Riforma: no ad un “allargamento” delle misure alternative di Lucia Izzo studiocataldi.it, 7 agosto 2018 Il decreto attuativo sulla riforma delle carceri stralcia molte delle previsioni della riforma Orlando, tra cui l’allargamento della possibilità di ricorrere alle misure alternative. Sul limitar della scadenza della delega, nella serata di giovedì 2 agosto 2018, il Consiglio dei Ministri riunito a Palazzo Chigi ha approvato, in esame preliminare e su proposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, tre decreti legislativi riguardanti la riforma dell’ordinamento penitenziario che era stata già adottata in via preliminare dal precedente governo lo scorso 16 marzo. Come prevedibile, la riforma delle carceri predisposta dall’ex ministro Orlando ha dovuto fare i conti con il nuovo orientamento politico del CdM: la riforma, su cui aveva lavorato una squadra di giuristi coordinati da Glauco Giostra, è stata passata al setaccio dal Governo Lega-M5S uscendone, di fatto, fortemente modificata, ovvero totalmente riscritta. Il nuovo esecutivo, come si legge in una nota, a seguito del parere negativo che le Commissioni parlamentari competenti avevano espresso su alcuni articoli del precedente decreto, “ha ritenuto opportuno intervenire con una revisione e riscrittura del testo, in modo da tenere conto delle indicazioni espresse dal Parlamento”. I tre decreti introducono disposizioni volte a modificare l’ordinamento penitenziario, a revisionare la disciplina del casellario giudiziale e ad armonizzare la disciplina delle spese di giustizia funzionali alle operazioni di intercettazione. In un post, il guardasigilli Alfonso Bonafede ha assicurato che che “ministero e governo stanno lavorando per migliorare la qualità della vita nelle carceri garantendo comunque la certezza della pena” e “in tempi brevi, le Camere avranno la possibilità di esprimersi sul nuovo testo”. Addio facilitazioni misure alternative - Il nuovo testo che reca la riforma dell’ordinamento penitenziario appare, dunque, piuttosto alleggerito rispetto al predecessore che prevedeva, tra l’altro, di allargare i benefici concessi ai detenuti. Ad esempio, il Governo ha stralciato il decreto attuativo volto a facilitare l’accesso a misure alternative alla detenzione in carcere; stessa sorte è toccata alle disposizioni riguardanti l’eliminazione degli automatismi preclusivi alla concessione di forme attenuate di esecuzione della pena con affidamento, caso per caso, alla maggiore discrezionalità della magistratura di sorveglianza circa la decisione del percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato. Il provvedimento, in tal modo, si adegua alla “mutata volontà” politica posto che molti oppositori avevano all’epoca salutato la riforma Orlando parlando di “salva ladri” e “svuota carceri”, e pareri contrari erano stati raccolti anche da entrambe le Commissioni Giustizia. Cosa resta nella nuova riforma - Nel nuovo testo, dopo la sforbiciata dell’esecutivo, restano comunque diverse disposizioni: una parte rilevante, ad esempio, rimane quella dedicata alle modifiche in tema di assistenza sanitaria dei detenuti con possibilità di ricoveri in strutture sanitarie esterne laddove siano necessarie cure o accertamenti sanitari che non possono essere apprestati negli istituti. Particolare attenzione viene posta anche alla necessità di potenziare l’assistenza psichiatrica negli istituti di pena. Inoltre, si rammenta la necessità che detenuti e internati abbiano accesso a prestazioni sanitarie tempestive nonché a informazioni complete sul proprio stato di salute, sia all’atto di ingresso in istituto che durante e al termine del periodo di detenzione. Ancora, restano le disposizioni riguardanti la semplificazione delle procedure (prevedendo anche il contraddittorio differito ed eventuale), nonché la suddivisione delle competenze dal magistrato di sorveglianza e del Tribunale di sorveglianza da una parte (in caso di definitività della condanna) e dall’altra parte del giudice procedente in caso di procedimento pendente. Ancora, puntuale la disciplina sulla revoca delle misure alternative laddove la persona che vi sia sottoposta venga raggiunta da altre sentenze definitive. Si interviene più ampiamente, inoltre, sulle norme che disciplinano il procedimento di sorveglianza in funzione di accelerazione dei procedimenti. Il trattamento penitenziario - La riforma si sofferma per buona parte sulla “vita penitenziaria” ovvero sul trattamento all’interno degli istituti. Si rammenta la necessità che il trattamento penitenziario sia conforme a umanità e assicuri il rispetto delle dignità della persona, improntato ad assoluta imparzialità e senza discriminazioni, conformato a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione. Ad ogni detenuto dovranno essere garantiti i diritti fondamentali e sarà vietata ogni violenza fisica o morale in suo danno. Il trattamento dovrà, anche attraverso contatti con l’ambiente esterno, puntare al reinserimento sociale. Il trattamento degli imputati, inoltre, dovrà essere rigorosamente informato al principio per cui essi non solo considerati colpevoli fino alla condanna definitiva. Ai detenuti che non prestano lavoro all’aperto, inoltre, dovranno essere garantite almeno quattro ore all’aria aperta ogni giorno. Ancora, ai detenuti e agli internati sarà garantito il diritto di essere assegnati a un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia allo scopo di favorire la frequentazione degli affetti. Alle madri carcerate, inoltre, sarà consentito tenere con sé i figli fino all’età di tre anni presso appositi asili nido organizzati in aree pertinenti per la cura e per l’assistenza de bambini. Inoltre, il trattamento penitenziario dovrà rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, incoraggiare le attitudini e valorizzare le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale. Verranno, all’uopo, proposti idonei programmi personalizzati di reinserimento dopo attenta osservazione del condannato o dell’internato. Il trattamento del condannato e dell’internato dovrà essere svolto, inoltre, avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro e della partecipazione a progetti di pubblica utilità. Colloqui con difensore e familiari - Significative le modifiche in tema di colloqui: a tutela del diritto di difesa, si afferma la facoltà del condannato di effettuare colloqui con il proprio difensore senza limiti fin dall’inizio dell’esecuzione della pena o della custodia cautelare, in quest’ultimo caso fatte salve le limitazioni di cui all’art. 104 del codice di procedura penale. Per quanto riguarda i colloqui con i familiari, si ha cura di prevedere che possano svolgersi ove possibile con modalità riservate, in locali poco rumorosi e ove sia limitata l’eccessiva visibilità tra i diversi gruppi familiari, cercando di offrire alle famiglie un minimo di riservatezza pur non venendo meno i controlli del personale addetto. A essere favoriti sono anche i colloqui con i minori, che potranno svolgersi anche nelle giornate festive, per non ostacolare i percorsi scolastici dei bambini, e in locali e aree, specialmente all’aperto, appositamente attrezzati. Vita detentiva, il ritorno al passato della nuova riforma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2018 Oggi le Commissioni giustizia delle Camere esamineranno il decreto riscritto dal governo. Modifica e riscrittura dei testi originali della riforma dell’ordinamento penitenziario sulla vita detentiva, perquisizioni corporali, colloqui. Non solo, quindi, l’eliminazione del decreto riguardante ciò che è fuori dal carcere, ma anche una modifica sostanziale riguardante il suo interno. Oggi le commissioni giustizia delle camere esamineranno il decreto della riforma interamente riscritto dal governo legastellato. A questo si aggiungono i due decreti ancora in esame riguardante l’ordinamento minorile e la giustizia riparativa. La delega è scaduta da giorni, ma i decreti sarebbero stati incardinati in una specie di “clausola di salvezza”, che prevedrebbe di posticipare di 60 giorni la scadenza del termine di agosto, in quanto ci sono i 45 giorni per avere i pareri delle Commissioni, compresi i 10 giorni se il Consiglio dei ministri non dovesse recepire gli eventuali pare- ri. Il testo principale è stato, appunto, rifatto ex novo, tanto da aggiungere delle parole a diversi commi, oppure facendo rimanere così com’è alcuni commi del “vecchio” ordinamento e con il rischio evidente di fuoriuscire dal perimetro delle legge delega che puntava soprattutto a una graduale decarcerizzazione che parte dalla vita detentiva finalizzata alla riabilitazione, fino all’implementazione delle pene alternative concesse dai magistrati di sorveglianza quando accertano che si verificano le condizioni. Una delega che orientava a rimuovere diversi ostacoli ai benefici, al lavoro soprattutto di pubblica utilità, ai rapporti affettivi, compresa la modifica del 4 bis che avrebbe permesso l’accesso al trattamento penitenziario a coloro che ne rimanevano esclusi a prescindere. Tutto cambiato. Nei prossimi giorni il Dubbio entrerà più approfonditamente nel dettaglio, compresi alcuni punti relativi all’assistenza sanitaria. Per quanto riguarda le perquisizioni corporali, il governo ha preferito conservare l’articolo del vecchio ordinamento, non recependo il testo originale della riforma. Parliamo dell’articolo 34 che, nell’attuale ordinamento, prevede il diritto per l’Amministrazione Penitenziaria di svolgere perquisizioni personali sul detenuto con il solo limite della tutela della personalità. La riforma aveva previsto una modifica sostanziale, andando nella direzione della tutela dei diritti della dignità umana del detenuto, fissando limitazioni e obblighi e limitando “solo in presenza di specifici e giustificati motivi”. Un vero e proprio controllo su un atto invasivo della persona: un controllo non recepito dall’attuale governo. Altri interventi che il governo non ha recepito riguarda la disciplina dei permessi premio per i recidivi (art 30 quater) e quello che riguarda il divieto di concessione dei benefici a chi è evaso o ha avuto una precedente revoca di misura alternativa. In entrambi i casi, il precedente testo abrogava interamente l’art 30 quater e interveniva a limitare i divieti di concessione dei benefici nell’art 58 quater. Ora, con il nuovo testo i divieti dell’attuale ordinamento restano in vigore. Viene modificato anche il discorso sui colloqui. Il nuovo testo riscritto prevede di poter favorire i colloqui coi famigliari “ove possibile”, mentre nel testo precedente al posto del potenziale verbo “potere” si leggeva che era un dovere dell’amministrazione favorire i colloqui. La differenza è tra “potere” e “dovere”, dove lascia ampio margine di manovra all’amministrazione che non lo impegna troppo nella garanzia del rispetto degli obblighi di tutela dei diritti del detenuto allo svolgimento dei colloqui coi famigliari. Così come è stata cancellata la parte che mette nero su bianco la sorveglianza dinamica, cancellando addirittura ogni riferimento alle regole penitenziarie europee. Non siamo buonisti se difendiamo la dignità di chi è in carcere di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2018 Il 2 agosto scorso il Consiglio dei ministri ha approvato l’ennesima versione dell’ordinamento penitenziario. I non addetti ai lavori saranno probabilmente disorientati e confusi. Ripercorriamo dunque le puntate precedenti, partendo da lontano. Tra il 1931 e il 1975 la vita nelle carceri italiane era disciplinata dal regolamento fascista. La pena aveva tratti di disumanità e degradazione. Preghiera, silenzio e lavoro forzato ne erano gli elementi caratterizzanti. Durante gli anni della Resistenza alcuni grandi uomini della Patria furono arrestati e detenuti perché antifascisti. Tra loro Sandro Pertini. Una targa ricorda la sua carcerazione a Regina Coeli a Roma. Piero Calamandrei, straordinario giurista e politico di recente citato dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, come proprio punto di riferimento intellettuale, invocò una grande inchiesta sulle carceri, che allora erano luoghi di tortura. Pubblicò una meravigliosa raccolta di saggi nella rivista da lui diretta ‘Il Pontè. La titolò ‘Bisogna aver visto’. Vi scrissero i padri della Patria, tra cui Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Avevano visto e subito in prima persona la violenza del carcere mussoliniano. Poi arrivò la Costituzione, che all’articolo 27 sancì che le pene non debbano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato. A scrivere quella norma contribuirono grandi personalità della storia repubblicana, come ad esempio Aldo Moro. Eppure dovette passare molto tempo, e solo nel 1975 fu approvato con legge un nuovo ordinamento penitenziario coerente con il dettato costituzionale. Sono trascorsi 43 anni e quella legge richiede oggi necessari aggiustamenti. Il mondo è cambiato (basti pensare alla rivoluzione digitale), la criminalità non è quella degli anni 70, le professioni sociali sono modificate, la polizia è smilitarizzata, la sanità è regionalizzata. Si è consolidata una cultura diversa della pena tra gli operatori penitenziari e nel mondo dell’accademia, anche alla luce di analisi comparate. Tutti gli esperti di politica criminale e penitenziaria sanno che è necessario diversificare le sanzioni al fine di incrementare il loro senso di utilità individuale e sociale, favorire processi sani di recupero sociale facendo trascorrere gli ultimi pezzi di pena carceraria del detenuto fuori dalla prigione, dotare di senso il tempo passato in istituto, far diventare la galera un luogo di legalità e umanità. Si andrà così a costruire un Paese più sicuro senza assecondare le banalità del discorso forcaiolo fondato sulla logica della vendetta. Nel 2014 era iniziato un percorso riformatore. Una buona intuizione dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva dato avvio agli Stati Generali sulla pena, una grande consultazione di esperti volta a riscrivere le norme del 1975, aggiornandole e modernizzandole. Con colpevole ritardo, il Parlamento aveva approvato nel giugno del 2017 una legge che delegava il governo ad attuare la riforma. Qualche mese dopo, tre commissioni ministeriali produssero i testi dei decreti delegati. Si estendeva la possibilità di accesso alle misure alternative, si modernizzava e migliorava la vita dentro le prigioni, anche alla luce delle condanne umilianti subite dalla Corte Europea dei Diritti Umani nel 2009 e nel 2013. La lentezza, le paure, le timidezze e gli errori del governo precedente hanno fatto sì che quei decreti non arrivassero a definitiva approvazione, essendo necessario un ultimo avallo parlamentare. Seguendo una logica del tutto opposta a quella del buon senso e all’idea di poca utilità del carcere di recente ricordata da Beppe Grillo in un suo post, il contratto di governo tra Lega e M5S ha chiuso ogni prospettiva di cambiamento, strizzando l’occhio a culture reazionarie e a logiche meramente vessatorie. La pena è descritta quale pura afflizione, come vorrebbero alcuni sindacati autonomi di Polizia penitenziaria. Si nega ogni misura alternativa al carcere nel nome del feticcio della pena certa (come se una pena alternativa non fosse comunque una pena). Si dice finanche no a un modello democratico ed europeo di pena detentiva, che preveda la possibilità di stare fuori dalla cella (ma pur sempre in prigione) per qualche ora al giorno. Senza alcuna ragionevolezza, si accontentano quei sindacati che vorrebbero ridimensionare i poliziotti a girachiavi di celle dove le persone sono costrette a trascorrere le giornate in ozio forzato. Una volta vinte le elezioni, i decreti delegati scritti nell’autunno del 2017 sono arrivati al giudizio delle Camere. Le quali, come era prevedibile, hanno espresso un parere tendenzialmente negativo. Un parlamentare ha motivato il proprio parere contrario affermando che così vuole il popolo. E se il popolo volesse la ghigliottina? I decreti sono stati dunque modificati nelle parti essenziali. Lo scorso 2 agosto il Consiglio dei ministri ha approvato uno schema di decreto di riforma che al proprio interno presenta poche innovazioni (seppur positive) rispetto al quadro attuale, rinunciando invece a dar seguito a norme di grande rilievo come quelle sull’esecuzione penale esterna, sulla salute psichica, sulla quotidianità detentiva. Un errore strategico che Calamandrei avrebbe giudicato imperdonabile. Il ministro ha detto che le poche norme approvate (che sono comunque state rinviate alle Camere per l’ennesimo parere) qualificherebbero la propria azione di governo come non da forcaiolo né da buonista. Ma non è un buonista chi vuole una riforma che eviti la centralità della pena carceraria, che punti a norme educative per i minorenni - come sollecitato dall’Associazione Italiana dei Magistrati per i minorenni e per la famiglia, che nei giorni scorsi ha scritto ai parlamentari competenti sottolineando l’importanza di un ordinamento penitenziario minorile e di evitare automatismi imposti all’esecuzione pena dei ragazzi a prescindere dalla valutazione individuale sui bisogni rieducativi del singolo - che rompa l’equazione tra carcere e fabbrica di criminalità. Non è un buonista: è solo capace di riflessioni complesse, analitiche, attente alla sicurezza e ai diritti, pragmatiche e allo stesso tempo costituzionalmente orientate. Nel nome di Calamandrei, Pertini e Moro bisogna decarcerizzare la società e rendere più rispettoso della dignità umana quel che resta del carcere. *Coordinatrice associazione Antigone Non si fermano i suicidi in carcere: siamo a quota 33 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 agosto 2018 I suicidi in carcere non si arrestano, continuano al ritmo di quasi uno al giorno. L’ultimo ieri notte nel carcere di La Spezia. La vittima è Nadir Garibizzo, ex medico di 60 anni, detenuto nel carcere di La Spezia con l’accusa di tentato omicidio. L’ex medico dell’Asl 1 imperiese, radiato dall’ordine dopo aver ucciso la propria amante, negli scorsi mesi aveva tentato di uccidere un bambino di otto anni per vendetta nei confronti del suo avvocato ‘ reà, secondo l’uomo, di aver dismesso il mandato un anno fa e di avergli fatto così perdere la causa. Con questo ultimo suicidio siamo arrivati a quota 33 dall’inizio dell’anno. Il giorno prima un altro suicidio avvenuto nel carcere Marassi di Genova e riguarda un giovane poco più che trentenne per la prima volta in carcere. Il garante nazionale delle persone private delle libertà Mauro Palma scrive che era detenuto da meno di una settimana e il suo reato era spaccio di lieve entità. Il Garante pone delle riflessioni in merito. “La sua collocazione sociale - scrive Palma nel suo comunicato - era quella di giovane senegalese, con paternità e maternità sconosciute, disoccupato, senza fissa dimora. In sintesi, povero e solo”. Palma osserva che “piuttosto che centrare ora l’attenzione - seppure doverosa - verso le modalità con cui è stato o meno controllato in Istituto in quei pochi giorni, su come gli sia stato offerto quel riparo psicologico e materiale che è dovuto a ogni nuovo giunto in una istituzione chiusa”, sarebbe il caso che ci interrogassimo socialmente “su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate giovani vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere”. Intanto la procura di Viterbo ha nominato due periti per l’autopsia del giovane egiziano Hassan e la direzione sanitaria del carcere ha comunicato al Garante regionale dei detenuti Stefano Anastasia che provvederà ad istaurare un regime più rigoroso per valutare se una persona può essere in condizione psicofisica per affrontare il regime di isolamento. Sì, perché il 21enne egiziano si era impiccato il 23 luglio scorso al carcere di Viterbo proprio in cella di isolamento, salvato in extremis fu portato in ospedale e dopo una settimana di agonia è morto. Ma c’è di più e spunta una ipotesi più inquietante e ha che fare con presunti episodi di violenza che si sarebbero verificati all’interno del carcere viterbese di Mammagialla. Nei mesi scorsi, i collaboratori del Garante regionale, avevano raccolto testimonianze da parte di detenuti che hanno denunciato che sarebbero stati picchiati dagli agenti penitenziari nei locali lontani dalle telecamere di sorveglianza. A seguito di queste denunce - tutte ovviamente da verificare - il garante Anastasìa ha presentato un esposto al procuratore capo Paolo Auriemma. Nello stesso esposto, era stato sollevato anche il caso di Hassan quando ancora era in vita. Denunciò infatti di essere stato picchiato il 20 marzo, mostrando ai collaboratori del garante dei segni rossi sulle gambe e tagli sul petto ed espresse la preoccupazione di morire. Proprio per questo motivo, Anastasìa chiese il trasferimento in un altro penitenziario, ma non fu mai avvenuto. Secondo la versione del Dap, il 20 marzo Hassan non fu picchiato, ma si ricorse all’uso della forza perché si era opposto a un controllo della sua cella. L’ordinamento lo prevede, e stando ai sanitari interpellati dal Dap, le sue lesioni sono “incompatibili con un’azione offensi- va in suo danno”. Proprio a causa della sua resistenza ai controlli, per punizione fu messo in cella di isolamento. Ma dopo tre mesi e mezzo da quel fatto. Ci finì, appunto, il 23 luglio e neanche dopo due ore, si era impiccato. Secondo il Garante Anastasìa, da aprile in poi, Hassan avrebbe dovuto scontare una vecchia condanna di quattro mesi nel carcere minorile. Sì, perché quando commise quel vecchio reato di lieve entità, era ancora minorenne. La legge prevede che fino a 25 anni, se il reato è stato commesso da minorenne, la pena è da scontare nel penitenziario per minori. La direzione del carcere avrebbe dovuto avvisare il Dap e il magistrato di sorveglianza per chiedere il trasferimento. È stato fatto, oppure c’è stata disattenzione? Il garante Stefano Anastasìa ha scritto alla direzione e ancora attende una risposta. Il suicidio di Hassan è anche diventato un caso diplomatico tra Italia ed Egitto. Infatti il console egiziano subito si è attivato dialogando con la Procura. Per ora il fascicolo aperto in seguito all’esposto presentato dal Garante è senza indagati né ipotesi di reato e non sono coinvolti gli agenti di polizia penitenziaria. Rimane però aperto il fascicolo “istigazione al suicidio contro ignoti” riguardante la morte di Hassan. Un concorso letterario per restituire umanità ai detenuti di Bruno Ventavoli La Stampa, 7 agosto 2018 Un libro cambia la vita. E in carcere lo può fare davvero, senza retorica, anche perché là dentro le parole finte e vanagloriose valgono nulla. Per questo oggi debutta il “Sognalib(e)ro”, un premio letterario per detenuti. Nasce a Modena, perché è terra di Tassoni, che profuse libertà a secchiate in tempi di cupe catene, e perché l’assessore alla Cultura di quella Città l’ha sostenuto insieme al ministero della Giustizia. Nasce anche da un’esperienza concreta. Qualche anno fa “Tuttolibri” vera. La giuria ne premiò alcune. Conoscemmo personalmente alcuni autori. Un ragazzo albanese che stava scontando la pena con una serenità e una voglia di riscatto ammirevoli, perché in galera aveva imparato a costruire violini e a scrivere un italiano asciutto, perfetto, forbito, leggendo Ungaretti, Montale, Verga. Un suo collega, che aveva trascorso lunghi anni in cella, e il fine pena sarebbe arrivato entro qualche mese, raccontò che da quasi analfabeta s’era accostato a Neruda, Hemingway, e via via ai grandi della letteratura mondiale. Li aveva letti, meditati, assimilati, per scrivere a sua volta, e inventarsi un’esistenza diversa nella riconquistata la libertà. Due storie vere. Di delitti, castighi, e “rieducazione” (come prevede la nostra Carta), che non sono usciti da un romanzo edificante deH’800 ma da un universo, quello carcerario, che gronda disagio. E oltre tutto in un Paese come il nostro in cui i libri sono snobbati, disprezzati, dimenticati, perché un italiano (libero) su due non ne fa mai uso nell’affannarsi quotidiano. Da questa esperienza, dunque, parte il “Sognalib(e)ro”, rivolto a dieci istituti italiani (vorremmo che in futuro se ne unissero altri). Tre scrittori italiani - Ferrante, Manzini, Siti - hanno scelto tre romanzi per la gara - “Una storia nera” della Lattanzi, “L’Arminuta” della Di Pietrantonio, “Perduto in paradiso” di Pasti. I volumi in lizza vengono distribuiti negli istituti, letti, e votati come fosse uno Strega o un Campiello. Chi ottiene più voti vince. La seconda fase del “Sognalib(e)ro” è invece destinata ai detenuti in quanto scrittori. Il miglior autore di romanzo o memoir sarà pubblicato da Giunti, avrà quindi come premio il privilegio di entrare a pieno diritto nel normale circuito editoriale. La lettura in carcere è già una realtà. Da anni un silenzioso esercito di educatori, volontari, scrittori, la promuove tra mille difficoltà, spezzando l’apatia di una popolazione che vegeta tra celle sovraffollate in un tempo che pare immobile. Il “Sognalib(e)ro” aggiunge a questa esperienza un piccolo valore simbolico in più. Il detenuto che spesso è invisibile, semplice numero per statistiche del disagio e del mal vivere, nemico escluso dal mondo, diventa grazie al libro un individuo. Che legge. Che pensa. Che dà un voto e un giudizio. Torna ad essere, cioè, un uomo. Intercettazioni, slitta la riforma Orlando. Bonafede prepara la “controriforma” di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 agosto 2018 Doveva entrare in vigore in luglio. Doveva entrare in vigore a luglio, invece il decreto Milleproroghe la colloca su un binario morto. Finisce così, la riforma delle intercettazioni targata Andrea Orlando. Il nuovo Guardasigilli, Alfonso Bonafede, aveva annunciato la proroga alla sua entrata in vigore e ieri il Senato l’ha votata, in attesa del via libera definitivo in settembre della Camera: “Al fine di completare le complesse misure organizzative in atto per l’attuazione delle nuove norme in materia di intercettazioni, introdotte dal decreto legislativo 29 dicembre 2017, n. 216, anche relativamente all’individuazione e all’adeguamento dei locali idonei per le cosiddette “sale di ascolto”, alla predisposizione di apparati elettronici e digitali e all’adeguamento delle attività e delle misure organizzative degli uffici, il termine di applicazione di dette disposizioni viene prorogato al 31 marzo 2019. Inoltre, in relazione alle nuove norme contenute nella legge 23 giugno 2017, n. 103, che estendono il regime della multi-videoconferenza anche ai processi con detenuti non in regime di “41 bis”, constatata la necessità di una revisione organizzativa e informatica di tutta la precedente architettura giudiziaria, con l’aumento dei livelli di sicurezza informatica, e di incrementare il numero di aule negli uffici giudiziari e di “salette” negli istituti di pena, si prevede il differimento dell’efficacia delle stesse norme fino al 15 febbraio 2019”. L’intenzione di Bonafede, già chiarita nelle scorse dichiarazioni, è quella di azzerare il lavoro della passata legislatura e procedere a riscrivere le norme in materia di intercettazioni. Fino al 31 marzo 2019 e poi per ulteriori eventuali proroghe, invece, rimarranno ferme le norme oggi vigenti. L’affossamento della riforma Orlando è avvenuto anche con il consenso di buona parte della magistratura italiana, che ha in molte occasioni criticato la scelta di assegnare alla polizia giudiziaria eccessivo potere decisionale in merito alla valutazione di rilevanza delle intercettazioni ascoltate. Non appena comincerà la fase di riscrittura delle norme, il ministro ha assicurato che verranno interpellati “gli attori principali che quotidianamente vivono la realtà delle indagini e delle intercettazioni. Così arriveremo a una riscrittura che vedrà un punto di equilibrio fra tutti i diritti in gioco”. E ancora ha garantito che i 40 milioni già spesi per le attrezzature non saranno inutili: “Nemmeno un euro di quelli spesi andrà sprecato”. Attacco web a Mattarella. I pm chiedono aiuto a Twitter per risalire alla sorgente di Grazia Longo La Stampa, 7 agosto 2018 La Procura di Roma, attraverso una rogatoria internazionale, chiederà a Twitter i dati utili a capire come e quando sono stati attivati i profili da cui la notte del 27 maggio è partita la campagna contro il Presidente della Repubblica. Ma prima di questa mossa, dovrà attendere gli sviluppi dell’attività della Polizia postale impegnata all’identificazione di quei 400 profili. E se al momento non sono emerse evidenze acclarate di un legame con i troll russi, non è tuttavia escluso che questo link esista. La linea della Polizia postale è stata peraltro ribadita ieri pomeriggio anche da Alessandro Pansa, direttore del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), durante l’audizione al Copasir. Il fatto che finora non siano stati trovati i riscontri oggettivi di una matrice russa alla tweet storm contro Sergio Mattarella, non significa infatti che questa non sia reale. Per ora l’unica certezza acclarata dalla Polizia postale è che i tweet pubblicati dal sito americano FiveThirtyEight non hanno connessioni precise con quelli pubblicati in Italia contro il Capo dello Stato, la notte tra il 27 e il 28 maggio, usando l’hashtag #MattarellaDimettiti. Ma le indagini vanno oltre. Gli eccessivi rimbalzi nel web e i continui processi di “anonimizzazione dei profili”, noti nel mondo informatico come “Tor”, spingono investigatori e 007 a non trascurare la pista della fabbrica di troll di San Pietroburgo. Di fronte al Comitato per la sicurezza della Repubblica, presieduto da Lorenzo Guerini, il direttore Pansa ha infatti riferito che “sono in corso i necessari approfondimenti da parte delle strutture specializzate della nostra intelligence e che al momento non è possibile formulare conclusioni”. In procura, intanto, il pm Eugenio Albamonte, esperto di crimini informatici, ha aperto un fascicolo contro ignoti per “attentato alla libertà del presidente della Repubblica, offesa all’onore e al prestigio del Capo dello Stato e sostituzione di persona”. L’inchiesta, coordinata dai procuratori aggiunti Angelantonio Racanelli, per i reati informatici, e Francesco Caporale per l’antiterrorismo, prevede anche una collaborazione con gli americani dell’Fbi. Mentre con l’intelligence dei principali Paesi alleati stanno cooperando i nostri 007 per analizzare anche le tracce di bit e di flussi finanziari. Perché è evidente che ogni operazione virtuale del web ha alle spalle movimenti economici che, seppur nascosti da mani capaci, possono essere altrettanto abilmente rintracciati. Ancora da stabilire con certezza, nel frattempo, l’origine geografica, in Italia o all’estero, dei server utilizzati per l’onda denigratoria contro il Presidente della Repubblica. Nessun aspetto viene tralasciato alla ricerca della verità. Nella consapevolezza che ci si muove su un terreno minato, decisamente scivoloso, dove mille sono gli artifici per alterare la realtà. Una svolta decisiva arriverà, se mai arriverà, da Twitter, soprattutto per quanto riguarda la comunicazione dell’Ip, del tratto cioè distintivo da cui si può desumere la fonte di partenza di un messaggio. Da San Francisco, sede della piattaforma del social network, potrebbero inoltre giungere anche notizie precise sul momento esatto e le modalità in cui sono stati creati quei 400 account da cui a maggio partirono migliaia di tweet minacciosi contro il Capo dello Stato. Ma sul caso proseguirà anche il monitoraggio da parte del Copasir. Che, proprio per ricostruire quanto accaduto, tra una decina di giorni, chiederà la documentazione delle investigazioni alla Procura di Roma “le cui risultanze potranno contribuire a chiarire l’effettiva rilevanza della questione”. Durante le prime settimane di settembre al Copasir sono, inoltre, previste le audizioni dei direttori di Aisi e Aise (i servizi segreti interni ed esteri), nonché dei ministri componenti il Cisr (Comitato Interministeriale per la sicurezza della Repubblica). E sulla questione dei troll russi non si placa neppure la polemica politica, con il Pd che chiede di far luce anche con l’apertura di una commissione d’inchiesta e la Lega che, invece, tende a liquidare la questione come irrilevante. A Roma per Giulio Regeni, staffetta itinerante per chiedere verità e giustizia articolo21.org, 7 agosto 2018 Articolo 21 sostiene e rilancia l’iniziativa lanciata dall’associazione Fiab Monfalcone “BisiachInBici” “A Roma per Giulio”, sostenuta anche dai collettivi @GiulioSiamoNoi, Verità Per Giulio Regeni, con l’Ass. Culturale Corima di Cervignano del Friuli. Il prossimo, 22 settembre partirà dalla sede del Collegio del Mondo Unito (UWC Adriatic) di Duino (TS) una staffetta di ciclisti che passeranno per Fiumicello, paese di Giulio Regeni e scenderanno fino a Roma tappa dopo tappa. Lungo il percorso i ciclisti verranno accompagnati da altri cittadini che in numero crescente da due anni e mezzo sostengono la Famiglia Regeni. Il 2 ottobre ci sarà una tappa a Ostia presso lo Studentato recentemente dedicato a Giulio. Il 3 ottobre l’arrivo a Roma presso il Parco Regionale dell’Appia Antica che accoglierà i ciclisti. Poiché siamo sinceramente convinti che sia compito della società civile tutta partecipare alla formazione dei giovani affinché siano massimamente sensibilizzati su temi fondamentali per la nostra società e per il loro stesso futuro, all’incontro presso il Parco Regionale dell’Appia Antica (organizzato dalla Dott.ssa Caterina Rossetti), verranno invitate le scolaresche per un incontro sul tema diritti umani e civili con il contributo di associazioni e giornalisti operanti nel settore. Dal Parco dell’Appia i ciclisti muoveranno poi verso il Colosseo, punto di incontro della “comunità gialla” in bici e da lì verso il Teatro India, che gentilmente, grazie all’interessamento di Lorenzo Lavia, metterà a disposizione i suoi spazi per accogliere ciclisti, i genitori di Giulio Regeni e i cittadini che vorranno partecipare. Al Teatro India, verrà consegnata una lettera, con una raccolta firme, agli esponenti delle istituzioni italiane. Risarcimento per inumana detenzione: no a compensazione con le spese di mantenimento avvocatoamilcaremancusi.com, 7 agosto 2018 In punto di diritto il Ministero della giustizia, convenuto in giudizio dal detenuto per il risarcimento dei danni patiti a causa delle condizioni di detenzione (trattamento inumano o degradante), non può opporre in compensazione il credito maturato verso il medesimo detenuto per le spese di mantenimento, trattandosi di un credito che non è certo ed esigibile prima della definizione del procedimento previsto dall’art. 6 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che può concludersi anche con la remissione del debito. Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione I Civile, con l’ordinanza del 3 agosto 2018, n. 20528, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato quanto già deciso, nel caso de quo, dal Tribunale di Lecce. La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che il Tribunale di Lecce, con ordinanza del 2016, accoglieva il ricorso presentato ai sensi dell’art. 35-ter, comma 3, legge 354/1975 da (omissis) e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in suo favore della somma di € 2.112. In particolare il Tribunale adito da un lato riteneva infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa dell’amministrazione convenuta, giacché il fatto impeditivo della decadenza, ove coincidente con quello interruttivo della prescrizione, esclude il decorso anche di questo ultima, dall’altro reputava inammissibile l’eccezione di compensazione, stante la natura indennitaria del rimedio di cui all’art. 35-ter citato. Ricorre per cassazione avverso questa pronuncia il Ministero della Giustizia al fine di far valere due motivi di impugnazione. Per quanto è qui di interesse il Ministero ricorrente con il secondo motivo ha lamentato la violazione e la falsa applicazione della previsione di cui all’art. 1241 cod. civ., in quanto il rimedio introdotto dall’art. 35-ter o.p. avrebbe natura risarcitoria e non indennitaria e risulterebbe quindi assoggettabile a compensazione. La Corte di Cassazione, mediante la menzionata ordinanza n. 20528/2018, ha ritenuto il motivo non fondato ed ha rigettato il ricorso. Sul punto controverso la Suprema Corte ha osservato che in linea di principio “nulla osta a che il credito indennitario vantato dal detenuto per aver subito un trattamento inumano o degradante si estingua per compensazione con un controcredito vantato nei suoi confronti dall’amministrazione, non ricorrendo una delle ipotesi in cui la compensazione, ai sensi dell’articolo 1246 cod. civ., è preclusa”. Nondimeno, indipendentemente dalla questione se il controcredito dell’amministrazione maturato per il mantenimento del detenuto in carcere dia luogo a un caso di compensazione in senso tecnico, ovvero di c.d. compensazione impropria, traendo fonte entrambi i rispettivi crediti dalla detenzione, sta di fatto che il credito per il mantenimento è suscettibile di compensazione - nell’uno o nell’altro senso - solo ove dotato, anzitutto, del carattere della certezza. Posto, infatti, che si è in presenza di compensazione cd. impropria se la reciproca relazione di debito-credito nasce da un unico rapporto, in cui l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite può essere compiuto dal giudice d’ufficio, diversamente da quanto accade nel caso di compensazione cd. propria, che, per operare, postula l’autonomia dei rapporti e l’eccezione di parte, resta il fatto che, “così come la compensazione propria, anche quella impropria può operare esclusivamente se il credito opposto in compensazione possiede il requisito della certezza” (Corte di Cassazione, 23 marzo 2017, n. 7474). Orbene, l’articolo 188 del codice penale stabilisce che: “Il condannato è obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili”. L’articolo 2 della legge 26 luglio 1975, n. 354, poi, dispone che: i) il rimborso delle spese di mantenimento da parte dei condannati si effettua ai termini degli articoli 145, 188, 189 e 191 del codice penale e 274 del codice di procedura penale; ii) sono spese di mantenimento quelle concernenti gli alimenti ed il corredo; iii) il rimborso delle spese di mantenimento ha luogo per una quota non superiore ai due terzi del costo reale; il Ministro della giustizia, al principio di ogni esercizio finanziario, determina, sentito il Ministro per il tesoro, la quota media di mantenimento dei detenuti in tutti gli stabilimenti della Repubblica. Nel 2015, con decreto ministeriale 7 agosto 2015, pubblicato sul Bollettino ufficiale del Ministero della giustizia n. 18, 30 settembre 2015, è stata modificata la quota di mantenimento prevista, fissandola alla cifra di euro 3,62 per giornata di presenza. Ciò detto, l’articolo 5 del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, testo unico sulle spese di giustizia, elenca tra le spese ripetibili anche quelle di mantenimento dei detenuti. Dopo di che l’articolo 227 ter dello stesso testo prevede che il recupero sia effettuato con riscossione mediante ruolo “entro un mese dalla data del passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l’obbligo o, per le spese di mantenimento, cessata l’espiazione in istituto”. Va quindi osservato che l’articolo 6 dello stesso testo unico sulle spese di giustizia prevede un’ipotesi di remissione del debito, che il detenuto può invocare se si trova in disagiate condizioni economiche e ha tenuto in istituto una regolare condotta: istanza, questa, che può essere proposta “fino a che non è conclusa la procedura per il recupero, che è sospesa se in corso”. Va da sé che, fintanto che l’amministrazione non abbia agito per il recupero e non si sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione, neppure può dirsi che il credito concernente le spese di mantenimento sia effettivamente sussistente. Il credito in discorso, in definitiva, non può, nel giudizio introdotto ai sensi dell’articolo 35-ter, comma 3, della legge n. 354 del 1975, essere opposto in compensazione per la sua intrinseca incertezza, salvo detta incertezza non sussista - il che nella specie neppure è allegato - per essersi consumata la menzionata facoltà. In tal senso questa Corte già si è pronunciata in sede penale, affermando che, in materia di rimedi conseguenti alla violazione dell’articolo 3 Cedu nei confronti di soggetti detenuti o internati, “il Ministero della giustizia, convenuto in giudizio dal detenuto per il risarcimento dei danni patiti a causa delle condizioni di detenzione, non può opporre in compensazione ex articolo 1243 c.c. il credito maturato verso il medesimo detenuto per le spese di mantenimento, trattandosi di un credito che non è certo ed esigibile prima della definizione del procedimento previsto dall’art. 6 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che può concludersi anche con la remissione del debito” (Corte di Cassazione, pen. 10 ottobre 2017, n. 13377). Ciò esime dall’osservare che l’articolo 35-ter, comma 3, della legge n. 354 del 1975 è stato introdotto al fine di attribuire al detenuto una “compensazione appropriata” (v. Corte Edu, sentenza 16 settembre 2014 in causa Stella c. Italia), la quale rimarrebbe pregiudicata, nella sua effettività, qualora il trattamento risarcitorio - o meglio indennnitario, come chiarito da Corte di Cassazione, Sez. Un., 8 maggio 2018, n. 11018 - riservato dalla norma al detenuto fosse destinato ad operare nei limiti della compensazione con il controcredito dell’amministrazione. In tema di inumana detenzione si segnala Corte di Cassazione, Sezione I Civile, con la sentenza del 20 febbraio 2018, n. 4096, in commento su Punto di Diritto in: “Detenzione: criteri per il computo degli spazi minimi di vivibilità in cella” ove viene definito il principio di diritto secondo il quale “lo Stato incorre nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti quando il detenuto in una cella collettiva non possa disporre singolarmente di almeno 3 mq. di superficie, detraendo l’area destinata ai servizi igienici e agli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili come sgabelli o tavolini”. Annullati i domiciliari allo spacciatore colto in flagranza se manca il narcotest di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 6 agosto 2018 n. 37852. Da annullare i domiciliari applicati allo spacciatore colto in flagranza davanti ad una scuola, se non è stato effettuato il narcotest sulla sostanza sequestrata per la mancata disponibilità degli strumenti. Il provvedimento cautelare va annullato malgrado la polizia avesse a “occhio” riconosciuto cocaina e marijuana e nonostante le ammissioni dello spacciatore, anche lui tossicodipendente. La Corte di cassazione, con la sentenza 37852, accoglie il ricorso dell’imputato per reati di spaccio e ricorda che in assenza di narcotest si può convalidare l’arresto in flagranza ma l’esame è indispensabile per qualificare la gravità indiziaria, ai fini della misura cautelare. Per la convalida dell’arresto gli elementi c’erano tutti, anche la “confessione” dello spacciatore, con precedenti specifici, che, dopo la perquisizione aveva ammesso di essere tossicodipendente e affermato di detenere gli stupefacenti per uso personale. L’uomo era stato sorpreso, durante l’ora di ricreazione, davanti al cancello di una scuola, circondato da ragazzi minorenni che era “fuggiti” alla vista delle forze dell’ordine. Il tutto bastava per far scattare le manette ma non per supportare la misura cautelare che non può prescindere “almeno” dal narcotest. Responsabilità medica, necessaria un’analisi attenta per definire la colpa grave Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2018 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 6 agosto 2018 n. 37794. Il giudice non può condannare il professionista per lesioni gravi, affermando che si è posto “abbondantemente oltre i limiti delle linee guida” senza fare un’attenta valutazione del grado di colpa e della difficoltà della situazione. Lo ha sottolineato la Cassazione con la sentenza n. 37794 depositata il 6 agosto. Il caso esaminato riguardava un medico di pronto soccorso che non aveva disposto il ricovero immediato in un caso di “sospetta torsione del funicolo spermatico”. La mancata tempestività dell’intervento aveva provocato la perdita del testicolo da parte del paziente. In primo grado e in appello il medico è stato condannato perché non avrebbe seguito le linee guida non avendo fatto ricoverare il paziente e non avendolo operato immediatamente anche se nel suo presidio non era presente l’ecodoppler necessario per poter confermare la diagnosi. I giudici della Cassazione hanno accolto il ricorso del medico perché la motivazione della condanna non era chiara nel senso che non è stato specificato in modo chiaro ed esaustivo il fatto che il medico si fosse discostato dalle linee guida. “La distinzione del grado della colpa - specificano i magistrati - quale discrimine tra la condotta penalmente rilevante o irrilevante avrebbe imposto un’analisi critica circa al corrispondenza della condotta concretamente individuata come rimproverabile alla colpa grave previa verifica dell’effettiva pertinenza nel caso concreto delle linee guida indicate dai periti ed, in ogni caso, dello scostamento della condotta del sanitario dalle predette linee guida e dalle buone prassi”. I vertici amministrativi possono non conoscere il rischio al quale è esposto il lavoratore Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2018 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 37802. I responsabili amministrativi possono non conoscere i dettagli produttivi e quindi non sapere che il lavoratore è esposto al rischio amianto. È quanto ha precisato la quarta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 37802 depositata il 6 agosto. I giudici di legittimità hanno infatti accolto il ricorso dei vertici di una società produttrice di caldaie condannati per la morte di un lavoratore per mesotelioma pleurico. La Cassazione pur confermando la posizione di garanzia dei ricorrenti, direttore generale e componente del Cda, ha evidenziato come il ruolo amministrativo ricoperto dai due imputati comportava una “conoscenza necessariamente più sommaria e meno puntuale delle attività quotidiane affidate ai dipendenti”. Quindi potevano non sapere che il lavoratore fosse esposto all’amianto Inoltre nei precedenti gradi di giudizio non si era tenuto contro del fatto che si trattava di un’azienda di costruzione di caldaie a gasolio in cui non c’era una lavorazione diretta dell’amianto. I pannelli utilizzati dal lavoratore deceduto erano stati acquistati da un’altra impresa e questo poteva rendere i manager meno consapevoli dei rischi. Infine, la vicenda si è svolta negli anni 70, quando si era a conoscenza della pericolosità dell’amianto ma ancora non era chiaro, come adesso, che fosse la causa dello sviluppo del mesotelioma pleurico. Per una valutazione più attenta di questi tre fattori (la conoscenza dei meccanismi produttivi, l’utilizzo residuale dell’amianto da parte della società e la consapevolezza del rischio amianto) i giudici della suprema corte hanno rinviato la questione ad altra sezione della corte di appello per un nuovo esame. Mandato di arresto europeo. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2018 Mae - Mancata trasmissione informazioni richieste - Rifiuto della consegna - Pronuncia allo stato degli atti - Successiva trasmissione - Conseguenze. L’eventuale pronuncia di rifiuto della consegna in caso di mancata trasmissione delle informazioni richieste da parte dello Stato di emissione costituisce una decisione “allo stato degli atti” che, in conformità alle indicazioni dettate dalla Corte di Giustizia, deve considerare che, entro un tempo ragionevole, lo Stato di emissione possa adottare, in relazione alla persona richiesta, le misure necessarie per assicurare le condizioni essenziali per la consegna stessa, ovvero il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana, sanciti dalla Carta fondamentale dell’Unione europea. Il che significa che, laddove l’autorità giudiziaria dello Stato di emissione faccia pervenire, successivamente e comunque entro un termine ragionevole, le suddette informazioni, il giudicato allo stato degli atti formatosi sul rifiuto della consegna, se rende irretrattabili le altre questioni già decise, non impedisce la pronuncia di una successiva sentenza favorevole alla consegna, in relazione ai nuovi elementi sopravvenuti sulle condizioni di futura detenzione. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 24 luglio 2018 n. 35290. Mandato di arresto europeo (Mae) - Reato di furto con scasso - D.Lgs. n. 184/2016 di attuazione della Direttiva UE 2016/1919 - Duplice difesa dell’imputato nello Stato di esecuzione e in quello di emissione. La consegna della persona ricercata presuppone che il mandato di arresto europeo sia fondato su un compendio indiziario ritenuto - dall’autorità giudiziaria che lo ha emesso - seriamente evocativo di una fattispecie concreta di reato posta in essere dal soggetto di cui viene richiesta la consegna. Deve dunque trattarsi di una valutazione delle fonti di prova (relative all’attività criminosa e al coinvolgimento della persona richiesta) che sia almeno astrattamente idonea a dare fondamento alla gravità indiziaria del quadro fattuale rilevato. In tale quadro probatorio, si inserisce la previsione contenuta nel recente D.Lgs. n. 184/2016, il quale, recependo la Direttiva UE n. 1919/2016, impone alla polizia giudiziaria di informare la persona da consegnare della propria facoltà di nominare un difensore nello Stato membro che ha emesso il Mae: l’omessa informazione determina una nullità di ordine generale a regime intermedio ma non assoluta, riguardando la sfera dell’assistenza all’imputato e non quella dell’iniziativa del PM o dell’omessa citazione dell’imputato o dell’assenza del difensore nei casi in cui per legge ne è obbligatoria la presenza. Pertanto, essa va tempestivamente eccepita prima della decisione di primo grado e non nel giudizio in Cassazione. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 27 gennaio 2017 n. 4128. Mandato di arresto Europeo - Consegna per l’estero - Art. 9, Legge n. 69 del 2005 - Art. 4, D.Lgs. 184 del 2016 - Avviso al consegnando della facoltà di nominare un difensore - Norma processuale - Effetto retroattivo esclusione - Provvedimento restrittivo interno reso in forma solo verbale - Validità del M.A.E. - Sussistenza - Condizioni. L’eccezione di nullità del procedimento - nel cui ambito è stato emesso un MAE (Mandato di arresto europeo) - per mancato avviso al consegnando della facoltà di nominare un proprio difensore nello Stato richiedente fa fronte all’obbligo previsto a carico dell’ufficiale o dell’agente di polizia giudiziaria previsto dalla Legge n. 69/2005, art. 9, comma 5-bis, come novellato dal D.Lgs. 15 settembre 2016, n. 184, art. 4, in attuazione della direttiva 2013/48/UE del 22.10.2013. Ancorché successiva all’arresto del consegnando, tale obbligo è esplicazione del generale diritto all’equo processo. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 16 novembre 2016 n. 48567. Mandato d’arresto europeo - Processo in contumacia. La consegna di un condannato, in esecuzione di un mandato d’arresto europeo, non può essere subordinata alla revisione di un processo condotto in contumacia. La norma della decisione quadro (articolo 4-bis, paragrafo 1, lettere a e b)- che impedisce alle autorità giudiziarie di rifiutare l’esecuzione del mandato di esecuzione di una pena nel caso in cui l’interessato non sia comparso personalmente al processo quando, essendo informato della fissazione del processo, abbia conferito mandato a un difensore e sia stato effettivamente difeso - è compatibile con il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva e a un processo equo, nonché con i diritti della difesa garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sebbene il diritto dell’imputato a comparire personalmente al processo costituisca un elemento essenziale del diritto a un equo giudizio, tale diritto non è assoluto, in quanto l’imputato, con alcune garanzie, può rinunciarvi. Inoltre, non rileva neppure la circostanza che il diritto processuale italiano non prevede la possibilità di impugnare le sentenze di condanna pronunciate in contumacia, e che pertanto il mandato d’arresto avrebbe dovuto essere subordinato, se del caso, alla condizione che l’Italia garantisse la possibilità di impugnare la sentenza. • Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 26 febbraio 2013 n. 399/11. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Termine minimo di ventiquattro ore previsto dall’art. 10, comma secondo, l. n. 69 del 2005 - Violazione - Conseguenze. In tema di mandato di arresto europeo, l’inosservanza del termine minimo di ventiquattro ore previsto dall’articolo 10, comma 2, Legge n. 69/2005, per l’avviso al difensore della data fissata per l’audizione del consegnando, integra una nullità a regime intermedio che deve essere eccepita al momento dell’audizione, a norma dell’articolo 182, comma 2, c.p.p. • Corte di cassazione, sezione 6 penale, sentenza 16 febbraio 2012 n. 6255. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere - Mandato di arresto europeo - Consegna per l’estero - Decisione pronunciata “in absentia” - Possibilità di ottenere un nuovo giudizio - Sufficienza - Fattispecie. In tema di mandato di arresto europeo, è legittima la consegna disposta ai fini dell’esecuzione di una pena comminata mediante decisione pronunciata “in absentia”, quando nello Stato membro di emissione sia consentito alla persona richiesta di ottenere un nuovo giudizio, una volta venuta a conoscenza della decisione di condanna pronunciata nei suoi confronti. (Fattispecie relativa ad un m.a.e. emesso dalle autorità rumene, in cui la S.C. ha escluso l’incompatibilità con l’articolo 6, C.E.D.U. dell’art. 171 c.p.p. rumeno - che prevede l’obbligatorietà dell’intervento di un difensore per reati le cui pene siano superiori nel massimo a cinque anni di reclusione - sul presupposto che la persona richiesta in consegna era a conoscenza del procedimento penale a suo carico ed aveva già ammesso l’addebito). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 26 giugno 2012 n. 25303. Ravenna: un detenuto su due ha problemi di tossicodipendenza di Andrea Alberizia ravennaedintorni.it, 7 agosto 2018 A garantire l’assistenza sanitaria cinque medici e quattro infermieri più vari specialisti. Inquadrare lo stato di salute della persona ma anche riuscire a capire come reagirà ritrovandosi dalla vita quotidiana a dietro alle sbarre: questo è l’obiettivo dell’équipe medica a cui compete l’assistenza sanitaria in carcere. In servizio a Port’Aurea quattro medici di medicina generale e quattro infermieri seguiti da un coordinatore, dal 2008 tutti passati dal ministero di Giustizia all’Ausl. A loro si affiancano alcuni specialisti (psicologo, psichiatra, dermatologo, infettivologo) che sono presenti solo alcune ore settimanali. Infine per altre necessità si chiama lo specialista solo al momento del bisogno oppure il detenuto viene scortato all’esterno nell’ambulatorio specifico (come accade con il dentista e il cardiologo). La legge prevede che la prima visita medica generale debba avvenire entro le 24 ore dall’ingresso del detenuto in carcere. A Ravenna, grazie anche alla ridotta dimensione della struttura, questa avviene entro poche ore dall’arrivo dell’arrestato. La struttura è poi dotata di un protocollo interno che prevede una seconda visita il giorno successivo alla prima, per aggiornare eventuali informazioni che il paziente al primo colloquio potrebbe aver dimenticato, complice la concitazione dei momenti. Ma anche per avere subito una misurazione dell’impatto sul soggetto. Tutta la cartella clinica confluisce in un fascicolo elettronico a disposizione di tutta l’amministrazione carceraria, facilitando le cose in caso di trasferimento fra strutture. Trattandosi di una casa circondariale, il turn over è piuttosto elevato: a fronte di 80-90 detenuti, in un anno si registrano 350-400 ingressi. L’approccio medico avviene senza dare troppo peso alla durata della permanenza anche perché non sempre il detenuto sa quanto resterà. Se si tiene conto che circa la metà dei detenuti ha problemi di tossicodipendenze, è facile immaginare quali siano i disagi e le patologie più frequenti da gestire. In ogni caso ogni detenuto al mattino al passaggio degli agenti della Polpen può fare richiesta di essere visitato per eventuali disturbi. Ogni settimana si riunisce la commissione per il rischio suicidario: obiettivo è la condivisione fra tutte le parti della macchina carceraria delle informazioni sui singoli detenuti cercando di avere un quadro più possibile completo per accendere i campanelli di allarme. Negli ultimi dodici mesi due episodi, dopo quasi dieci anni senza casi. Per quanto riguarda i fenomeni di autolesionismo ne sono accaduti quattro nel 2018 e tre nel 2017. Trento: nella Casa circondariale sono necessari più medici e infermieri di Sarah Franzosini salto.bz, 7 agosto 2018 Valcanover (Radicali) e Baratter (Patt) chiedono più medici e infermieri nella casa circondariale di Trento. Scabbia e tubercolosi le malattie infettive più diffuse. Le problematiche relative alle strutture carcerarie in Regione si accumulano. Il tutto mentre il governo giallo-verde riscrive, e poi approva, il decreto legislativo sull’ordinamento penitenziario di fatto relegando in un cassetto la riforma Orlando. La situazione, più volte denunciata per le sue criticità, della casa circondariale di Bolzano non si discosta poi molto da quella trentina. A certificarlo sono stati, in seguito a una seconda visita al carcere di Trento, dopo quella alla sezione femminile, l’avvocato e radicale Fabio Valcanover insieme al consigliere provinciale del Patt Lorenzo Baratter e al suo collaboratore Lorenzo Conci che in questa occasione si sono concentrati sull’aspetto sanitario riscontrando diverse carenze. Vuoti da colmare - Non ci sono abbastanza infermieri, “ne mancano sicuramente due o di più a seconda di quali numeri si voglia tenere in considerazione (in particolare: i numeri della previsione iniziale (220 unità) o numeri a cui si è attestato ora (318 unità)”, spiega Valcanover a nome del gruppo. Una carenza che, dicono gli addetti, potrebbe essere contrastata con una specifica indennità di medicina carceraria, che è compito dell’Azienda sanitaria prevedere. “C’è una specifica indennità per malattie infettive ma insufficiente a incentivare la presenza di personale all’interno della Casa Circondariale. Trattasi di 4 euro”. Mancano inoltre i turni notturni (ci sono solo due turni e finiscono entrambi nel tardo pomeriggio), “in caso di urgenze, in assenza di personale sanitario è d’obbligo l’alternativa tra ridimensionare e aspettare la mattina o inviare direttamente in ospedale, non essendo presente personale infermieristico o medico. Con ciò organizzando un’uscita che fa diminuire ulteriormente il numero del personale della polizia penitenziaria in effettivo lavoro nella casa circondariale”, evidenzia l’avvocato dei radicali. Insufficiente anche la presenza dei medici e “in caso di emergenze notturne una comunità di 350 persone in quelle condizioni necessiterebbe della presenza di un medico di turno”, così da evitare ricoveri cautelativi. “Chi deve provvedere? Sicuramente, anche in questo caso, l’Azienda sanitaria”. Malattie e terapie - Valcanover, Baratter e Conci riferiscono che ci sono circa una trentina di detenuti che frequentano il Ser.D. (servizi per le dipendenze) interno con terapie di mantenimento o scalari, tuttavia maggiore è il numero di persone che si dichiarano tossicodipendenti all’ingresso in carcere, va da sé che non tutti coloro che ne hanno bisogno usufruiscono del servizio per tossicodipendenti. Scabbia e tubercolosi sono le malattie infettive diffuse all’interno della Casa Circondariale trentina, che vengono prese in carico e controllate. Inoltre una decina di persone dovrebbero essere in cura con terapie psichiatriche costanti, e il 40% dei detenuti fa uso sistematico di benzodiazepine, come ad esempio il valium. Reggio Calabria: il “Mandelàs office” in un bene confiscato Corriere della Calabria, 7 agosto 2018 L’ex studio dell’avvocato Paolo Romeo ospiterà l’ufficio per la giustizia riparativa. Si occuperà di progetti per la tutela delle vittime. Falcomatà: “È svolta culturale”. Il Comune di Reggio Calabria ha istituito l’ufficio per la giustizia riparativa, denominato “Mandelàs Office”, ospitato in un bene confiscato alla criminalità organizzata, e cioè l’ex studio dell’avvocato Paolo Romeo, e assegnato all’ente locale reggino. La struttura è stata inaugurata stasera dal sindaco, Giuseppe Falcomatà, insieme all’assessore alle Politiche sociali, Lucia Nucera; al Garante dei diritti dei detenuti del Comune, Agostino Siviglia, e alla dirigente del dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità del ministero della Giustizia, Isabella Mastropasqua. Il Mandelàs Office è il risultato di un Protocollo d’intesa siglato lo scorso mese di marzo tra Comune di Reggio Calabria e il dipartimento della Giustizia minorile del ministero della Giustizia per favorire e incrementare anche in Calabria le attività di “Giustizia riparativa”. Azione che intende superare la logica del “castigo”, che non ripara il “danno” in sé, e che ha come obiettivo la reintegrazione della vittima e del reo, in un percorso comune, aiutati da una facilitatore, che le renda persone nuovamente integre e non sminuite per sempre dall’esperienza e dalla logica della colpa e dell’offesa. Con l’applicazione del “protocollo” s’istituisce anche il “Tavolo permanente per la giustizia riparativa”, che si occuperà, in particolare, della stesura progettuale di interventi rivolti alla tutela delle vittime del reato, ai servizi di giustizia riparativa, alla risocializzazione dei soggetti provenienti dai circuiti sociali, agli stranieri detenuti e alla formazione alla legalità. “Un presidio - ha detto il sindaco Falcomatà - che è il risultato di un lavoro di squadra. Risultato che è ascrivibile non soltanto all’amministrazione comunale, ma all’intera città. La vera vittoria, in questo senso, è il cambio di passo che si chiede spesso alla politica, che deve fare uno sforzo in più. Una “svolta” che è anche culturale, con un simbolo negativo che si trasforma in simbolo positivo”. “Ci stiamo facendo un dono”, ha commentato il Garante Siviglia, secondo il quale il nuovo ufficio s’inserisce in un ottica di riconciliazione. E, citando Nelson Mandella, Siviglia ha parlato di “un’arma potentissima che libera l’anima e cancella la paura”. Reggio Calabria: l’Associazione S. Camillo e il progetto “Rieducazione e riabilitazione” di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 7 agosto 2018 L’Associazione San Camillo promuove un progetto di rieducazione e riabilitazione al Carcere di Arghillà. L’associazione S. Camillo onlus, presieduta dalla dott.ssa Tiziana Iaria, con la collazione dell’associazione Domino e Centro Antiviolenza Margherita sta realizzando un progetto di “Rieducazione e riabilitazione” presso le Carceri di Arghillà sezione Afrodite. Il progetto dal titolo “O mia o di nessun altro - Fragile come un uomo” è stato ed è molto apprezzato e gradito dalle persone detenute che ogni mercoledì e ogni venerdì partecipano numerose. I detenuti della sezione Afrodite però non possono partecipare con gli altri alle attività comunitarie, in quanto vivono in uno stato d’isolamento che non li aiuta certo a recuperare ed a migliorarsi. Le Associazioni hanno quindi pensato di organizzare un evento tutto per loro, che li vedrà protagonisti e parte attiva. “L’iniziativa è stata subito condivisa dalla dott.ssa Longo, direttrice della Casa Circondariale di Arghillà, che con grande sensibilità e professionalità da subito ha sposato l’iniziativa dando il suo supporto e la sua disponibilità. Un grazie anche al dott. Speranza educatore capo dell’istituto penitenziario di Arghilla “che ha condiviso e supportato il progetto, a tutto lo staff degli educatori ed a tutti gli agenti della Polizia Penitenziaria”, dichiarano le associazioni. L’evento si terrà mercoledì 8 agosto alla presenza del Garante dei detenuti e di esponenti politici. Musica e intrattenimento saranno curati da Santino De Maria. A grande richiesta dei reclusi ci sarà la partecipazione di Micu u Pulici. Modena: un workshop dedicato al sociale che opera in carcere colibrimagazine.it, 7 agosto 2018 Nell’ambito del progetto “Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” il Teatro dei Venti organizza un Workshop per operatori sociali a Modena, il 17 e 18 ottobre presso il Teatro dei Segni (Via San Giovani Bosco 150), la Casa Circondariale di Modena e altri luoghi della città. Invio domande di partecipazione entro il 20 settembre. Destinatari: educatori, volontari, assistenti sociali, psicologi e altre figure professionali che operano nell’area socio-educativa. Finalità: avviare un dialogo tra le realtà teatrali e gli operatori che lavorano in ambito sociale. Tale dialogo è volto al sostegno della validità delle esperienze teatrali in contesti difficili, con l’obiettivo di incrementarne i risultati positivi e di favorire buone pratiche. Il lavoro sarà coordinato da Stefano Tè - regista del Teatro dei Venti nella Casa Circondariale di Modena e Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia - in collaborazione con Armando Punzo - Compagnia della Fortezza/Casa Circondariale di Volterra, Ivana Trettel - Opera Liquida/Casa di Reclusione di Milano Opera, Enrico Casale - Compagnia degli Scarti/Casa Circondariale di La Spezia, Daniela Mangiacavallo - Baccanica / Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo e Claudio Montagna - Teatro e Società/Casa Circondariale di Torino. Il workshop fa parte di “Per aspera ad astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, un progetto sperimentale finanziato da Acri - Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio Spa, e coordinato dall’Associazione Carte Blanche. Obiettivo del progetto è tracciare un percorso che consenta di mettere assieme le migliori esperienze e prassi di teatro in carcere presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio anche a beneficio di altri contesti e operatori. Le due giornate consentiranno ai partecipanti di confrontarsi con diverse realtà teatrali che operano in contesti carcerari e socio-culturali e di assistere a sessioni di prove aperte. Il workshop prevede attività che intendono stimolare lo scambio e la riflessione tra i partecipanti e i conduttori, con il fine di elaborare strategie operative sempre più efficaci, che mettano in evidenza criticità e soluzioni, a sostegno delle attività teatrali in contesti complessi. La tappa di Modena è realizzata in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna e con la Casa Circondariale di Modena. Modalità di partecipazione - Il workshop è completamente gratuito. A carico dei partecipanti restano le eventuali spese di viaggio e permanenza a Modena. La partecipazione è per un numero massimo di 25 persone previo invio della domanda di iscrizione accompagnata da copia della carta d’identità all’indirizzo comunicazione@teatrodeiventi.it entro e non oltre il 20 settembre 2018. Un nuovo primato morale contro il razzismo di Giuseppe Lupo Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2018 Non siamo ancora arrivati a casi come quello raccontato in Mississippi Burning (1988), il film ambientato nell’America razzista dei primissimi anni 60, ma certo il clima che respiriamo in questi ultimi giorni ha le caratteristiche di qualcosa che assomiglia alla vicenda narrata in quella pellicola, sia pure in diverse geografie e con tratti sociologici che rispondono ad altri contesti. Di fronte ai fatti di casa nostra non si tratta di ricorrere alla solita retorica che farebbe gridare allo scandalo chiunque abbia un po’ di buon senso, avvertendo una incertezza, un sentimento di vuoto o di sospensione morale in seno alle autorità politiche, restie a dare risposte se non attraverso pronunciamenti che si attengono al gergo di un vocabolario burocratico stanco e usurato. E non si tratta nemmeno di pensare a episodi periferici, solo perché avvenuti nelle provincie laziali, venete, da considerare cioè coincidenze a dir poco casuali o dunque destinate a finire presto nel cestino della cronaca. Gli episodi ci sono e non appartengono soltanto al linguaggio della cronaca. Anzi dicono di un’epica che sarebbe da rileggere all’incontrario, nei termini cioè di un Paese capovolto, incapace di ripensarsi dentro lo specchio di un’epoca che, per vie traverse, ci interroga sul senso delle identità mescidate, ci invita a riflettere sui paradigmi dei mondi maggiori e minori, ci costringe a rivedere i parametri di quel che chiamiamo civiltà. Il problema è svegliarsi dal brutto sogno di una nazione che si avvia con disinvolta sicurezza a battere strade che tradiscono i valori della solidarietà, nascondendo sotto la finzione goliardica una xenofobia strisciante, indirettamente autorizzata da chi chiude i porti e sottrae aiuti in nome di qualcosa che non è mai stato del tutto chiarito. L’aspetto più paradossale di questa faccenda è nella funzione pedagogica della politica, come se d’improvviso, dopo anni di dissenso espresso nelle piazze e in rete, dopo le infinite diffidenze espresse nei confronti della “casta”, adesso i cittadini si sentano autorizzati non più a distanziarsi dai palazzi del potere, ma a ubbidire al recitativo dei suoi inquilini: un polittico di voci a cui poco si addice tanto la declinazione dei tempi verbali quanto l’esercizio di organizzare i tempi della Storia che obbliga da sempre a rivedere il nostro statuto di persone, a distinguere, come intendeva Vittorini in un romanzo nell’Italia dell’immediata post liberazione, gli uomini dai non uomini. Salvini: allarme razzismo è invenzione della sinistra - Di questo pericolo si è già accorto Famiglia Cristiana qualche settimana fa, ma non è bastato a fermare la mano di chi ha inteso sparare con un fucile ad aria compressa - per divertimento, avrebbe dichiarato -, cogliendo però un bersaglio umano (e di colore) anziché un animale in volo. Forse è sopraggiunto il momento in cui davvero separare gli uomini dai non uomini, mettere da parte i distinguo e accorgersi che il Paese in cui viviamo ha le caratteristiche di una nazione che non solo ha smarrito la propria identità - eravamo un popolo di emigranti, avremmo dovuto conservare la consapevolezza di sentirci humilemque Italiam - e vaga, senza il minimo bisogno di interrogarsi o di chiarificarsi, nelle sacche di una inviciltà di cui la violenza delle armi (sia pure da luna park, come quelle appunto ad aria compressa), i toni minacciosi, i pestaggi, il divertimento razzista, non sono che manifestazioni esteriori di un sentimento che contiene l’afflizione della perdita. Migranti: Cassazione, dire andate via è razzismo - Esiste una ferita che è più profonda del risentimento xenofobo e che per convenzione assume il nome di rivalsa antieuropea, difesa del territorio, lotta allo sfruttamento degli scafisti. Ma è una ferita che ci impedisce di osservare, se non con sguardo indifferente, il silenzio a cui siamo ridotti dalle circostanze del quotidiano: una sorta di apatia che ci assuefà a tutto, che ci abitua a sopportare senza reagire i paragrafi di un presente dove tutto continua a scorrere a prescindere da noi e dal nostro esistere, che ci induce a cercare l’emozione negli strumenti mediatici, i quali spesso poi si limitano a fare soltanto da schermo alla nostra incapacità di agire. Probabilmente sono questi i segni che continuano a disegnare il ritratto di un mondo fragile e offeso, privo di speranza e di visione, dove ogni ripetitività è indice di sopravvivenza. Continuiamo a passeggiare sull’asse orizzontale senza cercare lo scatto in avanti, il bivio della discontinuità, l’estro del muoversi contromano, che è l’unica risorsa da opporre al rumore di sottofondo. Qualcosa si è rotto nel racconto di un popolo a cui il secondo ‘900 aveva dato il privilegio della modernità, ma probabilmente ha sottratto quel senso di pietas al quale obbediscono solo i grandi di fronte alle rovine del nemico. E tuttavia in un rimedio crediamo: proprio perché i tempi impongono una scelta tra uomini e non uomini, è giunto il momento di osare nella traiettoria di una cultura che fondi le sue regole nei criteri di un Occidente (non più solo di un’Italia) il cui primato sia prima di tutto morale, poi economico. La tensione sui profughi sta cambiando gli italiani di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 7 agosto 2018 Non sarebbe male, per non incattivirci, confermare la costante combinazione fra pienezza democratica e identità di semplici uomini. La crisi immigratoria di questi ultimi anni e mesi sembra avere innescato un cambiamento profondo della nostra mentalità collettiva. Ci siamo sempre considerati “italiani brava gente”, abbastanza aperti e generosi verso gli altri; ma oggi, rispetto al passato, siamo più ansiosi della nostra sicurezza e più smaniosi che essa ci venga garantita, anche a prezzo di accettare qualche veemenza umana nell’abbordaggio politico al problema. Siamo tutti, infatti, dentro una simultanea prigionia: da un lato, di una tradizione buonista, rinfocolata costantemente da grandi e piccole autorità morali; e dall’altro, di un egoistico rifiuto di “altri da noi” e di ciò che turba il nostro vivere quotidiano. Viene facile il porsi alcune domande: ci siamo incattiviti, vittime di un soggettivismo etico che è stato definito egolatrico (“prima gli italiani”)? Oppure manteniamo quel carattere bonario e accomodante che ci ha fatto compagnia per secoli? A ottanta anni dalla fine dell’avventura fascista, stiamo vivendo la tentazione muscolare di mescolare sovranismo e primato dell’identità nazionale? Oppure siamo ancora quella “società benevolente” che si legge in filigrana nella struttura dei Promessi Sposi? Se ci guardiamo allo specchio leggiamo nella nostra fisionomia tracce di pugnace altera fierezza? Oppure leggiamo ancora il mite sorriso con cui salutiamo gli amici per strada? Per rispondere a queste domande senza scadere nell’emozione banale è utile tornare a Manzoni, che riteneva che la qualità benevola della nostra società è dovuta al fatto che essa è composta di uomini e basta, semplicemente di uomini, normali, che nel tempo hanno imparato a non cercare più alte e vibranti identità e che non si sentono guerrieri, conquistatori, uomini d’arma, condottieri, statisti, eroi civili e quant’altro. Egli, nella straordinaria linearità della sua prosa, riproponeva la prosa di una società fatta di null’altro che uomini adattativi che vivono in un pacato, continuo presente. Tanto che Giulio Bollati ha ironizzato sul fatto che Manzoni ci avrebbe voluto molto simili agli svizzeri, da sempre fuori dalle tensioni del mondo. Di fronte a questa caratteristica nazionale di essere solo “uomini” e senza superiori identità, viene naturale la domanda se essa possa bastare nella travagliata storia di oggi. Certo essa non ci è bastata nei “salti della storia”, dove abbiamo dovuto far ricorso all’enfatizzazione identitaria: nel fare l’Unità; nel fare quattro guerre d’indipendenza; nel darci, subito dopo, un futuro di medio potere coloniale; nel parteggiare per le ambizioni imperiali del fascismo. Ma ci è invece bastata nei periodi di sviluppo fisiologico del sistema, quando, dopo la seconda guerra mondiale, milioni di uomini hanno fatto ricostruzione di massa diffusa e qualitativa industrializzazione di massa ordinata entrata nella dinamica europea e poi nella molecolare nostra partecipazione alla globalizzazione. E va notato che questa dinamica spontanea della società l’abbiamo vista nascere e crescere insieme alla nascita ed alla crescita delle regole democratiche mentre le fughe in avanti verso traguardi di maggiore gloria hanno coinciso con bassi livelli di democrazia. Non sarebbe allora male, per evitare di incattivirci, confermare la nostra storia passata e la costante combinazione fra pienezza democratica e identità di semplici uomini. Caporalato, cos’è e perché si muore per meno di 2 euro l’ora. Migranti e italiani di Alberto Magnani Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2018 Svegliarsi alle tre di notte, lavorare dalle 8 alle 12 ore al giorno, ricevere “stipendi” anche inferiori ai due euro l’ora. Sono condizioni ordinarie nel mondo del caporalato, il sistema illegale di reclutamento di manodopera per il lavoro agricolo. Lo stesso fenomeno che ha innescato i due incidenti nel Foggiano di sabato e lunedì, provocando 16 vittime con la stessa dinamica:?uno scontro del furgone dove erano ammassati i lavoratori, di ritorno da una giornata di raccolta sui campi di pomodori pugliesi. Il “business degli irregolari”, come lo chiamano i sindacati, arriva a sfiorare un valore di 5 miliardi di euro l’anno e incide per quasi un quinto del valore aggiunto generato nella filiera agricola. In teoria sarebbe contrastato da una legge ad hoc, approvata nel 2016 con l’intenzione di inasprire la legislazione e le sanzioni in materia. Nei fatti, stando ai numeri raccolti della autorità, il fenomeno gode di ottima salute e assorbe una quota imponente di lavoratori, sia italiani che stranieri. Cosa vuol dire e come funziona il “caporalato” - Il termine caporalato allude ai cosiddetti caporali, le figure che si occupano di procurare manodopera a basso costo per lavori di fatica. Il loro ruolo è quello di reclutare persone e trasportarle sul luogo di lavoro, come cantieri e campi agricoli, incassando un ricompenso concordato in precedenza. Il meccanismo di selezione è abbastanza elementare:?i caporali si appostano i determinate zone e caricano le persone interessate su mezzi propri, con partenza nelle primissime ore del mattino. I due settori di maggiore diffusione del fenomeno sono l’edilizia e soprattutto l’agricoltura. Un report della Federazione lavoratori agro industria Cgil (Flai Cgil) ha stimato che il “business del lavoro irregolare del caporalato” è pari a 4,8 miliardi di euro, con 1,8 miliardi di evasione contributiva. Meno di 4 euro per 375 chili - In totale, i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio illecito oscillano dalle 400mila alle 430mila unità, per un tasso di irregolarità di rapporti di lavoro (i rapporti illeciti sul totale)?pari al 39%. Nei casi di sfruttamento estremo, i lavoratori operano in assenza di qualsiasi tutela, sono pagati dai 20 ai 30 euro per giornate lavorative di 8-12 ore (ma si può arrivare anche sotto a 1 euro l’ora) o prestano servizio a cottimo con una tariffa di 3-4 euro per cassoni da 375 chilogrammi. Per fare una proporzione, l’ultimo contratto nazionale collettivo di categoria di operai agricoli e florovivaisti fissa un minimo salariale mensile di 874,6 euro per gli operai agricoli di area 3 (i lavoratori non specializzati). Non stupisce che Flai Cgil stimi un salario del 50% inferiore a quello previsto dalla contrattazione nazionale, con tanto di discriminazione per le donne:?le lavoratrici sono pagate del 20% in meno rispetto ai colleghi. Il peso degli stranieri nell’agricoltura - I migranti, come ricorda lo stesso report Flai Cgil, incidono per il 28% su circa un milione di lavoratori agricoli (286.940, a loro volta divisi fra 151.706 comunitari e 135.234 extracomunitari). I numeri lievitano quando si entra nel mondo del nero, terreno d’elezione per le attività di caporalato. Se si sommano regolari e irregolari, i lavoratori stranieri diventano 405mila, di cui 67mila coinvolti in “un rapporto di lavoro informale” e 157mila pagati con “una retribuzione non sindacale”:?l’equivalente di oltre 220mila lavoratori invisibili, assoldati e remunerati secondo accordi che escono dalla contrattazione nazionale o da una qualsiasi copertura sindacale. Aboubakar Soumahoro, sindacalista Usb (Unione sindacale di base), mette in guardia dal trasformare lo sfruttamento nei campi in una questione etnica. “Quelli che ci sono appena stati a Foggia sono morti sul lavoro, e basta - dice Soumahoro al Sole 24 Ore - Continuare a chiamarli “extracomunitari” è solo deumanizzante e serve a distrarre dai veri problemi di fondo”. I problemi in questione, secondo Soumahoro, sono la scarsissima sindacalizzazione del settore e lo “sfruttamento arcaico” messo in atto dai caporali e le oltre 30mila aziende che se ne avvalgono. Cosa dice la legge? - Il caporalato configura una reato previsto dall’articolo 603 bis del codice penale, poi rimodulato nel 2016 dalla legge 199 (la cosiddetta legge sul caporalato). Il testo prevede sanzioni sia per i reclutatori che per i datori di lavoro coinvolti nell’utilizzo della manodopera, con pene di reclusione da uno a sei anni e multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato, con un’aggravante in caso di violenza e minacce che aumenta la reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1000 a 2mila euro. Tra gli altri strumenti attivati ci sono la confisca obbligatoria di beni, denaro o altre utilità dei responsabili e l’obbligo di arresto in caso di flagranza del reato. Il risultato??Stando ai numeri delle autorità di controllo, il fenomeno sembra tutt’altro che spento. Sulle 7.265 aziende agricole controllate nel corso del 2017, l’Ispettorato nazionale del lavoro ha rilevato 5.222 braccianti irregolari (5.512 nel 2016), di cui 3.549 in nero (l’anno precedente erano 3.997). Il tasso di irregolarità complessivo è pari al 50%, un’azienda su due. La legge avrebbe anche dovuto stimolare “iniziative per la realizzazione di funzionali ed efficienti forme di organizzazione del trasporto dei lavoratori fino al luogo di lavoro”: sistemi di trasporto sicuro per i braccianti, tesi a evitare infortuni (anche mortali) nel tragitto di andata e ritorno dai campi. Non si sono segnalati progressi particolari, mentre la stessa repressione del fenomeno è indebolita da limiti organizzativi. Ad esempio, come ha scritto il Sole 24 Ore, i controlli sui furgoncini guidati dai caporali nella provincia di Foggia si concentrano nella fascia 7-13: un orario, di fatto, inutile a prevenire un via vai che scatta diverse ore prima e si conclude comunque più tardi. Migranti. Nel foggiano la strage dei 12 braccianti sul furgone dei caporali di elisa forte La Stampa, 7 agosto 2018 L’incidente stradale avvenuto ieri lungo la strada statale 16 all’altezza dello svincolo per Ripalta, nelle campagne di Lesina, nel Foggiano. Le 12 vittime erano a bordo di un furgone che si è scontrato contro un tir. Erano tutti braccianti extracomunitari di ritorno dal lavoro nelle campagne, dove avevano raccolto pomodori. In questo angolo del Foggiano soffocato dal caldo, su questo lembo di asfalto rovente, tra le lamiere contorte, gru dei vigili del fuoco, urla delle sirene di ambulanze, polizia e carabinieri non si percepisce l’enormità di quanto è accaduto. Non bastano quei lenzuoli bianchi che coprono i corpi senza vita dei braccianti, la scarpa di una vittima volata lontano chissà come, e neppure lo sguardo atterrito dei soccorritori o l’ammasso informe di rottami: non basta tutto questo a dare la dimensione esatta di cosa è accaduto in questo incidente stradale. Già, perché questi dodici morti non possono essere derubricati a vittime di uno schianto tra due automezzi. La fine di questi dodici braccianti interroga il sistema produttivo e agroindustriale di un pezzo del Paese. Richiama alla responsabilità lo stesso governo. Una vergogna che si consuma in Puglia, ma fa arrossire un’intera nazione. Nel giro di 36 ore la conta dei morti è da attacco terroristico, sembra un bollettino di guerra: tra sabato scorso e ieri 16 braccianti sono morti nel foggiano in incidenti stradali, al rientro dai campi dove hanno consumato un’altra giornata a faticare sotto il sole per pochi euro, sfruttati come schiavi da caporali senza scrupoli. L’incidente - La cronaca impone di ricostruire la dinamica dell’incidente, ma in fin dei conti cambia poco. È, banalmente, accaduto di nuovo, come sabato scorso. Ieri, dodici persone, tutti migranti giunti in Puglia con il sogno di un lavoro e finite nell’incubo dello sfruttamento, sono morte in questo schianto avvenuto nel pomeriggio lungo la statale 16 all’altezza dello svincolo per Ripalta, nelle campagne di Lesina. Non lontano da Foggia. Un furgone con targa bulgara con a bordo tutti passeggeri extracomunitari, si è scontrato frontalmente con un camion carico di farinacei. Tre persone sono rimaste ferite. Tra queste anche l’autista del Tir. Il precedente - In fondo, la dinamica richiama l’altro incidente, quello dello scorso sabato 6 agosto. E in questo tragico gioco di specchi, emerge il dramma di vite i cui destini sembrano già scritti e quindi senza speranza. Anche tre giorni fa (sono morti quattro braccianti provenienti dall’Africa) un mezzo pesante si è scontrato con il furgoncino che trasportava i lavoratori delle campagne. La causa? Probabilmente un colpo di sonno. Troppa la fatica in una giornata iniziata all’alba. Questi dodici, come i quattro braccianti di sabato, erano andati a raccogliere pomodori. Anche questa volta il riconoscimento dei cadaveri è difficile. Finora la polizia ha identificato sette delle dodici vittime, tutte regolari. Per gli altri, pure da morti sembra che il destino voglia negare dignità a questi lavoratori. Non tutti avevano i documenti. L’unica cosa certa e che le vittime avessero da poco terminato il turno nei campi. La procura di Foggia ha aperto un’inchiesta per ricostruire le responsabilità dell’incidente. I controlli - Il gioco di specchi si ripropone nel susseguirsi di commenti e prese di posizione. “Tutto questo è frutto di un sistema basato sul caporalato e lo sfruttamento. Senza un deciso intervento pubblico, continueremo a contare vittime mentre le economie criminali ingrasseranno i loro portafogli”, denuncia il segretario della Cgil Puglia, Pino Gesmundo. Da Roma il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini che annuncia “controlli a tappeto per combattere, in tutta Italia, sfruttamento e caporalato”. Mentre il ministro Luigi Di Maio promette “più ispettori per combattere il caporalato” e il premier Giuseppe Conte, nato e cresciuto a pochi chilometri da Lesina, annuncia la sua visita a Foggia. In questo angolo infuocato del Foggiano oggi si piangono dodici braccianti sfruttati. Si grida allo scandalo del caporalato, si promettono controlli e punizioni contro gli sfruttatori. Alla fine cosa resterà? Con molta probabilità solo l’effetto straniante dell’odore della gomma bruciata e del gasolio sull’asfalto. Ma solo fino alla prossima volta. Migranti. Scontro sulla Libia. È la linea di Minniti ma il Pd non la vota più di Daniela Preziosi Il Manifesto, 7 agosto 2018 Sì al regalo di 12 motovedette alla marina di Serraj. Lega e M5S: “C’è discontinuità con il governo Gentiloni”. Ostruzionismo dem. Bagarre in aula, le contraddizioni fra verdi e gialli oscurano il fatto che al senato il partito di Renzi ha detto sì. Magi (+Europa): la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra; è un paese senza diritti anche per i libici e in cui avvengono, afferma l’Onu, “orrori inimmaginabili”. Ma la cessione di dodici motovedette - dieci della Guardia costiera e due della Finanza - alla Guardia costiera libica in ottemperanza al Memorandum firmato nel 2017 fra l’allora premier italiano Gentiloni e quello libico Sarraj è in “continuità” con le scelte del governo dem, e quindi il governo legastellato oggi sostiene a spada tratta un provvedimento del Pd?, oppure è una scelta in “discontinuità” con i governi precedenti “perché è cambiato tutto il contesto” (Piero Fassino) e quindi il Pd ha ragione a non votarlo, pur - attenzione - avendolo già votato convintamente al senato? Sul filo della surrealtà ieri per tutto il giorno è andato in scena alla camera il duello fra M5S e Lega da una parte e Pd dall’altra, che ha inchiodato l’aula sul decreto delle motovedette fino a sera. Il sì, scontato, è arrivato solo dopo ore di ostruzionismo da parte di tutto il gruppo dem. Un ostruzionismo scatenato nel primo pomeriggio da una dichiarazione di voto urticante quanto ingenua letta da Sabrina De Carlo, capogruppo M5S in commissione esteri, che attacca ad alzo zero il Pd sulla qualunque: “Un partito ridotto in pezzi, stessa fine che avrebbero fatto fare all’Italia se avessero continuato a governare”, e poi “Buzzi”, “mafia capitale”, “hanno svenduto l’Italia”. “Una provocazione”, replica Lia Quartapelle (Pd) tanto più che la grillina però si era ben guardata dal rispondere alla domanda che a più riprese il Pd rivolge alla maggioranza, in evidente difficoltà fra la linea soft dei grillini e quella hard dei leghisti: insomma il decreto all’esame è figlio delle politiche del governo dem o no? “Se c’è continuità, c’è anche costituzionalità”, spiega con pazienza Stefano Ceccanti. La maggioranza incespica, urla ma balbetta, non riesce neanche a inchiodare il Pd alla sua contraddizione: i senatori dem, guidati dal renziano Marcucci, poco più di una settimana fa hanno votato sì. Alla camera invece il presidente dem Orfini ha fatto cambiare idea ai colleghi: “Non possiamo dire sì a un provvedimento in cui i diritti umani non sono neanche nominati, è contro la storia del centrosinistra”. Un ravvedimento parziale, che suona però anche come una mezza sconfessione dell’ex ministro Minniti. L’ostruzionismo viene ritirato solo quando i 5 stelle sventolano bandiera bianca e si rimangiano l’intervento della deputata De Carlo. Il decreto passa con una valanga di sì, 11 no (Leu e +Europa), il Pd non partecipa al voto. Prima però succede di tutto. Si accendono risse verbali. Sconfinano. Quando il deputato Migliore (Pd) accusa il ministro Salvini di aver umiliato la Guardia Costiera italiana per averle sottratto il coordinamento delle operazioni in mare a favore dei libici, il relatore leghista Zoffili la prende sul piano personale e a parole e gesti invita il collega a un confronto maschio. Poi chiama una deputata “signora”, scatenando le ironie delle dem. Neanche il “fratello d’Italia” Rampelli, ex missino romano e nuotatore, uno che di confronti ruvidi ha un certo know how, riesce a trattenere le intemperanze dei gasati giovanottoni ex padani. I suoi “fratelli” di partito chiedono che il governo accetti di introdurre nel testo la possibilità di effettuare il “blocco navale” contro i gommoni. Un atto di guerra. Piace alla Lega, ma è troppo anche per i 5 stelle, non passa. La deputata Morani sfida a parlare grillini in dissenso e segnala la curiosa assenza del presidente Fico. Non è in aula, “impegni precedenti”. Sul fronte dell’opposizione manca invece Laura Boldrini, anche lei “impegni precedenti”. Intanto i disallineamenti fra le due linee di governo, quella gialla e quella verde, producono scenette gustose. Mentre il sottosegretario grillino Di Stefano spiega conciliante che “le Ong sbagliano a fin di bene”, al suo fianco il collega verde Molteni scuote vigorosamente il capo: è scettico. Poi è proprio Molteni a ammettere che “c’è un percorso comune con Minniti”. A questo punto prende la parola l’ex ministro. Vuole dare la sua versione, fatica a stare nei tempi, rivendica - più rivolto ai suoi che alla maggioranza - di aver portato Onu e Unhcr dentro alcuni campi di raccolta libici, “prima era impensabile”. Non disconosce il decreto ma dice cos’è cambiato rispetto ai ‘suoì tempì: “La nostra Guardia costiera deve tornare ad occuparsi del Mediterraneo centrale”, trasformata nella frontiera della morte. Fra maggioranza e opposizione è guerra sulla contabilità del lutto. I$” per Liberi e uguali. “Non possiamo fare finta di non sapere cosa accade in Libia e cosa subiscono le persone che vengono riportate in quell’inferno”, attacca Erasmo Palazzotto. “Stiamo dando strumenti per rafforzare la Guardia costiera di uno stato che non esiste, per riportare persone salvate in mare in un paese non sicuro”, dice il radicale Riccardo Magi (+Europa) presentando le pregiudiziali di incostituzionalità al decreto, “La Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra; è un paese senza diritti anche per i libici e in cui avvengono, afferma l’Onu, orrori inimmaginabili”. “Queste motovedette saranno utilizzate per mettere in atto respingimenti interposti”. Migranti. La giornata della solidarietà contro la vergogna di Ginevra Bompiani Il Manifesto, 7 agosto 2018 Se è vero che non c’è più un popolo, ci sono però ancora persone, tante, che non vedono l’ora di scuotersi di dosso l’ignoranza egoista e crudele che ci sta invadendo come una nuvola velenosa. E dunque noi stiamo accettando la vergogna che ci infligge il 20 % della popolazione italiana. È evidente che sto parlando di una componente del governo, quella che comanda. L’altra, infatti, sebbene appartenga al primo partito del paese, viene lasciata giocare con politiche confuse e velleitarie, ma non necessariamente malvagie. Anzi, tolta l’approssimazione con cui vengono proposte (o tentativamente imposte), sarebbero anche parzialmente condivisibili, se l’opposizione non si affannasse a sparare su tutto quello che le si muove davanti. La mia impressione è addirittura che quella parte di governo abbia una sua idea di “sinistra”, anche se involontaria, più volonterosa e zelante della sinistra accreditata da tanti anni di governo(e sarebbe dunque, secondo me, stato possibile condividere un’esperienza di governo, se la proterva arroganza del P non lo avesse impedito, buttandoci nelle mani di un capoccia). Vediamo le ragioni della vergogna: le barche ributtate a mare, o riconsegnate agli aguzzini libici, il martirio dei corpi bruni ammassati come quelli che trovarono gli alleati nei lager alla fine della guerra: questi però ancora vivi, perché oggi la punizione non è la pena di morte ma l’agonia. Gli stessi corpi, picchiati, massacrati, mitragliati da improvvisati cecchini, quando finalmente hanno raggiunto la terra e credono di potervi camminare in pace. La negazione dell’espressione “sporco negro” come aggravante razzista di un reato. La distruzione del campo rom, senza alloggi alternativi. L’ampliamento della legittima difesa e l’accordo con le fabbriche di armi, il ministro Fontana, che il nuovo governo potrebbe sventolare come sua bandiera. L’accelerazione del declino culturale con la soppressione dell’accesso gratuito ai musei e la “nuova squadra Rai”. Vicende contrappuntate da rimostranze e malcontenti sparsi, e finalmente dal tentativo, ancora impreciso, ma forte, di organizzare una grande manifestazione di solidarietà umana. Sulle piazze, sui giornali, sui muri, per le strade, un gigantesco No, - non sarebbe abbastanza, perché nasconderebbe cento Sì diversissimi fra loro, che, nella magnifica evenienza che avessero ragione della vergogna, si manifesterebbero subito litigiosamente. Non basterebbe, ma sarebbe qualcosa. Pur lasciandoci alla realtà di un partito della sinistra che tira a campare pigro e presuntuoso; di una destra che, pur meno criminale dell’altra, ha tuttavia insegnato a rubare, imbrogliare e sonnecchiare a gran parte degli italiani.. tuttavia, questo No ci permetterebbe di alzare la testa. Se è vero che non c’è più un popolo, ci sono però ancora persone, tante, che non vedono l’ora di scuotersi di dosso l’ignoranza egoista e crudele che ci sta invadendo come una nuvola velenosa. E senza dare loro un nome, senza consegnare qualche Sì frettoloso, senza modelli e senza campioni, si potrebbero sentire rifiatare, espirando un grande No di resistenza e di sollievo. Chi può organizzarlo? Tutti. Le organizzazioni politiche, culturali, sociali possono mettere a disposizioni spazi, tempi e occasioni, chiamando a raccolta e rendendo possibile quello che ciascuno vorrebbe fare e non sa come, radunando non un popolo, non una massa, non una classe, ma una somiglianza, e dandole la possibilità di confluire, contarsi e incontrarsi. La somiglianza politica e umana fra coloro che non accettano la cattiveria, la prepotenza e la stupidità come strumenti per affrontare, capire e curare il nuovo che abbiamo davanti. Libia. La rivolta dei migranti nel lager: temono di essere venduti ai trafficanti Paolo Lambruschi Avvenire, 7 agosto 2018 All’improvviso a decine spariscono. Finiscono nelle mani di persone che chiedono un riscatto alla famiglia o li vendono come schiavi. Onu e diplomatici faticano ad avere accesso ai campi di detenzione. La tensione accumulata da mesi è esplosa domenica nel sovraffollato centro di detenzione libica di Sharie (o Tarek) al Matar, nei sobborghi di Tripoli, con scontri con le guardie e tre feriti. Le drammatiche testimonianze di alcuni detenuti raccolte da noi in diretta telefonica, le foto dei feriti, gli audio e il video su Facebook postato da Abrham, (ora anche sul nostro canale Youtube, linkato a questo articolo) giovane rifugiato eritreo di Bologna, domenica pomeriggio documentano l’esasperazione e la protesta dei prigionieri per le condizioni da tutti gli osservatori considerate inumane di prigionia e contro trasferimenti in altri centri per paura di essere venduti ai trafficanti di esseri umani. Paura giustificata dalla sparizione di 20 detenuti nei giorni scorsi e di 65 donne con bambini che i libici giustificano come alleggerimento dell’affollatissima struttura e sulla quale sta compiendo verifiche l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Per protesta i prigionieri eritrei, molti in carcere da mesi, parecchi intercettati e sbarcati dalla guardia costiera libica dopo la chiusura delle coste di questi mesi, hanno incendiato due materassi provocando la repressione durissima della polizia libica, la quale ha ferito tre richiedenti asilo, due dei quali hanno dovuto essere ricoverati in ospedale. Negli stanzoni roventi, lerci e stipati come pollai sono stati sparati lacrimogeni e le guardie hanno picchiato i detenuti con i fucili per riportare la calma. “Sono stati momenti di battaglia tra eritrei e libici - spiega il nostro contatto Solomon, pseudonimo di un prigioniero fuggito dal regime dell’Asmara, nel campo da maggio scorso dopo aver trascorso i precedenti sei mesi nell’altro lager di Gharyan - loro ci ripetono che siamo troppi e che vogliono venderci. Siamo disperati, molti parlano di suicidio. Non vediamo vie di uscita. Non possiamo tornare in Eritrea e l’Europa non ci vuole”. La tensione insomma potrebbe portare ad altre rivolte. I libici sono accusati di rallentare il processo di registrazione dei detenuti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite chiudendo le porte per ragioni di sicurezza e spostando senza preavviso le persone non ancora iscritte nelle liste Onu dei richiedenti asilo per venderli ai trafficanti. Ieri funzionari del Palazzo di Vetro sono riusciti a entrare di mattina presto a Tarek al Matar e a proseguire nella difficile registrazione di 200 eritrei. L’intento, spiegano fonti Acnur a Tripoli, è duplice: registrare tutti e offrire ai soggetti più vulnerabili - donne, minori, ammalati che non possono venire rimpatriati per timore di persecuzioni - una evacuazione umanitaria nel centro Onu in Niger per alleggerire il campo e favorire il reinsediamento in Paesi terzi. Ma i posti a disposizione non bastano per i 1.800 dannati di Tarek Al Matar, dove il precedente governo aveva avviato progetti per due milioni per l’emergenza ormai conclusi, come anche nei centri di Tarek Al Sika a Tagiura. Anche l’Onu ammette che le condizioni del campo sono peggiorate. E il sovraffollamento deriva dal fatto che la Guardia costiera libica ha intercettato finora 13 mila persone. In tutto il 2017 ne aveva intercettati oltre 15mila. Secondo una fonte libica, sempre ieri a una diplomatica dell’Unione europea sarebbe stato impedito l’accesso al centro di detenzione. La motivazione ufficiale è che non avrebbe presentato richiesta in tempo. Ma si sospetta che in realtà le autorità tripoline vogliano nascondere all’Ue i danni dell’incendio e le violenze sui detenuti. Secondo dati dell’Acnur, al 31 luglio nel Paese erano stati registrati 54.416 richiedenti asilo e rifugiati, 9.838 solo nel 2018. Ma se le proporzioni sono quelle del campo di Tarek al Matar, solo un terzo è stato identificato, gli altri galleggiano tra violenze, condizioni igienico sanitarie inumane e il rischio di sequestri nel limbo dei centri di detenzione, sia ufficiali che quelli nelle mani delle milizie. Ieri con un tweet eloquente la sezione italiana dell’Oim, organizzazione internazionale delle migrazioni, ha puntualizzato che il suo personale è presente agli sbarchi nei porti libici, ma la gestione dei campi è in carico alle autorità locali. Le tensioni a Tarek Al Matar sono esplose principalmente per il terrore di venire venduti ai trafficanti, i quali gestiscono sì le partenze sui barconi, ma solo dopo aver torturato i prigionieri per estorcere riscatti alle famiglie, oppure rivenderli come schiavi. Dal campo abbiamo scritto sabato su Avvenire che erano sparite 20 persone, uno solo dei quali è riuscito a tornare. “Chiamiamolo Fish, mi ha contattato - racconta Abrham, rifugiato eritreo in Italia che raccoglie le grida di aiuto della sua generazione rinchiusa - perché è riuscito a tornare a Tarek al Matar. Sono stati trasferiti in uno stanzone in un luogo sconosciuto senza cibo e senza acqua. Hanno sentito due libici che dicevano che la notizia della loro sparizione era girata in rete e quindi la vendita doveva essere interrotta. Lo hanno riportato indietro, adesso aspetta i suoi compagni”. La circolazione delle notizie via social avrebbe salvato anche gli oltre 200 prigionieri “trasferiti” due settimane fa dal centro di Tarek Al Siqa senza preavviso in un luogo sconosciuto e pressoché privo di sorveglianza dove un trafficante eritreo che collabora con i libici spacciandosi per mediatore culturale li ha contattati invitandoli a seguirlo. Il gruppo, che teme di essere già stato venduto e dove ci sono persone non registrate nelle liste umanitarie, prosegue il braccio di ferro a colpi di messaggi via social urlando nel silenzio della rete il proprio diritto ad essere accolto. Perché il paradosso, scorrendo le nazionalità censite dall’Onu in Libia, è che molti detenuti sono rifugiati e richiedenti asilo che dovrebbero trovarsi legalmente in Paesi sicuri a chiedere asilo oppure essere liberi di circolare in Libia. Come gli oltre 9mila sudanesi, e i 6mila eritrei e i 3mila somali e gli oltre mille etiopi cui persino Tripoli, che pure non ha firmato la Convenzione di Ginevra, riconosce lo status. Senza contare che un terzo ha meno di 18 anni e dovrebbe essere protetto dai civilissimi Stati europei. Ma nel caos libico si trovano ingabbiati sotto la sorveglianza di miliziani rivestiti con una divisa da poliziotto senza uno straccio di formazione e che considerano i prigionieri migranti illegali e merce da rivendere. Arabia Saudita. Scontro sui diritti umani, espulso l’ambasciatore del Canada La Presse, 7 agosto 2018 Tensione fra Arabia Saudita e Canada, dopo che Ottawa ha vigorosamente chiesto a Riyad di rilasciare i numerosi attivisti per i diritti umani che sono incarcerati nel Paese. Il regno ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore della nazione nordamericana e ha richiamato il suo inviato per consultazioni, congelando ogni nuova relazione commerciale. Il Canada, tramite una portavoce del governo, ha reagito ribadendo di essere “estremamente preoccupato” e che “prenderà sempre posizione per la protezione dei diritti umani, inclusi decisamente i diritti delle donne, e della libertà d’espressione nel mondo”. Riyad ha dato 24 ore all’ambasciatore Denis Horak, “considerato persona non grata”, per uscire dai confini, in una rottura delle relazioni che ha motivato con “l’aperta e palese interferenza” negli affari interni. Un gesto che evidenzia la nuova politica estera aggressiva del principe ereditario Mohammed bin Salman. Il regno ha anche annunciato “il congelamento di tutte le nuove transazioni commerciali e di investimenti con il Canada, riservandosi il diritto di ulteriori azioni”. La scorsa settimana Ottawa si era definita “gravemente preoccupata” per la nuova ondata di arresti di attivisti per i diritti umani e delle donne. “Chiediamo alle autorità saudite di rilasciare loro e tutti gli altri attivisti pacifici per i diritti umani”, aveva twittato venerdì scorso il ministero degli Esteri canadese. Tra gli attivisti detenuti c’è Samar Badawi, che già in passato era stata incarcerata e presa di mira dalle autorità saudite. La donna è stata più volte premiata a livello internazionale per il suo impegno ed è diventata un simbolo della lotta contro il sistema di repressione dei diritti delle donne nel regno. Samar è la sorella di Raif Badawi, blogger saudita arrestato nel 2012 per “aver insultato l’islam”, condannato a mille frustate e 10 anni di carcere, e mai rilasciato nonostante le continue campagne di pressione mondiali. L’attivista è stata arrestata assieme all’attivista Nassima al-Sadah la scorsa settimana, ultime vittime di quella che Human Rights Watch ha definito “una repressione senza precedenti del governo contro il movimento per i diritti delle donne”. Gli ultimi arresti sono arrivati dopo che più di dieci militanti per i diritti delle saudite erano stati incarcerati e accusati di minare la sicurezza nazionale e di collaborare con i “nemici dello Stato”. Alcuni sono stati rilasciati. “L’uso dell’espressione “rilascio immediato” nella dichiarazione canadese è molto sfortunato, criticabile e inaccettabile nelle relazioni tra gli Stati”, aveva twittato il ministero degli Esteri saudita, scagliandosi contro Ottawa. Il principe Mohammed, erede del trono più potente della regione, ha introdotto riforme concedendo alcuni diritti nel Paese, tra cui la revoca del divieto di guidare per le donne. Misure che, secondo molti osservatori, puntano in realtà a migliorare l’immagine del regno repressivo agli occhi internazionali. Intanto, il 32enne ha anche promosso un’aggressiva politica estera, tra cui sostenendo un blocco verso il vicino Qatar e una campagna militare contro i ribelli houti sostenuti dall’Iran in Yemen, e in patria ha dato spazio alla repressione del dissenso. “La rottura delle relazioni diplomatiche saudite con il Canada rafforza l’idea che la nuova Arabia Saudita che Mohammed bin Salman sta mettendo assieme non abbia alcuna intenzione di tollerare alcuna forma di criticismo della sua gestione degli affari interni”, ha commentato Kristian Ulrichsen, del think-tank Baker Institute alla Rice University americana. Ad aprile, anche il premier canadese Justin Trudeau aveva espresso la sua “grave preoccupazione” per l’incarceramento di Raif Badawi. La moglie del blogger, Ensaf Haidar, ha ottenuto asilo in Canada, dove vive in Quebec con i tre figli di 14, 13 e 10 anni. L’espulsione dell’ambasciatore dall’Arabia Saudita lancia un messaggio molto chiaro agli altri governi occidentali, dice Bessma Momani, docente alla University of Waterloo: “È più facile tagliare i rapporti con il Canada, rispetto che con altre nazioni. Non c’è una forte relazione commerciale e colpire il governo Trudeau trova probabilmente il favore degli alleati regionali sauditi più estremisti”. Venezuela. Valanga di arresti per l’attacco dei droni contro il presidente di Valerio Sofia Il Dubbio, 7 agosto 2018 Dopo il fallito attentato scatta la repressione. In Venezuela diverse persone sono state arrestate con l’accusa di terrorismo per il tentato attacco sabato contro il presidente Nicolas Maduro. Il leader venezuelano stava tenendo un discorso durante una parata militare quando alcuni droni si sono avvicinati armati di esplosivo e hanno provocato delle esplosioni nella zona autorità. Il presidente è rimasto illeso mentre sette militari sono rimasti feriti. Maduro è stato subito circondato e portato in salvo dalle sue guardie del corpo. A 24 ore dall’attentato sei persone, definite dal governo venezuelano “terroristi e killer a pagamento” sono state arrestate perché ritenute responsabili dell’attacco. È stato accertato che c’erano due droni: uno è esploso, l’altro ha perso il controllo e si è schiantato. L’attacco è stato rivendicato da un gruppo ribelle civile e militare che si è autodefinito “Movimento nazionale dei soldati in tshirt”, il quale ha dichiarato “È contrario all’onore militare esser fedeli al governo di coloro che non solo hanno dimenticato la Costituzione, me hanno anche fatto della funzione pubblica un modo osceno per diventare ricchi”. Secondo il Ministro delle Comunicazioni e dell’Informazione, Jorge Rodriguez, “la veloce reazione della security del presidente Maduro non solo ha assicurato l’incolumità del capo di Stato, ma è riuscita anche a catturare alcuni esecutori dell’attacco sul posto… Ora stanno raccontando i dettagli di questa operazione, che è stata preparata da almeno 6 mesi”. Il ministro dell’Interno venezuelano, Nestor Reverol, ha annunciato l’arresto di sei persone e ha precisato come “gli autori materiali e i mandanti siano stati identificati pienamente” con operazioni che si sarebbero svolte all’interno e all’esterno del Paese. Lo stesso ministro ha aggiunto che nuovi arresti potrebbero essere eseguiti nel corso delle prossime ore, e che diversi veicoli sono stati sequestrati. “Sono state realizzate varie perquisizioni in hotel della capitale dove si sono potute raccogliere prove importantissime di rilevanza criminale, nonché filmati di presunti collaboratori con questo atto”, ha aggiunto. Il governo venezuelano non ha perso tempo a lanciare accuse contro i nemici storici: l’opposizione, gli Stati Uniti, la Colombia. Secondo Maduro, “molti degli organizzatori dell’attentato vivono in Florida. Auspico che l’amministrazione Trump sia disposta a combattere i gruppi terroristici impegnati ad attaccare Paesi pacifici come il Venezuela”. Subito Trump e Bolton da Washington hanno mandato una smentita secca, seguiti presto dal governo Santos di Bogotà. “Posso dire in maniera inequivocabile che non c’è alcun coinvolgimento del governo degli Stati Uniti”, ha dichiarato John Bolton, Consigliere per la sicurezza nazionale Usa. “Respingiamo categoricamente ogni coinvolgimento della Colombia in questo attentato”, ha dichiarato Bogotà. Piuttosto, tanto i colombiani quanto gli Usa chiedono che le informazioni da Caracas siano il più possibile libere e complete, adombrando persino la possibilità di un falso attentato per proseguire nella repressione interna e nella tensione esterna. Anche l’opposizione respinge le accuse, mentre la solidarietà a Maduro arriva da Russia, Bolivia (“l’attacco mostra la disperazione di un impero sconfitto da un popolo coraggioso”, sottolinea il presidente Morales), e Turchia. Brasile. Chiusa la frontiera settentrionale per fermare l’esodo dal Venezuela La Repubblica, 7 agosto 2018 Il paese del presidente Maduro è alle prese con una gravissima crisi politica ed economica. Transiti consentiti solo per i venezuelani che ritornano in patria. Il Brasile ha chiuso la frontiera settentrionale per rallentare l’esodo dal Venezuela alla prese con una gravissima crisi politica ed economica. La decisione fa seguito all’ordinanza di un giudice federale che aveva imposto uno stop agli arrivi dal Venezuela fino a quando i migranti già entrati non saranno stati redistribuiti in altre zone del Paese. Il confine resta aperto per i brasiliani e per i cittadini di altre nazionalità nonché per i venezuelani che ritornano in patria per motivi di lavoro.