La lunga estate calda delle carceri italiane di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 6 agosto 2018 Come se non bastassero le tragiche morti di Hassan e di una trans appena entrata nel carcere di Udine, sabato sera arriva la notizia del terzo suicidio della settimana, questa volta a Genova: ancora una volta un giovane immigrato, senza relazioni familiari sul territorio, arrestato per detenzione di sostanza stupefacenti di lieve entità, lo stesso reato per cui Hassan era stato condannato a quattro mesi di carcere dal Tribunale di minori di Roma (e non doveva più stare in un carcere per adulti). Diffondendo la notizia di questo nuovo episodio di suicidio, il trentunesimo in carcere dall’inizio dell’anno, giustamente il Garante nazionale delle persone private della libertà richiama l’attenzione della società civile e delle istituzioni locali e nazionali sulle condizioni di vita dentro e fuori le carceri, e su quanto potrebbe essere fatto per garantire loro una speranza di vita migliore prima ancora che vengano arrestati. È il vecchio tema sollevato tanti anni fa dal migliore dei magistrati di sorveglianza e dei capi dell’amministrazione penitenziaria che questo Paese abbia avuto, il caro Sandro Margara, che denunciava la natura del carcere come discarica sociale e che proprio per questo elaborò una proposta di riforma dell’ordinamento penitenziario volta a liberare la marginalità sociale dal carcere. Purtroppo quelle proposte sono rimaste lettera morta. Così come sono destinate a restare lettera morta le proposte elaborate nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale e della Commissione ministeriale di attuazione della delega alla riforma penitenziaria. Sulla base di nuovi e oscuri calcoli temporali, che - di fatto - hanno prorogato la vigenza della delega fino a ottobre, giovedì scorso il Consiglio dei ministri ha approvato una terza versione dello schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario. Sulla base della confusione tra certezza della pena e certezza del carcere, sono stati cancellati dalla proposta del governo tutti i riferimenti alle alternative al carcere. Il rifiuto ideologico delle alternative al carcere arriva fino al punto che nel nuovo schema di decreto sono state cancellate finanche la sospensione della pena per gravi motivi di salute psichica (cosa su cui è chiamata a pronunciarsi a breve la Corte costituzionale, che non potrà che parificare la malattia mentale alle patologie fisiche) e l’alternativa terapeutica per i malati di mente. Intanto, al 31 luglio, i detenuti sono arrivati a 58.506, 1.740 in più dell’anno precedente e Antigone ci ha puntualmente informato dei problemi e delle inefficienze di un sistema penitenziario perennemente sovraffollato. Ne abbiamo parlato, venerdì scorso, in un incontro molto cordiale che - in rappresentanza della rinnovata Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà - abbiamo avuto con il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Dal contratto tra Lega e M5S e dagli interventi pubblici del ministro Bonafede sappiamo qual è l’indirizzo di governo: la pena non può che essere detentiva (l’unica pena certa è detentiva); poi, lì in carcere, potranno essere promosse attività lavorative per il futuro reinserimento sociale dei condannati; i migliori tra i migliori (quelli che non abbiano reati ostativi, che non si comportino male, che abbiano risorse familiari e sociali significative e la fortuna di trovarsi in un istituto e in un territorio che offrano opportunità di lavoro e di reinserimento sociale) magari riusciranno a finire la loro pena fuori dal carcere. Si tratta di ricette antiche, secondo cui la pena detentiva è di per sé rieducativa e le alternative sono benefici straordinari. Ricette che hanno dimostrato nel tempo la loro inefficacia sotto i due profili costituzionalmente rilevanti del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e della prospettiva di reinserimento sociale dei condannati. Sul primo versante, non dobbiamo mai dimenticare che la privazione della libertà è una condizione innaturale e sempre a rischio di trattamenti contrari al senso di umanità. Proprio quando constatiamo la progressione dei suicidi in carcere, non dobbiamo dimenticare che la loro frequenza è di circa diciassette volte superiore a quella riscontrata nella società libera. Dunque, la prima misura di prevenzione del rischio suicidario è quello di non abusare del carcere, sia in attesa del processo che dopo la condanna, e riservarlo esclusivamente ai reati più gravi (non certo alla detenzione di lieve entità di sostanze stupefacenti, per esempio). Quanto al reinserimento dei detenuti, va da sé che un’attività di istruzione, formazione e inserimento lavorativo in carcere sia auspicabile, ma deve essere offerta a tutti i condannati e deve avere, appunto, la prospettiva di proseguire anche fuori, e il modo migliore perché la abbia è che possa svilupparsi in una alternativa al carcere già durante l’esecuzione penale, quando gli operatori della giustizia, degli enti locali, del mondo del lavoro e del terzo settore possono cooperare nel sostegno al reinserimento sociale di chi venga da una storia complicata, detentiva e non. Questo - l’abbiamo detto mille volte, ma non ci stancheremo di ripeterlo - è il modo migliore per produrre sicurezza nell’esecuzione di misure penali: non chiudere dietro le mura di una prigione o le sbarre di una cella, ma seguire e accompagnare in un diverso progetto di vita, riconoscendo la distinzione tra la persona e il fatto per cui è stato condannato. Questa, in fondo, è la distinzione che Papa Francesco ha proposto alla Chiesa cattolica nella revisione del Catechismo sulla pena di morte: anche nel peggiore dei casi, la persona non è il suo reato, e dunque le va riconosciuta un’altra possibilità. *Coordinatore dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria Diritti dei detenuti e garanzie di legge. Intervista a Stefano Anastasia di Maurizio Giacobbe Micropolis, 6 agosto 2018 Ricercatore di Filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia, Stefano Anastasia è tra i fondatori dell’associazione Antigone, che presiede dal 1999 al 2005. Dopo incarichi associativi e di governo (capo della segreteria di Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi), nel 2016 viene nominato Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale per le regioni Umbria e Lazio, in virtù di due deliberazioni distinte e autonome. Nel maggio di quest’anno è eletto portavoce della Conferenza dei garanti territoriali. Dottor Anastasia, la sua biografia testimonia un impegno costante nel difendere i diritti delle persone colpite da provvedimenti di privazione della libertà personale, in linea con quanto affermano gli articoli 13 e 27 della Costituzione. Qual è con precisione l’ambito di intervento e quali sono le attribuzioni del Garante? Esiste un margine di interpretazione delle norme che regolano la sua azione? Il Garante è organo indipendente nominato dalla Regione in funzione delle rilevanti competenze che essa ha in materia di privazione della libertà, dall’assistenza sanitaria alle politiche di reinserimento sociale e lavorativo. La legge regionale istitutiva attribuisce al Garante competenza su tutte le forme di privazione della libertà, ivi comprese quelle disposte per motivi di salute, come nel caso dei trattamenti sanitari obbligatori, e anche sulle forme di “limitazione della libertà”, come nel caso delle persone in esecuzione penale esterna, in affidamento in prova al servizio sociale o in detenzione domiciliare. A queste si aggiungono quelle derivate da norme di legge nazionale che consentono l’accesso senza autorizzazione non solo alle carceri, ma anche alle camere di sicurezza delle forze di polizia e ai centri di detenzione per stranieri. Ovviamente, ogni norma è soggetta a interpretazione, ma sul libero accesso alle carceri non ho mai riscontrato problemi. Non bisogna dimenticare che la presenza dei garanti a livello territoriale è una realtà che ha inizio quindici anni fa, e dunque il sistema penitenziario ha imparato a confrontarcisi con il dovuto spirito di leale collaborazione tra istituzioni e amministrazioni pubbliche. Al contrario, devo dire che nel mio primo tentativo di visita al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Ospedale di Perugia, dal personale in servizio mi è stato opposto un rifiuto, motivato dalla ignoranza della legge e dei miei poteri. Rifiuto poi superato da una interlocuzione diretta con il Direttore generale e con il Dirigente della struttura. In effetti c’è ancora molto da fare per far conoscere le attribuzioni del Garante in ambito extra carcerario. In carcere, invece, le difficoltà le ho dovute registrare nei colloqui in 41bis (il cosiddetto “carcere duro”) che una circolare dell’Amministrazione penitenziaria prevede li possa fare solo in alternativa a quello mensile garantito ai familiari e nelle forme previste per loro, quindi con il vetro divisorio e il controllo visivo e auditivo della polizia penitenziaria. Il magistrato di sorveglianza competente su Terni e poi il Tribunale di sorveglianza di Perugia, in un caso, sulla base di uno specifico reclamo di un detenuto, mi hanno consentito di fare un colloquio riservato, ma la questione è ora al vaglio della Cassazione. Altra difficoltà è quella nella delega ai colloqui con i detenuti (ovviamente non in 41bis!) per le collaboratrici e i collaboratori del mio ufficio: nonostante una circolare del 2010 e il protocollo da me sottoscritto lo scorso anno con il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria lo consentano sulla base dell’articolo dell’ordinamento penitenziario che regola i rapporti con la comunità esterna, dopo quattro mesi tre istituti su quattro ancora non hanno risposto alla mia richiesta di autorizzazione. Esiste un quadro di norme, di procedure o di usi comune a tutti gli istituti di pena del territorio umbro o ciascuno agisce secondo modalità proprie, in qualche modo determinate dagli orientamenti della direzione locale e del personale di sorveglianza? Il sistema penitenziario è regolato da una legge, da un regolamento e da un’infinità di circolari nazionali, eppure ciascun istituto ha proprie prassi che dipendono dalle sue vocazione e tradizione e ovviamente anche dalla cultura e dalla mentalità dei singoli operatori che possono con la loro professionalità segnarne la realtà, la vita quotidiana e le prospettive di vita dei detenuti. Perciò non dovrebbero verificarsi, all’interno dello stesso carcere, differenze di trattamento nelle diverse sezioni, riguardo alla permanenza nelle celle o all’uso degli spazi comuni… Una diversità di trattamento quanto all’apertura delle camere detentive o alla possibilità di stare all’aperto non è ammissibile in ragione della diversità di genere: sarebbe apertamente discriminatoria. So che a Capanne ci sono stati problemi infrastrutturali, che hanno reso più difficile il passaggio alla cosiddetta “sorveglianza dinamica”, ma non è tollerabile che durino nel tempo. Qual è, nelle diverse carceri umbre, lo stato delle cose riguardo alle attività di riabilitazione gestite dall’area educativa? C’è un accordo comune o una direttiva centrale per la loro gestione? Se devo dire, questo mi sembra uno dei maggiori limiti dell’amministrazione penitenziaria: la mancanza di attenzione, di programmazione e di investimento a livello centrale sulle attività culturali, formative e finalizzate al reinserimento sociale. Quasi tutto è delegato ai provveditorati interregionali e ai singoli istituti che elaborano un programma annuale di attività che però si regge in gran parte sulle risorse che le singole direzioni riescono ad attivare sul territorio, con evidenti rischi di diseguaglianze nell’offerta trattamentale. Altro problema, poi, è quello della parcellizzazione del sistema penitenziario, tra detenuti in attesa di giudizio e condannati, tra uomini e donne, tra detenuti “protetti”, di media, alta e massima sicurezza. Se queste diverse allocazioni diventano altrettanti divieti di incontro, è inevitabile che le persone detenute nelle sezioni più piccole (i “protetti” a Spoleto o le donne a Perugia) finiscono per avere meno opportunità di attività, di formazione o lavoro. Tra il 1998 e il 2001 il quadro normativo è stato rinnovato e prevede che la Regione si faccia promotrice di attività trattamentali: lavoro intramurario, attività culturali, ricreative e sportive. Tutto ciò è rimasto sulla carta o ha trovato applicazione pratica? Purtroppo, anche su indicazione del Ministero della giustizia, che si era impegnato in un finanziamento ad hoc della formazione professionale dei detenuti, in Umbria le risorse del Fondo sociale europeo per l’inclusione sociale delle persone condannate sono state destinate esclusivamente a quelle in esecuzione penale esterna. Poi i fondi ministeriali non sono arrivati e in tutti gli istituti umbri da due anni si soffre la mancanza di attività di formazione professionale. Ho segnalato la cosa alla Presidente Marini e agli assessori Barberini e Paparelli e mi hanno assicurato che da quest’anno sarebbero state recuperate delle risorse mirate. Spero davvero che si riesca a farlo perché questo misunderstanding istituzionale ha causato molti problemi in tutte le carceri umbre. La detenzione in isolamento, a detta dei detenuti, rappresenta la condizione più problematica, foriera di disagio psicologico e fisico. Con quali criteri si determina l’assegnazione del provvedimento? Le sezioni di isolamento sono tra le più critiche di ogni istituto. In isolamento ci si sta per motivi giudiziari, sanitari o disciplinari. In ogni caso, quando esso è prolungato e involontario, c’è il rischio reale di un trattamento contrario al senso di umanità. Salvo quelle che io considero distorsioni di legge (l’isolamento previsto per tre anni come pena accessoria per gli ergastolani, l’isolamento prolungato dei detenuti sottoposti a sorveglianza particolare), il rischio maggiore viene da abusi nel ricorso alla sanzione disciplinare dell’isolamento dalla attività in comune. A parte il fatto che la procedura disciplinare non offre al detenuto alcuna reale possibilità di discolpa, la reiterazione di più sanzioni per più contestazioni disciplinari può produrre isolamenti prolungati nel tempo con i rischi di cui dicevo. Per questo è necessaria una vigilanza continua su queste sezioni. Quando vado in un istituto penitenziario, ci passo sempre. Con quale frequenza visita i diversi istituti detentivi? Salvo casi urgenti, cerco di essere in ogni istituto almeno una volta al mese. Quindi ho un mio programma di visite periodiche, ma può essere cambiato dalle richieste di colloquio che vengono dai detenuti. Come fa un detenuto a richiedere un incontro con il Garante? Con un’istanza inoltrata dall’Istituto o autonomamente per lettera in busta chiusa. Non di rado scrivono per posta elettronica i familiari, qualche volta chiamano gli avvocati. Quali le richieste che vengono fatte con più frequenza? Le preoccupazioni più frequenti sono quelle relative ai problemi di salute e ai rapporti con i familiari, spesso distanti centinaia di chilometri, che motivano molte richieste di trasferimento. Poi, certo, ci sono quelle legate ai procedimenti in corso e all’accesso alle alternative alla detenzione. Va detto, però, che anche la semplice funzione di informazione e orientamento che il Garante può svolgere si ferma nel momento in cui - come è sempre durante i procedimenti penali in corso - c’è un legale incaricato dell’assistenza tecnica in giudizio. Insomma: il Garante deve fare attenzione a non intervenire mai nel legame fiduciario tra il detenuto e il suo avvocato. Rispetto alla gestione della sanità in carcere, si può affermare che siano sempre garantiti i diritti dei detenuti? La struttura sanitaria, si sa, è quella della Regione, ma ovviamente c’è un problema di accesso alla cura, che viene comunque filtrato dal personale in servizio della polizia penitenziaria. Sì, l’assistenza sanitaria è condizionata dalla collaborazione del personale penitenziario, sia per l’accesso ai servizi interni che per la possibilità - quando necessario - di andare in laboratori e strutture ospedaliere esterne. Confido nella collaborazione del personale penitenziario, ma se ci sono casi in cui questa non si sia manifestata, o in cui - addirittura - non sia stato consentito a un detenuto di poter andare a visita medica, è importante che il fatto sia documentato e riferito a me, come al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza. I detenuti possono scrivermi riservatamente e, in caso di lamentata violazione di diritti, dettagliare tutto ciò che ritengono rilevante. Veniamo ai fatti di cronaca che hanno chiamato in causa la Casa circondariale di Perugia-Capanne. Il figlio di Aldo Bianzino, morto nel 2007 nel carcere perugino dopo l’arresto per il possesso di alcune piante di cannabis, ha chiesto la riapertura del processo. Ciò ha suscitato qualche reazione in ambito carcerario? So della riapertura del processo per la morte di Aldo Bianzino, che a suo tempo seguii come capo della segreteria di Luigi Manconi, all’epoca sottosegretario alla giustizia con delega all’Amministrazione penitenziaria. Credo che ogni sforzo per la ricerca della verità su quella e qualsiasi altra morte accada in carcere debba essere sostenuto anche da parte dell’Amministrazione penitenziaria e del suo personale che hanno tutto l’interesse a individuare le cause di simili episodi e le eventuali responsabilità personali. Nel recente caso di morte per overdose di una detenuta al rientro da un permesso nel carcere di Capanne, quali procedure sono state avviate per l’accertamento delle responsabilità? Ovviamente, la morte in carcere comporta sempre un accertamento di responsabilità, che viene avviato d’ufficio dalla Procura competente. Nel caso, se la detenuta ha acquisito e consumato volontariamente la sostanza che l’ha uccisa, il problema non sembra essere di responsabilità personale quanto legato alla condizione di dipendenza in carcere e al regime di astinenza che genera anche questo tipo di conseguenze. Una maggior accettazione del consumo di sostanze e una maggior attenzione alle loro condizioni di uso e di tollerabilità potrebbero prevenire episodi tragici come questo. La lobby della paura armata di Glauco Giostra La Repubblica, 6 agosto 2018 Quando lo Stato delega al cittadino l’uso della forza anche estrema, tradisce una debolezza che diffonde ulteriore insicurezza. Di persone “che tengono armi come talismani, traendo dal loro pesare in tasca e dalla loro freddezza al tatto un senso di sicurezza e di forza” - scriveva Sciascia - “ognuno ne conosce”. E sempre più ne conoscerà, aggiungiamo oggi, se dovessero andare in porto alcune proposte di legge all’esame del Parlamento, con cui si concede una sorta di licenza di uccidere a chi subisce un’intrusione violenta nella propria abitazione. È vero: tanto il ministro Salvini quanto, più credibilmente, il ministro Bonafede, hanno escluso che vi sia un collegamento tra le recenti iniziative legislative e una liberalizzazione dell’uso delle armi. Tuttavia, al di là delle intenzioni, l’attuale situazione e l’eventuale, sciagurata approvazione di una legge che riconosca il diritto di difendersi “senza se e senza ma” inducono a un più realistico pessimismo. Recenti dati forniti dal ministero dell’interno attestano che a fronte di un calo delle richieste di porto d’armi per difesa personale, molto difficile da ottenere, si registra un incremento che si avvicina al 50 per cento delle richieste per uso venatorio o sportivo. Una propensione palesemente strumentale al desiderio di avere un’arma per altri fini, che tutti gli osservatori collegano ad un diffuso senso di insicurezza. Eppure - ammesso che abbia ancora senso ostinarsi a ragionare sulla base dei fatti, tra tanti slogan e tweet - dalla medesima fonte del Viminale emerge un calo statistico anche sensibile di rapine e omicidi. Si tratta dunque di un’insicurezza “percepita”. Forse non si va molto lontano dal vero ad individuarne le cause in una “politica della paura” (allarmare per poi rassicurare), coadiuvata dall’ossessiva insistenza da parte di certa informazione sui fatti di cronaca nera. In una indagine compiuta sulle principali emittenti televisive europee per calcolare la percentuale di notizie riguardanti la criminalità rispetto al complesso delle notizie ansiogene (Rapporto dell’Osservatorio Europeo sulla sicurezza, 2015), l’Italia registrava una percentuale di 58,8 per cento, la Germania del 16,7 per cento, mentre il dato risultava praticamente invertito, pour cause, con riguardo alle notizie concernenti l’economia. Qualora su questa non rassicurante situazione si dovesse malauguratamente innestare una riforma che vuole rendere il cittadino sceriffo nella propria giurisdizione domestica, la china per la nostra società si farebbe pericolosamente ripida. Quando lo Stato delega al cittadino l’uso della forza anche estrema, tradisce una debolezza che diffonde ulteriore insicurezza: il cittadino chiamato a svolgere in sua vece un ruolo di contrasto alla criminalità sente di vivere in una situazione di pericolo, che gli organi istituzionalmente preposti non riescono a fronteggiare. Comprensibilmente, chiederà o cercherà di esercitare il suo diritto di difendersi senza alcun limite, con mezzi adeguati e risolutivi. Armare i cittadini non aumenta né la sicurezza dei singoli, né quella sociale. Non dei singoli. Il possesso di un’arma può dare solo una precaria sensazione di sicurezza, poiché espone il detentore a più gravi rischi. Il delinquente che presume armato l’aggredito sarà indotto ad un uso preventivo dei propri mezzi di offesa e ad una risposta drammatica ad ogni sospetto di reazione da parte della stessa vittima. Nei casi, poi, in cui questa dovesse usare l’arma per fronteggiare un’aggressione, la possibilità di avere la meglio su criminali professionisti sarà bassissima, per la diversa dimestichezza con l’uso delle armi e per la differente preparazione a fronteggiare situazioni di quel tipo. Infine, una volta dotata la persona di un’arma, non è remoto il rischio che ne faccia uso per far valere proprie asserite ragioni, diventando a sua volta un pericolo pubblico. Non della società. Negli Usa, dove vi è la massima liberalizzazione nel possesso delle armi, si registrano 4,1 omicidi ogni 100mila abitanti, in Italia (ancora) meno di uno. Sappiamo bene che oggi basta qualche rozzo slogan per zittire questi numeri, pur eloquenti. Vogliamo ricordarli soltanto affinché un domani gli artefici dell’imbarbarimento non pensino di cavarsela col dire: “Non potevamo immaginare”. La lobby delle armi festeggia: “condizioniamo il governo” di Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 6 agosto 2018 Il Comitato e il patto con Salvini: “Via ai vincoli, ecco le otto concessioni già ottenute”. Hanno detto che la lobby delle armi non conta niente e che, dunque, Repubblica si è inventata tutto. Hanno anche detto che, nonostante gli impegni presi pubblicamente dal ministro Salvini in campagna elettorale con i rappresentanti dei possessori di pistole e fucili, “la Lega non fa accordi con lobby o cooperative” (Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia, 16 luglio). Anzi, che la lobby “neanche esiste” (Antonio Bana, presidente Assoarmieri, 17 luglio). Invece, la lobby delle armi è viva. E lotta insieme a loro. Basta dare un’occhiata al sito del Comitato Direttiva 477. Prima, però, occorre sapere alcune cose di questa associazione. Nata nel 2015, in soli tre anni si è affermata come il punto di incontro e rappresentanza degli interessi di tutti soggetti della filiera delle armi, dal produttore al consumatore. Oggi può vantare collaborazioni internazionali (“sia pure embrionali”) con la potentissima National Rifle Association, la lobby americana, e con l’europea Firearms United. Mentre in Italia lavora con le associazioni confindustriali dei fabbricanti di pistole e fucili. Il suo principale obbiettivo è quello di monitorare il recepimento delle nuove norme europee sulla circolazione delle armi affinché questo risulti il meno restrittivo possibile. Prima di finire sul tavolo del governo per l’approvazione finale, lo schema di recepimento della direttiva ha dovuto passare il vaglio di ben quattro commissioni parlamentari; una fase cruciale, che si è conclusa pochi giorni fa con splendidi risultati (per la lobby). E proprio grazie all’attivismo del Comitato. Che dunque, il 31 luglio, è in vena di festeggiamenti. “La nostra mobilitazione - scrive - ha permesso che oggi un’associazione di detentori di armi rappresenti stabilmente presso la politica e tutte le istituzioni, l’intera categoria e, soprattutto, che siano state accolte delle proposte e vi sia stata una incidenza netta sul processo di formazione delle leggi”. Incidenza netta, dunque. Ma non solo: “ Non si era mai visto prima che il Ministero dell’Interno acconsentisse a dialogare con chi rappresenta i cittadini detentori di armi e men che mai che trasponesse in atti normativi le loro proposte”. Del resto questo era esattamente il senso del patto assunto per iscritto da Salvini, l’ 11 febbraio, all’Hit Show di Vicenza, e di cui Repubblica ha svelato i contenuti. In cambio dell’appoggio della lobby alle urne, l’allora candidato si è impegnato a “coinvolgere il Comitato e le altre associazioni di comparto ogni qual volta siano in discussione provvedimenti” su pistole e fucili. Detto, fatto. E così adesso il Comitato e gli organi di stampa prossimi alla lobby possono festeggiare la loro incidenza netta, elencando, ad uso dei loro lettori (ed elettori) i risultati ottenuti. Tra questi: “1) Divieto assoluto di retroattività delle nuove norme; 2) Aumento da 6 a 12 delle armi sportive detenibili e possibilità di trasporto e uso delle armi in collezione; 3) Eliminazione della discrezionalità dei questori nell’imporre limitazioni su tipologia e quantità di munizioni acquistabili durante il periodo di validità delle licenze di porto o trasporto; 4) Aumento a 10 per le armi lunghe e a 20 per le armi corte, dei colpi consentiti nei caricatori, oggi limitati rispettivamente a 5 e 15; 5). Estensione della categoria di “tiratori sportivi” - prima riservata agli iscritti alle Federazioni del Coni - anche agli iscritti alle sezioni del Tiro a Segno Nazionale, agli appartenenti alle associazioni dilettantistiche affiliate al Coni, nonché agli iscritti ai campi di tiro e ai poligoni privati…”. In tutto si contano otto concessioni, chiamiamole pure regali, alla lobby. Come, l’ultima, quella che equipara, sotto la generica categoria di “tiratori sportivi”, gli atleti della Federazione agli “ sparatori della domenica”, i campioni olimpici ai frequentatori di poligoni privati rimediati nelle cave di tufo (strutture di cui in Italia manca persino un censimento ufficiale e che comprendono sia impianti seri sia autentiche bocciofile a mano armata). Grazie a questo cavillo, tutti avranno la possibilità di comprare, trasportare e usare armi demilitarizzate o con caricatore di capacità superiore di 10 colpi. Si capisce così la soddisfazione della lobby che, infatti, a partita chiusa, ha voluto mostrare i muscoli, incontrandosi a Roma, sempre il 31 luglio scorso con l’obbiettivo - reso pubblico - di “ rafforzare il coordinamento”. Al summit ha partecipato una dozzina tra associazioni e federazioni, tra cui le ricchissime l’Anpam (Associazione nazionale produttori armi e munizioni), Conarmi e Assoarmieri. “Il tavolo di lavoro - recita il comunicato finale - ringrazia i parlamentari che hanno mostrato impegno, sensibilità e interesse nel considerare la questione in una prospettiva tecnica e non ideologica (…) L’auspicio è che il Ministero competente (Salvini, ndr), si attenga alle indicazioni delle commissioni parlamentari, evitando norme più restrittive rispetto a quelle europee”. Infine, la chiosa, a metà tra la promessa e l’indicazione strategica: “Non lasceremo cadere l’attenzione verso le attività di Parlamento, Governo e Amministrazione…”. Insomma, il lavoro della lobby delle armi, quella che “ non conta niente” e che “neanche esiste”, è solo all’inizio. Violenza sulle donne, boom di denunce di Flavia Amabile La Stampa, 6 agosto 2018 Aumentate del 50 per cento le telefonate al 1522, il numero promosso dal dipartimento Pari Opportunità. La presidente del Telefono Rosa: “Segnale positivo, significa che c’è maggiore consapevolezza del problema”. Sempre più donne in Italia decidono di dire basta e mettere fine alle violenze subite. Da gennaio a giugno di quest’anno il numero gratuito di pubblica utilità 1522, promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità e gestito da Telefono Rosa, ha ricevuto solo a Roma 444 chiamate da parte di donne vittime di violenza, riuscendo in sei mesi quasi a raggiungere il numero totale di telefonate del 2017, quando erano arrivate 587 denunce. L’aumento è evidente anche nel resto d’Italia dove fino a giugno sono arrivate 4 mila 664 telefonate, non troppe di meno rispetto alle 6 mila 533 giunte in tutto il 2017. In totale, fa sapere il sito del 1522, sono arrivate il 53% in più di telefonate. “C’è di sicuro un significativo aumento delle donne che chiedono aiuto e decidono di mettersi nella condizione di ricevere assistenza”, racconta la presidente di telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli. Questo non vuol dire che siano aumentate le violenze ma potrebbe voler dire che sta aumentando la capacità delle donne di reagire. “È un segnale decisamente positivo nella nostra battaglia contro il fenomeno sommerso della violenza e che dimostra una sempre maggiore consapevolezza delle donne che escono allo scoperto e trovano il coraggio di denunciare le violenze subite, che molto spesso avvengono all’interno delle mura domestiche”, conferma la presidente di Telefono Rosa. Si spera, insomma, che sia il frutto di una nuova stagione, un’onda iniziata con il movimento #MeToo negli Stati Uniti ma che ha trovato ampio spazio anche in Italia con una forte diffusione mediatica. “È innegabile che da un anno a questa parte se ne sia parlato molto. C’è una grande sollecitazione che sta avendo i suoi effetti e che fa capire alle donne che denunciare è la strada giusta. Tuttavia non si può non ricordare che è stata condotta una campagna di comunicazione del numero 1522 come numero gratuito antiviolenza e anti-stalking con spot pubblicitari che di sicuro hanno portato a questi risultati”, ricorda la presidente di Telefono Rosa. In occasione dello scorso 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il Dipartimento Pari Opportunità guidato da Maria Elena Boschi con la collaborazione della consigliera in materia di Pari opportunità, Lucia Annibali, avevano presentato due spot che sono poi andati in onda sulle reti Rai. In base ai dati raccolti dall’associazione, le vittime che hanno avuto il coraggio di denunciare al 1522 le violenze subite nei primi mesi del 2018 sono soprattutto italiane, con figli e una scarsa autonomia economica. L’87,01% infatti sono italiane, il 70,8% ha figli e più della metà sono disoccupate, casalinghe, pensionate o lavoratrici in nero. Percentuali non molto diverse nel caso di vittime di stalking: il 95,45% sono italiane, il 50,23% hanno figli. L’unica differenza riguarda l’indipendenza economica: il 63,86% ha un lavoro. Gli autori delle violenze denunciate al 1522, invece, sono uomini italiani, in gran parte con figli e un’occupazione. Il 94,53% sono maschi, l’88,24% italiani, il 68,49% ha figli e il 54,68% ha un’occupazione. Una fotografia molto simile anche quando si parla di autori di atti di stalking. Il 93,41% è maschio, il 95,45% è italiano, il 45,45% ha figli e il 53,86% ha un lavoro. Ora al Dipartimento Pari Opportunità siede Vincenzo Spadafora, la presidente di Telefono Rosa lo ha incontrato nelle scorse settimane. “In questi anni il Dipartimento ha compiuto un grande lavoro. Ci rivedremo a settembre, bisogna di sicuro andare avanti nella campagna di informazione e sensibilizzazione. Il 1522 è uno strumento importantissimo. Mi auguro poi che ci sia uno snellimento delle procedure burocratiche delle denunce e soprattutto dell’iter giudiziario che deve essere più breve. Per le vittime è una fase massacrante, è una vera tortura dover aspettare anni per arrivare a un provvedimento definitivo. È poi molto importante lavorare nelle scuole, purtroppo stiamo riscontrando anche un abbassamento dell’età delle vittime e degli autori, bisogna evitare che la violenza prenda piede fra i più giovani. Ma soprattutto vanno aumentate le case-rifugio dove vengono ospitate le vittime che hanno avuto il coraggio di denunciare e poi le opportunità di reinserimento delle donne nella società per fare in modo che riescano davvero a costruire una nuova vita”. Violenza sulle donne. Bongiorno: “serve un codice rosso per accelerare i processi” di Grazia Longo La Stampa, 6 agosto 2018 “Molte si sono sbloccate dopo aver ascoltato i casi famosi di Hollywood”. “Denunciare i casi di abusi e di stalking è fondamentale, ma non basta. Da anni sottolineo che serve anche un piano processuale per non rimanere bloccati nelle maglie della giustizia”. La ministra della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, avvocato penalista, autrice della legge sullo stalking nel 2009 e co-fondatrice insieme a Michelle Hunziker dell’associazione onlus Doppia Difesa, ha lanciato con Michelle a tutela delle donne il progetto “Codice rosso”. Una corsia prioritaria alle denunce di violenza in cui ci sono seri pericoli per l’incolumità di una donna? “Proprio così: per evitare che le donne siano uccise mentre attendono il giudizio per l’uomo che le perseguita è necessario che le pratiche giudiziarie non finiscano in un cassetto ma che abbiano anzi la priorità assoluta. Per questo Doppia difesa ha avanzato una proposta all’istituzione di un codice rosso, come avviene nei Pronto soccorso”. A che punto è l’iter? “Buono, perché ha ottenuto il sostegno dei leader politici dei vari partiti e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, molto sensibile sul tema, sta già lavorando per portare avanti anche questa misura”. Parallelamente all’aspetto giudiziario c’è quello culturale. In che modo si può intervenire, magari coinvolgendo la pubblica amministrazione? “Discutere senza timidezza del problema è molto importante. Non si parla mai abbastanza degli abusi che sono costrette a subire le donne in famiglia e nei posti di lavoro. La violenza spesso nasce dalla discriminazione. Nella pubblica amministrazione ci sono delle scuole di formazione: in autunno decolleranno corsi a distanza mirati per tutti i dipendenti pubblici sul tema della violenza psicologica e delle discriminazioni sul posto di lavoro. È innegabile purtroppo che anche in questi luoghi si consumino piccole e grandi vessazioni”. La ricerca di Telefono rosa fotografa una realtà in cui si registra un’impennata di segnalazioni. Come legge questo incremento? “In chiave positiva perché dimostra che le donne hanno più coraggio di denunciare rispetto al passato. L’aumento delle denunce non corrisponde all’intensificazione dei casi ma alla presa di coscienza dell’importanza di chiedere aiuto. Credo che molto abbia contribuito in questa direzione l’onda anomala della campagna internazionale Metoo dopo lo scandalo Weinstein. Il fenomeno culturale ha il suo peso e il venire allo scoperto di tante donne famose, realmente vittime di abusi, ha dato la forza a molte altre di uscire dal silenzio. La paura e la vergogna bloccano le donne che spesso non osano rivolgersi alle forze dell’ordine o alle associazioni”. Oltre alla denuncia, cosa consiglia alle vittime di violenza o stalking? “Ad esempio di non recarsi mai al tanto richiesto ultimo appuntamento chiarificatore perché spesso si può trasformare nell’ultimo momento di vita. Meglio fidarsi dello Stato, delle associazioni e dei tanti volontari che fanno un lavoro straordinario gratuitamente”. A parte le donne, anche i loro figli sono vittime indirette degli abusi. Come proteggere i minori? “Innanzitutto prendendo maggiormente in considerazione questa realtà che al momento è, invece, molto sottovalutata. Non ci si rende conto dei danni provocati ai minori che peraltro possono anche essere portati all’emulazione. Piccole violenze crescono: dobbiamo decisamente arginare questo pericolo e dobbiamo tutelare le piccole vittime della cosiddetta violenza assistita. Ancora una volta serve parlare del fenomeno”. Come valuta l’ipotesi di un fondo per gli orfani del femminicidio alla stregua di quello per gli orfani delle vittime di mafia? “Ritengo che le misure adottate dal precedente governo, siano un po’ troppo timide. Un piccolo passo avanti ma si può fare molto di più”. Legge Mancino, l’altolà di Di Maio non ferma Fontana di Valerio Varesi La Repubblica, 6 agosto 2018 “Una riflessione va fatta, ne parlerò con Conte e il vicepremier M5S. C’è un problema se tutto diventa razzismo”. Legge Mancino, vaccini, omofobia: il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, dal palco della festa della Lega Romagna a Cervia, tocca tutti i temi caldi che l’hanno visto protagonista nelle ultime settimane, spesso in contrapposizione con i 5Stelle. A partire dalla contestazione della legge Mancino che vorrebbe abrogare. Fontana non demorde: “Penso che una riflessione vada fatta e rifletterò con il presidente del Consiglio e con il ministro Di Maio: sono persone che mi hanno anche stupito per la loro capacità e il loro buonsenso” afferma. E aggiunge: “Dico che c’è un problema se tutto diventa razzismo e se quest’ultimo diventa uno strumento politico per colpire la Lega”. Il ministro cita anche Oriana Fallaci che fu additata come intollerante e razzista perché insisteva su una deriva violenta del mondo islamico: “Credo che, alla luce di quel che è successo, non avesse tutti i torti”. Poi precisa: “Il razzismo non appartiene alla Lega, ma dobbiamo stare attenti a non citarlo a sproposito come è accaduto nel caso dei lanciatori di uova. Mi chiedo cosa sarebbe successo se uno dei lanciatori fosse stato figlio di un consigliere della Lega anziché del Pd”. Sui vaccini è favorevole al modello belga dove la vaccinazione è personalizzata a discrezione del pediatra: “È evidente che il tasso di vaccinazione deve essere molto alto. In Veneto è così e la vaccinazione è una libera scelta. Credo che l’ultima parola vada lasciata alla scienza, importantissimi sono l’informazione e il parere dei medici”. Fontana tocca anche i temi di massima frizione con M5S: omofobia e famiglia. “El Pais ha scritto che io sono omofobo perché ho sostenuto che la famiglia è composta da un padre e una madre e dai figli ma non ho il diritto di esprimere il mio pensiero? Vorranno mica mettermi in galera? Ci sono battaglie che non sono forse nel programma, ma fanno parte della difesa della norma vigente. Per esempio, l’utero in affitto è vietato in Italia, ma chi ha i soldi Io fa all’estero. Io dico: si faccia rispettare la legge”. Quirinale, dallo “snodo” di Milano l’account falso per l’attacco web a Mattarella di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 agosto 2018 L’azione di una società esperta che ha utilizzato un sistema di comunicazione anonimo. Oggi il dossier di Pansa al Copasir: il direttore del Dis ricostruirà il tweet storm contro il capo dello Stato che si era rifiutato di nominare Paolo Savona ministro dell’Economia. Alcuni profili twitter utilizzati nel maggio scorso per l’attacco contro il Quirinale risultano ancora attivi. L’analisi del traffico e dei contenuti effettuata in queste ore dagli specialisti della polizia Postale e dell’intelligence dimostra che questi account continuano a “monitorare” quanto accade nel dibattito politico e spesso utilizzano lo stesso hashtag #mattarelladimettiti, come strumento di pressione. Sono i falsi profili sui quali indaga la Procura di Roma per scoprire chi abbia pianificato e attuato l’operazione politica contro il capo dello Stato dopo il suo rifiuto a nominare ministro dell’Economia Paolo Savona. Oggi ne parlerà al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, il direttore del Dis Alessandro Pansa. La sua audizione era stata programmata da tempo per un aggiornamento sui temi più caldi - immigrazione, terrorismo internazionale, controllo dei siti strategici, eventuali interferenze sull’economia - ma tre giorni fa si è deciso di ampliare l’ordine del giorno. La pressione politica - Al Parlamento il capo dell’intelligence consegnerà un dossier che ricostruisce quanto accaduto la notte tra il 27 e il 28 maggio (qui, la ricostruzione dell’attacco e i 400 profili falsi contro Mattarella). Evidenziando come quel bombardamento di tweet non abbia nulla a che fare con il Russiagate, cioè con i troll di Mosca che sarebbero stati utilizzati per influenzare la campagna negli Stati Uniti che ha portato all’elezione di Donald Trump. Del resto la prima traccia utile trovata dagli specialisti avvalora la possibilità che a generare l’operazione sia stato un account creato sullo “snodo dati” di Milano. L’obiettivo dell’assalto era fin troppo evidente: rilanciare le dichiarazioni pronunciate in quelle ore da Luigi Di Maio che aveva accusato Mattarella di “alto tradimento” per aver causato - escludendo la designazione di Savona - la rinuncia di Giuseppe Conte a formare il governo di M5S e Lega. E così dimostrare come l’opinione pubblica fosse tutta schierata con il capo politico dei grillini, forse nella speranza di convincere il presidente a fare marcia indietro. Un tentativo andato a vuoto, che però non cancella la “pressione” politica esercitata sulla più alta carica istituzionale e dunque consente ai magistrati del pool antiterrorismo di Roma coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Caporale di procedere nell’ipotesi che dietro il tweet storm ci fosse un disegno eversivo. Il Tor - I primi risultati dell’analisi tecnica hanno già consentito di raccogliere alcuni elementi utili. Il primo profilo sarebbe stato creato con un’iscrizione avvenuta in Italia - quella dello “snodo dati” che si trova a Milano - ma in maniera schermata in modo da far figurare che provenisse dall’estero. Per gli altri account, almeno 150 nei primi minuti, sarebbero stati utilizzati server stranieri: in Estonia o in Israele. Ad agire, è questa la convinzione degli investigatori, sarebbe stata un’unica mano. Si tratta quasi certamente di una società specializzata in questo tipo di attività, al momento i tecnici escludono che tutto ciò sia stato fatto da privati. L’ipotesi più probabile è che abbiano utilizzato il Tor. Si tratta di un sistema di comunicazione anonima per internet che consente di navigare in maniera criptata e dunque di non rendere individuabili i soggetti che lo usano. Il fatto che si tratti di mani esperte sarebbe dimostrato anche dalla scoperta che hanno usato un indirizzo Ip dinamico, cioè che cambia a intervalli di tempo prestabiliti e soprattutto consente di far “rimbalzare” la connessione su server diversi. In questo modo dà vita ai cosidetti Bot, programmi autonomi che fanno credere di comunicare con un’altra persona umana. Questi finti profili, sottolinea uno degli investigatori, “hanno pochissimi seguaci, twittano soltanto su uno o due argomenti, in alcuni casi vengono chiusi per poi ricomparire nei momenti ritenuti utili da chi lancia le campagne di assalto contro gli obiettivi istituzionali”. L’antiterrorismo apre un’inchiesta sugli attacchi web a Mattarella: sospetti su troll russi di Grazia Longo La Stampa, 6 agosto 2018 L’indagine sarà affidata a un pool di magistrati. Della vicenda si occuperà lunedì anche il Copasir. Anche la procura di Roma si occuperà degli attacchi web al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dietro i quali si sospetta l’azione di troll russi. La polizia postale, che sta indagando insieme ai servizi segreti, ha infatti già pronta l’informativa per l’azione della magistratura. A breve è quindi probabile l’apertura di un fascicolo per accertare varie possibili ipotesi di reato. Dalle “ingerenze estere”, all’”intelligenza con lo straniero contro l’autonomia dello Stato” e la “sostituzione di persona”. L’obiettivo è verificare se esiste davvero una matrice russa, la stessa del Russiagate, dietro le migliaia di messaggi con insulti a Mattarella e inviti a dimettersi, durante la notte tra il 27 e il 28 maggio, dopo il suo “no” su Savona ministro dell’Economia. Twitter impazzì: si registrarono nel giro di pochissimi minuti circa 400 nuovi profili, tutti riconducibili a un’unica origine. Si tratta forse della stessa regia di disturbo avvenuta durante la campagna elettorale americana? Gli autori dei profili sono forse quelli specializzati nella fabbricazione di troll, soggetti anonimi che sui social lanciano ad arte messaggi provocatori? Sulla vicenda indagheranno anche il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e l’Antiterrorismo. Lunedì è prevista l’audizione del direttore del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), Alessandro Pansa, e in quest’occasione i parlamentari che compongono il Comitato potranno chiedere informazioni e valutazioni. Va ricordato che anche nella precedente legislatura il Copasir aveva sollecitato i direttori dell’intelligence a riferire su possibili tentativi dall’estero di influenzare via web le competizioni elettorali italiane, senza che tuttavia fossero emerse evidenze. Il caso del Presidente della Repubblica impegna i nostri investigatori e 007 in collaborazione con i colleghi americani. Finora non ci sono stati riscontri di un effettivo collegamento con la Internet Research Agency (Ira), la cosiddetta fabbrica di troll russi di via Savushkina 55 a San Pietroburgo, incriminata negli Stati Uniti con l’accusa di aver prodotto propaganda o disinformazione per interferire nelle elezioni americane a favore di Donald Trump. Ma il livello di attenzione è alto. Tanto più che smascherare gli autori di fake news o tweet al veleno non è semplice, come spiegano gli analisti, a meno che non vengano commessi gravi errori. Sul caso interviene anche il ministro dell’Interno, Matteo Salvini: “Da alcuni mesi leggo che i russi starebbero influenzando la Brexit, le elezioni americane, francesi, italiane...Secondo me sono solo fregnacce”, dichiara. Recentemente il sospetto di troll russi in azione ha riguardato anche il Referendum sulla Riforma costituzionale del 4 dicembre 2016, che ha segnato l’inizio della sconfitta elettorale dell’ex premier Matteo Renzi. La campagna online contro il “sì” al Referendum appartiene alla galassia dei 1.500 tweet contenenti da una parte il consueto repertorio di lodi a Vladimir Putin e attacchi a Hillary Clinton, dall’altra interventi più mirati al contesto politico nazionale. Compresi attacchi al Pd che hanno portato il Nazareno a chiedere una commissione d’inchiesta sulla vicenda. I dati sono stati resi disponibili sul sito Fivethirtyeight di Nate Silver, che ha pubblicato i nove vastissimi file Excel contenenti quasi 3 milioni di interventi su Twitter. Oltre a Renzi e al Giglio magico, è stato preso di mira anche l’ex ministro dell’Interno con il tweet: “Minniti è un ex comunista, loro sono abili nel mascherare”. Stupefacenti: distanza temporale e recisione dei legami attenuano le misure cautelari di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 1 giugno 2018 n. 24734. In tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, al fine di verificare l’attenuazione delle esigenze cautelari in sede di richiesta di sostituzione della misura custodiale in atto, il mero decorso del tempo dall’instaurazione del vincolo non è di per sé rilevante ma può essere considerato unitamente ad altri elementi specifici, idonei a verificarne l’incidenza sull’intensità del pericolo di recidiva del prevenuto, sempre che risulti l’irreversibile recisione dei legami di quest’ultimo con l’associazione criminosa di appartenenza. Il principio di diritto è stato espresso dalla Cassazione con la sentenza 24734/2018. Altri orientamenti - In termini, Sezione IV, 13 febbraio 2018, Cima, secondo la quale, in tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’articolo 74 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, al fine di verificare l’attenuazione delle esigenze cautelari in sede di richiesta di sostituzione della misura custodiale in atto, il mero decorso del tempo dall’instaurazione del vincolo non è di per sé rilevante, ma può essere considerato unitamente ad altri elementi specifici, idonei a verificarne l’incidenza sull’intensità del pericolo di recidiva del prevenuto, sempre che risulti l’irreversibile recisione dei legami di quest’ultimo con l’associazione criminosa di appartenenza. In altri termini, l’affievolimento delle esigenze cautelari deve risultare da specifici elementi di fatto idonei a dimostrare lo scioglimento del gruppo ovvero il recesso individuale e il ravvedimento del soggetto sottoposto alla misura. Peraltro, secondo un orientamento più rigoroso, sempre in tema di misure coercitive disposte per il reato associativo di cui all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, in presenza di condotte esecutive risalenti nel tempo, la sussistenza delle esigenze cautelari deve essere desunta da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità, in quanto il decorso di un arco temporale significativo può essere sintomo di un proporzionale affievolimento del pericolo di reiterazione. Infatti, si sostiene, anche per i reati per i quali vige la presunzione relativa di cui all’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale (esistenza delle esigenze cautelari e adeguatezza della misura cautelare carceraria), la distanza temporale tra i fatti e il momento della decisione cautelare, quale circostanza tendenzialmente dissonante con l’attualità e l’intensità dell’esigenza cautelare, comporta l’obbligo per il giudice di motivare sia in relazione a detta attualità sia in relazione alla scelta della misura. Ciò valendo, in particolare, proprio per il reato di cui all’articolo 74 citato perché l’associazione ivi sanzionata non presuppone necessariamente l’esistenza di una struttura organizzativa complessa, essendo, al contrario, una fattispecie “aperta”, idonea a qualificare in termini di rilevanza penale situazioni fortemente eterogenee, oscillanti dal sodalizio a vocazione transnazionale all’organizzazione di tipo “familiare”; con la conseguenza che, in un panorama così variegato, il giudice deve valutare ogni singola fattispecie concreta, ove la difesa rappresenti elementi idonei, nella sua ottica, a scalfire la presunzione relativa operante per il reato de quo , ovvero a dimostrare l’insussistenza di esigenze cautelari o la possibilità di soddisfarle con misure di minore afflittività. Quindi, nella specie, secondo la Corte, correttamente e motivatamente il giudice del riesame, aveva annullato la misura della custodia in carcere, tra l’altro proprio per il reato associativo, ritenendo prive di concretezza e di attualità le esigenze cautelari, in quanto la contestazione si riferiva a un’attività illecita marginale e comunque racchiusa in un arco temporale risalente nel tempo (cfr. sezione VI, 13 novembre 2015, Proc. Rep. Trib. Lecce in proc. D’Alema). Disturbo delle occupazioni e del riposo al gestore per schiamazzi notturni davanti al locale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2018 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 6 luglio 2018 n. 30644. Risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio (nella specie, un esercizio commerciale) che non impedisca i continui schiamazzi provocati degli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne. Lo hanno stabilito i giudici della Cassazione con la sentenza 30644 del 6 luglio. Al riguardo, infatti, la qualità di titolare della gestione dell’esercizio pubblico comporta l’assunzione dell’obbligo giuridico di controllare, con possibile ricorso ai vari mezzi offerti dall’ordinamento come l’attuazione dello ius excludendi e il ricorso all’autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. Sul punto, cfr. anche sezione III, 3 luglio 2014, Proc. Rep. Trib. Firenze in proc. Bonechi, dove si è ribadito che il gestore di un esercizio commerciale è responsabile del reato di cui all’articolo 659, comma 1, del codice penale per gli schiamazzi e i rumori provocati dagli avventori dello stesso, con disturbo delle persone, perché la qualità di titolare della gestione dell’esercizio pubblico comporta l’assunzione dell’obbligo giuridico di controllare che la frequentazione del locale da parte dei clienti non sfoci in condotte contrastanti con le norme concernenti la polizia di sicurezza. Peraltro, si è anche precisato che, perché l’evento possa essere addebitato al gestore è necessario che esso sia riconducibile al mancato esercizio del potere di controllo e sia quindi collegato da nesso di causalità con tale omissione: cosicché, laddove gli schiamazzi e i rumori avvengano “all’interno” dell’esercizio non è dubbio che il gestore abbia la possibilità di assolvere l’obbligo di controllo degli avventori, impedendo loro comportamenti che si pongano in contrasto con le norme di polizia di sicurezza, ricorrendo, ove necessario allo ius excludendi. Al contrario, se il disturbo da parte degli avventori avvenga “all’esterno” del locale, per poter configurare la responsabilità del gestore è necessario provare, rigorosamente, che egli non abbia esercitato il potere di controllo e che a tale omissione sia riconducibile la verificazione dell’evento, dovendosi escludere la responsabilità nel caso in cui il gestore non abbia alcun potere per impedire i rumori sulla pubblica via o almeno per persuadere i soggetti a tenere “un tono di voce più moderato”, essendo sfornito di qualsiasi potere coercitivo. La Spezia: ex medico si suicida in carcere recidendosi l’arteria femorale di Alice Spagnolo riviera24.it, 6 agosto 2018 È morto suicida, intorno alle 23 di ieri, Nadir Garibizzo: l’ex medico di Imperia, 60 anni, ristretto al piano terra del carcere di La Spezia, si è tolto la vita recidendosi l’arteria femorale. A nulla sono serviti i soccorsi. Già condannato per omicidio e occultamento di cadavere, Garibizzo si trovava in carcere a La Spezia, per motivi di opportunità, con l’accusa di tentato omicidio. I fatti. Nadhir Garibizzo, ex medico dell’Asl 1 imperiese radiato dall’ordine dopo aver ucciso la propria amante, ha tentato di uccidere un bambino di otto anni per vendetta. Stando a quanto ricostruito fino ad ora l’uomo voleva vendicarsi per la cancellazione dal ruolo di un causa civile, perché per due volte l’attore si era presentato, davanti al giudice, senza un difensore. Sarebbe questo il movente del tentativo di uccidere a coltellate il figlio dell’avvocato Elena Pezzetta, “colpevole”, secondo l’uomo, di aver dismesso il mandato un anno fa e di avergli fatto così perdere la causa. Nella borsa che Garibizzo aveva con sé, i carabinieri hanno trovato una corda spessa due centimetri con un cappio e nodo scorsoio già preparati alla sua estremità. Gli inquirenti non escludono che il piano dell’ex medico fosse quello di uccidere uno o entrambi i figli dell’avvocatessa, per poi suicidarsi. Ma non è nemmeno esclusa l’ipotesi che con quella corda, Garibizzo volesse impiccare i bambini o lo stesso avvocato. La borsa conteneva altra corda, spago per pacchi, due paia di mutandine, una tuta, un paio di ciabatte e un rasoio da barba: tutto l’occorrente, insomma, per trascorrere una notte in carcere nel caso in cui, come avvenuto, il suo piano fosse fallito e fosse finito in carcere. Garibizzo aveva in corso una causa civile con un’impresa che aveva accusato di aver eseguito male dei lavori di sistemazione di un’autorimessa. Molti avvocati, tra cui la Pezzetta, si erano rifiutati di assisterlo: per questo l’uomo aveva denunciato una quarantina di legali. Con Elena Pezzetta, Garibizzo aveva instaurato un rapporto più duraturo, ma che comunque si era interrotto la scorsa settimana con la cancellazione della causa dal ruolo. Forse non sapeva che la causa avrebbe potuto essere riaperta: l’ex medico ha invece pensato di averla persa per sempre e ha meditato di volersi vendicare, scegliendo l’ex avvocato come vittima. E così ha fatto. Si è recato nei pressi della villetta di Caramagna dove vive il legale per un sopralluogo già due giorni prima dell’accaduto. Così avrebbero affermato alcuni testimoni. Poi è tornato martedì sera. Ha approfittato del cancelletto aperto per entrare nell’abitazione, seguendo l’amico di famiglia che stava entrando per prendere la figlioletta dopo un pomeriggio trascorso con gli altri bambini. È stato un attimo: una volta in casa, Garibizzo ha chiesto al marito della Pezzetta di parlare con lei. Alla risposta perentoria dell’uomo di andarsene, Garibizzo si è girato verso il divano, ha tirato fuori dalla borsa un coltello da cucina con la punta in fondo, di quelli per tagliare la carne, e si è scaraventato contro il bambino che era sdraiato sul divano. A quel punto il padre del piccolo gli si è scaraventato contro e gli ha gridato: “Stai fermo o ti ammazzo”. Lui ha risposto: “Magari”, senza aggiungere altro. Anche l’amico di famiglia si avventa su Garibizzo: i due uomini, nel tentativo di disarmare l’aggressore, afferrano il coltello e si feriscono. Immobilizzano l’ex medico e chiamano i carabinieri, giunti poco dopo. Ad interrogare Garibizzo, fino a dopo la mezzanotte, è stato il procuratore capo di Imperia, Alberto Lari. Al suo avvocato, Andrea Artioli, l’uomo aveva dichiarato di non aver avuto l’intenzione di uccidere nessuno, tantomeno un bambino. Genova: senegalese impiccato in cella, aperta un’inchiesta per omicidio volontario di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 6 agosto 2018 Era detenuto in regime di “grande sorveglianza”, lo spacciatore senegalese di 31 anni che nella notte tra venerdì e sabato si è tolto la vita con una cintura all’interno di una cella del carcere genovese di Marassi. Sul decesso del pusher, il pubblico ministero Giovanni Arena ha aperto un’inchiesta per omicidio volontario e fatto sequestrare la cintura, spessa almeno 5 centimetri e lasciata nella disponibilità del detenuto: il magistrato ha conferito l’incarico per l’autopsia, che sarà eseguita dal medico legale Marco Salvi. All’interno della cella si trovavano altri 2 detenuti, che interrogati dalla polizia Penitenziaria hanno dichiarato di non “essersi accorti di nulla”. Il senegalese arrestato dalla squadra Mobile della polizia nell’ambito dell’operazione “Labirinto 2” contro lo spaccio nei vicoli, sin dall’arrivo in carcere aveva dato segni di insofferenza, rifiutandosi di sottoporsi agli esami medici e ai colloqui; anche per questo era stato elevato nei suoi confronti il regime di “grande sorveglianza”. Caltagirone (Ct): carenza di acqua nel carcere, detenuti tentano una rivolta Giornale di Sicilia, 6 agosto 2018 Un tentativo di rivolta da parte di alcuni detenuti è stato sedato in uno dei blocchi del carcere di Caltagirone. A scaturirlo sarebbe stata l’emergenza idrica che negli ultimi giorni ha portato a una carenza di acqua nell’istituto penitenziario calatino. A denunciare il fatto è stato il Sinappe, Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria, che ha condannato l’episodio: “Un’azione che fa riflettere - dice il Coordinatore Regionale del Sinappe, Rosario Mario Di Prima - non possono essere sottovalutati simili episodi che, accadono nei reparti a regime aperto. Il caso odierno ci fa molto riflettere perché perpetrato all’interno di un a casa circondariale dove il controllo della sicurezza è totale ma il numero dei reclusi a superato 500 unità”. “L’episodio all’interno della Casa circondariale di Caltagirone - continua Di Prima - è un segnale inconfutabile da parte di chi vorrebbe intimorire e sopraffare l’azione dello stato, determinato dall’insofferenza da parte di taluni detenuti alle regole penitenziarie. I problemi idrici del territorio calatino sono stati affrontati nei giorni scordi in seno all’Ats per la criticità di un Comune ma non è stato affrontato l’incremento idrico in via definitiva per la Casa Circondariale di Caltagirone”. “Riteniamo - conclude Di Prima - che la comunità calatina con il suo sindaco, Gino Ioppolo si dovrà fare carico del problema e emanare seri e urgenti provvedimenti determinanti per la risoluzione dei problemi idrici nella sua immediatezza. All’Amministrazione penitenziari, infine, è stata chiesta la possibilità di ridurre significativamente la popolazione detenuta sovradimensionata rispetto ai servizi da elargire agli stessi, al fine di evitare ulteriori problemi per l’ordine e la sicurezza”. Foggia: la mafia del caporalato dietro i quattro migranti morti La Repubblica, 6 agosto 2018 All’indomani della tragedia di Castelluccio dei Sauri investigatori nei campi di pomodoro per scoprire se le vittime fossero sfruttate dai caporali. Identificati in tre: sono tutti ragazzi dai 20 ai 27 anni. Si indaga per caporalato: per capire se il terribile incidente stradale avvenuto ieri pomeriggio sulla strada provinciale 105, tra Ascoli Satriano e Castelluccio dei Sauri nel quale sono morti quattro braccianti agricoli, tutti migranti, sia avvenuto in un contesto di degrado delle condizioni di lavoro. In un contesto di sfruttamento, di marginalità sociale, di un sistema di trasporto dei lavoratori consegnato forse nelle mani dei caporali. O di chi si arrangia con mezzi di fortuna, mettendo ogni giorno a repentaglio la vita e la sicurezza delle migliaia di lavoratori, per lo più stranieri, che in questo periodo arrivano nelle campagne del Foggiano per la raccolta dei pomodori. Persone spesso costrette alla sopravvivenza tra le baracche dei ghetti, di ragazzi soli, alla ricerca di una speranza di vita. La stessa speranza che certamente avevano Amadou Balde, di 23 anni, della Guinea; Ceeay Aladje, gambiano, di 20 anni, e Moussa Kande, di 27: sono tre delle quattro vittime. Un quarto migrante morto non è stato identificato. Tutti e quattro viaggiavano, insieme con altri extracomunitari, nel furgone bianco chiuso che si è schiantato per cause in corso di accertamento, contro il tir carico di pomodori. Tornavano da una giornata trascorsa nei campi. Non avevano documenti di riconoscimento nelle tasche. Ma avevano ancora in testa i cappellini che i sindacalisti di categoria avevano distribuito nelle campagne per farli riparare un pò dal sole cocente. La Polizia sta cercando di stabilire in quale zona fossero andati a lavorare e dove fossero diretti. E, soprattutto, si sta cercando di accertare se avessero regolare contratto di lavoro. E chi fosse la persona alla guida del furgone. Informazioni che potranno fornire i quattro feriti: sono anche loro migranti e sono stati ricoverati in ospedale, a Foggia. Le loro condizioni sono gravi ma stabili e non corrono pericolo di vita. Oggi rappresentanti di diverse sigle sindacali sono andati a trovarli in ospedale e per dire ‘bastà ad ogni forma di sfruttamento, è stata organizzata una manifestazione che si terrà mercoledì prossimo a Foggia. Promossa dalla Flai Cgil Puglia, insieme a Fai e Uila e ad Arci, Libera, Terra, Consulta sull’immigrazione di Foggia e Cerignola, e associazioni. “Non bisogna chiudere gli occhi di fronte allo strapotere dei caporali”, dicono il segretario generale Cgil Puglia e il segretario generale Flai Puglia, Pino Gesmundo e Antonio Gagliardi, che forniscono anche alcuni dati: l’orario medio di questi lavoratori va da 8 a 12 ore al giorno; nessuna tutela e nessun diritto garantito dai contratti e dalla legge; una paga media tra i 20 e i 30 euro al giorno; lavoro a cottimo per un compenso di 3/4 euro per un cassone da 375 kg; un salario inferiore di circa il 50% di quanto previsto dai contratti. “E i lavoratori sotto caporale - raccontano - devono pagare anche il trasporto, a secondo della distanza, mediamente 5 euro”. Daniele Iacovelli, segretario Flai-Cil di Foggia, segnala anche “l’abitudine di considerare quasi normale e inevitabile il fatto che ogni giorno le vie di Capitanata siano attraversate da camioncini come quello coinvolto nell’incidente che vanno verso le aziende agricole e al cui interno sono letteralmente ammassati i lavoratori, senza alcun presidio di sicurezza”. La Regione Puglia aveva anche trovato risorse per bandi pubblici necessari a organizzare servizi di trasporto dedicati alla stagione della raccolta dei pomodori ma per procedere sarebbe servita la piena collaborazione delle imprese per costruire i percorsi. Una collaborazione che - denunciano le organizzazioni sindacali - non c’è stata. E a pagarne le conseguenze sono sempre loro: “persone sole e deboli”, come ricorda l’arcivescovo di Foggia-Bovino, Vincenzo Pelvi, che chiede a tutti l’impegno “a superare l’indifferenza”. Domani, nella Cattedrale di Foggia, si terrà una messa per ricordare le vittime dell’incidente stradale. Ma ora si attende soprattutto che si faccia luce su una vicenda che denuncia una realtà sommersa e da tutti conosciuta: quella di diritti semplici negati a persone deboli. Napoli: l’Istituto Tecnico Industriale “Fermi-Gadda” a Poggioreale di Roberta Barone e Vincenzo Albano genteeterritorio.it, 6 agosto 2018 L’istruzione in carcere risale allo Statuto Albertino, che la prevedeva tra le attività obbligatorie per il suo valore rieducativo, e alle leggi del 1931 del regime fascista, che prevedevano corsi di istruzione elementare obbligatoria per i detenuti. L’articolo 27 della Costituzione dice che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” e l’articolo 34 che l’istruzione inferiore “è obbligatoria e gratuita”. Solo nel 1953, con la legge 503, si è concretizzata l’istituzione delle scuole carcerarie elementari. L’ordinamento penitenziario del 1975 e, successivamente, del 2000, definiscono l’istruzione elemento fondamentale per la rieducazione e il reinserimento, insieme ad altre attività (sportive, culturali e ricreative). L’attività di istruzione, però, è l’unica ad essere considerata come diritto costituzionale riconosciuto al detenuto. Il nuovo Regolamento prevede l’istituzione di corsi di istruzione obbligatoria, secondaria, di formazione professionale ed anche universitaria. Durante quest’anno scolastico, 2017/18, presso la casa circondariale di Poggioreale, è stato realizzato il primo “esperimento” di scuola secondaria superiore. L’ Istituto Tecnico Industriale - I.T.I. “Fermi-Gadda” di Napoli, indirizzo elettronica/elettrotecnica, dirigente scolastico Natale Bruzzaniti e vicepreside Giovanna Baldovin, - è entrato nel carcere con la formazione di una classe con 15 iscritti. Per noi docenti, insegnare in un contesto con variabili umane e organizzative così diverse dalla realtà della scuola esterna, è stato un percorso completamente nuovo, una sfida didattica, professionale e psicologica. Abbiamo dovuto tenere conto di tanti fattori, quali le età differenti degli allievi, le caratteristiche del luogo di apprendimento, i tempi che occorrono per farli arrivare dopo la “conta” dai diversi padiglioni fino all’area dove si svolgono le attività ed anche del costante rapporto con la polizia penitenziaria. Le diverse attività educative si svolgono in celle adibite ad aula. Le difficoltà sono state quella di reperire libri e materiale didattico, che è stato fornito dagli stessi docenti sotto forma di fotocopie; di ritrovarsi in classe con persone provenienti da varie parti del mondo, con differenti livelli culturali, estrazione sociale, competenze, età, percorsi scolastici, tipologie caratteriali e reati commessi. Riuscire a trovare un comune denominatore, quindi, è stato l’obiettivo primario. I nostri 15 studenti, insieme all’area didattica e al personale penitenziario, lo hanno reso possibile. Hanno dimostrato di essere all’altezza della scelta fatta, hanno rinunciato al lavoro che gli avrebbe permesso di mantenersi e di mandare qualche soldo a casa ed hanno frequentato con assiduità ed interesse le lezioni, arricchendole con domande, informazioni apprese in televisione (unico mezzo di “collegamento” con l’esterno) e confronti continui. Questa esperienza ci ha insegnato che bisogna investire e rafforzare il sistema della scuola in carcere, perché coltivare la fiducia nell’essere umano, offrendo nuove possibilità ed alternative agli errori commessi, è assolutamente necessario al fine di una corretta e vera riabilitazione. L’annuncio di Salvini: “dimezzeremo la diaria per i migranti” di Daniele Prato La Stampa, 6 agosto 2018 “Entro fine anno, vogliamo abbassare la quota giorno per i migranti dai 35 euro alla metà perché si vive bene anche con quello. Mandando in porto entro fine anno risparmieremmo 500 milioni di euro da reinvestire in sicurezza, carabinieri, polizia e vigili del fuoco”. Lo ha dichiarato il vicepremier Matteo Salvini alla Festa della Lega di Capriata d’Orba. Salvini, alla prima apparizione da ministro dell’Interno in provincia di Alessandria, in Val d’Orba ha incontrato anche il questore Michele Morelli e gli agenti alessandrini Rino Russo e Pietro Paradiso, che il vicepremier ha definito “eroici” su twitter per aver salvato una famiglia incastrata in un’auto uscita di strada a Cassine, mentre avevano già smontato dal servizio e tornavano a casa. Con loro anche i colleghi Costantino Giacquinto e Fredy Fioravante, intervenuti in un sottopasso allagato ad Alessandria. L’immigrazione è fra i temi forti della serata: “Vi ricordate i tg delle scorse estati? Barconi, barconi e barconi. La sinistra diceva di non poter fare niente, che era un fenomeno globale e abbiamo dimostrato che qualcosa si poteva fare”. Poi un altro annuncio: “Il 14 agosto e a Ferragosto sarò in Sicilia e Calabria: mafia ‘ndrangheta e camorra devono capire che spariranno, mafia e scafisti sono la stessa merda e non voglio più vederli”. Il vicepremier leghista è tornato sugli ultimi fatti di cronaca e sulla polemica del razzismo: “Quelli del Pd sono davvero sfortunati - riferendosi al caso di Daisy Osakue - riescono a cadere anche sulle uova. Hanno montato per una settimana una cagnara parlando di razzismo, fascismo e chi più ne ha più ne metta. Poi scopri che chi ha tirato le uova è il figlio di uno del Pd...” Il ministro si è complimentato con il giovane atleta torinese Alessandro Miressi, medaglia d’oro agli Europei di nuoto nei 100 stile libero: “Bravo Alessandro, un atleta italiano e piemontese. Spero che domani sui giornali abbia lo stesso spazio di altri atleti. E non aggiungo altro...”. Un passaggio ancora sullo sport, da ministro di fede milanista: “Preferisco Higuain a Bonucci ma è soggettivo. Aver restituito Bonucci alla Juve per Higuain è una soddisfazione”. Poi, cantieri e grandi opere (la provincia di Alessandria, con la Liguria, è interessata dai lavori del Terzo valico): “Le infrastrutture servono, servono strade più belle e ferrovie nuove, io voglio andare avanti. I Cinque Stelle sono gente affidabile, concreta, con voglia di fare bene le cose, ma su qualche cosa - ha aggiunto - dobbiamo metterci d’accordo”. Moavero in Egitto, l’ora della svolta: “intesa sulla Libia” di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 6 agosto 2018 Prima visita di un ministro degli Esteri italiano dopo la morte di Regeni. “D’ora in poi contatti su base strutturata”. Al Cairo era già andato Salvini dopo un viaggio a Mosca. I rapporti politico-diplomatici tra Italia ed Egitto sono tornati a essere molto più intensi di quanto lo erano nell’agosto dell’anno scorso, quando il governo di Paolo Gentiloni decise di rimandare al Cairo un ambasciatore dopo che Matteo Renzi lo aveva fatto richiamare nell’aprile 2016 a causa dei silenzi egiziani sulla barbara uccisione di Giulio Regeni. Quei silenzi non sono stati superati in maniera sostanziale, ma il nuovo governo ha molti meno timori nel tenere relazioni strette con un Paese del quale siamo uno dei principali partner commerciali e con il quale l’interscambio nei primi tre mesi del 2018 si è ridotto del 17,9% a causa di un calo delle esportazioni italiane. “Abbiamo concordato su tutti i punti che riguardano la situazione libica attuale”, ha detto ieri al Cairo il ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero Milanesi al termine di colloqui con il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi, il ministro degli Esteri Sameh Shoukry e, dettaglio non irrilevante, per i servizi segreti il capo del General Intelligence Service Abbas Kamel. “Abbiamo concordato che Egitto e Italia devono avere contatti anche su una base strutturata”, ha dichiarato Moavero. Strutturata significa regolare, non occasionale. Shoukry, che davanti ai giornalisti era a fianco del titolare della Farnesina, ha informato di apprezzare la decisione italiana di attivare al Cairo un ufficio della Sace, la società della Cassa depositi e prestiti per il credito all’esportazione e l’assicurazione di investimenti all’estero. Impegni sono stati presi per aumentare l’interscambio e per collaborare nel piano che lo scopo di far diventare l’Egitto un centro regionale per il commercio di energia, campo nel quale l’Eni lavora sul posto dai tempi di Enrico Mattei con l’estrazione di gas e petrolio. Benché in linea con la tradizione dei rapporti tra i due Paesi dagli anni Cinquanta in avanti, sentir pronunciare la frase sui contatti strutturati era inimmaginabile durante i mesi di tensione sull’assassinio del giovane ricercatore italiano trovato morto nel febbraio 2016. Una morte della quale è ritenuta responsabile la sicurezza egiziana. Moavero ha affermato di aver ascoltato esprimere dal governo egiziano “forte volontà” di risultati concreti dell’inchiesta sul caso. “Al Sisi ha confermato l’interesse dell’Egitto per scoprire le circostanze dietro l’uccisione di Regeni e la sua disponibilità a continuare la piena cooperazione in modo trasparente attraverso le autorità competenti”, ha fatto sapere la presidenza egiziana in una dichiarazione. Parole che indicano un proposito e che, come era prevedibile, non segnano un punto di arrivo verso la verità, se mai sarà raggiunta. Oltre a un inevitabile riconoscimento italiano del ruolo stabilizzatore che l’Egitto ha in Medio Oriente e agli scambi economici che sarebbe autolesionista non coltivare, c’è però qualcosa di altro nella ritrovata convergenza tra governo italiano e al Sisi. Passa per Mosca e Tripoli. Vanno tenute presenti alcune date. Moavero è stato il primo ministro degli Esteri italiano a tornare al Cairo dal 2015. Ma prima da al Sisi era andato il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini. La sua visita è stata il 18 luglio. Il 16 luglio a Mosca Salvini era stato ricevuto dal ministro dell’Interno Vladimir Kolokoltsev e dai vicesegretari del Consiglio di sicurezza Yuri Averyanov e Aleksandr Venediktov. La posizione italiana sulla Libia, nelle ultime settimane, fa intravedere contrarietà a che le elezioni parlamentari e presidenziali in questo Paese si tengano il 10 dicembre, la data ipotizzata nel maggio scorso in una conferenza internazionale organizzata dalla Francia. Resistenze a quella data vengono dal generale Khalifa Haftar, il referente di al Sisi e di Vladimir Putin in Libia che controlla la Cirenaica con un suo autoproclamato Esercito nazionale. Ufficialmente l’Italia sottolinea che sono i libici a dover decidere quando votare, tuttavia l’obiettivo del governo di Giuseppe Conte è favorire prima un’intesa tra Haftar e il Consiglio nazionale di Fayez Mustafa al Sarraj. Ancora lontani e rivali mentre dalle numerose milizie libiche le armi vengono usate spesso. Moavero ha annunciato che presto andrà in Cirenaica per parlare direttamente con il generale. “Dobbiamo avere rapporti con tutte le parti coinvolte nel processo di restaurazione dello Stato libico”, ha sostenuto il titolare della Farnesina. La visita del ministro ad Haftar sarebbe un segno di attenzione e riguardo per l’uomo forte di Bengasi appoggiato dal Cairo e da Mosca, un personaggio non facile che negli ultimi anni non ha risparmiato avvertimenti all’Italia e che al Sisi considera essenziale per proteggere la parte occidentale dell’Egitto, confinante con la Cirenaica, da infiltrazioni di terroristi fondamentalisti islamici e di affiliati ai Fratelli musulmani. Moavero ha interesse a non lasciare che i contatti principali di Haftar nell’Unione Europea siano con la Francia, il Paese nel quale il generale è stato in primavera sia prima per cure mediche e poi per partecipare alla conferenza di maggio a Parigi. Per ottobre il governo italiano vuole organizzare a Roma un’altra conferenza sulla Libia, terra senza Stato che è meno di prima piattaforma di partenza per migranti e profughi da quando Marco Minniti, il precedente ministro dell’Interno, ha trattato con capi di milizie e tribù e ridotto il flusso di stranieri diretti via mare verso l’Italia. Quei patti non sono eterni, la Libia resta comunque un Paese che produce petrolio e gas. E il governo Lega-5 stelle, alle prese con difficoltà nell’Ue, cerca anche di risultare nel Mediterraneo un interlocutore utile sia per gli Stati Uniti di Donald Trump sia per la Russia di Putin. La Libia non è un paese per le donne che si occupano di diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 agosto 2018 Aggredite, rapite, stuprate, minacciate di morte, definite prostitute e adultere sui social media. Dall’inizio del conflitto armato del 2014, che ha politicamente diviso la Libia in due, decine di difensori dei diritti umani sono stati costretti a lasciare il paese. Tra loro molte donne. In una sua recente pubblicazione, Amnesty International ha raccolto le storie di alcune blogger, giornaliste e attiviste, usando quando da loro richiesto degli pseudonimi. Da oggi, ne racconteremo una al giorno. Iniziamo da “Manal”. “Manal” è una giornalista freelance di Tripoli. Nel 2012 è sfuggita a un tentativo di sequestro dopo che aveva pubblicato sul quotidiano “al-Jadida” un’inchiesta sulla vendita illegale in Tunisia di beni di proprietà statale. Nel 2014, pochi giorni dopo aver rilasciato un’intervista al canale televisivo “al-Ahrar” in cui aveva criticato il sistema pensionistico e d’indennità da disoccupazione, è stata aggredita da tre persone che l’aspettavano in un parcheggio e riempita di schiaffi e pugni. Uscita dall’ospedale, ha presentato denuncia alla polizia. Il marito l’ha obbligata a smetterla di occuparsi di inchieste giornalistiche. Ma “Manal” non è una donna che si arrende facilmente. Nell’aprile 2017 ha ripreso a scrivere, questa volta sui criteri di distribuzione di passaporti libici a cittadini stranieri. Questa volta, la milizia di turno se l’è presa direttamente col marito. E cos’ha fatto il marito? Ha fatto sparire il pc e tutto l’archivio elettronico della moglie e poi ha avviato le pratiche per il divorzio. Infine, tre mesi dopo, l’ultima inchiesta, sullo stupro di una bambina di 12 anni. Ad aggredirla, nell’occasione, è stato un comandante della Brigata rivoluzionaria di Tripoli, un’unità di sicurezza affiliata al ministero dell’Interno del governo riconosciuto dalla comunità internazionale. Dopo un breve periodo in Tunisia, nell’ottobre 2017 è tornata a Tripoli. Ad attenderla c’era una milizia molto nota nella capitale. L’hanno rapita, torturata, minacciata di stupro, accusata di essere una prostituta e avvisata che sarebbe stata denunciata per prostituzione alla Forza speciale di deterrenza, un’altra unità dipendente dal ministero dell’Interno. Oggi “Manal” conduce una vita isolata. Esce di casa raramente. Dopo il divorzio, intorno a lei si è fatto il vuoto. Siria. Dalla Rai agli “Elmetti bianchi”, le armi tacciono ma le fake news no di Patrizio Ricci ilsussidiario.net, 6 agosto 2018 In Siria il quadro di ciò che accadrà è già ben definito, ma diversi “mediacenter” continuano a fare una guerra parallela. Quella della cattiva informazione. La fine della guerra al sud della Siria è coincisa con il summit a Sochi (Russia) dove Russia, Turchia ed Iran, insieme ad opposizione e governo siriano, si sono incontrati per proseguire nella road map per la soluzione del conflitto: nei colloqui - che si sono protratti per due giorni - si è discusso sulla situazione nel sud del paese, la cui liberazione, completata il 31 luglio, è stata resa possibile grazie al superamento dei timori israeliani per presenza iraniana in Siria. Per superare l’intransigenza di Israele, la Russia ha dato fondo a tutta la sua influenza nei confronti di Teheran; ha offerto cospicui vantaggi economici (si è impegnata ad investire ben 50 miliardi di dollari nel settore petrolifero e del gas iraniano, una vera manna per un paese sotto sanzioni); è riuscita inoltre a ripristinare le forze dell’Onu sul Golan e monitorerà direttamente con proprie forze le frontiere di Israele. Altri argomenti affrontati a Sochi sono stati la situazione umanitaria, la problematica della restituzione reciproca dei detenuti e il rientro degli sfollati. In proposito, è di rilievo che se anche la situazione umanitaria è ben lontana dall’essere normalizzata, ci sono passi per un graduale coinvolgimento dei paesi europei e in primis della Francia, che da un anno ha contatti discreti con il governo siriano attraverso il Libano. In questo senso, pur se sono stati continui gli inviti della Russia verso la comunità internazionale affinché sostenga la ricostruzione della disastrata economia siriana, ben poco finora si è visto all’infuori dell’opera fornita dalle agenzie internazionali umanitarie: all’appello fino a questo momento hanno risposto concretamente solo la Cina, la Russia e l’Iran. Passi avanti sono stati fatti invece verso il rilascio dei prigionieri e sul rientro degli sfollati. Su quest’ultimo argomento, decisivo è stato l’incontro di Helsinki tra Trump e Putin, in cui l’amministrazione Usa ha accettato di collaborare per favorirne il rientro. In quell’occasione, il presidente Trump ha riconosciuto che la quasi totalità dei profughi esterni può tornare tranquillamente, dato che sono da considerarsi perseguitati politici solo circa 5mila persone, ovvero un’esigua minoranza sul numero complessivo dei rifugiati. Naturalmente, mentre sui suddetti argomenti è stato possibile individuare convergenze e fare passi avanti, più difficile è stato trovare un accordo sulla provincia di Idlib occupata da una pluralità di milizie, tra cui primeggia il gruppo qaedista Tharir al-Sham. In proposito, il rappresentante siriano Bashar al-Jaafari ha detto chiaramente che lo status di quel territorio come area di de- escalation sarà rimosso e, se necessario, l’esercito siriano procederà alla sua riconquista armata. L’annuncio non sorprende: tutti gli analisti sapevano che la riconquista di Idlib sarebbe stata questione di tempo. In fondo la soluzione di inserire Idlib nelle aree di de-escalation era solo una soluzione momentanea per dar tempo alla Turchia di estromettere dall’area di sua pertinenza i terroristi, ma Ankara non lo ha fatto: non è riuscita ad impedire che avvenisse la fusione tra i gruppi islamici più radicali (tra cui Ahrar al-Sham e Nour al-Zinki) con il “moderato” Esercito Siriano Libero (Esl). È per questo che in assenza di sviluppi positivi, procrastinare ulteriormente il ristabilimento della piena sovranità sul territorio permetterebbe solo alle milizie estremiste di rafforzarsi ulteriormente e perpetuare gli attentati e degli attacchi che avvengono sistematicamente. Perciò il presidente turco Erdogan ha accettato che la riconquista avvenga, pur se ha rivelato di aver chiesto a Putin di “affrontare qualsiasi possibile attacco alla città di Idlib nell’ambito dell’accordo di riduzione dell’escalation”, ovvero ha chiesto che Idlib sia tenuta sotto il controllo di un “esercito” addestrato dalla Turchia che si fonderà con l’esercito siriano in futuro, all’avvio di una transizione politica. Ciò significa che anche se non tutte le forze dell’Esl si schiereranno con l’esercito siriano, è probabile che almeno una parte delle milizie filo-turche dell’Esl sosterranno le forze governative siriane. In tal senso si direbbe che la lotta interna sia già iniziata: è da qualche tempo che sono in corso “misteriosi” omicidi mirati contro i vertici delle varie organizzazioni terroristiche e attentati contro istituzioni chiave ad Idlib. Ankara è consapevole che se favorirà l’offensiva dell’esercito siriano, potrà forse patteggiare una sorta di influenza sulle zone di Afrin, Azaz e Jaralabus, ora controllate direttamente dalle milizie filo-turche. Alla luce di tutto questo, giacché per sommi capi gli accordi già ci sono ed il quadro di ciò che accadrà è già ben definito, ora ci si aspetterebbe che la campagna mediatica che ha affiancato con tutte le sue menzogne e manipolazioni la guerra siriana, cessasse. Ma ciò non sta avvenendo. Invece, si notano nuove “produzioni” dei vari mediacenter attivi in questi anni come quinta colonna: in Italia una serie di trasmissioni Rai hanno tentato di rilanciare la retorica rivoluzionaria con i suoi falsi miti tramite le consuete strumentalizzazioni; Bana, la bambina che a sette anni scriveva perfettamente inglese e che mandava i suoi tweet è riapparsa tramite i suoi cloni alias Hala, Yara e Lana, le tre bambine gemelle di sei anni che da località diverse si sono messe contemporaneamente a scrivere in varie lingue su twitter invocando la salvezza di Idlib. Ciò accade mentre gli “Elmetti bianchi” (il mediacenter della Cia in Siria) sono riapparsi magicamente ad Afrin pronti ad inscenare nuovi attacchi chimici. Stati Uniti. Gulag for profit di Vittorio Zucconi La Repubblica, 6 agosto 2018 La tolleranza zero di Trump contro i migranti: due miliardi d’incassi. Due corporation e una miriade di piccole aziende fanno profitti gestendo il dramma dei migranti bambini separati dai genitori. Nell’oceano di erba grama e polvere fra Texas e Messico, sotto tende di fortuna o dietro gabbie col filo spinato, prosperano grazie alla “tolleranza zero” di Donald Trump gli scafisti di terra, le corporation che hanno l’appalto dei lager per bambini e adulti immigrati senza documenti e ne ricavano miliardi. C’è un crescente business dietro la retorica dell’America First e della deterrenza spinta separando i figli da genitori voluta da Trump, una scelta che anche la figlia Ivanka ha definito “la peggior decisione mai presa da mio madre”. Sono società legali, quotate a Wall Street, soprattutto due, la Core e la Geo, aziende che dopo avere sfiorato il fallimento nel 2016 quando la presidenza Obama promise di togliere gli appalti, hanno puntato centinaia di migliaia di dollari - 256 mila la sola Geo - sulla vittoria di Trump e sulla sua guerra all’immigrazione, e hanno vinto il jackpot. Due miliardi di dollari pubblici sono piovuti su di loro attraverso il ministero della Giustizia e le amministrazioni degli Stati e i titoli della Geo sono lievitati dal 14 per cento in Borsa. Questa realtà dei “Gulag for Profit” che prospera anche fuori dai campi di frontiera e si estende all’intero sistema carcerario, dove l’8 per cento del 2,3 milioni di detenuti sono affidati a carceri costruite e gestite da privati, è una notizia che raramente esce dai confini delle realtà locali e dalle pagine dei quotidiani di Houston, Dallas o San Antonio per approdare nei porti del discorso nazionale. E se non fosse stato per quei tremila bambini sotto i cinque anni, che in un audio abbiamo sentito piangere invocando la “tia” o la “mama”, l’indifferenza e l’accettazione della economia della pena sarebbe rimasta lontana dagli occhi dei buoni cittadini. Solo nel Texas, prima linea nella guerra ai “clandestini”, sono 170mila i clienti forzati che le autorità federali forniscono agli amministratori di questi barconi di tela o cemento immobili nell’oceano della prateria. Quando gli agenti dell’ICE, la polizia di frontiera per l’immigrazione, la “Migra” nel linguaggio dei nomadi senza documenti, acciuffa gruppi o famiglie di illegali, separa i bambini dagli accompagnatori adulti e li consegna agli impiegati di queste aziende che li sparpagliano negli accampamenti di fortuna, simili ai primi campi di Guantánamo, o negli edifici abbandonati, megastore chiusi, ospedali chiusi, scuole in disuso, e trasformati in lager, nell’attesa di processi, deportazioni o, per i bambini, di affidamento o di consegna ai servizi sociali. Ci sarebbe un ordine delle corti federali che obbliga il governo a ricongiungere i più piccoli con i genitori, ma nel caos e nel passamano fra ICE e scafisti di terra centinaia di famiglie sono state sbriciolate. Nessuno sa quanti siano i bambini oggi amministrati dai privati e il totale arriva a 750, ma in molti casi le loro madri, zie, padri sono già stati da tempo deportati oltre frontiera. Grandi drammi umani, dalle guerre alle migrazioni, generano nella storia grandi profitti sulle sofferenze e le migrazioni di massa non potevano fare eccezione. Per ogni detenuto, Core e Geo incassano 25 mila dollari l’anno, più di due mila dollari al mese e fondi di investimento come la Vanguard hanno, con cinica lungimiranza, acquistato le loro azioni, sapendo che nel tempo di Trump e della psicosi collettiva anti migratoria avrebbero reso bene. La robusta circolazione di danaro tracima in politica, dove le due maggior corporation e la miriade di più piccole aziende richiamate dal colore dei soldi finanziano candidati repubblicani alle parlamentari del 6 novembre, per assicurarsi che la “tolleranza zero” continui e con essa il rifornimento di “prodotti umani” da sfruttare. Anche se l’appalto a privati della carcerazione a bassa sicurezza, sul genere dei lager texani di oggi, è precedente all’Amministrazione Trump, dopo il 2015 una grandinata di cause e denunce contro queste società aveva fermato e invertito la tendenza a privatizzare la detenzione. L’infatuazione per gli appalti delle carceri a società “for profit” aveva conosciuto una gelata nel 2007 quando il caso di un giudice della Pennsylvania, Mark Ciavarella, aveva rivelato quanto fosse grande la tentazione di spedire in carcere giovani per reati minori in cambio di bustarelle. Il caso, ribattezzato “Kash fo Kids”, soldi per ragazzi, era costato l’ergastolo al giudice. Finire nell’abbraccio di un sistema penale privato o gestito dall’amministrazione pubblica non cambia la natura della sofferenza e della disumanità delle nuove politiche di separazione forzata decretata nel marzo scorso da Trump e l’oscenità di segregare bambini per dissuadere i genitori rimane un’enormità chiunque amministri il carcere. Stati Uniti. Ohio, il giudice fa chiudere la bocca con lo scotch all’imputato di Silvia Martelli La Repubblica, 6 agosto 2018 La decisione durante un processo nello Stato Usa scatena polemiche. L’uomo continuava a parlare anche quando non gli era stato concesso. Il giudice lo ha avvertito più volte, poi ha ordinato agli agenti di agire. La difesa: “Non riuscivo mai a concludere un concetto”. Durante un processo in un tribunale della contea di Cuyahoga, in Ohio, il giudice John Russo ordina di chiudere con lo scotch la bocca dell’imputato Franklyn Williams, 32 anni, per farlo rimanere in silenzio. L’evento viene filmato da un giornalista di Cleveland’s Fox 8 News e poi diffuso online. E divampano le polemiche. Nel dicembre 2017 Williams era stato accusato di furto aggravato e rapimento. Durante l’udienza, avvenuta martedì, prova più volte a farsi ascoltare, intervenendo ripetutamente anche quando non gli è stata data la parola. Il giudice Russo lo avverte: “Signor Williams, sono io il giudice del processo. Chiuda la bocca, le dirò io quando può parlare. Ha capito?”. Nonostante l’avvertimento, Williams continua a interrompere gli avvocati e il giudice stesso, che ripete: “Capisce che cosa vuol dire stare zitti?”. Williams prova allora a difendersi dicendo che Russo “sta provando a prendersi la sua vita” (riferendosi alla condanna di 24 anni), tuttavia senza “permettergli di spiegare che cosa sia realmente successo”. Dopo una dozzina di richiami, il giudice lo minaccia: “Mi ascolti, se è necessario, le farò chiudere la bocca con lo scotch . Avrà modo di parlare, ma adesso chiuda quella bocca, le darò modo di parlare”. I commenti di Williams continuano però a sovrapporsi a quelli del suo avvocato, e il giudice, spazientito, ordina allora agli agenti di agire. Williams viene prontamente circondato da sei agenti e, senza opporre resistenza, gli viene applicato un largo pezzo di scotch rosso sulla bocca, e poi un secondo. Dopo l’incidente, Williams è stato intervistato, sostenendo di avere delle buoni ragioni per continuare a fare commenti: “Il giudice non mi lasciava dire quello che dovevo dire. Continuava a fermarmi prima che potessi spiegare delle cose”. L’Unione Americana per le Libertà Civili (Ucla) dell’Ohio - un’organizzazione non governativa orientata a difendere i diritti civili e le libertà individuali - ha denunciato l’evento in un tweet: “Non possiamo considerare normale l’accaduto. È umiliante. Non solo priva la persona dell’opportunità di parlare prima che gli venga portata via la vita, ruba anche la sua dignità. È del tutto sbagliato”. Il giudice Russo ha dichiarato a Fox 8 News che la decisione era stata presa a causa della “mancanza di rispetto Williams nei confronti del sistema legale”. Venezuela. Attacco con droni alla parata militare, Maduro accusa Colombia e dissidenti di Emiliano Guanella La Stampa, 6 agosto 2018 Illeso il presidente. Sette gli ufficiali rimasti feriti. Il governo: sei “terroristi” arrestati. Restano dubbi sulla dinamica dell’attentato. L’opposizione nega qualsiasi responsabilità: “Non sia la scusa per aumentare la repressione”. Quello contro Nicolas Maduro è probabilmente il primo attentato contro un presidente compiuto con droni. L’attacco è avvenuto sabato scorso mentre il presidente venezuelano assisteva a una parata militare a Caracas. Le immagini tv che hanno fatto il giro del Mondo mostrano Maduro accanto alla moglie Cilia e i capi delle Forze Armate proteggersi da un attacco dal cielo, con le guardie del corpo che circondano il presidente con scudi neri e il caos tra le file della Guardia Nacional bolivariana. La versione ufficiale parla di un attacco con dei droni che sono stati abbattuti, con un bilancio di sette ufficiali feriti. Dopo appena due ore Maduro è comparso in televisione per accusare i presunti mandanti del tentativo di assassinio. “Sono stati gli ultraconservatori dell’opposizione, che si muovono da Miami e dietro tutta questa operazione c’è il presidente colombiano Juan Manuel Santos”. Santos, che domani porta a termine il suo mandato, ha rispedito al mittente le accuse. “Si tratta di affermazioni irresponsabili - si legge nella nota ufficiale di Bogotà - e prive di qualsiasi fondamento, un attacco che offende la dignità del presidente e di tutto il popolo colombiano”. Il regime a Caracas fa quadrato intorno alla linea di Maduro, ma in assenza di prove concrete la verità è che la versione ufficiale fa acqua da tutte le parti. Nessuno dei giornalisti venezuelani presenti ha visto circolare dei droni, mentre un portavoce dei vigili del fuoco, poi messo a tacere dai suoi superiori, ha affermato che una causa possibile della detonazione sarebbe stata l’esplosione di una cucina a gas in un appartamento al terzo piano di un palazzo a pochi metri dal palco ufficiale. Un militare consultato in maniera anonima dall’agenzia americana Ap ha spiegato che è altamente improbabile che un drone possa essere colpito da terra e nei pressi della piazza non è stato trovato nessun resto dell’apparecchio. L’opposizione venezuelana, chiamata in causa da Maduro, è scettica. “Non possiamo dire - si legge in comunicato del Fronte Amplio - se si sia trattato di un attentato, un incidente o di qualcos’altro, ma di sicuro noi non abbiamo nulla a che vedere. Speriamo solo che questo episodio non dia la scusa al governo per aumentare ancora di più la repressione nei confronti delle voci critiche”. Come di consueto, Maduro ha attaccato anche gli Stati Uniti e Donald Trump. “Washington dovrà chiarire se ha partecipato a questo vile attacco contro il popolo venezuelano”. A rispondergli è stato il consigliere di Trump John Bolton. “Se Caracas ha informazioni e prove concrete a riguardo ce le mostri e noi le analizzeremo. Nel frattempo, continueremo ad occuparci del clima di corruzione e repressione instaurato dal regime di Maduro”. A rivendicare il presunto attentato ci ha pensato un fantomatico gruppo “Soldados en franela” (Soldati in maglietta) che su twitter ha ripetuto alla lettera la versione fornita da Maduro, affermando di aver agito per liberare il Venezuela dalla dittatura. “Questa volta siamo andati vicini al nostro obiettivo. Abbiamo fallito per poco, ma abbiamo dimostrato che sono vulnerabili, è solo questione di tempo”. Il governo ha annunciato che sono sei i presunti “terroristi” arrestati per il fallito attentato, aggiungendo che sono stati “pienamente identificati” gli “autori materiali e i mandanti” sia all’interno che all’esterno del Paese, e che non sono da escludere altri arresti nelle prossime ore. Ma è difficile che si faccia davvero luce su un episodio che non fa che peggiorare la già drammatica crisi sociale e politica che sta vivendo il Venezuela.