Ordinamento penitenziario: il decreto di riforma in pillole giustizia.it, 4 agosto 2018 Il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 2 agosto 2018, ha approvato in esame preliminare un Decreto legislativo in attuazione della legge delega di cui all’art.1, commi 82, 83 e 85, lettere A), D), I), L), M), O), R), T) e U), della legge 23 giugno 2017, n. 103, che introduce disposizioni volte a modificare l’ordinamento penitenziario. Il Ministero della Giustizia e il Governo, contestualmente, procedono a una revisione del testo che tenga conto delle indicazioni espresse dal Parlamento, volte a migliorare la qualità della vita nelle carceri garantendo comunque la certezza della pena. Premesso che le norme di ordinamento penitenziario risalgono al 1975, lo schema di decreto è suddiviso in quattro capi, inerenti alla riforma dell’assistenza sanitaria, alla semplificazione dei procedimenti, alle modifiche all’ordinamento penitenziario in tema di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, alla vita penitenziaria. Relativamente alla materia sanitaria si è provveduto alla revisione della disciplina alla luce del riordino della medicina penitenziaria, al potenziamento dell’assistenza psichiatrica negli istituti di pena e al trasferimento delle competenze della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale. In particolare, si afferma il diritto di detenuti e internati a prestazioni tempestive; si stabilisce, inoltre, che il servizio sanitario nazionale opera negli istituti e ad esso spetta organizzazione del servizio medico e farmaceutico. Si modifica, inoltre, la norma sulle autorizzazioni per cure e accertamenti che non possono essere garantiti all’interno degli istituti; si disciplina la visita medica del detenuto all’ingresso in istituto; si garantisce la continuità dei trattamenti sanitari in corso. In tema di semplificazione dei procedimenti, si interviene sull’ordinamento penitenziario e sul codice di procedura penale. Per quanto concerne l’ordinamento penitenziario, le modifiche più significative riguardano la possibilità, per l’amministrazione penitenziaria, di stare in giudizio personalmente, alleggerendo il contenzioso dell’Avvocatura dello Stato; la chiara indicazione del giudice competente all’emanazione dei provvedimenti in materia di controllo sulla corrispondenza, distinguendo tra condannati, internati e imputati. Per quanto riguarda il codice di procedura penale, gli interventi hanno ad oggetto la rimodulazione dei termini per la decisione sulle istanze di applicazione delle misure alternative alla detenzione; l’ampliamento della procedura semplificata di sorveglianza anche per quel che concerne la libertà condizionata e il differimento per sopravvenuta infermità; la possibilità, per il magistrato di sorveglianza, di concedere la misura richiesta dai condannati in stato di libertà, fermo restando la competenza finale del tribunale; pubblicità e presenza dell’interessato all’udienza di sorveglianza, anche ricorrendo a collegamenti audiovisivi. Disposizioni ulteriori sono dedicate ai rapporti tra sospensione cautelativa delle misure alternative e revoca delle stesse per il caso in cui si pongano in essere comportamenti di violazione delle prescrizioni. Sono riviste, altresì, le norme sulla sopravvenienza di nuovi titoli di custodia in corso di esecuzione di una misura alternativa; vengono stabilite regole per disciplinare i rapporti tra espiazione delle pene accessorie e le misure alternative alla detenzione; vengono dettate norme sull’osservazione della personalità ai fini dell’accesso alle misure alternative, includendo il difensore e il gruppo di osservazione e trattamento. Con riferimento alla vita penitenziaria, si introducono disposizioni per rafforzare i diritti di detenuti e internati. I principi, ispirati all’art. 27 della Costituzione, individuano nel detenuto la persona messa al centro dell’esecuzione e titolare di tutti i diritti che non siano strettamente incompatibili con la restrizione della libertà personale. Le innovazioni più significative riguardano il rafforzamento dei divieti di discriminazione, la responsabilizzazione del detenuto finalizzata a un suo reinserimento, l’introduzione di nuove norme su alimentazione, permanenza all’aperto, attività di lavoro, istruzione e ricreazione, la riaffermazione del principio di territorialità della pena. E ancora, la creazione di sezioni per donne che non compromettano le attività trattamentali e salvaguardino il ruolo delle madri se detenute con prole; la formazione professionale come elemento fondamentale alla rieducazione, insieme al lavoro e alla partecipazione a progetti di pubblica utilità; una nuova regolamentazione dei colloqui; il diritto a una corretta informazione, anche con nuovi strumenti di comunicazione previsti dal regolamento; la costituzione di rappresentanze dei detenuti e degli internati, in cui sia inserita anche una rappresentante di genere femminile. La controriforma gialloverde delle carceri di Riccardo De Vito* Il Manifesto, 4 agosto 2018 L’analisi. I contenuti del decreto legislativo in tema di ordinamento penitenziario approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto. Negli Stati Uniti il romanzo di Agata Christie “Dieci piccoli indiani” circolava con il titolo “E poi, non rimase nessuno”. È sufficiente un piccolo restyling di quel titolo - e poi, non rimase niente - per farsi un’idea dell’autentica sostanza dello schema di decreto legislativo in tema di ordinamento penitenziario approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto. Si tratta di un guscio vuoto che non conserva nulla dell’originario assetto della riforma - colpevolmente abbandonata dal Partito Democratico in ragione di calcoli elettorali e di scarso coraggio politico - e che, all’esito di un processo di vera e propria sterilizzazione del lavoro delle commissioni, lascia sul campo un inutile sbruffo di cipria sul sistema della pena del nostro Paese. Un ritocco che neppure può ambire al nome di aggiornamento normativo, ma che, tuttavia, porta impressa la cifra politica più giustizialista e inquietante di questa maggioranza politica. Scompaiono, rispetto al decreto approvato il 16 marzo 2018 dal governo Gentiloni, le norme che favorivano l’accesso alle misure alternative di comunità e che investivano su un’esecuzione penale alternativa al carcere in grado di prevenire con efficacia - gli studi più approfonditi stanno lì a dimostrarlo - il fenomeno della recidiva. Di pari passo, lo smantellamento della riforma implica anche l’eliminazione di tutte quelle disposizioni che ridimensionavano gli automatismi preclusivi e che avrebbero consentito alla magistratura di sorveglianza di tornare a valutare caso per caso i progressi effettivi di ogni detenuto. Le stesse forze politiche che hanno spesso usato l’indipendenza della magistratura come vessillo della battaglia contro l’illegalità, ora, investite da responsabilità di governo, preferiscono giudici con le mani legate e una giurisdizione spogliata del trasparente esercizio della discrezionalità. Conosciamo già il refrain che saluterà il decreto legislativo, celebrativo della vittoria della certezza della pena e della sicurezza dei cittadini. È un ritornello vecchio e fasullo. Oltre a quanto appena detto a proposito di un’esecuzione penale che continuerà a rimanere legata ad automatismi e a preclusioni contraddittorie - basti dire che il decreto neppure si sforza di adeguare l’ordinamento alle importanti sentenze della Corte costituzionale del 2018, si deve rilevare che nel nuovo impianto legislativo rimangono, con tutt’altro valore rispetto al contesto nel quale erano nate, norme procedurali che gravano le spalle dei magistrati di sorveglianza di incombenze burocratiche e impediscono di guardare in faccia e conoscere il condannato al quale dovrà essere applicata o meno la misura. L’esatto contrario del giudice di prossimità e di una giurisdizione informata, dunque. E l’esatto contrario di ciò che dovrebbe auspicare chi agita la bandiera della sicurezza. Ma c’è qualcosa di ancor più sgradevole nel processo di riscrittura della riforma, che scaturisce in parallelo con il clima di ostilità costruito attorno ai capri espiatori dei mali di questo Paese: gli stranieri e i soggetti deboli. Mentre apprendiamo dal recente rapporto di Antigone che la detenzione degli stranieri in Italia è diminuita di oltre due volte negli ultimi dieci anni, il governo fa marcia indietro anche sulle reali possibilità di integrazione e risocializzazione dei detenuti stranieri, eliminando ogni riferimento alla possibilità di quest’ultimi di ottenere il permesso a fini di lavoro nel corso delle misure alternative. Una lacuna che non ha giustificazioni, se non di natura discriminatoria. Del resto, la rimozione di ogni richiamo alle dimore sociali - vale a dire quei domicili dove i non abbienti, ritenuti meritevoli dalla magistratura, possono fruire di misure alternative invece di continuare a languire in carcere - costituisce il segno evidente di una giustizia che si stringe ancora una volta attorno a chi è ai margini del perimetro sociale e trascura le criminalità più strutturate, a partire da quella organizzata. In conclusione, siamo di fronte a un provvedimento inutile per un verso, dannoso per l’altro. Chiaro, almeno, sulla reale natura della maggioranza politica. *Magistratura democratica Azzerata la riforma Orlando, si riparte da Bonafede di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 agosto 2018 Il Consiglio dei Ministri ha rimandato alle Camere un testo “rivisto”. ora scatta un nuovo timing. La delega individua i principi e i parametri entro cui esercitarla in un solo articolo 1 ed è al comma 83, che si stabiliscono i termini entro cui deve essere attuata. “I decreti legislativi di cui al comma 82 sono adottati, su proposta del ministro della Giustizia, relativamente alle materie a cui si riferiscono i principi e criteri direttivi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del comma 84 nel termine di tre mesi, e relativamente alle restanti materie nel termine di un anno” dalla data di entrata in vigore della legge: ciò significa che, per quanto riguarda l’esercizio della delega in materia di riforma dell’ordinamento penitenziario, la delega scade in un anno dalla entrata in vigore della legge. Esattamente ieri. Il Consiglio dei ministri ha annunciato di aver approvato con esame preliminare: si evidenzia una sostanziale modifica rispetto al testo che fu varato in esame preliminare lo scorso 16 marzo. La “riscrittura del testo” e “revisione” - termini che usa lo stesso Consiglio dei ministri - sono tali da far intendere che la modifica del contenuto sia sostanziale e corrisponda ad un nuovo ed effettivo esercizio della delega. In effetti, come si evince dal comunicato, hanno revisionato il comma 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u). Compaiono anche il lavoro e i minori. Parliamo di un decreto completamente riscritto rispetto a quello licenziato a marzo. La revisione del testo, quindi, imporrebbe al decreto di percorrere nuovamente l’iter in teoria già effettuato, compresi i 45 giorni per il parere alle Camere e i 10 giorni se il Consiglio dei ministri non volesse recepire i pareri delle camere. Se così fosse, è la stessa legge delega, con una sorta di “clausola di salvezza”, che prevedrebbe di posticipare di 60 giorni la scadenza del termine di agosto, in quanto ci sono i 45 giorni per avere i pareri delle Commissioni, compresi gli eventuali 10 giorni. Il rischio? Potremmo attendere l’emanazione del decreto anche fino a ottobre. Lo stesso Garante nazione delle persone private delle libertà Mauro Palma, in un comunicato anticipato da Redattore sociale, spiega che se alcune parti del testo sono riscritte “allora occorrerà leggerle con attenzione e ci dovrà essere il parere, consultivo ma obbligatorio, delle Camere e del Garante nazionale”. Mauro Palma, in attesa di leggere il testo revisionato, spiega che mancano alcuni punti di delega all’appello. “L’assenza di tutti quelli relativi alle misure alternative e al loro possibile accesso - scrive Palma, e di quelli relativi all’abolizione di automatismi che attualmente ne precludono l’accesso, rende il decreto approvato - in attesa di conoscerne il testo - comunque di “sapore” diverso da quanto prospettato con la lunga operazione degli Stati generali e portato avanti dal passato governo. Non poteva essere diverso: il governo in carica ha sempre sostenuto di non condividere l’approccio alle misure alternative né come elemento di progressiva graduale flessibilità dell’esecuzione penale e tantomeno come modalità di riduzione dell’affollamento in carcere”. Palma spiega che nel decreto revisionato vengono presi in considerazione altri punti non privi di importanza che riguardano l’assistenza sanitaria, le articolazioni per coloro che in carcere hanno sviluppato disagio mentale, anche grave, la vita detentiva, il mantenimento delle relazioni affettive, i colloqui, il lavoro. “Temi importanti annunciati - spiega Palma - nel titolo del decreto di ieri e sui quali è bene che il governo sia voluto intervenire”. A proposito del lavoro, come già annunciato ieri da Il Dubbio, le commissioni hanno espresso il parere di stringere le maglie per accedere ai lavori di pubblica utilità. Bisognerà vedere se il governo ha recepito o meno. Così come per quanto riguarda i minori, quando il governo precedente ha inserito il 4bis, ostacolando, di fatto, l’accesso ai benefici. Riforma carceri. Bonafede: “né manettari né buonisti, ma equilibrati” di Domenico Bruni Il Secolo d’Italia, 4 agosto 2018 “Lo schema di Decreto legislativo adottato l’altro ieri dal Consiglio dei Ministri è un buon punto d’equilibrio dei due principi contenuti nel contratto di Governo: certezza della pena e dignità della sua espiazione. Partendo da un presupposto irrinunciabile: il rispetto del Parlamento”. Lo sottolinea il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, su Facebook. “Il vecchio governo, infatti, aveva deciso di ignorare i rilievi fatti dalle Camere - anche dagli stessi componenti dell’allora maggioranza - e di portare ugualmente avanti lo stesso testo. E, dopo aver perso le elezioni, di proseguirne l’iter. Il Governo Conte, invece - prosegue - ha deciso di dare ascolto e valenza a quanto espresso dalle commissioni parlamentari della nuova legislatura, che hanno dato parere contrario al provvedimento. Una decisione presa senza alcun pregiudizio ideologico, tanto che abbiamo deciso di salvare quanto abbiamo trovato condivisibile del vecchio provvedimento, cancellando ovviamente le parti su cui non eravamo affatto d’accordo. Anche questo è il governo del cambiamento”. “Così, nel nuovo schema, abbiamo bloccato l’allargamento di benefici concessi anche a chi ha commesso reati gravi. Ma, di contro, abbiamo ammesso quei punti che consentiranno un miglioramento della vita dei detenuti. Fra questi, ad esempio - aggiunge Bonafede - la semplificazione delle procedure per l’accesso alle misure alternative, ma solo per chi se lo merita. L’assunzione di mediatori culturali e interpreti che agevolino la vita in carcere dei detenuti stranieri evitando così la creazione di tensioni che possano risultare pericolose. L’effettiva tutela dei detenuti vulnerabili, a rischio di sopraffazioni o aggressioni, all’interno delle carceri. Poi la formazione professionale, il lavoro, la partecipazione a progetti di pubblica utilità. L’accesso ad attività volontarie, culturali e all’istruzione”. Bonafede continua: “Per rendere ancor più dignitosa la detenzione, abbiamo affermato il diritto all’affettività attraverso il principio per cui si debba scontare la pena in un luogo vicino alla propria famiglia e abbiamo deciso di salvaguardare il ruolo delle madri, con particolare riguardo a chi ha figli disabili. Ciò a dimostrazione - osserva - che, come abbiamo sempre detto, le cose buone le portiamo avanti e non le accantoniamo solo perché a presentarle è stata un’altra forza politica”. “Il lavoro del ministero della Giustizia, e di tutto il Governo, ora è concentrato su quelle che per noi sono le priorità assolute: il sovraffollamento carcerario, l’assunzione di nuovi agenti della polizia penitenziaria, il lavoro come via maestra della rieducazione e del reinserimento nella società e il recupero dei minori. Avanti tutta”, conclude Bonafede. Riforma del carcere “ripescata”. Il Garante dei detenuti: penalizzate le misure alternative di Teresa Valiani Redattore Sociale, 4 agosto 2018 Il commento di Mauro Palma dopo il Consiglio dei ministri di ieri: “Non poteva essere diversamente: il governo in carica ha sempre sostenuto di non condividere l’approccio alle misure alternative né come elemento di progressiva graduale flessibilità dell’esecuzione penale e tantomeno come modalità di riduzione dell’affollamento in carcere”. Sarà ricordata come la riforma “che corre sul filo di lana”, l’intervento sul sistema carcere e sull’esecuzione penale italiana avviato 3 anni fa dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e che dopo un lungo e tormentato percorso a ostacoli è arrivato all’esame del nuovo governo. Quando ormai, come avvenuto in occasione di altre scadenze, si dava per scontato che il documento sarebbe finito al macero (la delega scade oggi) con un Consiglio dei ministri “in notturna”, convocato per le 20 di ieri, il documento è tornato sui banchi. Per l’ennesima volta la riforma è stata “ripescata”, questa volta, però, con forti tagli e cambi di rotta, nello spirito annunciato durante la campagna elettorale e confermato dall’orientamento del governo Lega-5Stelle. Dal decreto che il precedente governo non aveva varato sono sparite infatti le norme sul potenziamento delle misure alternative, cuore di tutto l’intervento che, seguendo il perimetro della delega, mirava a una gestione meno “carcero-centrica” dell’esecuzione penale, ampliando le possibilità di accesso alle misure di comunità. E potenziando, nel contempo, internamente, l’osservazione e il trattamento “personalizzato” dei detenuti per mirare alla responsabilizzazione e al recupero sociale del condannato. “Sul filo di lana della scadenza il governo ha approvato un decreto che dà corpo ad alcune delle deleghe ricevute un anno fa dal parlamento in materia penitenziaria - commenta il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Mancano alcuni punti di delega all’appello: l’assenza di tutti quelli relativi alle misure alternative e al loro possibile accesso e di quelli relativi all’abolizione di automatismi che attualmente ne precludono l’accesso rende il decreto approvato, in attesa di conoscerne il testo, comunque di “sapore” diverso da quanto prospettato con la lunga operazione degli Stati generali e portato avanti dal passato governo. Non poteva essere diversamente: il governo in carica ha sempre sostenuto di non condividere l’approccio alle misure alternative né come elemento di progressiva graduale flessibilità dell’esecuzione penale e tantomeno come modalità di riduzione dell’affollamento in carcere”. “Ci sono altre sedi per discutere di questa impostazione - prosegue il Garante - e comunque ci saranno altri momenti per esaminare come il governo intenda rispondere alle due esigenze che quei punti di delega intendevano affrontare: il primo riguardante la conoscenza della persona detenuta attraverso il suo graduale accompagnamento controllato e flessibile al ritorno all’esterno come fattore di garanzia di maggiore sicurezza; il secondo la restrizione della pena del carcere a quegli autori di reati per i quali essa ha una effettiva utilità e non si riduce a un mero (a volte breve) tempo sottratto per restituire la persona in condizioni peggiori di quando è entrata. Ma, altri punti di delega restano e non sono secondari: riguardano l’assistenza sanitaria, le articolazioni per coloro che in carcere hanno sviluppato disagio mentale, anche grave, la vita detentiva, il mantenimento delle relazioni affettive, i colloqui, il lavoro. Temi importanti annunciati nel titolo del decreto di ieri e sui quali è bene che il governo sia voluto intervenire”. “Nel frattempo proseguono il loro percorso di analisi parlamentare i decreti riguardanti la giustizia ripartiva e l’ordinamento minorile - quest’ultimo con la “pecca”, inutile e dannosa, dell’inserimento delle preclusioni previste dall’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario anche per i minorenni: una ‘pecca’ non attribuibile a questo governo perché così il decreto è stato formulato nella sua versione finale già nella passata legislatura. Ovviamente sul testo del decreto incardinato ieri e ancora non divulgato è bene attendere per esprimere un giudizio, che il Garante nazionale farà nelle sedi opportune: se, sottratte quelle parti, il resto è rimasto inalterato, allora forse era possibile una approvazione definitiva e non preliminare. Se, come suppongo e come sembra emergere dal comunicato del Consiglio dei ministri, anche queste parti sono state, almeno parzialmente riscritte, allora occorrerà leggerle con attenzione e ci dovrà essere il parere, consultivo ma obbligatorio, delle Camere e del Garante nazionale. Lo daremo con atteggiamento di piena apertura, nella convinzione che ogni miglioramento possibile della vita all’interno delle istituzioni chiuse è sempre un passo avanti nella linea della tutela dei diritti delle persone ristrette, della sicurezza della collettività, delle condizioni di lavoro di chi vi opera”. Pena da scontare vicino alle famiglie e sanità: garanti e capo del Dap si confrontano di Teresa Valiani Redattore Sociale, 4 agosto 2018 Prima riunione ufficiale, ieri a Roma, tra il coordinatore dei Garanti territoriali dei detenuti Anastasìa, una delegazione di Garanti territoriali e il nuovo Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Basentini. Anastasìa: “Dirigente molto disponibile, definiremo insieme anche le modalità di relazione, con una disciplina di riferimento a livello nazionale” “Abbiamo avuto un incontro cordiale, da questo punto di vista molto positivo perché il presidente si è detto molto disponibile ad ascoltarci e a confrontarsi con la realtà dei garanti territoriali e, di conseguenza, con le problematiche che emergono sul campo - spiega Stefano Anastasìa. In particolare, abbiamo sollevato, per quello che è di sua competenza, il problema della territorialità della pena e il fatto che i detenuti vorrebbero scontare legittimamente la pena in prossimità delle loro famiglie, così come scritto nell’Ordinamento penitenziario, punto ribadito nella riforma Orlando e ripreso anche dall’attuale governo. Poi abbiamo parlato di Sanità e questa era una delle ragioni del nostro incontro: assicurare al nuovo dirigente del Dap da parte nostra, soprattutto da chi è garante regionale, un impegno sulle Regioni perché facciano la loro parte”. Durante la riunione è stato programmato per la ripresa autunnale un incontro plenario con la partecipazione di Basentini ad una assemblea dei garanti territoriali “per conoscere un po’ meglio questa realtà e poi definiremo insieme le modalità di relazione perché a oggi ci sono protocolli sottoscritti da singoli garanti regionali con alcuni provveditori, ma non c’è una disciplina di riferimento a livello nazionale. Siamo d’accordo nel lavorare insieme per definire questa normativa”. “Ci è sembrata una persona molto disponibile - conclude Anastasìa, dentro i binari di quelli che sono i suoi poteri e per quello che è l’indirizzo politico-amministrativo. Abbiamo accennato anche alla riforma e lui ha ribadito la linea del governo che è di estrema prudenza sulle misure alternative al carcere: il motivo per cui hanno escluso dal decreto tutto quello che poteva rappresentare una alternativa, finanche la sospensione di pena per motivi di salute psichica che attualmente è all’esame della Corte costituzionale e che, sono convinto, sarà riconosciuta. Il codice penale prevede la sospensione della pena per gravi motivi di salute fisica e non anche psichica. È evidente che la Corte costituzionale parificherà le due condizioni”. Il governo infligge un colpo al cuore della riforma dell’Ordinamento penitenziario camerepenali.it, 4 agosto 2018 La delega non trova completa attuazione soprattutto nella parte complessivamente volta alla facilitazione dell’accesso alle misure alternative e alla eliminazione di automatismi preclusivi. Il prevedibile prende forma e si avvera. Dopo i pareri contrari delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato, il Consiglio dei Ministri emana lo schema di decreto sulla Riforma dell’Ordinamento Penitenziario che consta di soli 12 articoli, con una Relazione Illustrativa ed una Tecnica che chiariscono le scelte fatte. Si legge nelle Relazioni Ufficiali - che in forma bizzarra contengono anche molte parti barrate - che si è tenuto “…conto della volontà politica, sopravvenuta alla trasmissione del testo per la seconda lettura alle Camere …” e, pertanto, si è esercitata la delega solo per quanto previsto dal comma 85 della L.103/2017, alle lettere a) semplificazione delle procedure; d) osservazione scientifica della personalità della persona da condurre in libertà; i) disciplina dei collegamenti audiovisivi; l) riordino medicina penitenziaria e potenziamento dell’assistenza psichiatrica; m) esclusione del sanitario dal consiglio di disciplina; o) integrazione delle persone detenute straniere; r) responsabilizzazione dei detenuti; t) bisogni e diritti delle donne detenute; u) revisione del sistema delle pene accessorie. Restano senza alcuno sbocco normativo le lettere: b) revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative; c) revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative; e) eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o ritardano l’individualizzazione del trattamento; f) previsione di attività di giustizia riparativa; g) incremento delle opportunità di lavoro retribuito sia intramurario che esterno; h) previsione di una maggiore valorizzazione del volontariato; n) riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute; p) adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori; q) attuazione del principio della riserva di codice nella materia penale; s) revisione delle norme vigenti in materia di misure alternative alla detenzione al fine di assicurare la tutela del rapporto tra detenute e figli minori; v) revisione delle attuali previsioni in materia di libertà di culto e dei diritti ad essa connessi. L’Unione Camere Penali, con il proprio Osservatorio Carcere, denuncia che la montagna, con responsabilità politiche trasversali, ha partorito un topolino. Il precedente Governo avrebbe avuto tutto il tempo di approvare quella Riforma che dal 2013 non solo l’Europa ci ha chiesto, ma che era necessaria ed urgente. L’attuale non ha tenuto conto di gran parte del lavoro svolto in cinque anni da oltre duecento persone addette ai lavori, motivate esclusivamente dall’aspirazione di consentire all’Esecuzione Penale di rispettare i principi costituzionali, i trattati internazionali, gli studi e le statistiche di settore. Lo schema di decreto licenziato, inoltre, pur nella timida e parziale adesione alla Delega necessita comunque di una concezione culturale diversa della “persona detenuta”, tradita dalla volontà politica di non voler modificare un’impostazione carcero-centrica in netto contrasto con la responsabilizzazione e la rieducazione del ristretto. Il topolino, pertanto, nasce privo di anticorpi e se non vi sarà questa “rivoluzione culturale” (a cui spesso ha fatto riferimento il precedente Ministro della Giustizia, senza tentare di attuarla) è destinato a morire. L’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, circa quattro anni fa, ha aggiunto ai suoi obiettivi principali quello di “avvicinare l’opinione pubblica alle problematiche relative alla detenzione, per una grande sfida culturale di modifica del concetto di esecuzione della pena” e ha proposto al Ministero della Giustizia una campagna pubblicitaria istituzionale per educare i cittadini a conoscere la Costituzione e l’Ordinamento Penitenziario. Dopo inutili riunioni nulla fu fatto ed oggi certamente è troppo tardi. Il buio totale sulla detenzione in Italia è molto vicino. I suicidi aumentano. Un detenuto di 21 anni si è impiccato, lo scorso 30 luglio, pur avendo un fine pena il prossimo 9 settembre. Le Camere di Consiglio per gli appelli al Tribunale per il Riesame di persone detenute, pur se il Codice prevede che la decisione debba essere presa entro 20 giorni, vengono fissate in alcune Corti di Appello dopo mesi, per l’eccesso di procedimenti. Il termine non è perentorio ed allora che importa valutare subito se un individuo è privato della libertà con un provvedimento che potrebbe essere modificato? In questa penombra, l’Unione Camere Penali continuerà ostinatamente a lottare perché la Giustizia in Italia non continui ad essere un azzardo che “nuoce gravemente alla salute”. La Giunta dell’UCPI L’Osservatorio Carcere UCPI Trans si suicida in carcere. La situazione delle detenute trans in Italia gaypost.it, 4 agosto 2018 Sale a undici il numero dei suicidi avvenuti in carcere da inizio anno. L’ultima vittima è una trans di trentatré anni: si è tolta la vita lo scorso martedì nel carcere maschile di Udine. Non era la prima volta che veniva rinchiusa lì, nella Casa Circondariale di via Spalato: era rientrata da poche ore quando è stata trovata ormai priva di vita nel bagno della sua cella. Forse è in questo ritorno dietro alle sbarre che si possono cercare i motivi del suo gesto. 58 transessuali nelle carceri italiane - Secondo una relazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute (scaricabile qui), le persone transessuali attualmente presenti nelle carceri italiane sarebbero cinquantotto. Queste persone sono attualmente censite in 10 sezioni a loro riservate e sono tutte collocate in istituti maschili. “Il Garante nazionale -si legge nella relazione- ha da tempo espresso l’opinione che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica”. In altre parole, bisognerebbe dare priorità alla percezione soggettiva dei diretti interessati (detenute/i), quindi alla loro identità di genere, piuttosto che basarsi semplicemente sui documenti anagrafici. MIT: “Il vero problema è dopo il carcere” - “La vita da detenuti è complicata di suo. Per le trans, lo è di più - commenta Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Movimento Identità Trans. In carcere sono isolate due volte perché sono tenute in sicurezza rispetto agli altri detenuti ma non godono neanche dei vantaggi, se così li vogliamo chiamare, degli altri detenuti”. Tuttavia, se la vita nel carcere è difficile, la situazione all’esterno è ancora più preoccupante per la mancanza di strutture e servizi dedicati: “I problemi - prosegue - che poi spingono alla depressione e a queste situazioni estreme [riferendosi all’ultimo caso di cronaca, ndr], sono nel dopo-carcere, di cui nessuno si preoccupa. Le persone trans non hanno reti familiari alle spalle, soprattutto quelle immigrate, per cui vengono abbandonate a se stesse. Un paese civile dovrebbe pianificare dei percorsi, invece il tutto è affidato alla sensibilità di gruppi, di associazioni, di persone che fanno volontariato”. La Lega vuole abolire la legge Mancino sui reati di opinione La Stampa, 4 agosto 2018 Gelo dei Cinque Stelle: “Non si cambia”. La proposta del ministro Fontana rilanciata da Salvini. Alt di Di Maio e Conte. La comunità ebraica: strumento necessario. È gelo nel governo sull’abrogazione della legge Mancino sui reati di opinione. È il ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana, a rilanciare una vecchia battaglia della Lega e “chiodo fisso” di Matteo Salvini, a sostegno della quale il partito di via Bellerio raccolse anche le firme, nella primavera del 2014. A Fontana fa subito sponda il ministro dell’Interno. “Alle idee, anche le più strane, si risponde con le idee, non con le manette”, dice Salvini. Salvo poi precisare che le “priorità della Lega e del governo sono lavoro, tasse, giustizia e sicurezza”, mentre “evitare di processare le idee nel nome della libertà di pensiero è una battaglia giusta ma certo non una priorità”. Lo stop del M5S - Sull’argomento era nel frattempo intervenuto Luigi Di Maio a “frenare” e rammentare che l’abrogazione della legge Mancino “non è nel contratto di governo. È uno di quegli argomenti usati per fare un po’ di distrazione di massa che impedisce di concentrarsi al 100% sulle reali esigenze del Paese: lotta alla povertà, lavoro e imprese”. A Di Maio ha fatto eco il premier, Giuseppe Conte ricordando che “l’abrogazione della legge Mancino non è prevista nel contratto di governo e non è mai stata oggetto di alcuna discussione o confronto tra i membri del governo. Personalmente credo che il rispetto delle idee sia un valore fondamentale di ogni sistema democratico, ma allo stesso modo ritengo che siano sacrosanti gli strumenti legislativi che contrastano la propaganda e l’incitazione alla violenza e qualsiasi forma di discriminazione razziale, etnica e religiosa. In questo momento - ha aggiunto Conte - il governo deve lavorare e impegnarsi su molti fronti caldi: rilancio dell’occupazione, riforme strutturali che consentano la crescita economica e lo sviluppo sociale del Paese. Concentriamo su questi obiettivi il nostro impegno”. La protesta del Pd - Subito dopo le dichiarazioni di Fontana la sinistra era insorta, con il Pd che aveva parlato di “governo “nero”“, accusato i leghisti di “fascismo” e Liberi e uguali che aveva chiesto un passo indietro di Fontana. Il ministro veneto era stato netto su Facebook. “I fatti degli ultimi giorni rendono sempre più chiaro come il razzismo sia diventato l’arma ideologica dei globalisti e dei suoi schiavi (alcuni giornalisti e commentatori mainstream, certi partiti) per puntare il dito contro il popolo italiano, accusarlo falsamente di ogni nefandezza, far sentire la maggioranza dei cittadini in colpa per il voto espresso e per l’intollerabile lontananza dalla retorica del pensiero unico”, aveva scritto su Facebook. “Una sottile e pericolosa arma ideologica studiata per orientare le opinioni”, aveva aggiunto. Una battaglia storica della Lega - L’abrogazione della Legge Mancino, rilanciata dal ministro delle Famiglia, è una storica battaglia della Lega, “chiodo fisso” di Salvini. Nella primavera 2014, il “capitano” milanese, da pochi mesi alla guida di via Bellerio, presentò come suo primo manifesto politico anti-Renzi cinque referendum, tra cui vi era proprio l’abrogazione delle legge sui reati di opinione. A sostegno dei referendum, l’allora neo segretario leghista raccolse le firme, non riuscendo però a raggiungere per alcun quesito il quorum delle 500 mila sottoscrizioni. Gli altri referendum erano a favore dell’abolizione della Legge Fornero sulle pensioni (l’unico quesito che si avvicinò al quorum), l’abrogazione della Legge Merlin, la cancellazione delle prefetture e delle norme che consentono agli immigrati di partecipare ai concorsi pubblici. Il 17 settembre scorso, al raduno di Pontida, Salvini aveva rilanciato il progetto mai accantonato. “La Lega al governo proporrà un progetto di legge per avere giudici eletti direttamente dal popolo. E chi sbaglia paga. E siccome siamo un movimento nato per la libertà, cancelleremo la legge Mancino e la legge Fiano. Le storie e la legge non si processano”, aveva scandito nell’ultima Pontida pre-governativa. “Fanno il processo al ventennio mussoliniano - aveva aggiunto - e poi si comportano come il regime nel 1925 che imbavagliava chi non la pensava come volevano”. L’intervento della Comunità Ebraica - Per la Comunità Ebraica di Roma, “la legge Mancino è uno strumento necessario per combattere i rigurgiti di fascismo e antisemitismo”, e come tale va quindi difesa e non abrogata. “Grazie alla normativa vigente - sottolinea un comunicato - è stato possibile alla magistratura individuare e colpire i gruppi neonazisti che progettavano azioni antisemite come avvenuto per Militia e per Stormfront i cui protagonisti, che progettavano anche di colpire fisicamente membri della Comunità Ebraica, sono stati arrestati e condannati in virtù di questa legge”. Inequivocabili le parole contro la proposta di Fontana: “Se si accetta l’incarico di Ministro della Repubblica di questo Paese lo si deve fare coscienti della storia e della responsabilità, evitando boutade e provocazioni stupide. Soprattutto a ottant’anni dalla promulgazione delle Leggi Razziali sarebbe bene comprendere come combattere le discriminazioni invece che strizzare continuamente l’occhio ai neofascismi”. Noemi Di Segni Laufer, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane chiede al Presidente del Consiglio, Conte, “se la proposta di abrogazione della Legge Mancino lanciata dal ministro Fontana corrisponde a un progetto del Governo italiano che dirige”. Perché “sono parole che offendono profondamente quanto si è inteso difendere a seguito di gravissimi episodi neonazisti e neofascisti e di grave recrudescenza negli Anni Ottanta, e peraltro ribaditi dalla Decisione comunitaria che focalizza i medesimi atti di odio, approvata anche dal nostro Paese”. Per la Comunità ebraica, in conclusione, “questi presidi normativi vanno semmai rafforzati e da tutti difesi, senza al contrario alimentare ulteriori paure e rancori sociali”. L’Arci: ennesimo colpo allo stato di diritto - “Le parole di Fontana infliggono l’ennesimo colpo allo stato di diritto e dimostrano che a Palazzo Chigi siedono ministri razzisti, che vogliono fare carta straccia della Costituzione e della nostra democrazia faticosamente conquistata: non lo permetteremo e cercheremo in tutti i modi che ci sono propri di fermare questa intollerabile deriva” afferma Francesca Chiavacci presidente nazionale dell’Arci. “Fontana, dopo le infelici dichiarazioni sul tema dei diritti delle famiglie gay, oggi aggiunge la proposta di abrogazione della legge Mancino, definendola una normativa anti-italiana - ricorda Chiavacci - Prima di tutto vogliamo ricordare al ministro che per assumere il suo incarico ha giurato, come gli altri esponenti del Governo, sulla Costituzione che dall’antifascismo nasce e trae ispirazione. Il ruolo che ricopre fa assumere alle sue dichiarazioni un peso diverso che se pronunciate da un normale cittadino. Ma di ciò non sembra rendersi conto”. Tra l’altro, osserva la presidente dell’Arci, “la sua proposta fra l’altro cade in un momento in cui le parole d’odio del ministro Salvini hanno scatenato le peggiori pulsioni razziste come dimostra la sequenza di aggressioni ai danni delle persone straniere. È evidente poi come le formazioni che si richiamano apertamente al fascismo e al nazismo hanno rialzato la testa, moltiplicando le iniziative provocatorie e violente. Tutto ciò richiederebbe un’applicazione puntigliosa della legge Mancino e un suon rafforzamento, certo non la sua abrogazione”. Gay Center: sarebbe un via libera a discriminare - “Se pur la legge Mancino non tutela tutte le minoranze, è oggi l’unico strumento normativo a supporto delle vittime di discriminazione e violenza, abolirla significherebbe dare il via libera a discriminare” spiega Fabrizio Marrazzo Portavoce Gay Center e Responsabile Gay Help Line. “Riteniamo invece che la legge Mancino - aggiunge - vada ampliata anche per le persone lesbiche, gay e trans e per sostenere le vittime che hanno il coraggio di denunciare. Ricordiamo che al nostro numero verde Gay Help Line 800713713 ogni anno ci contattano oltre 20 mila persone vittime di discriminazione e solo 1 su 40 pensa che denunciare sia utile. Infatti, ad oggi non esistono da parte dello stato strumenti di sostegno che diano la giusta protezione alle vittime che denunciano”. Il ministro della propaganda prova con la legge Mancino di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 agosto 2018 Il leghista Fontana. Salvini lo copre, Conte deve smentirlo, M5S in imbarazzo. E allora “non è prioritario”. “In questi strani anni”, sostiene Lorenzo Fontana che a forza di sparate omofobe e integraliste è diventato ministro della Repubblica - per quanto senza portafoglio e incapace fin qui di muovere un atto - “la legge Mancino si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”. Per questo vuole abolirla, e il desiderio era noto visto che Salvini lo ha ripetuto in tutti i comizi della campagna elettorale e la Lega ha anche tentato, invano, di raccogliere le firme per un referendum abrogativo contro la Mancino quattro anni fa. Ora però i leghisti sono al governo, e via social - Fontana ha scritto su Facebook e Salvini ha reagito su Twitter - dettano l’agenda se non delle iniziative concrete almeno della propaganda. Il ministro della famiglia, in questo modo, conquista l’audience del pomeriggio estivo, anche più di quanto era riuscito a fare con le sue precedenti uscite anti gay. In realtà dovessero contare solo sulla legge Mancino, i “globalisti” odiati da Fontana sarebbero spacciati. La legge che dal 1993 sanziona chi compie atti di violenza “per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” o diffonde “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale” o infine “incita a commettere atti di discriminazione”, è stata applicata dai giudici con mano assai leggera. Tanto che anche atti chiaramente riferiti all’ideologia neofascista - come il saluto romano e o l’esibizione della croce celtica - sono stati fatti rientrare nella più generale tutela della libertà di espressione. Anche le disposizioni che prevedono lo scioglimento delle formazioni neofasciste - principio previsto dalla Costituzione e diventato applicabile con la legge Scelba nel 1952 - sono state messe in pratica assai raramente (un paio di casi) perché richiedono una sentenza di condanna passata in giudicato. La legge Mancino ha introdotto anche la possibilità di una “sospensione cautelare” di queste formazioni neofasciste prima della sentenza (mediante un richiamo alla legge Anselmi sulle logge segrete e solo in caso di episodi di violenza razzista), ma anche qui la scelta politica è stata quella di evitare di regalare il comodo ruolo di vittima ai gruppi dell’estrema destra con un seguito scarso. Poi questi gruppi o i loro amici leghisti sono arrivati al governo. E non si sono dimenticati la battaglia per abolire la legge Mancino. Anche se per il momento resterà un desiderio. Poco dopo l’uscita del ministro Fontana, infatti, al presidente del Consiglio Conte è stato spiegato che era indispensabile uno stop immediato. Preceduto di pochi minuti dal vicepresidente del Consiglio Di Maio - “l’abolizione della legge Mancino non nel contratto di governo”, Conte ha detto che “gli strumenti legislativi che contrastano la propaganda e l’incitazione alla violenza e qualsiasi forma di discriminazione razziale, etnica e religiosa sono sacrosanti”, chiudendo - almeno per il momento - il discorso. Matteo Salvini, che nel frattempo si era spinto a coprire il suo fedelissimo Fontana, confermando l’obiettivo leghista dell’abolizione “perché alle idee, anche le più strane, si risponde con le idee e non con le manette”, è stato costretto a ripiegare sull’argomento che “l’abolizione della legge Mancino non è una priorità”. Lo stesso ministro dell’interno, del resto, per le sue uscite anti migranti è stato denunciato almeno in un caso recente per violazione della Mancino (da Roberto Speranza), mentre in passato era stato sottoposto a indagine per violazione di quella legge proprio su iniziativa di un ufficio del Viminale, che adesso guida. Se dal M5S sono arrivati chiari segnali di insofferenza verso l’iniziativa leghista - il presidente della camera Fico ha detto che la legge non si tocca, il sottosegretario Spadafora ha aggiunto che andrebbe casomai allargata contro l’omofobia - il capo leghista si è parimenti mostrato irritato per aver dovuto mordere il freno. E ai suoi ha dato indicazione di insistere. E così Fontana, in chiusura di giornata, con un video ha confermato tutto: “Non è una priorità del governo ma una riflessione sulla Mancino va fatta, non è uno strumento per combattere il razzismo ma per fare propaganda ideologica”. Propaganda senz’altro. Abolire la legge Mancino? Idea giusta e molto sbagliata di Piero Sansonetti Il Dubbio, 4 agosto 2018 I reati di opinione non dovrebbero esistere ma proporre disco verde al razzismo mentre un’ondata razzista attraversa l’Italia, è una provocazione che non si addice a un ministro. Non datemi, se potete, dello schizofrenico, ma io penso che sia sommamente giusta e sommamente sbagliata la richiesta del ministro Fontana di abolire la legge Mancino. Giusta, perché trovo giusta ogni proposta di abolire i reati di opinione, e la legge Mancino punisce i reati di opinione. Sbagliata per la sua strumentalità: proporre l’abolizione di una legge che persegue il razzismo, in un momento nel quale il paese vive un’ondata evidente di razzismo, è qualcosa che facilmente potrebbe essere letta come una promessa di protezione per i razzisti. E questo, specialmente se l’iniziativa viene da un ministro della Repubblica, è una cosa sbagliata, pericolosa e abbastanza grave. Che oltretutto non aiuta certo quelli che si adoperano per sostenere la tesi che la Lega non sia un partito razzista o xenofobo. Non sto distinguendo tra principi e opportunità. Più precisamente distinguo tra diritto e politica. Sul piano del diritto non me la sento di indignarmi per la proposta di Fontana. Sul piano politico, un pochino, sì. Che un ministro, proprio nel giorno nel quale in Campania un razzista spara a un nero e lo ferisce, senta l’urgenza di prendere qualche iniziativa per contrastare “l’ipocrisia antirazzista”, beh, a me pare una provocazione, una pura provocazione, e non di quelle che aiutano il paese a crescere. Abbiamo bisogno di ministri che invece di occuparsi di come governare pensano a quale provocazione gettare sul tavolo? Può darsi, ma ne dubito. Mi pare di aver capito che anche Salvini abbia preso le distanze dalla dichiarazione di Fontana, proprio per un motivo di contingenza politica. La Lega su questo terreno deve uscire da ogni ambiguità. Non può protestare, offesa, ogni volta che la si accusa di razzismo - probabilmente esagerando - se poi i suoi esponenti si espongono volontariamente con le loro dichiarazioni a queste accuse. Quanto invece alla questione specifica, sollevata da Fontana, da molti anni penso che la Legge- Mancino non sia una legge liberale. Così come non era liberale la legge originaria (quella modificata e allargata, nel 1993, dalla legge Mancino) e cioè la legge Scelba. Voi sapete che il ministro Scelba è considerato dagli storici uno degli esponenti più autoritari, e anche reazionari, della Democrazia Cristiana degasperiana e post- degasperiana. Fu proprio lui, nel 1952, a scrivere la legge che puniva l’apologia di fascismo. Erano anni di grandi tensioni politiche e sociali. Fortissime manifestazioni di piazza, dei sindacati e delle sinistre, scontri con la polizia, feriti, anche diversi morti. Scelba era noto soprattutto per il suo anticomunismo, e per la mano forte con la quale guidava la polizia. La Legge sull’apologia di fascismo - che andava in controtendenza - fu una specie di legge-pilota, o legge- esca. Era una specie di progetto per mettere fuorilegge il Msi, e cioè il partito neofascista, in gran parte composto da ex gerarchi, che era nato cinque anni prima. Ma mettere fuorilegge il Msi (che ha sempre oscillato attorno al cinque-sei per cento dei voti), sarebbe stato, a sua volta, un’altra iniziativa pilota. Scelba, in verità, non aveva mai osato prender di petto la questione, ma non escludeva, nel caso di un precipitare delle tensioni politiche, l’opzione della messa fuorilegge del Pci, che invece rappresentava addirittura un quarto dell’elettorato. L’idea di tagliare le ali, destra e sinistra, anche sul piano della legalità, probabilmente, Scelba non l’ha mai abbandonata. E la legge sull’apologia di fascismo, nasce da questa idea, o - se vogliamo sfumare - da questo retro-pensiero. L’argomento ideale che sosteneva la legge Scelba, e successivamente la legge Mancino (che ha esteso il reato di apologia di fascismo all’apologia di razzismo), è semplice: la tolleranza ha un limite, e questo limite è l’intolleranza degli altri. E cioè, in soldoni: le ideologie intolleranti non possono essere tollerate. A me è sempre sembrato, questo principio, una gran contraddizione. La tolleranza a sovranità limitata, a mio parere, non è tolleranza. La tolleranza vive davvero quando garantisce i diritti dei nemici più feroci, non quando protegge, agevolmente, gli amici. Naturalmente l’eventuale abolizione della legge Mancino comporta un notevole inconveniente. L’impossibilità di punire quelli che gli americani chiamano i reati d’odio, cioè i delitti razzisti. Ma gli americani considerano l’odio una aggravante del reato, che però esiste solo quando esiste il reato specifico: omicidio, lesioni, violenza. Mentre la legge Mancino immagina l’odio come reato a sé stante. Capite che la differenza è enorme. Una cosa è se io dichiaro il mio razzismo, senza danneggiare nessuno. Una cosa diversa è se commetto un reato e lo commento con una motivazione razzista. Che la motivazione sia un’aggravante non mette in discussione la tolleranza, e non configura un reato di opinione. Certo, se ci avviamo in questa discussione, dovremmo affrontare poi altre questioni molto complesse. Come i reati associativi, che puniscono la partecipazione (spesso molto difficile da provare) ad una associazione anche se non si è commesso nessun reato specifico (omicidio, violenza furto, ricatto, truffa…). Discussione legittimissima, ma che temo non c’entri molto con la dichiarazione del ministro Fontana. Il quale, forse, dovrebbe convincersi che se lo hanno chiamato a far parte di un governo, ora deve fare il mestiere di ministro, e non di capomanipolo dell’ala più estrema e radicale della Lega. Minori: assistenza anche per le detenute che non collaborano di Andrea Alberto Moramarco Guida al Diritto, 4 agosto 2018 Corte costituzionale in primo piano questa settimana. Con due importanti sentenze i giudici delle leggi hanno dichiarato illegittimo l’articolo 21-bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui subordina il beneficio per la madre detenuta dell’assistenza esterna ai figli minori di 10 anni alla scelta di collaborare con la giustizia; e precisato che va applicato anche ai lavoratori autonomi iscritti alle gestioni previdenziali di artigiani e commercianti il principio di neutralizzazione dei contributi dannosi, cioè quelli che abbassano la pensione. Corte costituzionale in primo piano questa settimana. Con due importanti sentenze i giudici delle leggi hanno dichiarato illegittimo l’articolo 21-bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui subordina il beneficio per la madre detenuta dell’assistenza esterna ai figli minori di 10 anni alla scelta di collaborare con la giustizia; e precisato che va applicato anche ai lavoratori autonomi iscritti alle gestioni previdenziali di artigiani e commercianti il principio di neutralizzazione dei contributi dannosi, cioè quelli che abbassano la pensione. Diritto di visita dei nipoti anche al nonno acquisito - Dei giudici di legittimità, invece, si segnalano per il diritto civile diverse e importanti sentenze. Tra queste spicca la pronuncia che ha esteso il diritto ad avere rapporti significativi con i nipoti anche a ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, coniuge o convivente di fatto, se questi si è dimostrato adatto a instaurare con il bambino una “relazione affettiva stabile”. Rilevante è poi la decisione che ha sottolineato che il contratto che origina l’usufrutto deve essere in forma scritta e deve essere stipulato con la partecipazione sia del soggetto che concede l’usufrutto sia del soggetto che acquista l’usufrutto, non essendo applicabile alla fattispecie l’articolo 1333 del Cc. Dalle Sezioni unite, poi, arrivano due puntualizzazioni: l’una in materia di giurisdizione, sussistendo danno erariale e cognizione della Corte dei conti se l’albergatore non versa al Comune i soldi della tassa di soggiorno; l’altra in materia disciplinare, non potendo nel procedimento innanzi al Cnf, a meno che l’indirizzo Pec non sia accessibile, la notifica della sentenza essere fatta presso gli uffici del consiglio forense. Continuazione di reati giudicati con riti diversi, sconto di pena solo per l’abbreviato - Per il diritto penale spicca la sentenza a Sezioni unite sulla continuazione di reati giudicati con rito ordinario e abbreviato: lo sconto di pena di un terzo si applica solo per i secondi. Importante è anche la prima decisione della Cassazione sulla legge 179/2017 in materia di whistleblowing, che ha escluso la tutela ivi prevista per il dipendente improvvisatosi investigatore per raccogliere, in violazione di legge, prove di illeciti nell’ambiente di lavoro. Si segnalano, poi, la pronuncia con cui i giudici di legittimità hanno confermato che rischia una condanna per molestie il venditore ambulante che cerchi di vendere il proprio prodotto in modo eccessivamente petulante; e la sentenza con cui la Suprema corte ha assolto dal reato di diffamazione, per la sussistenza dell’esimente del diritto di critica, un sindaco che aveva espresso su internet le sue ragioni circa una vicenda di interesse pubblico, che coinvolgeva gli interessi contrastanti dell’amministrazione comunale e di un privato, essendo il tema di un certo interesse e le dichiarazioni espresse in maniera appropriata e pertinente. Mandato d’arresto europeo: il rischio di trattamenti inumani blocca la consegna di Marina Castellaneta Guida al Diritto, 4 agosto 2018 Corte di giustizia dell’Unione europea - Sezione I - Sentenza 25 luglio 2018 - Causa C-220/18 PPU. Il 25 luglio, con due sentenze, la Corte Ue ha chiarito la portata delle eccezioni alla consegna, mandato di arresto europeo, nel caso in cui nel Paese di emissione vi siano rischi sul rispetto delle regole dell’equo processo. Giurisdizione - Mandato di arresto europeo - Consegna - Fiducia reciproca - Rispetto dei diritti fondamentali - Divieto di trattamenti inumani o degradanti - Situazione carceraria - Verifica sul caso concreto - Ricorso giurisdizionale interno - Irrilevanza. (Decisione quadro 2002/584/Gai, articoli 1, 5 e 6; Carta dei diritti fondamentali, articolo 4) Se l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione ritiene che sussista un rischio di trattamento inumano o degradante nello Stato di emissione non può procedere alla consegna anche se in detto Paese è ammessa la possibilità di un ricorso giurisdizionale per consentire all’interessato di contestare le condizioni di detenzione. L’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione deve effettuare un esame sulle condizioni concrete e precise della persona interessata, non limitata all’esistenza di violazioni sistemiche di carattere generale. Nel compiere tale verifica le autorità nazionali dovranno basarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi e debitamente aggiornati sulle condizioni di detenzione all’interno degli istituti penitenziari dello Stato membro. Il mandato di arresto europeo continua a porre diversi problemi applicativi soprattutto con riferimento alle possibilità per lo Stato di esecuzione di invocare eccezioni alla consegna in ragione di carenze nel sistema giudiziario e penitenziario nello Stato di emissione. Grazie agli interventi della Corte di giustizia dell’Unione europea e ai chiarimenti da essa forniti le autorità nazionali hanno a disposizione principi utili a garantire la corretta applicazione della decisione quadro n. 2002/584 sul mandato di arresto europeo e sulle procedure di consegna tra Stati membri (recepita in Italia con legge n. 69/2005), come modificata dalla decisione quadro 2008/909, conciliando le esigenze di lotta all’impunità con quelle della tutela dei diritti fondamentali. In particolare, il 25 luglio, con due sentenze, la Corte Ue ha chiarito la portata delle eccezioni alla consegna nel caso in cui nel Paese di emissione vi siano rischi sul rispetto delle regole dell’equo processo, con specifico riferimento al diritto a un giudice indipendente (causa C-216/18) e all’ipotesi di rischi di trattamenti inumani per le condizioni di detenzione nel Paese (C-220/18), così precisando le condizioni in cui può operare il no alla consegna, nel pieno rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Con la sentenza C-268/17, depositata nello stesso giorno, invece, la Corte ha affrontato una questione di minore rilievo precisando che la decisione di un pubblico ministero che dispone la chiusura delle indagini contro ignoti, in cui la persona richiesta è stata sentita come teste, non può essere invocata per rifiutare l’esecuzione del mandato di arresto nei confronti della persona oggetto del provvedimento. Alla luce di quanto precede conviene soffermarsi sulle prime due sentenze, partendo da quella che appare di più ampia applicazione ossia la C-220/18, incentrata sul rapporto tra esecuzione della consegna e condizioni carcerarie nel Paese di emissione. Il fatto - A rivolgersi alla Corte Ue è stato il Tribunale superiore del Land di Brema (Germania). La vicenda aveva al centro l’emissione di un mandato di arresto europeo emesso da un tribunale ungherese nei confronti di un connazionale, condannato in contumacia. Il ministero della Giustizia aveva indicato il luogo di detenzione, specificando che l’uomo non sarebbe stato sottoposto a trattamenti inumani o degradanti, assicurando così il pieno rispetto dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Arrestato in Germania e sottoposto a un arresto provvisorio ai fini della consegna, l’uomo si era opposto alla consegna e le autorità tedesche ritenevano di dover approfondire la parte del provvedimento in cui si ipotizzava il trasferimento in un istituto penitenziario diverso da quello indicato nella richiesta. Il Tribunale del Land di Brema, precisato che l’uomo non aveva un interesse meritevole di tutela a scontare la pena in Germania, Paese con il quale non aveva legami e del quale non parlava la lingua, riteneva di dover chiarire la questione circa la situazione di detenzione in Ungheria e si è così rivolto alla Corte Ue per avere un chiarimento sul rapporto tra situazione carceraria nel Paese di emissione ed esecuzione del mandato di arresto. Le carenze sistemiche nelle condizioni di detenzione e l’attuazione del mandato di arresto - Nodo centrale della vicenda è la corretta lettura dell’articolo 1, paragrafo 3, in base al quale l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i principi giuridici dell’articolo 6 del Trattato Ue prevale, in sostanza, sull’attuazione della decisione quadro. In particolare, si tratta di verificare se, per bloccare la consegna, lo Stato di esecuzione possa basarsi sull’esistenza di una generale situazione di deterioramento delle condizioni di detenzione nel Paese o se debba procedere a un esame caso per caso. Prima di tutto, la Corte di giustizia ha stabilito che la lettura e l’applicazione delle regole della decisione quadro devono avvenire nel pieno rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, applicabile in tutti i casi in cui venga in rilievo il diritto dell’Unione. E invero, l’articolo 4 della Carta, intitolato “Proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti” che, come precisato nelle Spiegazioni sulla Carta, corrisponde all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, impone all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione “qualora disponga di elementi comprovanti l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate delle condizioni di detenzione all’interno degli istituti penitenziari dello Stato membro emittente” di bloccare l’esecuzione. Questo, però, solo se sussiste un “rischio reale che la persona interessata da un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esecuzione di una pena privativa della libertà sia oggetto di un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 4 della Carta”. Chiarito il principio generale, però, la questione sollevata dai giudici tedeschi è incentrata sull’accertamento del pericolo e, in particolare, se sia sufficiente l’esistenza di un rischio generale per le strutture carcerarie del Paese o se sia necessario un accertamento specifico. I chiarimenti del Viminale sulla concessione del permesso di “soggiorno umanitario” Guida al Diritto, 4 agosto 2018 Il riconoscimento della protezione internazionale e la tutela umanitaria con la circolare 4 luglio 2018. Sono attualmente in trattazione circa 136.000 richieste di protezione internazionale: un numero significativo e con andamento crescente se si considera che lo scorso anno sono state presentate oltre 130.000 istanze di asilo, di gran lunga superiori ai 119.000 migranti sbarcati sulle nostre coste. La rilevante consistenza dei dati impone un’attenta azione riorganizzativa oltre ad una analisi prospettica della complessiva attività di valutazione delle domande di asilo. Il primo obiettivo riguarda la riduzione dei tempi per l’esame delle istanze, ai quali è strettamente collegata la durata della permanenza nei Centri di accoglienza; i lunghi tempi di attesa infatti, oltre ad essere lesivi dei diritti di chi fugge da guerre o persecuzioni, non consentendo un rapido riconoscimento della protezione internazionale, comportano rilevanti oneri a carico dell’Erario. Essenziale è quindi che i 50 Collegi valutativi, ubicati nelle diverse realtà territoriali, operino a ritmo continuativo (cinque giorni a settimana) sia a livello di Commissione, i cui Presidenti hanno ex lege un incarico esclusivo, sia a livello di Sezione i cui titolari sono altresì chiamati a svolgere ulteriori funzioni presso le Prefetture. Al riguardo i Signori Prefetti vorranno garantire, anche attraverso alternanze, la continuità dell’azione degli Organi decisori. Dal prossimo 9 luglio, i 250 funzionari amministrativi che stanno completando il percorso di formazione teorico applicativo saranno parte integrante dei Collegi, la cui nuova connotazione risulterà potenziata sia numericamente che sul piano specialistico. Considerato il notevole supporto che gli stessi daranno anche alle attività istruttorie ed amministrative, il cui carico fino ad oggi ha inciso negativamente sulle attività decisionali, dal nuovo assetto dovrà prioritariamente conseguire un tangibile segnale di contrazione dei tempi di esame delle istanze, per giungere, con progressiva sequenza, alla decisione delle pratiche pendenti e pervenire, quindi, all’ordinaria e rapida definizione del corrente. In merito poi al centrale aspetto degli esiti dell’attività delle Commissioni, i dati dell’ultimo quinquennio evidenziano che la percentuale del riconoscimento dello status di rifugiato è stata pari al 7%, quella della protezione sussidiaria al 15%; sono stati inoltre concessi permessi di soggiorno per motivi umanitari nella misura del 25%, aumentata al 28% nell’anno in corso. Com’è noto, tale istituto non afferente l’acquis comunitario, trova il proprio fondamento nell’Ordinamento nazionale, nell’art. 5, comma 6 del d.lgs. n. 286/1998 (T.U. immigrazione), che prevede la concessione del beneficio qualora “... ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, nei casi in cui non sussistono i requisiti per il riconoscimento di una forma di protezione internazionale. A differenza di quanto accade in altri Stati Membri, nei quali le tipologie di forme complementari di tutela sono espressamente e tassativamente individuate dalle norme e, pertanto concesse in casi limitati, la disposizione in esame, di carattere residuale rappresenta il beneficio maggiormente concesso dal Sistema nazionale. Nonostante l’avvenuto recepimento nel nostro Ordinamento della protezione sussidiaria, con cui hanno trovato tutela particolari situazioni soggettive e oggettive di vulnerabilità, la norma de qua è tuttora vigente ed ha, di fatto, legittimato la presenza sul territorio nazionale di richiedenti asilo non aventi i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale il cui numero, nel tempo, si è sempre più ampliato, anche per effetto di una copiosa giurisprudenza che ha orientato l’attività valutativa delle Commissioni. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato quindi concesso in una varia gamma di situazioni collegate, a titolo esemplificativo, allo stato di salute, alla maternità, alla minore età, al tragico vissuto personale, alle traversìe affrontate nel viaggio verso l’Italia, alla permanenza prolungata in Libia, per arrivare anche ad essere uno strumento premiale dell’integrazione. La tutela umanitaria, concessa inizialmente per due anni, viene di fatto generalmente rinnovata in assenza di controindicazioni soggettive, in via automatica e senza il pur previsto riesame dei presupposti da parte delle Commissioni. Reati contro la pubblica amministrazione. Più incerta la linea di confine tra le condotte di Carmelo Minnella Guida al Diritto, 4 agosto 2018 La Suprema corte aggiunge un ulteriore tassello interpretativo al puzzle della sussumibilità dell’asservimento della funzione pubblica agli interessi del privato, ove restano ancora incerti i confini tra la corruzione della funzione ex articolo 318 del Cp e la corruzione propria concernente l’atto contrario ai doveri d’ufficio punito dal successivo articolo 319. La Suprema corte aggiunge un ulteriore tassello interpretativo al già complesso puzzle della sussumibilità dell’asservimento della funzione pubblica agli interessi del privato, ove restano ancora incerti i confini tra la corruzione della funzione ex articolo 318 del codice penale e la corruzione propria concernente l’atto contrario ai doveri d’ufficio punito dal successivo articolo 319. La linea di confine tra le due fattispecie incriminatrici diventa così sempre più “mobile” e variabile a seconda dell’intensità del patto corruttivo posto in essere, con gravi problemi in termini di tassatività della norma penale e della sua accessibilità e conoscibilità da parte dei consociati, in aperto contrasto con l’articolo 25 della Costituzione e dell’articolo 7 della Cedu. La sentenza n. 26025 del 2018 si occupa di un caso di corruzione, con profili di estremo interesse sia sul versante sostanziale che su quello processuale, in cui un assessore e un dirigente di un Comune e l’amministratore di una cooperativa venivano condannati in primo grado per corruzione di atto contrario ai doveri d’ufficio in relazione a fatti verificatisi ante legge n. 190 del 2012 aventi a oggetto l’aggiudicazione di appalto per servizio assistenza sugli scuolabus, a cui l’extraneus forniva una serie di utilità. La decisione veniva parzialmente riformata in appello, in quanto il dirigente andava assolto, valorizzando il giudicato cautelare, così escludendo il rapporto di funzionalità necessaria delle determinazioni di proroga del servizio di assistenza sull’intesa corruttiva. Per altri due imputati i giudici di seconde cure riqualificavano il fatto nella corruzione della funzione descritta nell’articolo 318 del Cp, espungendo nella ricostruzione del fatto gli atti della procedura di affidamento contestati come illegittimi, ritenendo che l’assessore fosse a “libro paga” dell’imprenditore. Contrariamente a quanto possa sembrare a primo acchito, la pronuncia n. 26025 del 2018 non si pone in linea di discontinuità con la recente giurisprudenza di legittimità secondo cui, a partire dalla sentenza Bonanno (sezione Sesta, n. 3606 del 2017), in aperto contrasto con la ratio della novella del 2012 e con relativo orientamento che si era formato dopo la legge n. 190 del 2012, configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’articolo 318 del Cp) lo “stabile” asservimento del pubblico ufficiale a interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali. Essa rimane a metà strada in quanto parla di vendita della funzione “non stabile” (anche se non si comprende la differenza visto che lo stare a libro paga sembra evocare uno stabile mercimonio), la cui area di punibilità viene ricondotta (salvo le ipotesi in cui possa essere individuato un “determinato” atto contrario ai doveri d’ufficio) sotto l’ombrello dell’articolo 318 del Cp e non in quello dell’articolo 319 del Cp. Si tratta quindi di un parziale ritorno al passato, senza sconfessare, almeno per obiter dictum (avendolo citato in un passaggio, senza contraddirlo) il recente orientamento qualora oggetto del patto corruttivo sia la stessa funzione che viene “interamente” asservita agli interessi del privato. Il risultato finale è che la linea di confine tra le due fattispecie incriminatrici diventa sempre più incerta e variabile a seconda dell’intensità del patto corruttivo posto in essere, con possibili tensioni con il principio di tassatività della norma penale e della sua accessibilità e conoscibilità da parte dei consociati. La novella del 2012 - Anche per ridurre i notevoli margini di indeterminatezza di tali confini, ed eliminare zone grigie di mancata punibilità di certe aree di corruzione, la legge n. 190 del 2012 ha riformulato il delitto di corruzione impropria (legato cioè ad atto conforme ai doveri d’ufficio), sanzionando la condotta del “pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro a altra utilità o ne accetta la promessa”. Tale figura criminosa - come riconosciuto da coloro che hanno riscritto l’articolo 318 del Cp - è in grado di offrire copertura normativa sia alle ipotesi di corruzione impropria sia ai casi di corruzione per l’esercizio della funzione in cui non è individuabile un accordo avente a oggetto la “compravendita” dell’esercizio della stessa funzione del pubblico agente senza riferimento dunque a uno specifico atto. In tal modo si prende atto del processo di “smaterializzazione” dell’elemento dell’atto d’ufficio, nel quadro di una ridefinizione degli ambiti di applicazione delle vigenti figure di corruzione (Severino). Campania: il Garante dei detenuti incontra i nuovi vertici del Dap linkabile.it, 4 agosto 2018 Dichiarazione sui decreti delegati e i suicidi in carcere. Una delegazione di Garanti regionali e territoriali, alla quale ha preso parte Samuele Ciambriello, il Garante campano per le persone prive della libertà, ha incontrato oggi a Roma Francesco Basentini il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove ha dichiarato: “Abbiamo ritenuto importante incontrare i nuovi vertici del Dap perché è utile creare un buon clima di cooperazione istituzionale, rispettoso delle differenti funzioni che ciascuno di noi svolge. Ho apprezzato la disponibilità istituzionale del dr Basentini al quale vanno i nostri auguri di buon lavoro, un lavoro impegnativo. Soprattutto, in un clima di ascolto, abbiamo evidenziato le criticità del sistema penitenziario che speravamo potessero essere affrontate anche con l’approvazione della riforma penitenziaria.” “Non nascondo -ha dichiarato Ciambriello- un profondo senso di delusione per la mancata approvazione dei quattro schemi di decreto legislativo in attuazione della delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Una scelta certo di questa nuova maggioranza, ma la cui responsabilità ricade anche sulla maggioranza della precedente legislatura, che per timori infondati e spinte populiste, e forse anche per insipienza, ha ritardato oltre modo una riforma richiesta a gran voce da tutti gli operatori e volontari del settore. Una riforma, voglio ribadirlo, che non avrebbe diminuito la sicurezza dei cittadini, ma avrebbe solo contribuito a rendere più dignitose le condizioni di migliaia di persone ristrette. Sul testo del decreto incardinato ieri, e non ancora divulgato, è bene attendere per esprimere un giudizio. Ci saranno 90 giorni prima della sua approvazione definitiva, che consentiranno alle forze parlamentari, al Garante nazionale, ai garanti regionali e territoriali, agli esperti del settore di esprimersi anche, eventualmente, per proporre modifiche al testo”. Il Garante campano interviene poi sugli ultimi due suicidi nel carcere di Poggioreale, dichiarando :”Gli ultimi due drammatici suicidi avvenuti la scorsa settimana nel carcere di Poggioreale, nel quale sono ristrette 2.256 persone a fronte di una capienza di 1.659 posti, sono un pericoloso campanello di allarme per una situazione che di estate rischia di diventare ancora più critica. Per questo motivo, prosegue Ciambriello, attiverò i miei uffici e tutti i nostri volontari a fare il maggior sforzo possibile per monitorare anche nel mese di Agosto le condizioni negli istituti di pena campani, rese ancora più dure dal caldo implacabile di questi giorni”. Secondo i dati dell’Ufficio del Garante in Campania vi sono 7.410 detenuti su una capienza di 6161 posti, 376 donne e 986 immigrati. Udine: ennesima morte in carcere, il Ministro della Giustizia risponda di Davide Serafin possibile.com, 4 agosto 2018 Dalila si è uccisa appena dopo 4 ore dal suo ingresso nel carcere di Udine. Dalila era una giovane transessuale: doveva solo scontare una pena o una mera custodia cautelare, non perdere la vita. Schiacciato il principio di uguaglianza, perché una detenuta transessuale ha meno diritti a cagione della sua condizione. Schiacciato il principio rieducativo e risocializzante della pena, perché il carcere diventa per alcune categorie vulnerabili di detenuti, come le persone transessuali, un luogo di ulteriore segregazione, stigma, discriminazione. Calpestato il principio per cui nessuna pena deve consistere in un trattamento disumano e degradante, perché per una transessuale essere rinchiusa in una sezione maschile del carcere è di per sé una forma di tortura. Una questione allarmante visto che tutte le persone transessuali censite sono collocate in Sezioni Maschili senza che si tenga in alcuna considerazione la propria identità ed esponendole ad una serie di problematiche e discriminazioni aggiuntive rispetto agli altri detenuti. Il numero dei suicidi nelle carceri italiane, che è arrivato a quota 31 dall’inizio dell’anno, è preoccupante e indicativo di un sistema fallimentare e incapace di garantire la dignità dei detenuti ma anche di tutti gli operatori carcerari, in primis della polizia penitenziaria. La denuncia del sindacato Sappe sulla vicenda di Udine chiarisce che forse il suicidio di Dalila si poteva evitare: personale insufficiente per una efficace sorveglianza e un decreto mai emanato certificano le responsabilità del Ministero della Giustizia. La riforma dell’ordinamento penitenziario - finora osteggiata dal governo giallo-verde - deve necessariamente essere l’occasione per un intervento risolutivo anche su questa delicata materia che riguarda la dignità ed il rispetto dei diritti umani fondamentali ed inviolabili della persona. Vorremmo sentire parole e impegni chiari dal nuovo inquilino di Via Arenula, perché oggi il carcere è un luogo in cui la Costituzione muore e con essa tante, troppe persone. A questo deve necessariamente aggiungersi l’impegno a contrastare le discriminazioni multiple a cui sono soggette le persone in transizione in particolare per quanto riguarda il rispetto della propria identità di genere in ogni ambito e settore della vita pubblica, che sia in carcere, negli ospedali o nelle scuole e università. Paola (Cs): detenuto 75enne si lascia morire di fame in carcere di Vito Sansone agropolinews.it, 4 agosto 2018 Era rinchiuso in carcere e lì si è lasciato morire Gabriele Milito l’uomo che ad aprile aveva assassinato la moglie a Sapri nel golfo di Policastro. Forse sono stati i sensi di colpa o forse la depressione a portare alla morte Gabriele Milito, il ragioniere 75enne di Sapri che lo scorso 29 aprile ammazzò con un colpo di pistola nel sonno la sua seconda moglie Antonietta Ciancio. Secondo alcune indiscrezioni Milito, rinchiuso dalla fine dello scorso maggio nel carcere di Paola, rifiutava il cibo. Colto da malore pochi giorni fa, è stato trasferito nell’ospedale della cittadina calabrese dove è deceduto nel primo pomeriggio di ieri. La salma è ancora sotto sequestro ma dovrebbe essere liberata nelle prossime ore per la celebrazione dei funerali. L’uxoricidio destò sconcerto e scalpore in tutto il Golfo di Policastro. In tanti conoscevano il professionista saprese soprattutto per la serietà nel lavoro e per la sua irreprensibilità, anche se era molto nota la sua passione per la caccia e le armi. Il corpo della Ciancio fu scoperto solo il 2 maggio, all’interno dell’abitazione di Corso Garibaldi nel piano centro di Sapri, dai carabinieri allertati da alcuni familiari della vittima, preoccupati perché la 69enne insegnante elementare in pensione non rispondeva al cellulare da alcuni giorni. Dopo essersi tolto il pigiama ed essersi rivestito, l’ex ragioniere sarebbe uscito e rientrato più volte in casa. Gli inquirenti ipotizzarono anche che volesse suicidarsi perché la pistola, ritrovata a poca distanza dal cadavere della moglie riverso sul letto, aveva ancora il colpo in canna. Resosi irreperibile, Milito fu ritrovato in stato semi-confusionale nel tardo pomeriggio di quello stesso 2 maggio a circa mezzo chilometro di distanza dalla propria auto lasciata in panne al margine dell’ex statale 104, in una zona impervia nelle campagne di Medichetta di Rivello, grazie al lavoro dei carabinieri di Sapri e dei loro colleghi di Lagonegro. Milito era rimasto all’addiaccio per almeno un paio di giorni. Sottoposto ad interrogatorio l’ex ragioniere confessò di aver fatto partire il colpo mortale dalla sua Beretta calibro 7.65, che raggiunse la Ciancio alla nuca, ma per errore mentre maneggiava l’arma. Una tesi, questa, che non aveva mai convinto gli inquirenti. L’autopsia stabilì che il proiettile fu esploso da distanza molto ravvicinata. Dopo una quindicina di giorni passati nella casa circondariale di Potenza a Milito, difeso dagli avvocati Damiano Brandi e Felice Lentini, gli vennero concessi i domiciliari. La prima richiesta dei suoi legali fu di farglieli scontare in un’altra abitazione di sua proprietà, a Tortorella, centro collinare ad una quindicina di km da Sapri. Alla fine, però, fu deciso per un altro appartamento a Scalea. Qui l’uxoricida in due occasioni tentò di fuggire prima di essere arrestato dai carabinieri e condotto dietro le sbarre a Paola.Tutto questo fino al malore, alcuni giorni fa, ed alla morte. La fine di Milito non aiuta a fugare i dubbi su quale sia stato il reale movente dell’uxoricidio. C’è chi dice che lui e la Ciancio negli ultimi mesi non andassero più d’accordo e che l’ex insegnante originaria di San Severino Lucano, piccolo comune della provincia di Potenza, avesse manifestato la volontà di lasciarlo. Varese: il Comune “assume” i detenuti, ma senza stipendio La Prealpina, 4 agosto 2018 Un’iniziativa a favore della collettività e dell’ambiente. Chi sconta la pena potrà lavorare in città, ma senza stipendio. Una città più decorosa grazie ai detenuti. Una città con siepi che non invadono la strada e con parchi pubblici sempre più belli, con piccoli lavori per rendere Varese più pulita e ordinata. La giunta di Davide Galimberti ha dato il via libera alla convenzione con la casa circondariale dei Miogni per aprire le celle ai detenuti. Non a tutti, naturalmente, e non per sempre, ma a tempo. Attività lavorativa “a favore della collettività e dell’ambiente” e per il recupero “di spazi pubblici e aree verdi”. Un’iniziativa “che vorremmo far decollare al più presto, magari già a settembre, e per la quale stiamo mettendo a punto, con l’assessorato all’Ambiente di Dino De Simone e con l’assessorato ai Lavori pubblici di Andrea Civati, un piano di attività fattibile concretamente”, dice l’assessore alle Politiche giovanili e ai quartieri Francesca Strazzi. “Si tratta di un progetto sperimentale di un anno e rinnovabile, in base al quale i detenuti potranno lavorare ma non essere retribuiti, se non con le assicurazioni del caso e con i buoni pasto, se viene prevista l’attività per tutto il giorno”. L’assessore Strazzi ipotizza anche interventi “per la pulizia dei marciapiedi in caso di neve, per esempio”. Gli uffici sono quindi al lavoro per identificare le ipotesi di attività da concordare con la casa circondariale. Duplice l’obiettivo della convenzione, che si basa su un protocollo di intesa siglato dall’Anci, l’Associazione nazionale comuni italiani con il ministero della Giustizia-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Da una parte si offrono opportunità di lavoro ai detenuti che possono acquisire competenze spendibili quando il loro periodo di detenzione sarà concluso, dall’altro l’amministrazione svolgerà un ruolo di supporto per favorire l’integrazione tra la comunità e i soggetti a rischio sociale”. Piccoli lavori che potranno essere eseguiti al massimo per 5 giorni al mese dal singolo detenuto. Il lavoro sarà sempre coordinato e controllato dai funzionari dell’amministrazione comunale. Firenze: nuovi crolli nel carcere di Sollicciano, chiusi i cortili dei “passeggi” toscanaoggi.it, 4 agosto 2018 Ancora crolli nel carcere fiorentino di Sollicciano e, per sicurezza, sono stati chiusi i cortili dove i detenuti trascorrono le ore d’aria. A darne notizia è il Sappe, il sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Da alcuni anni, più di tre, il muro di cinta del carcere di Firenze Sollicciano è chiuso dopo il crollo di una parte di esso. Lunedì scorso - spiega il segretario toscano Pasquale Salemme, dopo che sono caduti nuovi calcinacci all’interno dei cosiddetti ‘cortili passeggi’, fatto un sopralluogo, la direzione del penitenziario e i tecnici hanno deciso di chiudere tutti e 13 i passaggi all’aperto”. Pertanto, i detenuti in questo momento “possono solo fruire dei locali coperti dedicati al passeggio, mentre la zona all’aperto è stata inibita” Donato Capece, segretario generale del sindacato, chiede che “si adottino subito interventi idonei per garantire la sicurezza e la salubrità della struttura. Tanto più che con il caldo di queste settimane i disagi sono del tutto evidenti e possono determinare situazioni di tensione. Pertanto, auspichiamo in un celere intervento dell’amministrazione penitenziaria”. Capece, infine, evidenzia come “quel che è accaduto a Sollicciano ci conferma che la tensione che caratterizza le carceri, al di là di ogni buona intenzione, è costante”. Oristano: “carcere, nessuna emergenza idrica, il razionamento fa risparmiare” di Eleonora Caddeo La Nuova Sardegna, 4 agosto 2018 La replica del direttore Pier Luigi Farci: “Un risparmio notevole di acqua e costi”. Nessuno spreco d’acqua dietro le sbarre del carcere di Massama. Tutt’altro, grazie alla misura di razionamento notturno della risorsa idrica, la casa di reclusione ha stimato un risparmio annuo pari quasi a 40mila euro. È questa la cifra con cui Pier Luigi Farci, direttore della struttura penitenziaria rispedisce al mittente le accuse, neanche troppo velate, dei sindacati riguardo al controsenso, quanto meno apparente, che poteva rappresentare da un lato la scelta di ottemperare da circa otto mesi all’ordine di servizio ministeriale di chiusura dei rubinetti dalle 23 alle 6 e, contestualmente, non prestare la dovuta attenzione agli interventi di manutenzione all’impianto idrico e agli arredi dei bagni. Il controsenso, se così fosse stato, sarebbe stato evidente, ma a quanto pare la realtà dei fatti, quanto meno quella raccontata dal direttore della casa di reclusione di Massama, è tutt’altra. Non ci sarebbe alcun guasto ai bagni e perdite dalle tubature, come sottolinea Farci: “Nel seminterrato non c’è alcuna perdita, semmai ci sono infiltrazioni”. E aggiunge: “Abbiamo una squadra di manutenzione molto efficace. I guasti sono continui, sia della struttura sia della rete Abbanoa, ma non è questo il caso”. E riguardo alla scelta di chiudere i cinque rubinetti generali della struttura dalle 23 alle 6 da oltre otto mesi il direttore non ha dubbi: “Abbiamo eseguito una disposizione ministeriale, che peraltro ci sta facendo raggiungere lo standard previsto, pari a mezzo metro cubo di acqua al giorno per detenuto”. A oggi la quantità consumata è di poco superiore come spiega Pier Luigi Farci, circa 600 litri a persona che, moltiplicati per cinquecento persone circa tra detenuti e operatori, significa 300mila litri al giorno. È come dire che il carcere consuma, al giorno, più o meno lo stesso quantitativo d’acqua contenuta in una corsia di una piscina olimpionica, e in una settimana, quasi l’intera piscina considerando che è composta da otto corsie. Un risparmio ottenuto grazie a questo razionamento, non solo idrico ma soprattutto economico, tutt’altro che trascurabile, ricorda Pier Luigi Farci: “Siamo attorno ai 40mila euro all’anno di risparmio”. Una cifra importante, se fosse effettivamente raggiunta, magari da poter reinvestire nelle spese di manutenzione ordinaria che, tenuto conto della struttura, per Massama, richiede una spesa di almeno 100mila euro, una stima arrotondata abbondantemente per difetto. Migranti. Nella bozza sull’operazione Ue manca l’indicazione dei porti di sbarco La Stampa, 4 agosto 2018 Il documento sulla revisione del mandato strategico dell’operazione Sophia, inviato nelle capitali da Bruxelles, il 27 luglio, non contiene una proposta sui porti di sbarco per i migranti salvati in mare. L’assenza ha lasciato sorpresa l’Italia, che alla riunione del Comitato politico e di sicurezza (Cops) di oggi, con altri Stati, ha chiesto al Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) di avanzare una proposta alla riunione del gruppo di lavoro della prossima settimana. Lo si apprende da fonti diplomatiche. Secondo quanto si apprende da altre fonti, nel documento, è stato lasciato uno spazio vuoto (quello che dovrà essere riempito dalla proposta), accompagnato da alcune righe, in cui si dichiara la necessità di trovare un accordo tra gli Stati, che sia in linea con i risultati del vertice europeo dei leader di fine giugno, e vada cioè nella direzione di una responsabilità condivisa. Alla riunione del Cops l’Italia è stata molto ferma nel ribadire la propria posizione secondo cui, con la fine della missione di Frontex-Triton, a febbraio (ora è sostituita da Themis), il piano operativo - che attualmente prevede che i migranti soccorsi siano sbarcati nei porto italiani - non può più essere considerato vigente, e quindi molto ferma sulla necessità di trovare una soluzione entro le cinque settimane concordate, al termine delle quali si riserva proprie iniziative. Al dibattito, un numero definito “importante” di Stati ha evidenziato che l’attuale piano operativo è valido fino a fine dicembre, e vorrebbe mantenerlo. Il lavoro sul mandato della missione Sophia continuerà con due riunioni del gruppo di lavoro e altri due Cops (il 21 e 28 agosto), mentre per il 29 agosto, a Vienna, è fissata la riunione informale dei ministri della Difesa dell’Ue. Gli sbarchi e il tweet di Salvini - “Hanno sprecato i loro soldi, saranno rimandati indietro nei prossimi giorni”. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, commenta così la notizia dell’arrivo a bordo di 13 “barchini” di 135 migranti a Lampedusa, quasi tutti tunisini. Ai microfoni di SkyTg24, aggiunge: “Voglio fare un decreto sicurezza ampio. Che tratti dei rimpatri veloci, riduzione costi 35 euro al giorno, revisione degli accordi con i Paesi da cui arrivano. Ora abbiamo accordi con quattro Paesi. Funziona quello con la Tunisia”. “Il nostro obiettivo - prosegue Salvini - è controllare i confini sud della Libia dei Paesi di partenza e di transito. Ma noi stiamo anche preparando un progetto che prevede almeno un miliardi di spesa e di investimento per sostenere l’economia e il lavoro di centinaia di migliaia di persone in Africa, soprattutto puntando sull’agricoltura, sulla pesca e sul commercio. Non basta chiudere, ma occorre dare prospettiva di produzione e di crescita in quei Paesi”. Per Salvini è anche necessario che l’Ue faccia la sua parte soprattutto con quei Paesi che non hanno firmato ancora un accordo per i rimpatri dei loro connazionali. “Il nostro governo ha chiesto all’Europa che qualsiasi accordo futuro comprenda anche i rimpatri. Accanto agli accordi commerciali con quei Paesi, dunque, si mette anche questo. Finora non è stato mai fatto”. Migranti. Diecimila cartoline a Salvini per denunciare le morti in mare Corriere della Sera, 4 agosto 2018 “Solo in cartolina” è la campagna di denuncia di un gruppo di giovani creativi italiani per raccontare cosa succede a largo delle coste italiane. “Solo in cartolina” è la campagna di denuncia contro le morti in mare di un gruppo di giovani creativi italiani per raccontare cosa succede a largo delle coste italiane. Le immagini mostrano barconi, naufraghi e mani che chiedono aiuto. Sullo sfondo ombrelloni, acque cristalline e turisti. Tra i sostenitori dell’iniziativa illustratori, designer, artisti e fumettisti, ma anche tanti cittadini che hanno voluto far sentire la propria voce. Alla campagna ha aderito anche il cantautore Colapesce inviando una storie inedita in cartolina. Per selezionare le 10 cartoline che verranno poi stampate in 1.000 copie ciascuna e recapitate al Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, i promotori dell’iniziativa hanno deciso di lanciare un contest sul sito www.soloincartolina.it. Svezia sotto choc, la polizia uccide un ragazzo disabile di Victor Castaldi Il Dubbio, 4 agosto 2018 Affetto da sindrome di down, aveva una pistola giocattolo. Eric Torell era un ragazzo di 20 anni affetto da autismo e sindrome di down, smarrito e incapace di far male a una mosca. La sua vita si è interrotta in un marciapiede di Stoccolma, abbattuto dai proiettili di una pattuglia di polizia. Un’esecuzione che ha scioccato l’opinione pubblica del paese scandinavo che chiede piena luce su questa tragedia. Secondo le forze dell’ordine il ragazzo stava camminando a notte fonda (erano le 4 del mattino) in una strada del quartiere Vasastan, una zona residenziale della capitale svedese, con una pistola giocattolo che avrebbe tratto in inganno gli agenti. Ma il padre della vittima replica tra le lacrime che tutto ciò è assurdo, visto che si trattava di un modello minuscolo per bambini di cinque anni. “È un fatto tragico e comprendo che molte persone sperino di ottenere delle risposte rapide”, ha dichiarato in una nota il procuratore generale, Martin Tide, incaricato dell’indagine per “errore professionale”. Tide ha poi provato a spiegare la dinamica dei fatti: “Il ragazzo era munito di un oggetto simile a un’arma, la polizia l’ha interpretata come situazione ostile e ha aperto il fuoco”. Ha poi aggiunto che al momento nessun agente di polizia è sospettato di alcun crimine. Il quotidiano locale Aftonbladet ha riferito che ad aver sparato contro Eric Torell sono stati tre poliziotti, praticamente una tempesta di piombo. Secondo la sua famiglia, il ragazzo aveva le capacità intellettuali di un bambino di tre anni e un’estrema difficoltà a comunicare: “Siamo completamente devastati e scioccati”, ha dichiarato a Katarina Soderberg, la madre del giovane ucciso. “Non sapeva essere minaccioso. Le uniche cose che sapeva fare erano coccolare e abbracciare”, ha aggiunto la donna. Anche il padre, Rickard Torell, non si capacita della tragedia. “Hanno detto che aveva un’arma finta, non è vero, era chiaramente un giocattolo, una pistola in miniatura per bambini di cinque anni, di plastica e non molto ben imitata”, ha detto al giornale Mitt i Stockholm. “Questa è una tragedia per tutti gli interessati, e rispetto e capisco che questo incidente provoca molta rabbia” si è invece lamentato il capo della polizia regionale Ulf Johansson. Ma la questione è un’altra: gli agenti non sono accusati di aver assassinato volontariamente il giovane disabile ma di una totale incapacità professionale di gestire la situazione e di contenere una persona del tutto inoffensiva. La Russia ci ha impedito d’incontrare in carcere il regista ucraino Oleg Sentsov amnesty.it, 4 agosto 2018 Le autorità russe hanno negato ad Amnesty International il permesso d’incontrare il regista ucraino Oleg Sentsov, detenuto in una colonia penale della regione artica e in sciopero della fame da oltre 80 giorni. “Impedirci d’incontrare Sentsov, che è quasi al terzo mese di sciopero della fame, è una pretesa indifendibile. Avevamo in programma di visitare Oleg insieme a un medico indipendente per esaminare il suo stato di salute. Per sciogliere ogni dubbio sulle condizioni di salute del detenuto e valutare l’adeguatezza dell’assistenza medica che gli viene fornita, questa visita rimane fondamentale”, ha dichiarato Oksana Pokalchuk, direttrice di Amnesty International Ucraina. “Amnesty International continua a chiedere l’immediato rilascio di Oleg Sentsov e chiede che, finché resterà in stato di detenzione, sia visitato da personale medico qualificato che gli fornisca cure mediche coerenti coi principi etici sanitari, tra i quali quelli della confidenzialità, dell’autonomia e del consenso informato. Le autorità russe dovrebbero inoltre consentire al personale del consolato ucraino di visitare il detenuto”, ha aggiunto Pokalchuk. Il 30 luglio 2018, l’ufficio di Amnesty International a Mosca ha ricevuto una lettera da parte di Valery Balan, vicedirettore della Direzione penitenziaria federale della Russia. Nella lettera, oltre a negare senza alcuna spiegazione il permesso di visitare Sentsov nella colonia penale di Labytnangi, si affermava che le sue condizioni di salute sono stabili e che non sono in atto “dinamiche negative”. Oleg Sentsov è un regista ucraino condannato a 20 anni di carcere, al termine di un processo iniquo, per “terrorismo”, solo per essersi opposto all’occupazione russa della Crimea. Dal 14 maggio 2018 è in sciopero della fame per protestare contro la detenzione, politicamente motivata, di decine di cittadini ucraini nella Federazione Russa.