al giorno, mai più di 47 a settimana o 90 ore ogni due settimane. Il viaggio di Luca dura dalle 21.30 di ieri sera. Si parte di domenica da Salerno con il camion blu della ditta per la quale lavora da qualche anno. Luca rivedrà sua moglie e suo figlio piccolo sabato, dopo una settimana in giro per l’Italia. Ci si ferma a Perugia che siamo già fuorilegge: 5 ore e 20 minuti di guida. Quasi sempre a 90 all’ora, 20 chilometri più del limite. Finalmente si dorme. Le sveglie di due telefonini puntate sulle 5: “Con una, rischio di non sentirla”. Due ore di sonno. Si riparte senza nemmeno scendere dal camion. La faccia di Luca è stravolta. Si vede che è in crisi. Dietro le lenti rotonde degli occhialini da vista le palpebre continuano a ondeggiare. Alle 6.33 sosta di 9 minuti all’autogrill per un caffè, una brioche e una rapida toilette. Nove minuti non contano come riposo. “Sì, è vero, ero in crisi”, ammette più tardi, “il risveglio è il momento peggiore per me. Anni fa ho avuto un colpo di sonno sull’Autosole. Con camion e rimorchio sono salito su un terrapieno di cemento armato. Mi ricordo tutto ma ero come un robot, continuavo ad andare”. Superata Cesena, anche in autostrada la velocità è sempre sopra il limite di 80. “Il camion è programmato a 90 all’ora. Se la polizia ci ferma, fanno la multa minima per eccesso di velocità: 72 euro e non ti tolgono punti. Dieci chilometri in più sono sempre minuti risparmiati. Solo in discesa, con il peso del carico, si riesce ad andare più forte”. Bisogna arrivare prima degli altri. Scaricare prima degli altri. E ripartire prima degli altri. Alle 8.30 raggiungiamo la prima destinazione di scarico. Tolte le due ore di sonno, fanno già nove ore di guida: “Ci è andata bene oggi”, spiega, “perché se fossimo andati a Milano avremmo dovuto aggiungere altre due ore e mezzo di viaggio”. A questo punto Luca dovrebbe fermarsi per nove ore di riposo obbligatorio. Invece la sua giornata è solo all’inizio. La sua ditta lo obbliga a lavorare come facchino. E per un’ora deve scaricare il camion. Si riparte alle 9.40 per un’altra ora e mezzo di guida tra le campagne dell’Emilia. Ormai completamente fuorilegge. Ed è appena la mattina di lunedì. La giornata passa attraccati all’hangar di uno spedizioniere in provincia di Bologna. Il camion va ricaricato di “collettame”, pacchi e scatoloni da portare a sud. Luca deve lavorare sul rimorchio, provvedere alla spiombatura e piombatura e rimanere a disposizione dei piazzalisti. I tempi di scarico e carico sono un incubo per gli autisti. Franco Feniello ha appena fondato l’ associazione Italia truck per raccogliere le proteste dei colleghi che non si sentono difesi dai sindacati ufficiali. “Non riusciamo a farci rappresentare come i colleghi francesi”, dice, “e quando protestiamo la gente ci è contro. Vogliamo che la nostra attività sia riconosciuta come lavoro usurante. Non possiamo guidare a questi ritmi fino a 65 anni”. Il record nazionale di ore di guida è di un iscritto dell’associazione, 54 anni, autista dipendente di una società che rifornisce di materia prima le vetrerie di mezza Italia. “Dal 10 al 15 marzo”, racconta, “ho percorso 4.600 chilometri suddivisi in tre viaggi per un totale di 107 ore di guida. In sei giorni ho quasi finito il monte ore di tutto il mese. Questo per 1.400 euro comprese le trasferte”. Una media di 18 ore di guida al giorno. Feniello mostra una bolla di accompagnamento su carta intestata dell’Auchan di Rescaldina, un deposito alle porte di Milano della catena francese. C’è scritto: “Si rifiuta la merce perché l’autista non scarica”. “Questo è quanto pretende la grande distribuzione”, protesta il fondatore di Italia truck, “dopo 12 ore di viaggio vogliono che diventiamo i loro facchini. Quel tempo dovrebbe servire al nostro riposo”. Un altro esempio è la catena tedesca Lidl: “I camion tedeschi non appena arrivano avvertono la loro ditta via fax”, spiega Franco Feniello, “perché superate le quattro ore di attesa i tedeschi si fanno rimborsare il fermo del camion. Noi invece dobbiamo aspettare anche sei ore e gratis prima di scaricare”. Gli autisti che sniffavano per rimanere svegli sono stati scoperti durante un’indagine su un traffico di cocaina a Nocera Inferiore, in Campania. È al sud che i camionisti che tentano di migliorare le proprie condizioni di lavoro vengono ripagati con ritorsioni. Ai carabinieri della Regione Campania sono arrivati gli esposti di dipendenti contro i loro principali. Un autista che protestava per le ore di lavoro non pagate è stato licenziato con le minacce: “Ti faccio uccidere in casa”, è scritto nella denuncia. Al nord si usano metodi più subdoli. Come il caso della ditta di Bologna che obbliga i suoi autisti a trasportare merci pericolose senza abilitazione, in autostrada fino a Torino: “Trasportiamo bidoni di olio per motore, cartucce da sparo nascosti sotto i teloni”, rivela un autista: “Per pagare meno l’autostrada, ci fanno agganciare rimorchi a due assi invece di tre che quasi si piegano sotto il peso. Se mi ferma la polizia, mi arresta. Per 1.500 euro al mese. Il capo me l’ha già detto: se hai paura, vai via. Ne trova altri come me”. Qualcuno è proprio scappato dall’Italia. Pietro Spataro, 45 anni, di Torino, da oltre un anno lavora per una ditta francese. Viaggia con il suo computer in cabina e nelle soste serali ha il tempo di aggiornare il blog della sua associazione (unionecamionisti.com). “In Francia se sgarri su ore e velocità”, spiega, “è la tua ditta a licenziarti. Perché le multe non le pagano gli autisti, ma i trasportatori e i committenti”. A Lione si ricordano ancora quando nel piazzale di un’azienda che produce parti per auto sportive arrivò un camion carico di alluminio da Avellino. Il trasportatore italiano aveva deciso di mettere il carico di due Tir su un unico rimorchio. Un sovraccarico di qualche tonnellata rispetto al massimo previsto. Quel giorno l’autista era convinto di poter presentare le due bolle di accompagnamento senza problemi. Invece prima gli hanno chiesto dove fosse il secondo camion. Poi non lo hanno nemmeno lasciato scaricare. Hanno chiamato la gendarmeria. E tra trasportatore e autista si sono presi 8mila euro di multa. Dopo 19 ore continue di lavoro, due ore di sonno nella notte e un’ora nel pomeriggio, Luca porta il suo camion al secondo piazzale di carico a Bologna. Ci lasciano ripartire alle dieci di sera. Con due fogli di viaggio. Da uno risulta una partenza alle 18.50 e l’arrivo obbligatorio a Roma entro le 3 di notte. Nell’altro la partenza alle 21.20 e l’arrivo sempre alle 3 di notte. Ovviamente alla polizia andrebbe consegnato il primo. Perché il secondo richiederebbe una media lungo l’autostrada A14, la superstrada E45 e le strade provinciali di oltre 79 chilometri all’ora. Ma sono già le dieci di sera e restano soltanto cinque ore per percorrere i 436 chilometri Bologna-Roma via Perugia, con un peso complessivo di 35 tonnellate. Luca firma e compila il nuovo disco del cronotachigrafo. Quello appena chiuso viene nascosto. In caso di controlli dirà che l’ha perso, come ogni ditta insegna ai suoi autisti. La polizia italiana non è severa come quella francese. E nessun agente ha voglia di perquisire un camion per tutta la notte. Sono infiniti i trucchi per cancellare le ore di guida. Dall’amico fantasma: il secondo autista che non c’è, mentre quello alla guida risulta a riposo. Ai fogli di ferie: così sembra che l’autista abbia cominciato il viaggio a metà percorso. Ma anche stanotte Luca non ha bisogno di stratagemmi. Non ci sono controlli. Entriamo nel piazzale di scarico a Roma alle 3.07, sette minuti appena di ritardo. Alla media di 87 chilometri all’ora. “Visto che ce l’abbiamo fatta?”, esclama. Alle 6.32 si riparte per Milano. È solo l’inizio di un’altra giornata. Caporalato al Sud, false cooperative al Nord: l’Italia del pomodoro divisa in due di Laura Cavestri e Vera Viola Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2018 In estate ci sono i pomodori. E nel resto dell’anno, asparagi, carciofi, finocchi e grappoli d’uva. Ma non c’è un sistema pubblico - di infrastrutture e servizi - capace di far arrivare alle 6 del mattino, su un campo distante chilometri da un centro abitato, 50 o 80 lavoratori per quei 20 o 40 giorni necessari alle esigenze di raccolta. I “centri per l’impiego” e i bus navetta si chiamano, così, caporalato al Sud e “false cooperative” al Nord e sono i due volti di un fenomeno sempre più in crescita quanto più l’Italia rinuncia a fare incontrare, legalmente in agricoltura, domanda e offerta. Ieri, a Foggia, dopo il grave incidente in cui lunedì hanno perso la vita 12 braccianti, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ricordato che “vanno rafforzati i controlli e la prevenzione contro il caporalato”. Mentre il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha affermato che “la legge sul caporalato va aggiornata”. Ma il problema è strutturale. La fotografia del Sud - Meno meccanizzazione e più disponibilità di manodopera a basso costo. Il fenomeno dei braccianti immigrati irregolari assume al Sud forme più evidenti. Il 60% dei lavoratori a nero in agricoltura è utilizzato da aziende agricole del Sud. Il 20% in Puglia, la regione più vocata alla coltivazione del pomodoro, soprattutto a quello destinato all’industria della trasformazione. Sono circa 400mila gli immigrati sottopagati e impegnati in questi giorni nelle campagne italiane: dati che i sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno presentato ieri in conferenza stampa a Foggia per annunciare la grande manifestazioni di oggi contro il caporalato e i voucher in agricoltura. Uno studio della Fai Cisl Puglia sugli elenchi di iscrizione dei lavoratori (Inps) ha evidenziato poi che il 40% degli iscritti nelle liste regionali (ufficialmente)?non supera i 51 giorni di lavoro annui. In altre parole non raggiunge il tetto minimo per ricevere contributi e welfare. Paolo Frascella, segretario della Fai Cisl Puglia precisa: “All’area del lavoro totalmente irregolare si aggiunge quella del lavoro dichiarato ma solo in piccola parte”. I luoghi di incontro sono noti, lì i braccianti aspettano all’alba, passa il “caporale” e li carica. Agli immigrati si uniscono anche gli italiani che in molti casi ritornano a offrirsi per il lavoro in campagna a qualsiasi prezzo. Più o meno 20 euro per almeno undici ore di lavoro al giorno. “C’è chi - dice Raffaele Tancredi della Fai Cisl Campania -?vicino alla pensione accetta di lavorare gratis al solo scopo di ricevere i contributi che gli mancano”. Fenomeno crescente al Nord - Al Nord le cooperative che svolgono in outsourcing servizi per il comparto agro-alimentare sono una realtà in crescita. “L’azienda agricola che ha maggiore bisogno di manodopera e per pochi giorni - spiega Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative e di Conserva Italia - si affida a queste cooperative per averla in poco tempo. A differenza dal caporalato diffuso al Sud, questi soggetti hanno una parvenza di azienda. Ma, in molti casi, sono strumenti giuridici che vivono meno di un anno, applicano contratti di lavoro firmati da sigle sindacali minori e spesso non versano nè tasse nè contributi previdenziali ai lavoratori. Con stipendi più bassi e zero versamenti, un lavoratore può costare meno della metà di un’assunzione regolare”. Con queste “false” cooperative - che tradiscono, nel nome, il senso della loro identità - si pagano meno tasse e si possono smontare i contratti nazionali di lavoro. I produttori - “La raccolta meccanica del pomodoro - fa presente il presidente di Anicav (l’associazione dei produttori di conserve alimentari) Luigi Ferraioli -?ha raggiunto il 100% al nord e il 90% nel bacino del centro-sud, il quale ha però una superficie coltivata molto estesa e quindi quel 10% di attività manuale attira molte migliaia di lavoratori”. “L’utilizzo di manodopera irregolare in agricoltura - aggiunge il direttore generale di Anicav, Giovanni De Angelis - rappresenta un danno anche per l’industria di trasformazione che vede continuamente messi sotto accusa i propri prodotti”. Dopo gli incidenti mortali dei giorni scorsi, la grande distribuzione estera si è precipitata a chiedere chiarimenti ad Anicav. “È utile ricordare - conclude De Angelis - che il prezzo che le aziende italiane di trasformazione, in particolare al Centro Sud, pagano agli agricoltori per il pomodoro è il più alto al mondo, naturalmente anche per il più elevato livello qualitativo”. Mutti opera prevalentemente nel Nord Italia (a Parma) ma ha anche uno stabilimento a Salerno. “Al Nord la raccolta meccanica del pomodoro è partita a fine anni ‘80. La nostra scelta - spiega l’amministratore delegato dell’omonima azienda, Francesco Mutti - è stata di richiedere dai fornitori, sia al nord che al sud, il 100% di raccolta meccanica, proprio per uscire dalla problematica del caporalato e dello sfruttamento”. Però non basta. “Abbiamo dei nostri agronomi - spiega Mutti - che svolgono controlli di qualità. Ma è lo Stato che deve attuare controlli rigorosi e continui, 300 giorni l’anno e deve farlo alle 5 di mattina sulle strade che portano ai campi, perché poi verificare la regolarità delle assunzioni sui terreni è difficile. E poi vanno offerti servizi a questi lavoratori. In Gran Bretagna - conclude Mutti - gli immigrati reclutati dai caporali nei campi di fragole sono stati riuniti in vere cooperative, gestite dai lavoratori. Questa può essere una strada”. Braccianti ancora stipati nei furgoni. Il giorno dopo non è cambiato nulla di Michelangelo Borrillo Corriere della Sera, 8 agosto 2018 Non lo chiamano più Gran Ghetto. Solo Ghetto, che volendo è anche peggio. Ai piedi del Gargano, il promontorio che divide i campi del Tavoliere delle Puglie - popolato da braccianti - dalle spiagge estive - affollate di turisti, vivono in mille. Quando il Ghetto era grande, erano il doppio, 2 mila schiavi dei campi. Ma dopo il devastante incendio del 2017, durante il quale morirono due migranti, fu sgombrato. Pochi mesi dopo è riapparso a qualche centinaio di metri di distanza, sempre a ridosso della Statale 16 che collega Foggia a San Severo. Stesse baracche, stesse roulotte. E stessi furgoncini bianchi che vanno e vengono. “Non sono dei caporali, sono di amici”, raccontano quei pochi che parlano. Non dicono la verità, perché i veri amici non pretendono 5 euro per accompagnarti sul luogo di lavoro. Nel Ghetto tornavano, dopo una giornata di lavoro, i 12 braccianti africani morti nell’incidente stradale di lunedì. L’inferno del Ghetto - Il Ghetto è popolato soprattutto da giovani centroafricani: 20 anni, massimo 30, devono essere giovani e forti. Provengono dal Senegal, dal Mali, dal Ghana. Nei furgoni - nel caldo della provincia più torrida d’Italia (fino a 47 gradi in estate, soltanto Siviglia e l’Andalusia, in Europa, raggiungono quelle temperature) - si stipano anche in venti, sulle panche di legno, in spazi che potrebbero contenere al massimo 8 persone. “Ma oggi, dopo l’incidente, siamo tutti qui, non siamo andati a lavorare”. E anche questa non è la verità. Il giorno dopo la strage - Lo sfruttamento nei campi non si ferma, neanche dopo che 12 amici di sventura sono morti sulle strade infuocate del Tavoliere. Lo testimonia il blitz fatto ieri mattina, nella prima alba dopo la strage sull’asfalto, dai carabinieri del comando di Foggia nelle campagne di Trinitapoli: erano in 15 in un furgoncino, con targa bulgara, forse rubato, che ne poteva trasportare al massimo 8. Originari del Mali e del Ghana, avevano già percorso un centinaio di chilometri quando, accortisi dei carabinieri, hanno cominciato a scappare nei campi, impauriti. In 6 sono stati fermati, gli altri sono fuggiti tra le vigne. “Ieri - spiega Marco Aquilio, comandante provinciale dei carabinieri di Foggia - è stato un giorno come un altro, non si fermano mai. E percorrono tanti chilometri su furgoncini senza sedili, con panche in legno, senza aria condizionata. Per questo, al ritorno, dopo una giornata di fatica, sono stanchissimi e rischiano malori e colpi di sonno”. Al tramonto, infatti, c’è lavoro anche per i poliziotti dell’Anticrimine di San Severo (istituita due mesi fa per contrastare la mafia foggiana), sulla stessa Statale, la 16, dell’incidente di lunedì: “Abbiamo effettuato il sequestro di un mezzo - spiega Daniela Di Fonzo, dirigente del reparto Anticrimine della questura di Foggia - che viaggiava senza assicurazione. E anche la patente del conducente non era valida”. I caporali arrestati - Da ottobre a oggi, negli ultimi 10 mesi, sono state effettuate, in Capitanata, 75 operazioni straordinarie interforze di prevenzione sulla circolazione dei mezzi: sono stati controllati 1.742 veicoli, 1.678 persone, sequestrati 147 automezzi con 20 denunce e 4 caporali arrestati, tutti stranieri. “Positivo il fatto che aumentino i controlli sui mezzi - spiega Daniele Iacovelli, segretario generale della Cgil di Foggia - ma adesso anche le aziende che utilizzano quei furgoncini devono uscire allo scoperto. Se hanno bisogno di aiuti economici per sostenere il trasporto dei braccianti, lo dicano. Ma non si affidino ai caporali”. Sulla rete delle aziende per le quali lavoravano i 12 braccianti morti sta indagando il procuratore di Foggia, Ludovico Vaccaro, con due inchieste in parallelo, una per accertare la dinamica del terribile incidente stradale, l’altra per capire se c’è stata una intermediazione illecita nel lavoro, ovvero se c’è stato sfruttamento dei lavoratori: “Ne ho viste tante nella mia vita, però vedere 12 corpi più due feriti, stipati all’interno di un furgone, con mani e braccia spezzate, mi ha sconvolto”. E pensare che il loro sogno, spezzato, era solo ritornare in un Ghetto.