32 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, la denuncia del Garante nazionale Adnkronos, 5 agosto 2018 Di nuovo un suicidio in carcere: questa volta all’Istituto Marassi di Genova. Si tratta di un giovane senegalese, poco più che trentenne, per la prima volta in carcere. Disoccupato e senza fissa dimora, era stato arrestato il 30 luglio scorso accusato di spaccio di lieve entità. Era dunque detenuto da meno di una settimana. È quanto riferisce il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma in una nota. “Piuttosto che centrare ora l’attenzione - seppure doverosa - verso le modalità con cui è stato o meno controllato in Istituto in quei pochi giorni, su come gli sia stato offerto quel riparo psicologico e materiale che è dovuto a ogni nuovo giunto in una istituzione chiusa, non sarebbe il caso - domanda il Garante dei detenuti - di interrogarci socialmente su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate giovani vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere?”. Il Garante nazionale, dopo aver registrato 31 suicidi in carcere e uno in una Rems dall’inizio dell’anno, e dopo averne riscontrato il ritmo accelerato con l’arrivo dell’estate, richiama “alla responsabilità il mondo della cultura, dell’informazione e dell’amministrazione centrale e locale perché la perdita di giovani vite a un ritmo più che settimanale sia assunta nella sua drammaticità come tema di effettiva riflessione e di elaborazione di una diversa attenzione alle marginalità individuali e sociali che la nostra attuale organizzazione sociale produce”. Rinnovato protocollo d’intesa per promozione della cultura sportiva nelle carceri Askanews, 5 agosto 2018 Una collaborazione che si rafforza. Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, e il Direttore dell’Area Sport e Cittadinanza del Centro Sportivo Italiano, Sergio Contrini, hanno siglato il rinnovo del protocollo d’intesa per la promozione della cultura sportiva negli istituti penitenziari. La condivisione di regole, l’autodeterminazione, la disciplina e l’aggregazione rappresentano valori in grado di contribuire positivamente al reinserimento sociale delle persone detenute, come peraltro confermato dall’azione intrapresa in 37 carceri a cominciare dalla prima sottoscrizione avvenuta l’11 giugno 2015. Oltre a promuovere lo sport, obiettivo del protocollo è quello di infondere stili di vita attivi nella quotidianità penitenziaria, guardando con particolare attenzione ai soggetti anziani, a quelli che presentano difficoltà di natura psico-fisica e ai diversamente abili. Previsto anche l’ampliamento delle attività intra ed extra murarie, col coinvolgimento delle famiglie, momenti di studio e di confronto con le scuole, le società sportive, i circoli parrocchiali e i gruppi sportivi. Spazio, inoltre, alla formazione professionale, per garantire ai detenuti occasioni di reinserimento sociale, valorizzare le potenzialità soggettive e favorire le relazioni interpersonali, contrastando possibili tensioni indotte dallo stato detentivo, compatibilmente con le esigenze di sicurezza e in accordo coi principi dell’ordinamento penitenziario. Il populismo e i pericoli dei movimenti “contro” di Sergio Fabbrini Il Sole 24 Ore, 5 agosto 2018 I leader dell’attuale governo italiano sono orgogliosi di definirsi “populisti”. Non sono gli unici a rivendicare quel titolo. Il populismo è in ascesa ovunque. Nel 2017, il Cambridge Dictionary lo definì la parola dell’anno. Eppure non c’è un consenso sulle cause che lo hanno generato e diffuso. Per alcuni, il populismo ha dato voce all’ansia economica prodotta dal processo di globalizzazione in settori della popolazione penalizzati da quest’ultima. Per altri, è stato la reazione alla messa in discussione delle identità culturali tradizionali da parte delle innovazioni indotte dal processo di globalizzazione. Per altri ancora, è nato dalla frustrazione di una globalizzazione che ha reso i governi nazionali responsabili verso i mercati internazionali piuttosto che verso i loro elettorati domestici. Il populismo si è diffuso per ragioni diverse in Paesi diversi, anche per via della indefinitezza della sua ideologia. Tant’è che ha dovuto allearsi con correnti di pensiero più solide (come il nazionalismo) per affermarsi (dando quindi vita al sovranismo). Tuttavia, nonostante la sua debolezza ideologica, il populismo rappresenta un movimento d’opinione politicamente insidioso, in quanto minaccia l’infrastruttura della democrazia liberale. Vediamo perché (considerando l’esperienza italiana). In primo luogo, il populismo è un movimento contro élite ritenute corrotte in nome di un popolo (singolare) ritenuto incorruttibile. Il concetto di élite è però sociologicamente variabile. Ne fanno parte esponenti della maggioranza governativa precedente che si ritiene abbiano profittato della loro posizione (la casta), in combutta con i rappresentanti della grande finanza (le banche mafiose) e (stando alle dichiarazioni dell’altro ieri di Matteo Salvini e Luigi Di Maio) con gli esponenti delle grandi imprese e dei sindacati. La necessaria critica al comportamento di singoli individui si è trasformata nella critica ad un “sistema di potere” vergognoso (aggettivo caratterizzante, quest’ultimo, il linguaggio di molti populisti governativi). La retorica anti-elitaria non poteva risparmiare gli intellettuali, in particolare quando utilizzano criticamente le loro competenze. Basti pensare all’attacco di alcuni giorni fa, da parte di Beppe Grillo, a Sabino Cassese (un gius-amministrativista di fama internazionale), definito un “istruito stupido” perché aveva argomentato (in un articolo sul Corriere della Sera) che non si può governare senza disporre di competenze politiche. Come ha ricordato Tom Nichols (in un volume da poco pubblicato da Luiss University Press), per i populisti anche la competenza politica (e non solo tecnica) costituisce un ostacolo all’affermazione del potere del popolo. In secondo luogo, il populismo è un movimento insofferente verso il pluralismo istituzionale (oltre che sociale). I bilanciamenti costituzionali sono considerati, da esso, inaccettabili. Luigi Di Maio non ebbe scrupoli a chiedere l’impeachment del presidente della Repubblica, quando quest’ultimo oppose il suo veto alla nomina di un ministro dell’Economia ritenuto inidoneo. Sempre Luigi Di Maio ha minacciato sanzioni a funzionari pubblici che si erano espressi a favore dell’approvazione del Trattato commerciale tra l’Unione europea (UE) e il Canada. Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno attaccato pubblicamente il presidente dell’INPS Tito Boeri, invitandolo a dimettersi, perché aveva reso pubbliche stime econometriche da loro non gradite. La Presidenza del Consiglio ha avviato un’indagine amministrativa per valutare l’appropriatezza della nomina (del gennaio scorso) di Mario Nava a presidente della Consob, nomina passata già al vaglio della Corte dei Conti e della Presidenza della Repubblica. Le stesse società a partecipazione pubblica (come la RAI o le Ferrovie dello Stato) dovrebbero conformarsi ai desideri della nuova maggioranza. In terzo luogo, il populismo è un movimento insofferente verso la democrazia rappresentativa e le sue interdipendenze sovranazionali. Per il ministro per i rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro, occorre superare l’istituzione che sarebbe invece suo dovere difendere, sostituendola con la democrazia diretta e referendaria. Per il leader finanziario dei Cinque Stelle, Davide Casaleggio, il Parlamento ha ormai i giorni contati. Per il garante dei Cinque Stelle, Beppe Grillo, è addirittura la democrazia ad avere i giorni contati, in quanto le elezioni verranno sostituite dal sorteggio per scegliere le autorità governative (aggiungendo, in assenza di qualsiasi evidenza, che ciò avviene già in due Province del Canada). L’auto-governo del popolo è naturalmente minacciato dai regimi sovranazionali. Così, un gruppo di senatori della maggioranza ha presentato, l’8 maggio scorso, un disegno di legge costituzionale finalizzato a modificare gli articoli della costituzione (97, 117, 119) che riconoscono (per alcune materie) la preminenza del diritto europeo su quello nazionale. Come si vede, il populismo è un movimento-contro. È contro le élite, è contro il pluralismo, è contro la rappresentanza. Il suo negativismo è utile in campagna elettorale, molto di meno nell’azione di governo. Sia chiaro, i partiti che hanno vinto le elezioni (i Cinque Stelle e la Lega) hanno il diritto di agire come credono, ma (sia altrettanto chiaro) non possono farlo minacciando l’infrastruttura della democrazia liberale. Per questo motivo, è necessario rafforzare i guardrail affinché la democrazia non esca di strada (per dirla con un libro di Levitsky e Ziblatt che verrà presto pubblicato da Laterza). Vanno difesi i guardrail istituzionali (come le autorità indipendenti), vanno creati i guardrail politici (come il governo ombra dell’opposizione), vanno rafforzati i guardrail del sistema dei media e del mondo intellettuale (per troppo tempo intossicati dalle tossine populiste). Senza il popolo, la democrazia sarebbe un regime tecnocratico. Senza le élite, sarebbe un regime ingovernabile. Nel contesto del pluralismo (sociale, istituzionale e sovranazionale), la democrazia ha bisogno di entrambi. Per neutralizzare le tentazioni populiste, è necessario alzare il livello del dibattito civile, ma anche la qualità delle élite pubbliche e private. Cittadini ben informati ed élite competenti e rigorose costituiscono il principale antidoto al populismo. Come scardinare il fragile “noi” su cui poggia l’odierno populismo di Marco Bascetta Il Manifesto, 5 agosto 2018 Populismi e nazionalismi. Serve auto-organizzarsi fuori da quella “casa comune” che assume sempre più le sembianze di una caserma e contro l’autorità che ne ha assunto il comando. La ripresa delle ideologie e delle politiche nazionaliste è un fenomeno che attraversa ormai gran parte del pianeta, e dell’Occidente nelle sue forme ancora democratico-parlamentari. Benché le caratteristiche che questa assume in ciascun paese siano molto diverse, per la storia da cui attingono e per la disparità di risorse e di potere reale tra le differenti entità nazionali, presenta nondimeno tratti comuni il più appariscente dei quali è l’ostilità nei confronti dei migranti frequentemente estesa agli “stranieri” in generale. A questo aspetto si può aggiungere l’impostazione “competitiva” dei contrapposti “interessi nazionali” che può assumere tanto la veste protezionista quanto quella che reclama la sacralità del libero mercato. Si può spiegare questo esito, non ancora alle sue estreme conseguenze, solo come crisi di rigetto della globalizzazione? E quali sono i fattori interni ai processi globali che avrebbero generato questo rifiuto e i suoi riflessi ideologici? Possiamo tentare di applicare uno schema, sia pure tagliato con l’accetta, che, mettendo in fila fenomeni ben noti e ricorrendo a categorie classiche della filosofia politica, si azzardi a ricostruire le fratture e i passaggi che hanno condotto a questo nazionalismo di inizio millennio. A partire da una precisa domanda: in che cosa si distingue il popolo a cui si appellano oggi i cosiddetti populisti da quello che ha agito nella storia delle società occidentali diciamo con una scelta arbitraria tra il 1848 e la fine del sistema produttivo fordista? Tra quel popolo e questo attuale è intercorsa una fase che alcuni hanno voluto interpretare attraverso la figura politica della moltitudine. Ma procediamo con ordine. Il popolo dei due scorsi secoli presentava un evidente riferimento di classe. Il suo cuore operaio si situava al centro dello sviluppo produttivo e, al tempo stesso, dello sfruttamento. Condizione di esistenza del sistema e, insieme, potenzialità del suo superamento. La classe dava forma e direzione di marcia all’indistinzione subordinata del popolo. Che i fascismi riuscirono a ristabilire in alcuni paesi tra gli anni Venti e i Quaranta, al mostruoso prezzo che conosciamo. Il “noi”, il legame collettivo fu conteso in quei frangenti tra la classe e la patria, tra il nazionalismo e l’internazionalismo. Con la fine del capitalismo prevalentemente industriale e la forma dominante del rapporto tra capitale e lavoro che lo contraddistingueva, con l’intreccio sempre più stretto tra economia e politica e il fluidificarsi delle figure sociali, l’orizzonte della classe e in misura minore quello della sovranità nazionale cominciarono a declinare. Il comando del capitale sui soggetti delle attività produttive assumeva forme oblique e sempre meno vincolate a obblighi e garanzie. Questi produttori, messi “in libertà” dalla riorganizzazione capitalistica e dall’automazione, dovevano affidarsi all’insieme delle proprie facoltà e risorse per trovare collocazione e sostentamento nel contesto di una società comunque sottoposta al perenne ricatto di una poderosa concentrazione di capitale e di potere. Né popolo, né classe queste vite sfruttate sono state interpretate con la categoria della moltitudine, intendendo con questo soggetti che, trattenendo presso di sé le proprie prerogative, non più scissi tra lavoro eterodiretto e vita relazionale, potevano tentare di sottrarsi al comando di un potere sovraordinato e aspirare alla ricerca di una dimensione comune autogovernata nello scontro con i dispositivi predatori del capitale. Non si tratta qui di valutare la pertinenza o il rigore di questa interpretazione, ma di identificare un passaggio nel quale la rappresentanza politica, la sovranità nazionale e la potenza sovranazionale della finanza furono prevalentemente considerate in diretta contraddizione con la possibilità stessa della democrazia. E se il potere globale del capitale non ha mai mollato le redini, le prime due entrano in crisi, il che certo non rimuove né i loro fallimenti né le loro connotazioni autoreferenziali e oppressive. Non vi è dubbio, in ogni modo, che nella breve stagione altermondialista il gergo del nazionalismo e della xenofobia venne messo al bando, in nome di una alleanza mondiale dei movimenti. Toccherà a una impressionante sequenza di terrore e di violenza riportarlo in auge polverizzando ciò che aveva mosso i primi passi a Seattle nel 1999. Dall’11 settembre del 2001 alla guerra afghana e poi irachena e tutte quelle che l’avrebbero seguita, agli attentati in Europa e nel mondo, fino agli “stati di eccezione” decretati dai governi europei d’ogni colore in risposta al terrorismo e a qualunque forma di disordine sociale. La “grande crisi”, nelle sue diverse fasi, avrebbe poi completato l’opera. È a questo punto che il “popolo” ritorna sulla scena. Ma non è più quello, vagheggiato da una certa sinistra, guidato dalla Marianna di Delacroix. Il “popolo” è diventato interamente “nazionale”. La contesa tra patria e classe si è chiusa a vantaggio della prima. Il nuovo “noi” nasce in immediata contraddizione con l’”altro”. E, soprattutto, affida il suo riscatto a un potere forte, a qualcuno che agisca “per il suo bene”. Se proprio non si mette nelle mani di un pastore, il governo gli si offre quantomeno come “avvocato”, dimostrando una concezione aberrante della democrazia. La società reale non ha ritrovato alcuna omogeneità, ma gliene viene imposta una fittizia fondata sul primato di un nome: gli italiani, i tedeschi, gli austriaci, gli olandesi e così via. Ogni autonomia, ogni aspettativa e ogni potere diffuso nel tessuto sociale vengono consegnati alla Legge incaricata di garantire l’ordine stabilito dai governanti. Ma questo popolo fittizio che galleggia su una società complessa abitata da identità multiple e stratificate non le corrisponde affatto. La rappresentanza che sembra essere stata riesumata dal nazional-populismo non è che la rappresentanza degli umori e delle frustrazioni. Volatile e bisognosa di un decisionismo ossessivo e digiuno di qualsivoglia argomentazione razionale, non ha relazione alcuna con gli interessi reali. Fatte salve le attenzioni mai trascurate nei confronti di quelli corporativi. Il “partito della nazione” aveva del resto già espiantato la conflittualità sociale e aperto così la strada alla sua sostituzione con l’ostilità nei confronti dell’”altro”. Il migrante, né popolo né classe per eccellenza, del quale forse solo “moltitudine” può descrivere natura e condizione, diventa così il nemico proverbiale del sovranismo di destra e di sinistra. Il tallone d’Achille di questa costruzione ideologica, centrata su un bisogno di sicurezza nutrito di rappresentazioni apocalittiche e false promesse, consiste proprio nella sua incongruenza con una società che non può più essere ricondotta alla disciplina stanziale e unidimensionale della Nazione e del lavoro salariato. Il “noi” su cui poggia è fragile e soffocante al tempo stesso. Può essere decostruito. Il maccartismo perseguitò le sinistre con l’accusa di svolgere “attività antiamericane”. E, forse, in questo frangente, è proprio ad “attività antitaliane” che dovremmo dedicarci. Intendendo con questo la libertà dei soggetti reali di auto-organizzarsi fuori da quella “casa comune” che va assumendo sempre più le sembianze di una caserma e contro l’autorità che ne ha assunto rumorosamente il comando. Violenze contro i migranti, non è solo razzismo, il vero problema è l’emulazione di Federico Marconi L’Espresso, 5 agosto 2018 Negli ultimi sei anni i crimini d’odio sono aumentati esponenzialmente. Trentatré solo negli ultimi due mesi. Insulti, botte e spari contro immigrati e italiani di origini straniere sono all’ordine del giorno. Luigi Manconi: “Non è una cospirazione bianca, né raptus. Ma l’intimidazione contro l’altro è ormai un’attività domestica”. Trentatré aggressioni a sfondo razziale, più di una ogni due giorni. Dal 2 giugno, data di insediamento del governo Lega-5 Stelle, è stato un continuo succedersi di violenze e intimidazioni contro migranti e italiani di origine straniera. Un dato significativo nonostante le rassicurazioni dei due vicepresidenti del Consiglio: “Non c’è nessun allarme razzismo” hanno affermato, quasi in coro, Matteo Salvini e Luigi Di Maio commentando due drammatici casi di cronaca recente, molto diversi tra loro ma che hanno scosso l’opinione pubblica. Come quello di Aprilia, dove un migrante marocchino ha perso la vita dopo essere stato scambiato per un ladro. O di Moncalieri dove un uovo tirato da un auto in corsa ha ferito all’occhio la campionessa di atletica Daisy Osakue. mentre la Procura sta cercando i responsabili e ha aperto un fascicolo per lesioni senza aggravanti. Eppure le parole della giovane sportiva sono chiare: “Non voglio usare la carta del razzismo né del sessismo però a mio avviso stavano cercando una persona di colore”. “In Italia il razzismo è un fenomeno minoritario, di una minoranza che negli ultimi tempi è purtroppo cresciuta costantemente” afferma Luigi Manconi, coordinatore dell’Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali (Unar). “E voglio aggiungere che parlare di Italia come di un Paese razzista è sbagliato: così si applica il meccanismo essenziale del razzismo, cioé omologare e attribuire a un tutto le caratteristiche di una parte”. Manconi però punta il dito contro la xenofobia, “che è qualcosa di ben diverso”, sempre più forte e diffusa. Una mentalità che sempre più spesso sfocia nella violenza: “Abbiamo calcolato che da gennaio 2018 a luglio 2018 ci sono state undici persone colpite da proiettili di fucile o pistola, ad aria compressa o meno. Non credo sia un’operazione clandestina, una macchinazione inquietante strisciante nel Paese”. Ma la situazione è comunque grave: “Non è una cospirazione bianca, ma nemmeno l’effetto di un raptus. In tutti questi crimini è centrale l’effetto emulazione: questi “cecchini” sono comuni cittadini, la violenza e l’intimidazione diventano attività domestica”. I protagonisti delle aggressioni degli ultimi mesi sono infatti padri di famiglia, pensionati, studenti. Uomini comuni che aggrediscono altri uomini comuni solo perché diversi da loro. Insulti, sputi, botte aumentano di giorno in giorno, così come gli spari: i primi sono stati quelli che nella notte tra il 2 e 3 giugno hanno ferito a morte Soumalia Sacko nella piana di San Ferdinando. Dalle lupare si passa alle mazze da baseball, come quella con cui cinque giorni dopo, l’8 giugno, un 27enne è stato aggredito a Sarno, in Campania. Il 12 giungo, a Napoli, un algerino protesta contro un auto che non si ferma sulle strisce pedonali e viene accoltellato da tre giovani. A metà giugno aggressioni contro cittadini indiani, dominicani e maliani hanno luogo a Palermo, Roma, Cagliari e Caserta. Nella cittadina campana, il 19 giugno, due ragazzi vengono aggrediti da un gruppo di giovani che gridava “Salvini, Salvini”. Due giorni dopo, sempre nella città della reggia, un giovane chef migrante viene ferito dai colpi di un fucile a pallini. Violenze e aggressioni non mancano nemmeno al Nord. Il 30 giugno a Trento un ragazzo viene aggredito dal datore di lavoro dopo la richiesta di ferie: “Ti brucio vivo brutto islamico”. Il giorno dopo a Torino un ragazzo del Gabon si vede aizzare contro un pitbull al grido di “negro di merda”. Il 2 luglio invece, sulla costa ligure, un venditore ambulante è vittima della stessa sorte davanti a una folla plaudente, mentre chi provava a difenderlo veniva aggredito a sua volta. Poi tornano i fucili, ad aria compressa, come quelli che feriscono una ragazza nigeriana l’8 luglio a Forlì, due ragazzi, nigeriani anche loro, il 12 luglio a Latina, la bimba rom il 19 luglio a Roma, e ancora un migrante il 27 luglio sempre a Caserta. Le trentatré aggressioni degli ultimi due mesi gettano luce sulla crescita costante dei crimini di matrice discriminatoria. Stando ai dati dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) dal 2012 al 2016 questo tipo di violenze sono aumentati di undici volte: erano 73 sei anni fa, 803 nel 2016, anno dell’ultima rilevazione. Di questi 803 crimini, più di un terzo (338) sono dovuti a razzismo e xenofobia. Secondo Cronache di ordinario razzismo, lavoro prodotto con le segnalazioni raccolte dai volontari di Lunaria, sono state 557 le violenze razziste e gli atti discriminatori tra gennaio e dicembre 2017. Tra gennaio e marzo 2018, mesi della campagna elettorale, Lunaria ne ha ricevute 169. Numeri preoccupanti in un Paese dove costantemente si alimenta la paura e l’odio contro il diverso. Il razzismo ha radici profonde, che vanno combattute di Roberto Castaldi L’Espresso, 5 agosto 2018 È evidente a chiunque non voglia mettere la testa sotto la sabbia che in Italia vi sia una escalation di violenza di stampo razzista. Chi vuole contrastarla non deve prendere scorciatoie, ma cercare di capirne le radici profonde, le condizioni di possibilità, le dinamiche che le hanno prodotte. Attaccare semplicemente Salvini può dare l’idea di aver contributo a contrastare il razzismo, ma significa comunque fermarsi alla superficie del problema. Certo, è drammatico che di fronte ad atti palesemente violenti e xenofobi verso persone umane - siano essi migranti o cittadini italiani - il Ministro dell’Interno non riesca a prendere una posizione decente. Ed è del tutto paradossale che in questo contesto - e mentre i dati del Rapporto Antigone sulla situazione carceraria mostrino il contrario - il Ministro arrivi a citare Mussolini, promotore delle Leggi razziali, e a sostenere che l’unica emergenza siano i reati commessi dagli immigrati. Reati che da quanto ha lui stesso dichiarato sono meno di un terzo del totale. Ma sebbene le sue dichiarazioni siano indegne di un Ministro degli Interni di un Paese liberal-democratico, non è Salvini la causa di quanto accade. La propaganda xenofoba della Lega non è una novità - ricordiamoci Fontana prima delle elezioni in Lombardia - e può funzionare da miccia, da detonatore. Ma se non ci fosse una bomba pronta ad esplodere, la miccia o il detonatore non servirebbero a nulla. O magari spunterebbe un altro in grado di farla deflagrare. Xenofobia, anti-semitismo, islamofobia, l’odio verso il diverso - si tratti dei Rom, dei sinti, della comunità Lgtb, o di qualunque altro gruppo specifico e identificabile - sono fenomeni ricorrenti nella storia delle società umane, inclusa la nostra. Quando le cose vanno bene diventano marginali e latenti, coltivati da frange minoritarie e scarsamente rilevanti, incapaci di fare danni eccessivi e di dare un’impronta alla società, addirittura vittime a loro volta di stigmatizzazione e repulsa proprio a causa di tali posizioni. Quando le cose vanno male queste pulsioni alla chiusura della società favoriscono l’emergere di una politica identitaria, diventano la valvola di sfogo della pressione interna che cova nella società. Perché quando le cose vanno male abbiamo sostanzialmente due scelte: studiare e cercare di capire perché le cose vanno male; e quindi modificare di conseguenza i nostri modi di pensare, di agire, di fare le cose. Oppure cercare un capro espiatorio, che costituisce una formidabile scorciatoia cognitiva e morale: l’individuazione di un colpevole della situazione permette di andare avanti come si è sempre fatto, senza fare la fatica di capire davvero com’è cambiato e come sta cambiando il mondo, e soprattutto senza dover modificare le nostre abitudini psicologiche, cognitive e comportamentali. Da molto tempo l’Italia ha il triste primato in Europa dell’antisemitismo sul web. E il Miur ha dovuto creare da anni una squadra di imbianchini da inviare a coprire le scritte razziste e anti-semite sui muri delle scuole. I media - non solo i politici - cavalcano le pulsioni razziste pur di vendere. Un reato commesso da uno straniero va in prima pagina e la nazionalità del criminale basta a “spiegarne” il comportamento. Un reato commesso da un italiano no, solo se particolarmente efferato. E allora diventa “dramma”, “pazzia”, o altro termine volto a rassicurarci: è un’eccezione. Come se storicamente non fossimo uno dei più grandi esportatori di criminalità organizzata nel mondo. Come se corruzione, evasione ed elusione non fossero sintomi di una cultura dell’illegalità diffusa. Consapevoli o inconsapevoli, i media contribuiscono a diffondere una visione di un mondo diviso in italiani e stranieri. Ma il mondo andrebbe diviso in persone oneste e disoneste, indipendentemente dalla nazionalità, come mi spiegava mio padre quand’ero bambino. Un grande sociologo ebreo tedesco fuggito in tempo dalla Germania nazista, Norbert Elias, ha posto alcune domande essenziali rispetto all’Olocausto, che in ultima analisi è stato anche il razzismo anti-semita portato alle sue estreme conseguenze: cosa ha reso possibile il rapido imbarbarimento della civile Germania? Quali sono i pilastri del processo di civilizzazione, che se vengono meno rendono possibile l’avvio di processi di de-civilizzazione? Quali sono le condizioni in cui si possono effettivamente avviare tali terribili processi? Le sue risposte sono illuminanti anche per guidarci di fronte alle sfide contemporanee e meritano una riflessione. La Germania del XIX e della prima metà del XX secolo era all’apice della civiltà europea in tutti i campi: basti pensare a Hegel, Feuerbach, Marx, Nietsche, Weber, Schmitt, Goethe, Wagner, e moltissimi altri. Eppure in Germania si è affermato un regime totalitario che ha progettato e meticolosamente realizzato la “soluzione finale”. Elias sostiene che il processo di civilizzazione, di progressivo auto-controllo delle pulsioni violente naturalmente implicite nell’animalità degli esseri umani, è il frutto di una progressiva interiorizzazione delle etero-costrizioni messe in opera dalle leggi e dalle autorità pubbliche. L’efficienza e la stabilità del monopolio della forza dello Stato sono quindi particolarmente importanti da questa prospettiva. Nella Repubblica di Weimar tale monopolio era inefficace e minato dall’esistenza di Gruppi paramilitari legati alle varie forze politiche. E non può stupire che il partito più incline e disponibile all’uso della violenza si sia imposto in tale contesto. Al contempo tale affermazione è potuta avvenire solo in seguito alla crisi del 1929, all’iper-inflazione, e nel contesto di una diminuzione del ruolo geopolitico della Germania che molti tedeschi percepivano come ingiustificata. In sostanza il nazismo ha potuto affermarsi solo in una situazione in cui le persone non avevano più una prospettiva e una visione positiva per il futuro. Una situazione simile a quella che stiamo vivendo, pur con molte differenze. Da un lato la crisi economica che per 10 anni ha imperversato e colpito l’Italia e l’Europa. Dall’altro uno scenario geopolitico mondiale radicalmente cambiato e molto più instabile e pericoloso di un tempo. L’ascesa della Cina ha portato ad uno spostamento del focus strategico americano verso l’Asia. Il conseguente vuoto di potere ha alimentato le crisi geopolitiche tutto intorno all’Europa - dall’Ucraina al Medio Oriente al Nord Africa. Con Trump è divenuto chiaro che la nostra sicurezza non è più garantita dagli USA. È la mancanza di prospettive rispetto al futuro in termini di benessere e sicurezza, che ha aperto spazi alle forze nazionaliste in salsa populista in tutta Europa. Alcune di esse si limitano a cavalcare malcontento e paure; altre si spingono a seminare odio per lucrare consensi, dando voce alle pulsioni alla chiusura della società, alla ricerca di un capro espiatorio per nascondere le nostre responsabilità. Entrambe questo tipo di forze trovano nell’Unione Europea, cha ambisce ad essere unita nelle diversità, il loro nemico, essendo l’UE fondata sulla tolleranza, sul riconoscimento dell’eguaglianza e delle diversità. È lungi dall’essere perfetta l’UE, ma è un esperimento di messa in comune della sovranità, della creazione di istituzioni comuni per risolvere pacificamente le controversie e per affrontare insieme i problemi comuni: è l’opposto del nazionalismo, della chiusura, della violenza. E dunque è il nemico per i populismi di ogni risma, la cui propaganda sta creando un terreno fertile per la diffusione di stereotipi, pregiudizi e doppi standard che alimentano le tendenze razziste, xenofobe e antisemite. Per queste ragioni la critica a Salvini è necessaria, ma non sufficiente. Occorre anche l’assunzione della responsabilità di offrire una visione e una prospettiva costruttiva per superare la crisi, per ridare speranza, in modo da incanalare le forze della società verso un cambiamento positivo, invece che in una spirale depressiva che si manifesta nelle tendenze alla chiusura legate alla percezione di un declino inevitabile e irreversibile. Questa prospettiva e questa visione non può che essere l’Europa: un’Europa diversa, più unita, più democratica, più solidale, più rispettosa dei diritti umani e quindi più accogliente per le sue diversità e per i suoi cittadini, vecchi e nuovi. Solo la prospettiva di un governo federale dell’UE, o almeno dell’Eurozona, in grado di mettere a frutto le enormi potenzialità dell’Europa rilanciando sviluppo e occupazione può incanalare le energie vive della società ridandole speranza. Di fronte alle grandi sfide si vede di che pasta sono fatte le leadership politiche. Ma ognuno di noi, individualmente ha la possibilità e il dovere nella propria famiglia, sul lavoro, nella propria cerchia sociale di battersi contro ogni forma di razzismo, antisemitismo, xenofobia e discriminazione con la parola e con l’esempio, con la coerenza delle proprie azioni. E collettivamente abbiamo la possibilità e il dovere, come europei, di fare qualcosa. Le prossime elezioni europee del 2019 saranno un fondamentale banco di prova. Caso Scieri, stavolta è stata la politica a scuotere i magistrati di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 5 agosto 2018 Il lavoro della Commissione parlamentare ha determinato la riapertura delle indagini in una rarissima occasione di collaborazione efficace tra una seria azione politica e la magistratura. Il caso Scieri, che mercoledì scorso, dopo 19 anni, ha avuto una svolta clamorosa, va letto per tanti aspetti come un caso esemplare. Fino a qualche mese fa era il classico insabbiamento all’italiana: un caso archiviato come tanti pur essendo evidente la correlazione tra la morte del paracadutista e il nonnismo diffuso nella caserma Gamerra di Pisa. Poi è arrivato l’ammirevole lavoro dell’inchiesta parlamentare e la conseguente riapertura delle indagini. Dunque, è diventato un caso esemplare di segno opposto: un’occasione, rarissima, di collaborazione efficace tra una seria azione politica e la magistratura. Nessuno avrebbe mai scommesso nulla (tanto meno i parenti di Emanuele, disillusi oltre che disperati) sulla possibilità che la commissione, dopo tanto tempo, riuscisse ad acquisire elementi validi perché si riaprisse il fascicolo. E una volta ripartita l’inchiesta, nessuno avrebbe mai immaginato che si potessero ottenere risultati sostanziali sull’omicidio di Scieri a una tale distanza dai fatti. Invece, l’autentica sorpresa è che stavolta non è stata la magistratura a richiamare i politici ai propri doveri, ma al contrario sono stati i politici a smuovere l’inerzia dei magistrati. Nel generale, e legittimo, clima di sfiducia in cui siamo sempre pronti a puntare il dito contro i mali della politica e della giustizia, tutto ciò è, per una volta, incoraggiante. Meglio tardi che mai. Il percorso verso la verità non è ancora concluso, ma uno spiraglio si è finalmente aperto. Il resto si vedrà. Una nota a margine. Il regista Marco Risi, intervistato come autore di un film sul nonnismo, ha consigliato, a proposito del caso Scieri, di leggere Delitto e castigo, perché “si può pensare di cavarsela con la giustizia, mai con la propria coscienza”. Ma leggendo le frasi dell’ex militare arrestato, che sperava di farla franca con la giustizia mostrando di non provare alcun senso di colpa, Dostoevskij non c’entra nulla. E semmai andrebbe capovolto. Genova: detenuto senegalese di 30 anni si impicca in cella a Marassi Il Secolo XIX, 5 agosto 2018 Un detenuto senegalese di 30 anni si è tolto la vita la scorsa notte nella sua cella di Marassi, impiccandosi con una cintura. A dare la notizia è il sindacato Sappe. L’uomo si trovava nella prima sezione e quando gli agenti sono intervenuti era ormai troppo tardi. Era uno dei pusher arrestato due giorni fa dalla squadra mobile nel blitz contro un giro di spacciatori dei vicoli genovesi. Il pubblico ministero di turno Giovanni Arena sta valutando se eseguire l’autopsia. In cella erano finite 13 persone fermate con la tecnica dell’arresto differito : gli spacciatori venivano pedinati e fotografati per settimane e dopo un paio di cessioni venivano arrestati. “Questa ennesima tragedia - sottolinea il segretario regionale del sindacato autonomo Michele Lorenzo - è il risultato dell’ennesima erronea valutazione che fa la dirigenza di Marassi. Ogni notte ci sono solo due agenti a controllare cinque piani per 300 detenuti. È ora che si cambino i direttori delle case circondariali liguri”. Viterbo: per il detenuto 21enne suicida interviene il console egiziano di Stefania Moretti Corriere della Sera, 5 agosto 2018 L’ambasciata della Repubblica araba d’Egitto decisa a far luce sul suicidio di Hassan Sharaf, il 21enne trovato impiccato il 23 luglio nel carcere di Viterbo dopo essere finito in isolamento. Il suicidio di Hassan Sharaf, il 21enne egiziano, trovato impiccato in una cella nel carcere viterbese di Mammagialla, diventa un caso diplomatico tra Italia ed Egitto. Tanto che in procura a Viterbo, si è presentato il console egiziano Sherif Elgammal. Lo annunciava una lettera del suo vice il 30 luglio: chiedeva un incontro al procuratore capo Paolo Auriemma e di ricevere “urgenti comunicazioni scritte con l’esito delle indagini” sulla morte del giovanissimo detenuto. “Sono qui per collaborare con le autorità italiane - ha dichiarato il console, uscito dal palagiustizia di via Falcone e Borsellino. Ci siamo interessati al caso dal 23 luglio, cioè da quando Hassan è arrivato in ospedale”. Il ragazzo è morto a Belcolle, dopo una settimana in prognosi riservata al reparto di rianimazione. “Abbiamo acquisito documenti perché vogliamo capire cos’è successo: la vita di un nostro cittadino vale moltissimo, per la famiglia e per noi”. Sul caso di Hassan e su una serie di presunti pestaggi dentro il carcere viterbese, ha presentato un esposto il garante dei detenuti di Lazio e Umbria Stefano Anastasìa. “Avevamo già due fascicoli aperti al riguardo - spiega il procuratore capo Paolo Auriemma. Un terzo è sulle segnalazioni del garante, per ora senza indagati né ipotesi di reato. In nessuna di queste inchieste sono coinvolti agenti di polizia penitenziaria”. Al contrario: l’indagato era Hassan per aver opposto resistenza ai poliziotti che, a marzo, perquisirono la sua cella. Il pm Stefano D’Arma ha chiesto l’archiviazione: la resistenza del ragazzo sarebbe stata più un segnale di disagio che un istinto violento. Nessuna indagine fu aperta, invece, sul pestaggio di cui Hassan si è detto vittima, parlando con una delegazione del garante, in visita al carcere. Per i medici, il 21enne non aveva lesioni compatibili con un’aggressione e lo stesso ordinamento penitenziario ammette l’uso della forza contro la resistenza di un detenuto. Adesso, però, c’è un quarto fascicolo che riguarda la morte di Hassan: istigazione al suicidio contro ignoti. Da Roma, il 21enne era arrivato nell’estate dell’anno scorso al carcere di Viterbo. Aveva già scontato una condanna per concorso in rapina; gli ultimi quattro mesi erano per spaccio, comminati dal tribunale dei minori. Hassan sarebbe tornato libero il 9 settembre. Ma secondo Anastasìa non doveva neppure stare a Viterbo: “La legge consente ai giovani adulti, cioè ai ragazzi tra i 18 e i 25 anni che hanno commesso reati da minorenni, di espiare la pena in un istituto minorile”. Il 23 luglio era stato messo in isolamento per punizione. Ha resistito due ore scarse e si è impiccato. A ventun anni. Lontano appena quattro mesi dalla libertà. Sassari: l’ex carcere di San Sebastiano diventa polo giudiziario Ansa, 5 agosto 2018 Per 150 anni tra le sue mura hanno espiato le proprie pene migliaia di detenuti. Ora l’ex carcere sassarese di San Sebastiano dismesso cinque anni fa con il trasferimento dei detenuti nella moderna struttura di Bancali, diventerà la sede del nuovo Polo giudiziario di Sassari. L’antico edificio di via Roma, accanto al Tribunale, sarà ristrutturato da cima a fondo e ospiterà l’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna, la sezione distaccata della Corte d’Appello, la sede dei giudici di pace, dei servizi delle amministrazioni giudiziarie, un museo della memoria carceraria e la sede sassarese della direzione regionale dell’Agenzia del Demanio. L’accordo per il progetto è stato firmato dal Comune di Sassari, la Regione Sardegna, l’Agenzia del Demanio, il Ministero dei beni e delle attività culturali (Mibac) e il ministero della Giustizia. Il progetto diventa realtà al termine di un lungo percorso iniziato nel 2013. Per la riqualificazione del bene culturale che occupa 18 mila metri quadrati, l’Agenzia del demanio investe oltre 22 milioni di euro, ai quali si aggiungono 700 mila euro del Comune di Sassari per realizzare il museo della memoria carceraria, nell’ambito della programmazione territoriale integrata. I lavori saranno ultimati in cinque anni. “San Sebastiano viene restituito alla città - ha detto il sindaco Nicola Sanna. È una struttura che non poteva restare nell’abbandono. Con questa operazione ci sarà anche un risparmio di un milione di euro sui canoni di affitto pagati ora per i vari locali che ospitano gli uffici giudiziari”. Soddisfatto anche il presidente della Regione, Francesco Pigliaru: “aprire quel luogo alla città è senz’altro la cosa giusta da fare. Cerchiamo di dare certezza dei tempi sulla realizzazione di queste opere”. Alba (Cn): ancora tutto bloccato sull’appalto per i lavori del carcere di Cristina Borgogno La Stampa, 5 agosto 2018 Il caso è approdato nell’ultimo Consiglio comunale. Il sindaco ha spiegato di essere in attesa di notizie. Il problema principale rimane lo spazio, mentre pare non ci siano novità sull’appalto per il ripristino dell’intera struttura. L’estate nel carcere albese “Giuseppe Montalto” non ha portato all’attesa assegnazione dei lavori di manutenzione per rendere nuovamente agibile l’edificio chiuso nel gennaio 2016 a causa di un’epidemia di legionella. E così i detenuti in località Toppino continuano a essere ospitati nell’ex ala dei collaboratori di giustizia, che comprende 24 camere pensate per un massimo di 35 persone, ma che da giugno 2017 ne accoglie un numero che oscilla tra 45 e 50. La situazione carcere è approdata nuovamente anche nell’ultimo Consiglio comunale. All’interrogazione posta dal consigliere di maggioranza William Revello “per sapere se ci sono novità rispetto all’iter procedurale dei lavori di rifacimento degli impianti idrico, sanitari e termici della casa di reclusione”, il sindaco Maurizio Marello ha risposto: “Abbiamo scritto a fine giugno al direttore generale del personale e delle risorse del Dipartimento amministrazione penitenziaria Pietro Buffa, ma al momento non abbiamo avuto risposte. Chiediamo chiarimenti circa le risorse finanziarie e le tempistiche, comunicate spesso in modo discordante”. Primo progetto - Facendo un passo indietro gli ultimi fatti concreti risalgono a dicembre 2017, quando la ditta Magicom Ingegneria di Roma ha realizzato un primo progetto, e a marzo 2018, con il ministero della Giustizia che ha pubblicato lo stanziamento di 4 milioni e 500 mila euro per i lavori. Per l’estate doveva essere pubblicato il bando per la gara di appalto, con l’obiettivo di assegnare il cantiere nell’autunno e arrivare a una possibile consegna a fine 2019. Ma ad oggi nulla è andato avanti ed è difficile pensare che la situazione si sblocchi a Ferragosto. In attesa, all’interno del “Montalto”, personale e volontari cercano di tenere in vita le attività e di fronteggiare le problematiche di sovraffollamento. “C’è stato un picco di 49 detenuti nelle prime settimane di luglio, oggi scesi a 44, di cui i due terzi italiani, gli stranieri provenienti da Albania e Romania, Africa e America meridionale - spiega il garante comunale dei diritti delle persone recluse, Alessandro Prandi, che ha consegnato al Consiglio una relazione dettagliata sui primi sei mesi del 2018 -. L’affollamento è pari al 134%, ben oltre la media regionale (110%) e nazionale (116%). Nonostante gli spazi ristretti, in questi mesi si sono intensificate le attività, coinvolgendo anche alcune scuole, promuovendo tornei sportivi, spettacoli teatrali e iniziative benefiche all’interno delle mura”. Periodo difficile - Prosegue Prandi: “Ma l’estate è un periodo difficile: le attività didattiche gestite dal Cpia sono sospese e al momento continuano l’attività di catechesi del cappellano don Luigi Alessandria, il laboratorio di Pet Therapy e un gruppo di lettura gestito dall’associazione Arcobaleno, oltre al progetto Vale la Pena per la gestione del vigneto. Molti parlamentari si sono interessati in questi due anni alla questione, ma oggi la mancanza dell’indizione della gara d’appalto ha avuto come conseguenza quella di far ripartire la ridda di voci e illazioni sul futuro dei lavori e sul destino dell’istituto”. Catanzaro: nel carcere di Siano dibattito col partigiano Manente cn24tv.it, 5 agosto 2018 Entrare a 94 anni in carcere. Per raccontare ai detenuti cosa ha voluto dire, durante la Resistenza, essere imprigionati e condannati senza aver commesso un reato, senza un processo, senza una difesa. Lo ha fatto Carlo Manente, partigiano originario di Catanzaro e ancora oggi qui residente, che ha partecipato a luglio all’evento conclusivo del progetto “Studiare la Costituzione in carcere”, portato avanti dalla Casa Circondariale Ugo Caridi, in partenariato con l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia -Comitato provinciale di Catanzaro, in occasione del 70° anniversario dall’entrata in vigore della Costituzione italiana (1948-2018). Accanto a questa presenza d’eccezione al tavolo dei relatori la direttrice del carcere di Siano Angela Paravati e il presidente dell’Anpi Mario Vallone. “I primi due incontri in cui si è articolato il progetto hanno avuto rispettivamente un taglio giuridico, con la presenza del costituzionalista Silvio Gambino, docente all’Università della Calabria, e storico, grazie alla collaborazione di Rocco Lentini, presidente dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea - spiega Angela Paravati - mentre in quello conclusivo è stato possibile ascoltare una testimonianza diretta, grazie alla partecipazione di cui ha contribuito in prima persona all’Italia democratica in cui viviamo oggi”. I detenuti prima di partecipare al progetto hanno studiato le lettere scritte tre generazioni fa dai condannati a morte della Resistenza italiana, nell’ambito del laboratorio di lettura e scrittura creativa coordinato dal docente universitario in pensione Nicola Siciliani De Cumis. Carlo Manente, data l’età, esce poco; tuttavia con un foulard tricolore attorno al collo, a testimonianza di quanto quel passato sia ancora recente, è venuto qui, al carcere di Siano, per raccontare ciò che è successo, durante la Resistenza. Racconta la fame, racconta la paura, racconta la condanna sommaria alla fucilazione, per lui e per altri otto ragazzi, che non superavano i vent’anni. Le condanne sono frutto di rappresaglie, di decisioni veloci e non motivate. Dei nove condannati sette vengono giustiziati. Lui e un altro ragazzo si salvano perché sopravviene un impegno più urgente per chi doveva procedere all’esecuzione. Viene ordinato loro di buttare in una fossa i cadaveri dei compagni. Questo è stato. Prima di questa scampata esecuzione Carlo Manente aveva provato il carcere fascista. Luogo di interrogatori accompagnati da torture e percosse. Luogo in cui gli antifascisti iniziano a pensare al testo della Costituzione oggi in vigore, che all’articolo 27 stabilisce che la pena deve essere rieducativa e che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Se esistesse un certificato di nascita della Costituzione italiana, sarebbe corretto indicare come luogo di nascita il carcere. Per questo Carlo Manente è voluto venire qui a ricordarlo. Ravenna: il maestro Riccardo Muti in concerto in carcere di Annamaria Corrado Il Resto del Carlino, 5 agosto 2018 Ai detenuti: “Sono qui per voi”. Grande emozione e coinvolgimento. Qualcuno, tra i detenuti, aveva l’aria preoccupata. Si aspettava forse una serata noiosa, resa ancora più difficile dalla calura, col grande maestro d’orchestra irraggiungibile sul palco a pontificare di arie e compositori lontani. E invece Riccardo Muti giovedì sera a Port’Aurea, il carcere di Ravenna, li ha appassionati, emozionati e coinvolti tutti. Ha risposto alle loro domande con l’asciuttezza, la generosità e l’ironia di sempre, senza lesinare battute che mettevano ancora più in evidenza il suo accento, un misto di napoletano e pugliese per niente scalfito dalla lunga familiarità con la Romagna. È arrivato insieme alla moglie, Cristina Mazzavillani, e con in mano lo spartito di ‘Macbeth’. Dietro di lui il baritono Serban Vasile, il basso Riccardo Zanellato, il soprano Vittoria Yeo e il tenore Giuseppe Distefano. Ad accoglierlo la direttrice dell’Istituto, Carmelina De Lorenzo, emozionatissima. “Non mi sembra vero - ha detto - di avere qui con noi il maestro Muti. Grazie per il regalo che ha fatto ai detenuti e a tutti i presenti”. A organizzare l’appuntamento è stato il Lions Ravenna Host, supportato dagli altri club del territorio. Sono stati raccolti per l’occasione fondi che verranno utilizzati per rinnovare gli arredi della sala colloqui, con particolare attenzione a quelli dedicati ai bambini che partecipano agli incontri. Erano presenti, tra gli altri, il presidente uscente Felice Samorè, il presidente entrante, Massimiliano Casavecchia, e Gianfranco Voce. “Sono qui per voi, sono uno di voi” ha esordito il maestro sul palco rivolto ai detenuti, chiedendo se tutti capivano l’italiano. “Anni fa - ha raccontato - un detenuto del carcere di Bollate mi scrisse chiedendomi di andare lì. ‘Qui dentro abbiamo bisogno della sua musica’ diceva. I suoi compagni lo prendevano in giro, convinti che non avrei neanche risposto. Invece ho risposto e ci sono anche andato, suonando tre ore per loro”. È stato in quel momento che la moglie, in prima fila, si è girata verso i detenuti parlando. “Anche in questa occasione - ha osservato il maestro tra le risate - la prima a interrompermi è mia moglie. Quasi quasi resto qui”. Alle battute ha alternato momenti di grande serietà. “Vedo che siete giovani, cercate di guardare al futuro in maniera positiva, anche se questo per voi non è un gran momento”. Ha parlato di rispetto, “che non si deve negare a nessuno” e di fronte all’invito della direttrice di tornare il prossimo anno, ha accettato, ma a una condizione, “non voglio trovarvi qui, e vorrei trovare anche meno gente” ha aggiunto, guardando i carcerati. Poi ha preso posto al pianoforte, accompagnando i cantanti in alcune delle più famose arie di ‘Macbeth’, spiegandone i passaggi principali. Al termine una sorpresa: un valzer di Chopin. “Un regalo non programmato che vorrei fare a voi” ha detto. Sembrava dovesse finire così, tra gli applausi, invece è lì che sono iniziate le domande. “La musica non è solo un atto estetico, ma anche etico” ha risposto Muti a chi gli chiedeva del perché fosse lì. “Io - ha aggiunto - devo avere rispetto dell’autore e del pubblico. E voi per me siete un pubblico uguale a quello dei teatri. La musica cancella le divisioni, di religione, provenienza”. Ha raccontato dei suoi esordi nel mondo della musica, “A 7 anni, il giorno di San Nicola, mi regalarono un violino. L’inizio delle mie gioie e dei miei dolori”. A chi voleva sapere quale fosse il cantante che aveva amato di più, “Aureliano Pertile” ha risposto, “uno dei grandi esponenti della maniera italiana”. E ha spiegato cos’è per lui la musica, “la mia compagna da quando ero un bambino”, fonte di amore ma anche sofferenza. “Pensando ai compositori che amo ed eseguo da 50 anni - ha spiegato - mi chiedo, li ho serviti bene? E se fossero scontenti? Questo pensiero è per me un tormento”. A un certo punto un giovane nordafricano si è alzato e gli ha chiesto se avesse mai diretto in un paese arabo. Riccardo Muti ha ricordato un concerto nel 2005 a El Djem in Tunisia: “Dirigevo il Mefistofele di Boito davanti a 9.000 persone. Tra un brano e l’altro è iniziato il canto del Muezzin e io mi sono fermato per diversi minuti. Ho aspettato. Al termine si è alzato un applauso enorme: il pubblico mi ha voluto ringraziare per il rispetto mostrato”. Anche l’altra sera c’è stato un forte applauso, quello di un gruppo di detenuti arabi che si è alzato in piedi al termine del racconto. Poi l’appaluso si è esteso a tutti, lungo e appassionato, per il saluto finale. Volterra (Pi): la fortezza che vola di Corrado Beldì Il Foglio, 5 agosto 2018 Una sera a Volterra, dove da trent’anni una compagnia teatrale cambia le idee degli spettatori sulle carceri. Per un attimo mi è parso di vederla in cielo, in cima alla valle, come un’astronave in partenza per l’impossibile. Forse voleva fuggire da Volterra appena prima che arrivassimo noi, eravamo ancora dalle parti di Cecina a discutere di pena capitale e di prigioni texane, un caffè e un ghiacciolo con la mia amica Ann Marlowe prima di ripartire per arrivare lassù, alla fine del paesaggio, dove ogni anno la Fortezza Medicea ci attende. Molti non sanno che il carcere di Volterra è da sempre nel vecchio caposaldo e per lunghi anni è stato considerato un luogo di non ritorno. Giuliano pensava di non uscirne vivo e invece la sua nuova vita l’ha trovata tra quelle mura, alla Compagnia della Fortezza, ha compiuto da poco settant’anni e passa il tempo a leggere Shakespeare e anche quest’anno, come tutti i carcerati della compagnia, si è scelto le parole per lo spettacolo. Un progetto così non esiste in nessun altro posto al mondo e infatti un giorno diventerà un teatro stabile e chissà che cosa aspettano al Ministero, non si può dire no ad Armando Punzo, ci lavora ogni giorno da trent’anni e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. C’è voluta di certo una gran tenacia, una cella di tre metri per nove, le prove, le letture ad alta voce, le discussioni e ogni anno una nuova produzione, i premi Ubu e le tournée in tutta Italia, perché ormai la Compagnia è diventata un laboratorio sul mondo che ha cancellato l’idea stessa del teatro nel carcere. Entriamo in città dalla Porta Etrusca, l’arco è una vera meraviglia e i blocchi di pietra sembrano dirci che staranno qui per sempre, hanno duemilacinquecento anni e in effetti chi li smuove. Ci hanno provato i tedeschi, lo volevano minare il 30 giugno 1944 per impedire l’ingresso agli alleati ma i cittadini di Volterra si ribellarono, volevano certo il cioccolato, le Camel, la libertà, ma la Porta non si poteva toccare, negoziarono di chiuderla coi sassi, disselciarono la via dell’Arco e lavorarono una notte intera, vecchi, donne e bambini e pure il vescovo. All’alba la strada non c’era più ma la Porta era sbarrata da un cumulo di pietre e salva per sempre e così anche l’orgoglio della città. Solo una bomba cadde alla fine su Volterra, prese proprio un muro della Fortezza e cinquecento detenuti fuggirono, dev’essere stato bello sentirsi liberi e correre finalmente verso la piazza e mettersi addosso qualcosa per confondersi tra gli altri. Chissà se Armando Punzo ha pensato a quei fuggiaschi quando ha disseminato le sue sculture attorno al battistero, hanno l’impermeabile scuro e sembrano usciti da quei lunghi inverni del Nord in cui la pioggia non smette mai. Mi ricordano quei versi della “Waste Land”: “Sighs, short and infrequent, were exhaled, and each man fixed his eyes before his feet”. Invece qui non piove affatto, anzi fa un caldo boia e “ci vorebe un altro ghiaciolo”, me lo ricorda Ann nel suo italiano stentato, quando le ho scritto della Compagnia è venuta apposta da New York, d’altra parte per questa gita è perfetta, è repubblicana convinta, detesta Donald Trump e difende a spada tratta la pena di morte. Ne fa una questione di efficienza dello Stato, nessuno tra i miei amici la pensa come lei e questa è un’occasione unica per farle cambiare idea. Sappiamo bene che in carcere ci possono finire tutti, Ann fa il caso di Judith Miller, sua amica giornalista finita in galera per aver coperto le fonti di un articolo sulla Cia. Esistono reati terribili ma altre volte non è esattamente così, alcuni avrebbero anche le migliori intenzioni ma si ritrovano a crescere in ambienti scoscesi, altri si ritrovano dietro le sbarre per punto d’orgoglio o per un momento di pazzia. Lo so fin da bambino, mio padre aveva raccolto un autostoppista nella nebbia vicino Parma, negli anni Settanta mica c’era BlaBlaCar: “Dove la porto?”. “Devo firmare in caserma a Rovigo entro stanotte. Mi hanno appena scarcerato”. “Per quale reato?”. “Omicidio”. Una stecca da biliardo in testa a uno che lo aveva minacciato all’osteria. Morto sul colpo, vent’anni dentro e una vita da condensare in due ore di viaggio. Lasciamo i cellulari ai secondini, per quattro ore niente mail né messaggini e soprattutto nessuna foto. Come faranno a resistere i miei follower? In realtà è una specie di liberazione, ogni anno torno a casa con negli occhi decine di dettagli e sono immagini persistenti e durature. Sarà che in carcere non ci si annoia mai, “qui la giornata è così piena di avvenimenti che alla fine diventa una droga”. Lo scriveva Goliarda Sapienza ne “L’università di Rebibbia” che ho riletto ieri per la seconda volta. Lei se l’era proprio cercata ed era quasi felice, perché “per capire il Paese devi andare in carcere”, lo racconta a Enzo Biagi in un’intervista, “perché lì, se hai talento, ti viene riconosciuto”. Sono doti che Armando Punzo ha scovato nei ragazzi della Fortezza e per fortuna in alcuni direttori, Renzo Graziani ai tempi e Maria Grazia Giampiccolo ora, grazie a loro un carcere tra i più violenti d’Italia è diventato uno spazio per l’immaginazione, dove si lavora sempre insieme e ciascuno sceglie come esprimere i propri sogni e così lo spettacolo emerge ogni anno, nella forma di un’utopia collettiva. Da due anni lavorano su Borges, lo scrittore dei racconti fantasmagorici. In vita mia ne ho letti solo cinque e mi vergogno perché Giuliano ne ha letti trenta e di Borges sa tutto, mentre io invece mi riduco a studiare qualche nota su Beatitudo al bar del carcere, dove il caffè costa cinquanta centesimi, tra foto dei tornei di calcetto tra le guardie e una vecchia immagine di Fausto Coppi con la maglia del Milan in un derby tra ciclisti. Dice Ann che il pubblico è molto hippy e in effetti non siamo certo a Glyndebourne ma soprattutto ci ritroviamo tutti appiccicati nell’attesa di passare l’ultimo cancello. Quando aprono le sbarre mi manca il fiato, è la mia sesta volta ma è sempre come la prima, anni fa nel Santo Genet ad accoglierci c’era proprio Armando col cappello a cilindro e il megafono, “entrate, venite a vedere, entrate!”, ci invitava a fare presto e a dividerci in gruppi, le celle erano state trasformate in stanze delle meraviglie ed era stato come tuffarsi nei sogni dei marinai. Saliamo tutti insieme sulla rampa, attirati dalla musica e oltre il giardino e l’albizia e il faggio rosso c’è Andrea Salvatori che suona il piano, è lui il musicista immaginifico della Compagnia, suona l’armonium, i bicchieri, il violoncello e il mandolino e ci conduce con grazia fino a un grande rettangolo d’acqua mentre un gruppo di uccelli, proprio in quel momento, arriva sulla Torre del Mastio e inizia a cantare. Siamo nel cortile esterno e Armando ci attende seduto sulle rive dell’acqua e non a caso le sue prime parole sono “e tutto accadde qui per la prima volta”. È Ireneo Funes nel racconto di Borges, l’uomo dalla memoria prodigiosa che ci conduce in una galleria di personaggi così immaginari da diventare subito reali. “Voleva disegnare un uomo: voleva disegnarlo con minuziosa interezza e imporlo alla realtà”. Siamo di fronte a una iconografia borgesiana del tutto inedita, che ogni attore ha contribuito a concepire e così le vite si mescolano ai sogni, c’è l’Uomo Grigio ed è davvero tutto grigio, anche la valigia, la pelle e capelli, c’è l’uomo che cammina nella notte col lume acceso e la luce è dipinta sulla faccia e sulla giacca e anche il buio è dipinto e poi c’è l’uomo che tiene la luna piena a un palmo dal viso, come in quella poesia che diceva “guardala, è il tuo specchio” e tutte queste immagini ci portano verso un’altra dimensione in cui non può esistere la violenza perché “un uomo può essere nemico di altri uomini o di momenti di altri uomini ma non di luce, di giardini, di corsi d’acqua e di tramonti”. Sono paesaggi meravigliosi che un pittore cinese cerca di dipingere nell’aria mentre noi gli invidiamo il cappello perché il sole batte a picco e ne vorremmo uno, la cappelleria Tesi non lontano da qui ne fa di splendidi in paglia intrecciata e ad aumentare la calura arriva pure un re africano con il sole disegnato sul viso e un cappellino che potrebbe aver rubato ad Anna Piaggi. Per fortuna arriva l’uomo con la barba grigia e ci regala un brivido quando si stende con la schiena nell’acqua e un nido sul petto, aspetta forse che dal cielo ritorni il Goofus Bird l’uccello che vola soltanto all’indietro del “Manuale di zoologia fantastica”. Un’immagine più potente non si vede da tempo. Le figure si moltiplicano fino a quando dal fondo arriva Asterione, l’uomo che diventa egli stesso labirinto, osserva le stelle ma non trova risposte, sotto gli occhiali tondi e il trucco riconosco Giuliano e mi ricordo i suoi racconti di questi anni, ha scelto una metafora della vita perché fuggire dai nostri giorni è impossibile. Ecco infatti Cartaphilus de l’Immortale, porta pile di libri e ha un sorriso che sembra inamovibile. Mi ricorda quel corto in cui Willem Defoe, fa il becchino e lo licenziano perché gli viene una paresi e non può smettere di sorridere. Sistema i volumi sulle mensole della libreria, sono finestre di altre celle e non tutti gli ospiti gradiscono, oltre le sbarre qualcuno tiene alta la radio ma all’improvviso nella Fortezza risuona un bellissimo tango e Armando che inizia a ballare sull’acqua con un uomo dai capelli lunghi e neri ed è come un matrimonio dopo trent’anni di vita insieme. Siamo sempre più emozionati mentre calano le luci della sera e salgono melodie arabeggianti, anche Ann ha tutta l’aria di voler ripudiare la sedia elettrica mentre arrivano schiere di guerrieri con lunghe aste di bambù e un africano nerboruto, consulta un mappamondo e cita Abramo, “lord of yesterday, lord of today, lord of forever”. La mente corre ai migranti nel Canale di Sicilia e non potrebbe essere altrimenti. Anche Ann lo guarda commossa, finalmente si sono messi a recitare in inglese e chissà perché in quel momento mi viene in mente Alfonso Bonafede, è lui il ministro della Giustizia e dovrebbe vedere tutto questo e decidersi a trasformare una parte del carcere in un teatro, sarebbe un caso unico al mondo e pure la sua unica chance di essere ricordato per qualcosa. Avanzano sull’acqua i simboli borgesiani, la clessidra, l’alambicco, l’urna, il setaccio, la scacchiera, il mappamondo e infine un’odalisca in rosso, sdraiata su un divano accarezza il mare, mi ricorda Salvatore Fiume che di odalische così ne ha dipinte a centinaia, siamo arrivati al finale e tornano i guerrieri e stendono sull’acqua un sipario bianco e al centro una sfera rossa e chissà se è un cuore o il sol levante o un pianeta dove fuggire, se hanno appena annunciato che c’è acqua su Marte, allora non c’è nulla di impossibile, come le lacrime di Ann sull’applauso che in effetti è davvero infinito perché siamo tutti degli ultrà di questa squadra di attori. All’uscita ci servono fette d’anguria e vorremmo restare a lungo a parlare coi ragazzi ma il momento conviviale è troppo breve, l’anno scorso almeno c’era stata una cena nel giardino e speriamo davvero che in futuro la possano rifare. Ci cacciano in fretta dal nostro teatro preferito ma fuori c’è Volterra ed è tutto aperto fino a tardi, corriamo in Pinacoteca per il Rosso Fiorentino che ogni volta mi lascia senza fiato, il paesaggio non esiste e tutto è portato all’essenza, la croce è una croce e la scala è una scala, un trionfo di colori in cui sembra che tutti vogliano andarsene dalla scena, anche il Cristo ha una certa urgenza di scendere dalla croce e si capisce, poggia i piedi su un pezzo di legno piccolo e inclinato che mi ricorda la “Sedia per visite brevissime” di Bruno Munari. Anche noi abbiamo fretta, ci aspetta un tavolo all’Enoteca Del Duca e ci buttiamo subito sul risotto con fegato di baccalà e polpa di Ricci, stasera mi sento cannibale e poi sul piccione arrosto. Per un attimo immagino che fosse tra quelli che cantavano sulla torre ma non può essere così, anche se in fondo il teatro fa miracoli, Ann non smette più di parlare degli attori della Compagnia e di Giuliano e vuole scrivere un articolo sul Wall Street Journal per raccontare questo modello di carcere e chissà che in America la storia di Volterra possa servire a cambiare le cose esattamente come è successo qui, dove ogni anno la Fortezza decolla per volare lontano da sé stessa. In giacca e cravatta a servire i poveri, cresce il volontariato d’impresa Corriere della Sera, 5 agosto 2018 A fotografare il trend una ricerca di Fondazione Sodalitas e Gfk Italia. Secondo il report il 61% delle imprese del Bel Paese promuove attività per il bene comune. C’è il manager senza giacca e cravatta che distribuisce riso e pasta ai più poveri. La Ceo della multinazionale che dimentica le conference call e, in tuta e scarpe da ginnastica, rivernicia un centro di accoglienza. E ci sono gli impiegati che per un giorno salutano scrivania e pc per aiutare gli altri. Si tratta di immagini normalissime nelle aziende americane ma la buona notizia è che iniziano a essere comuni anche in Italia dove il volontariato d’impresa si sta diffondendo sempre più. Nato negli Stati Uniti negli anni Novanta, oggi è un fenomeno che interessa il mondo privato nella sua interezza: si va dal settore dei trasporti a quello della cosmesi, dall’editoria al food. Senza distinzioni tra aziende grandi o piccole, italiane o straniere. A fotografare il trend è una ricerca realizzata da Fondazione Sodalitas in collaborazione con Gfk Italia. Secondo il report il 61% delle imprese del Bel Paese promuove o ha promosso attività di volontariato d’impresa e una buona parte di queste lo fa da almeno cinque anni. L’indagine segnala poi che un’azienda su tre è una piccola e media impresa, segno che la taglia non conta quando si tratta di attività benefiche. Ma in cosa consiste il volontariato a misura di business? Parliamo di un progetto in cui l’impresa “incoraggia e organizza la partecipazione del proprio personale alla vita della comunità locale o a sostegno di organizzazioni non profit, durante l’orario di lavoro”. In breve, gli impiegati “barattano” le otto ore in ufficio con otto ore di volontariato. Le iniziative italiane si contraddistinguono però per alcune caratteristiche. Ad esempio il tempo messo a disposizione dei dipendenti è in maggioranza tempo retribuito: l’86% delle aziende rispondenti utilizza infatti questa soluzione e il 71% la considera prevalente. Oltre al tempo dei dipendenti, il 90% delle aziende mette a disposizione delle organizzazioni non profit anche risorse economiche (65%), donazione di prodotti (51%) e servizi, spazi e strutture (34%). La giornata di volontariato diventa quindi anche occasione per fare beneficenza. Spazio poi alle iniziative dei dipendenti, le cui proposte rappresentano il primo step per un terzo delle aziende, così come le richieste che provengono dalle organizzazioni non profit. “Lo studio - sottolinea Adriana Spazzoli, presidente della Fondazione Sodalitas - offre una fotografia aggiornata di questa attività nel nostro Paese, con sfide e opportunità per tutti gli stakeholder. Il sostegno a progetti non profit, lo sviluppo di reti sociali che portino valore nel territorio e il consolidamento della reputazione aziendale sono le finalità indicate dalle imprese”. C’è però un vantaggio anche per chi lavora: “Vanno considerati anche i numerosi benefici che coinvolgono i dipendenti, che sentono di fare qualcosa di utile per la comunità e accrescono la propria sintonia valoriale con l’azienda”. Il bene fa bene - Insomma, fare del bene fa stare bene e sono gli stessi volontari a dirlo. Per gli intervistati durante le giornate “per gli altri” si crea una forza lavoro motivata e si riescono a sviluppare competenze relazionali nuove. Il 60% delle aziende sottolinea un maggior coinvolgimento nelle attività quotidiane, il 49% il miglioramento del clima aziendale, il 38% un miglior lavoro di squadra e il 28% la fidelizzazione dei dipendenti. E poi c’è il marketing: organizzare giornate di volontariato e fare beneficienza aiuta anche l’immagine dell’azienda e rafforza il brand. Non a caso più della metà delle imprese nomina tra i fattori positivi legati al volontariato il miglioramento della reputazione. Resta quindi da capire se questo boom delle giornate solidali sia dettato da sincere ragioni di cuore o sia uno slogan in funzione del portafoglio. La speranza è che, tra le due opzioni, si riveli vera la prima. Noi, gli Usa e le spese militari. L’Europa faccia tornare i conti di Danilo Taino Corriere della Sera, 5 agosto 2018 É tempo di trasformare la Nato in un trattato di alleanza fra gli Stati Uniti e l’Ue. Dopo le molte dichiarazioni di Donald Trump sull’avarizia dell’ Europa in materia di spese militari, una rispettata istituzione britannica (l’International Institute of Strategic Studies) ha fatto i conti ed è giunta a queste conclusioni. Gli Stati Uniti spendono ogni anno per la Difesa 603 miliardi di dollari; e di questa somma la parte destinata alla presenza militare americana in Europa ammonterebbe a 31 miliardi. Gli europei ne spendono, collegialmente, 239. Queste cifre meritano almeno due considerazioni. Gli Stati Uniti sono una democrazia militare. Hanno una enorme industria degli armamenti, nata durante la Seconda guerra mondiale, che impiega centinaia di migliaia di persone, assicura il benessere delle regioni in cui le sue fabbriche sono installate, dispone a Washington di una lobby particolarmente efficace e coltiva relazioni fraterne con la forze armate offrendo impieghi agli alti gradi quando lasciano il servizio. Se dicessi che questa industria militare è il burattinaio di molti conflitti scoppiati dopo la fine della Guerra fredda, andrei al di là di ciò che è lecito affermare senza una esplicita documentazione. Ma se dicessi che ogni guerra garantisce all’industria delle armi un importante flusso di commesse e di finanziamenti pubblici necessari all’aggiornamento tecnologico degli arsenali, la mia affermazione sarebbe difficilmente smentitile. Le industrie belliche americane non sono le sole aziende che ricavano dalle guerre grandi vantaggi. Dopo la fine dell’ultimo conflitto iracheno, i compiti che spettano generalmente alle forze d’occupazione furono affidati a una grande azienda specializzata in servizi petroliferi. Si chiama Halliburton e presentava, tra le sue qualità, quella di avere avuto un presidente e amministratore delegato (Dick Cheney) che era diventato, nel frattempo, vice presidente degli Stati Uniti. Aggiungo che la democrazia americana ha una particolare caratteristica. Gli Stati Uniti sono, fra i grandi Paesi, quello in cui i militari, da George Washington a Dwight D. Eisenhower, passano più frequentemente dalle caserme ai palazzi del potere. Oggi i generali nel governo di Trump sono due e occupano posizioni generalmente riservate a personalità politiche: John Kelly, capo di gabinetto, James Mattis, segretario della Difesa. Il terzo, H.R. McMaster, è stato recentemente sostituito nel ruolo di consigliere per la sicurezza interna da John Bolton, un civile più militare dei militari. La seconda considerazione concerne l’Europa. I 239 miliardi che secondo l’Istituto britannico spenderemmo per la nostra difesa non sono pochi e basterebbero probabilmente a garantire la sicurezza dell’Ue. Ma non sono iscritti in un solo bilancio e non vengono spesi sulla base di piani concordati fra i singoli Paesi. Dovremmo imparare a ripartire la spesa nell’interesse dell’Europa e trasformare la Nato (una organizzazione ormai invecchiata) in un trattato di alleanza fra gli Stati Uniti e l’Unione. Se non vi riusciremo continueremo a fare, sia pure di rimbalzo, le guerre degli americani. Migranti. Prima deprediamo poi respingiamo di Roberto Saviano L’Espresso, 5 agosto 2018 Per secoli l’Europa ha incatenato schiavi e rubato risorse in Africa. Possibile che ora non senta il dovere morale di accogliere?. Studi, approfondimenti, analisi soccombono oggi al cospetto della più elementare delle bufale. Non è più necessario elaborare false notizie che almeno sembrino vere, non serve più alcuna intelligenza sottile per ingannare. Basta un’immagine e poche parole, rigorosamente assurde: ormai le persone, addestrate al peggio, sono inclini a credere a ogni cosa. Forse non ha più senso andare ogni volta indietro nel tempo, per cercare il momento esatto in cui il declino è iniziato, in cui il meccanismo democratico ha preso a scricchiolare. I colpi inferti sono stati tanti e nessuno può sentirsi assolto. Però abbiamo il dovere di impedire che la storia venga travisata, soprattutto quando è storia di morte e sofferenza. Fabrizio Gatti in “Bilal” aveva già descritto, undici anni fa, quello che sta accadendo ancora oggi in Africa. Aveva descritto perché si parte, come si parte e chi può partire. È assurdo - ma di fronte allo smalto di Josefa assurdo non è più niente - dover riraccontare, ridescrivere, ribadire che nessuno lascia la propria terra senza un motivo più che valido e, di fronte a questa molteplicità di motivi, dobbiamo interrogarci su quanta parte di responsabilità abbiamo noi. Sono pieno di sconforto perché la chiave per sovrastare con parole umane il rutto disumano di questo governo non l’abbiamo ancora trovata; sono pieno di sconforto perché esistono schiere di finti intellettuali, finti filosofi, finti YouTuber al soldo di Putin che, pagati per dare il loro maldestro contributo alla destabilizzazione dell’Europa, riscrivono la storia, se ne appropriano, la falsificano e noi glielo consentiamo, come se la storia avesse smesso di appartenerci, come se avessimo smesso di curarcene. Fabrizio Gatti in “Bilal” parte da Milano in aereo e arriva a Dakar, la prima tappa del suo viaggio. Proprio Dakar mi ha fatto venire in mente l’isola di Gorée che dalla capitale del Senegal dista solo tre chilometri. L’isola di Gorée è un lembo di terra oggi Patrimonio dell’umanità, ma fino al 1848 è stato un luogo di sofferenze indicibili. Da lì partivano gli schiavi destinati al Nuovo Mondo. Milioni di africani: i più forti venivano imbarcati, i più deboli buttati a mare. Nessun rispetto per la vita. Nessuno. Mi sembra assurdo dover scrivere oggi queste parole, sembra come se tutta la nostra storia, come se la storia dell’umanità fosse stata cancellata con un colpo di spugna; come se dovessimo rivivere tutto daccapo per capire. Abbiamo depredato l’Africa di esseri umani e poi l’abbiamo depredata di risorse. Abbiamo fatto nostro il sottosuolo e le sue ricchezze, il mare con i suoi frutti e oggi non accogliamo chi lascia una terra depredata. Depredata dai Paesi che, nonostante politiche predatorie, hanno il coraggio infame di chiudere i porti, di presidiare le frontiere, di respingere, di nicchiare, di temporeggiare. E chi osa parlare del dovere di accogliere viene chiamato da questi impostori del pensiero e del linguaggio “negriero”. Quanto cinismo nel banalizzare, per fini propagandistici e con il placet di chi governa, la sofferenza e il sangue di un continente che ha visto deportati milioni di suoi figli. Ma cosa importa a questi bianchi occidentali cattolici possibilmente eterosessuali? Non sono problemi che riguardano loro né i loro antenati. Sicuramente riguarderanno i loro discendenti, ma la prerogativa di questi tempi è un ingiustificato e malsano egoismo. Eppure, a dirla tutta, di negrieri l’Italia è piena e lo sarà fintanto che resterà in vigore la Bossi-Fini per regolamentare l’immigrazione, e fintanto che agli oltre 600 mila immigrati irregolari presenti in Italia non saranno dati permessi di soggiorno. Al di là del senso di umanità, al di là della necessità di accogliere per aiutare le sorti dell’economia del nostro Paese, esiste un legame strettissimo tra la capacità dei governi di gestire i flussi migratori e la capacità di gestire tutto il resto. Per ogni governo la gestione dell’immigrazione è un banco di prova: fallire su quello significa fallire su tutto il resto. E non è consentito barare: la storia che scrivono i vincitori - o quelli che si credono tali - è una storia ridicola, destinata a essere sbugiardata. È solo questione di tempo. Migranti. Il governo blinda le motovedette per la Libia di Adriana Pollice Il Manifesto, 5 agosto 2018 Domani alla Camera si vota il ddl per dotare Tripoli di nuovi mezzi per fermare gli sbarchi. Il Pd tentato dal No ma al Senato ha detto Sì. Andrà in votazione alla Camera domani il ddl di conversione del decreto (già approvato dal Senato) con cui l’Italia cede a titolo gratuito al governo libico dodici motovedette per il controllo delle coste. Si tratta di dieci unità navali CP classe 500 in dotazione alla Capitanerie di Porto e due vedette da 27 metri, classe Corrubia, in dotazione alla Guardia di finanza. È previsto poi uno stanziamento per il 2018 di 2.520.000 euro per manutenzione dei mezzi e addestramento del personale di Tripoli. L’iter in aula comincerà con la pregiudiziale di costituzionalità presentata da +Europa con Riccardo Magi, che spiega: “Con il decreto motovedette stiamo dando strumenti, assetti della nostra Guardia Costiera e della nostra Guardia di finanza per rafforzare quella di uno stato che non esiste, per riportare persone salvate in mare in un paese non sicuro. Il salvataggio della vita in mare è un obbligo di legge e, in termini tecnico-giuridici secondo il diritto nazionale e internazionale, il salvataggio termina quando la persona che è in pericolo viene condotta in un “posto sicuro”, cioè un posto in cui non rischi ancora la vita e di vedere violati i propri diritti fondamentali. I mezzi, invece, serviranno a compiere un respingimento delegato”. Il decreto cita il Trattato di amicizia del 2008 siglato dal governo Berlusconi con Gheddafi, la Dichiarazione approvata a Tripoli nel 2012 dall’esecutivo Monti e, infine, il Memorandum d’intesa sotto l’egida di Paolo Gentiloni e Marco Minniti. “Dall’epoca di Gheddafi a oggi la situazione in Libia è sempre più drammatica. È persino peggiorata nell’ultimo anno - prosegue Magi - con i trafficanti che acquistano i migranti anche nei centri ufficiali per trasformarli in schivi nei campi, nei cantieri o per estorcere denaro ai parenti. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu l’8 giugno ha sanzionato sei individui che gestiscono i traffici di esseri umani, tra loro c’è Abd Al-Rahman Al-Milad comandante della Guardia costiera di Zawiya. In Libia non c’è uno stato, c’è un consiglio presidenziale separato da un parlamento, più una serie di altre entità tribali o familiari. Non due governi ma nessun governo”. Secondo l’Oim, nel paese sarebbero bloccati quasi 680mila migranti provenienti da 42 stati, l’8% minorenni. L’approvazione del decreto è stata blindata dal governo giallo verde e infatti porta la firma del premier Giuseppe Conte e dei ministri Matteo Salvini, Danilo Toninelli, Enzo Moavero Milanesi e Giovanni Tria. Salvini è il primo artefice della battaglia per i respingimenti in subappalto, che si legano alla circolare ai prefetti per limitare le richieste di protezione, alla direttiva per spostare fondi dall’accoglienza ai rimpatri e, in fine, al decreto sicurezza (a cui sta lavorando) per il contrasto all’immigrazione. Per placare le timide proteste dem, Salvini venerdì ha spiegato: “Stiamo preparando un progetto che prevede almeno un miliardo di investimenti per sostenere l’economia in Africa. L’Europa fa accordi commerciali con quasi tutti questi paesi. Abbiamo chiesto che qualsiasi accordo commerciale futuro preveda anche i rimpatri”. I 5S devono fare i conti con le due anime del movimento. Durante la discussione a Montecitorio, Mirella Emiliozzi se l’è cavata così: “Se abbiamo a cuore i diritti umani non possiamo che attivarci in ogni sede possibile affinché la Libia possa tornare a dotarsi di uno stato sovrano e indipendente. Questo è lo spirito del provvedimento in oggetto. E i mezzi navali sono uno degli strumenti imprescindibili”. Eppure il presidente della Camera, Roberto Fico, martedì aveva detto: “Non credo che la Libia sia un porto sicuro: la Libia non è un luogo sicuro e lì ci sono molti migranti detenuti in luoghi dove manca la tutela dei diritti umani”. Anche il Pd è bloccato dalle sue contraddizioni. Il decreto è in linea con la politica di Minniti, bandiera del governo Renzi. Al Senato i dem hanno votato a favore, smarcarsi alla Camera diventa difficile ma bisogna fare opposizione in qualche modo. Così si procede in ordine sparso. Piero Fassino ha chiesto una discussione sulle condizioni in Libia, Graziano Delrio “monitoraggi” nei centri di detenzione, Matteo Orfini vuole votare no “per quello che sta emergendo sulle condizioni dei campi libici”. Alla vigilia del voto, ieri, Laura Boldrini di Leu ha attaccato: “Il decreto non è emendabile, bensì da respingere in toto perché la collaborazione con Tripoli non prevede una sola garanzia sui diritti umani. Lega e 5S sono i più esperti nel costruire la politica dell’odio volta a creare un capro espiatorio, nella maggior parte dei casi il migrante, il diverso, il più debole”. La replica grillina: “Non fa che alimentare lei stessa un clima d’odio”. Migranti e guerre nel Mediterraneo. Aymard: mai stato così instabile Corriere della Sera, 5 agosto 2018 L’analisi dello storico francese: “Porti chiusi e sovranismo antieuropeo non risolvono i problemi. Mancano potenze stabilizzatrici: anche Usa e Russia sono in affanno”. “Il fatto radicalmente nuovo è che il Mediterraneo oggi è diventato un moltiplicatore mondiale di instabilità, e questo sarà un grande problema per le nuove generazioni”. Maurice Aymard, 82 anni, storico di fama mondiale, è direttore di ricerca all’Ecole des Hautes Études en Sciences Sociales e amministratore della Maison des Sciences de l’Homme dell’università La Sorbona. Allievo, amico e collega di Fernand Braudel, ne ha raccolto l’eredità alla guida della Scuola superiore. Professor Aymard, il mare Mediterraneo, che dalla scoperta dell’America in poi sembrava sempre sul punto di diventare marginale, è invece tornato centrale. Ma, sostiene lei, questa volta come mai era successo prima. Perché? “Perché oggi il Mediterraneo è molto frammentato e non è controllato da nessuno. Io stesso pensavo che con la decolonizzazione tutti i problemi sarebbero stati risolti, compresa la questione israelo-palestinese. Invece è accaduto di tutto e nella maniera più imprevedibile. Dopo la caduta del Muro di Berlino è stato un crescendo: l’assassinio di Yitzhak Rabin (il 4 novembre 1995, a Tel Aviv), la dissoluzione del Sud Est europeo e l’esplosione della Federazione jugoslava, con l’emergere di nazionalismi che nessuno avrebbe mai immaginato, e il Medio Oriente di nuovo in fiamme dopo l’intervento di Bush jr in Iraq. Ecco, quest’ultima era forse l’unica cosa che si poteva prevedere, e cioè che le guerre coloniali si perdono sempre. I sovietici hanno perso la loro guerra coloniale in Afghanistan, gli americani in Iraq. Per fortuna la Francia ne è rimasta fuori e l’Italia avrebbe fatto meglio a imitarla. Adesso, con la Siria e l’intervento della Turchia il quadro è completamente a pezzi: nessuno controlla la situazione, nemmeno Putin che ha sostenuto Bashar al-Assad”. Che cos’è diventato il Mediterraneo negli ultimi vent’anni? “Un sistema di equilibrio politico-militare molto precario e allo stesso tempo una frontiera assoluta per i flussi migratori. I migranti non vengono più dalle periferie immediate, cioè dall’Algeria o dal Marocco, ma dall’Africa subsahariana. Non vengono più dal Medio Oriente, ma dall’Asia. Ciò vuol dire che c’è una dilatazione del Mediterraneo oltre le fasce costiere, che arriva fino al ventre dell’Africa e all’Estremo Oriente. Un fenomeno di dimensioni intercontinentali, mondiale”. Che cosa significa che il Mediterraneo è diventato un problema mondiale, che riassume in sé le grandi questioni del mondo irrisolte? “Di più. È esso stesso un fattore dinamico di questa crescente frammentazione, ne è un moltiplicatore. È questo il fatto radicalmente nuovo. E sarà un grande problema per le nuove generazioni, che non troverà una risposta adeguata nel breve periodo. Per ora, credo che l’unica cosa che si possa fare a breve scadenza sia cercare di limitare i guasti e, a più lunga scadenza, di costruire qualcosa di più complesso e incisivo”. Finita la guerra fredda, i decisori forti, i russi e gli americani, sono rimasti. Come mai allora questa instabilità? “Oggi la situazione è un po’ diversa. Non credo ci sia alcuna possibilità di una qualche “pax imperiale”. Per esempio, Putin ha potuto approfittare della situazione di debolezza americana dopo l’Afghanistan e il fallimento in Iraq, ma nonostante questo non controlla la situazione. E chi ne esce più forte è Assad, non lui”. Il Mediterraneo è da tremila anni scenario di migrazioni. Anche Erodoto parlava della sua migrazione, ma come quella di una persona che cercava un posto in cui vivere meglio, non per sfuggire a una guerra. Perché dunque dovremmo essere allarmati dalle migrazioni più di quanto non avvenisse allora? E perché dobbiamo credere di non poter affrontare il problema come merita? “Lo dobbiamo affrontare. Il problema non è nuovo per il Mediterraneo, certamente, ma ci sono diversi tipi di immigrazione. La prima è stata quella che ha prodotto la nostra umanità, che, non dimentichiamolo, viene dall’Africa. In epoca antica, la popolazione di origine asiatica, dal Sud Est asiatico, non arriva nel Mediterraneo. Bisogna giungere fino al primo millennio dopo Cristo per una immigrazione di origine germanica che si spinge verso il Sud, ma le due grandi correnti migratorie sono quella africana - degli schiavi africani - e quella transoceanica degli europei, e siamo fra i 12-13 milioni di persone durante tre secoli e mezzo. Ma, attenzione, per quanto riguarda i neri parliamo sempre di schiavi. Persone che non avevano alcuna intenzione di spostarsi e che sono morte in gran numero nel tragitto o per lo sfruttamento a cui erano sottoposte, anche se poi i sopravvissuti hanno acquisito la libertà. Adesso, anche se si parla di “nuova schiavitù”, perché parliamo di gente trattata male, in realtà siamo di fronte a persone che vengono a lavorare come “liberi” salariati, cercano di inserirsi nella nuova società e di fare arrivare qui le loro famiglie: questa è una situazione del tutto nuova, basti considerare le cifre enormi del potenziale demografico subsahariano”. Come si può affrontare questa situazione inedita, chiudendo le frontiere e i porti? “Ma no. Chiudere le frontiere significa solo favorire il contrabbando. È come il proibizionismo per l’alcol. Più lo vieti, più l’attività rende. Senza considerare il problema reale delle pensioni da pagare ai cittadini europei di oggi, che senza il lavoro degli immigrati, la cui incidenza è sempre più importante, corre un grande rischio. Bisogna pensare a una stabilizzazione, affrontando questo argomento con razionalità e intelligenza. Diceva Braudel: “Ho bisogno di pensare la totalità”. Questa è la sua vera lezione. Mentre oggi di fronte a questo quadro inedito ci si limita ad adattare analisi logore e logiche vecchie. Se c’è stata una emigrazione europea che è durata 100-150 anni e ha popolato il resto del mondo, dobbiamo accettare che si creino movimenti in senso contrario e cercare di governarli. Non serve a nulla rieditare i nazionalismi di fronte alle migrazioni”. E l’Europa, cosa può fare? Dobbiamo lasciare che si sfaldi o è la nostra unica ancora di salvezza? “Resto favorevole alla costruzione europea, soprattutto per le nuove generazioni, che ormai vivono non solo in ambienti europei, ma transnazionali, in una società in cui ci saranno sempre più matrimoni tra persone di diversa origine e nazionalità… Mi sembra difficile e non auspicabile tornare indietro. Evidentemente l’Europa che ha inventato gli Stati nazionali ha qualche problema a inventare una nuova forma di cooperazione politica che conservi anche gli Stati nazionali… Una cosa è sicuramente irreversibile. La stragrande maggioranza dei cittadini europei non accetterebbe un ritorno a un sistema di controllo dei passaporti e dei visti per circolare in Europa”. Lo stesso discorso vale per l’euro? “Se ci fosse un referendum contro l’euro, persino in Italia dove oggi avete questo governo strano, i no-euro perderebbero. Esattamente come in Grecia, dove ho visto i miei colleghi del ceto medio intellettuale che hanno investito i loro risparmi in Belgio. Insomma, la gente vive sempre di più in modo europeo, lo vediamo dall’acquisto di macchine, dalle tecnologie, dalla pluralità di lingue parlate. Questi sono stati negli ultimi sessant’anni i veri cambiamenti “dal basso”, introiettati dalla gente, e quindi irreversibili. E dimostrano che la strada da seguire è quella di una Europa che non agisca solo dall’alto”. È arrivato o no il tempo per l’Europa di agire politicamente per rendere più stabile il Mediterraneo? “C’è una cultura, artistica e letteraria, che possiamo definire europea, anche se le diverse popolazioni vivono in modo diverso e hanno persino cucine diverse. E ciò è un bene. Ma certe regole politiche, i diritti politici, individuali, i diritti dell’uomo, che sono valori europei, ora vengono più o meno accettati ovunque”. Ma sull’altra sponda del Mediterraneo non è così. “È vero, ma le migrazioni hanno anche avuto proprio questo merito, di diffondere la cultura europea dei diritti umani”. La Ue cosa può fare concretamente? “Intanto, può evitare di fare sciocchezze, come quella di Sarkozy di bombardare la Libia, o di Lega e M5S di chiudere i porti. E poi scegliere per sé una evoluzione prudente, senza imporre dall’alto ciò che in basso non viene accettato, e chiarire che solo l’accettazione di regole comuni dà diritto ai relativi vantaggi. In caso contrario, come per la Gran Bretagna della Brexit o la Polonia e l’Ungheria del gruppo di Visegrád, questi vantaggi non spettano e non possono essere rivendicati”. Infine, cos’è dunque il Mediterraneo? “Non è una piccola provincia, come si poteva pensare un secolo fa. Perciò l’Europa non deve mai perdere di vista che il Mediterraneo ci aiuta, più che a capire, a formulare i problemi sul mondo di oggi”. Libia. I mercanti di schiavi in azione nei centri di raccolta di profughi di Paolo Lambruschi francescomacri.wordpress.com, 5 agosto 2018 Sos in diretta da una prigione: “Noi richiedenti asilo venduti dalle guardie”. Le mani dei mercanti di schiavi sui prigionieri africani dei lager libici. Non quelli a cinque stelle, che esistono solo nelle menzogne che nutrono l’odio e i luoghi comuni nelle discussioni sui social e nei bar. Ma quelli autentici, ufficiali, pagati dall’Ue e gestiti dal governo tripolino, sovraffollati da migliaia di persone bloccate o respinte in Libia dalla politica europea ed italiana dove donne, bambini e uomini vengono ammassati, maltrattati e costretti a vivere in condizioni inumane. Eppure diversi detenuti sono richiedenti asilo o provengono da Paesi quali Eritrea e Somalia per i quali lo status viene comunemente concesso. Ma gli viene impedito di esercitare questo diritto. La coltre di silenzio e indifferenza che avvolge questo orrore quotidiano - relegato a danno collaterale nelle discussioni europee su sbarchi e Ong - viene bucata dalle testimonianze dei prigionieri che riescono a filtrare via Whatsapp. Come Salomon, pseudonimo di un giovane eritreo prigioniero nell’inferno del campo dalla metà di maggio scorso, arrestato dalle milizie dopo una fuga di 24 ore dall’altro lager di Gharyan. Abbiamo raccontato la sua storia su Avvenire lo scorso 25 luglio, quando la Caritas italiana chiese al governo di organizzare una evacuazione umanitaria almeno per i soggetti vulnerabili. Da ieri - mi scrive all’alba Salomon disperato dopo una notte insonne - nel centro di detenzione statale Sharie al Matar, alle porte di Tripoli, le porte sono state chiuse, stop anche alla distribuzione di cibo e acqua, documenti e soldi sono stati sequestrati. A dimostrazione che i poliziotti sono complici dei trafficanti di esseri umani, il comandante Wedi Ybeal avrebbe dichiarato ai 1800 prigionieri che sono troppi, che le risorse a disposizione sono finite, quindi devono arrangiarsi. E che di loro non sa cosa farsene, anzi pensa di venderli. Contemporaneamente la rete dei trafficanti che fa riferimento al potente boss eritreo Abu Salam, uno dei misteriosi capi che gestisce la rotta dal Sudan, si è fatta viva con i detenuti proponendo loro di lasciare il lager per imbarcarsi. Ma nessuno si fida. “Ci vogliono vendere come schiavi - aggiunge terrorizzato Salomon - ai libici piacciono i soldi. Giovedì sono sparite 20 persone dal campo”. Sono 19 eritrei e un somalo. La metà era registrata come richiedente asilo dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati per la Libia, gli altri no. E quando non si è registrati dall’Onu in Libia, diventa molto più facile scomparire nel nulla. Due dei prigionieri presi erano minorenni. Anche la presenza in una lista delle Nazioni Unite non è rassicurante. Nel campo ci sono 4 latrine e 12 persone sono morte in tre mesi per Tbc e gli effetti del calore e della denutrizione. Salomon chiede di segnalare il loro dramma all’Acnur, invoca un intervento dell’Europa, mi chiede che fine ha fatto l’umanità. Ieri sera ha potuto almeno ribadire le sue richieste in una diretta radio clandestina a Voice of America. Non lo hanno potuto fare i 200 prigionieri eritrei spariti 10 giorni fa dall’altro campo statale tripolino di Tariga Siga. La notizia è stata divulgata ieri con un post su Facebook da un rifugiato che vive a Bologna. In una notte di mezza estate le guardie si sono dileguate e i miliziani al soldo dei trafficanti sono entrati nella prigione e li hanno prelevati - nonostante fossero iscritti nei registri dell’Acnur - contro la loro volontà. Sarebbero stati sparpagliati in un altro centro illegale e in diverse fattorie per essere rivenduti come schiavi o torturati per estorcere riscatti. Secondo alcuni testimoni i trafficanti hanno detto di averli comperati, come se fossero bestie, pratica ormai comune in questo Paese “sicuro”. Brasile. Lula si candida alle elezioni dal carcere Corriere della Sera, 5 agosto 2018 In prigione dal 7 aprile, lo storico leader del Partito dei Lavoratori ha annunciato la sua candidatura per le presidenziali del 7 ottobre. Alle elezioni presidenziali del 7 ottobre ci sarà anche Lula. Il Partito dei Lavoratori brasiliano ha annunciato ufficialmente la candidatura del suo leader storico ed ex presidente. Dallo scorso 7 aprile è rinchiuso nel carcere di Curitiba per una condanna a 12 anni per corruzione. Molti analisti considerano che il Tribunale superiore elettorale non accetterà la sua candidatura. Insieme a lui, sono entrati nella “corsa” al voto altri due candidati forti: l’ex governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin, del Partido de la Social Democracia Brasilena (Psdb, centro-destra); e l’ambientalista Marina Silva, del partito Rede Sustentabilidade. In una lettera di Lula letta alla convention a San Paolo del partito, il carismatico leader ha sottolineato che “il Brasile ha bisogno di restaurare la sua democrazia”. “Lula sei e sarai il nostro presidente eterno”, ha esclamato il presentatore dell’evento che si realizza nella Casa de Portugal di San Paolo, aggiungendo: “Non esiste un Piano B, non esiste un Piano C, il nostro è il Piano L, è Lula!”. “Lula libero, Lula presidente!”, ha poi gridato fra gli applausi dei presenti il presentatore, annunciando la presenza nella sala della presidentessa del Pt, Gleisi Hoffmann, e del coordinatore del programma di governo, Fernando Haddad.