Carceri, le misure alternative stralciate dalla riforma di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2018 Dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, approdata al Consiglio dei ministri di ieri sera, esce tutta la parte sulla facilitazione all’accesso delle misure alternative alla detenzione e all’eliminazione degli automatismi preclusivi alla concessione di forme attenuate di esecuzione della pena. Il decreto ha così in sostanza preso atto della “mutata volontà politica” già tradotta nei pareri parlamentari contrari alla prima versione della riforma. Nel testo del Dlgs, notevolmente alleggerito, resta la parte relativa all’assistenza sanitaria dei detenuti - compresi i ricoveri in strutture esterne al circuito carcerario - oltre a una serie di misure di semplificazione delle procedure, soprattutto in tema di revoca delle misure alternative quando il condannato venga raggiunto da altre sentenze definitive. Buona parte della riforma riguarda comunque il trattamento penitenziario dentro gli istituti, dove viene ribadito il divieto di ogni violenza fisica e morale sulla persona, il principio che ogni detenuto è portatore di diritti incomprimibili (divieto di restrizioni non indispensabili a fini giudiziari), è “non colpevole” sino a condanna definitiva, e ha diritto ad almeno quattro ore all’aria aperta ogni giorno. Il detenuto ha inoltre diritto a veder valorizzate le proprie attitudini e competenze, mentre rispetto al passato cambia del tutto l’approccio nei confronti del fatto commesso e del rapporto con le vittime del reato. Di fatto, il percorso di rieducazione previsto dalla Costituzione dovrà diventare “personalizzato” e di questo dovrà rimanere traccia nella scheda del detenuto, risultati compresi. Tra le nuove norme spunta anche il diritto di assegnazione all’istituto di pena più vicino alla stabile dimora della famiglia, per favorire la frequentazione affettiva, il diritto delle donne carcerate di tenere i figli fino all’età di tre anni (ma in asili nido organizzati a tal fine), e il diritto di ricevere istruzione, formazione professionale e di svolgere un lavoro. Ma tutto rigorosamente “dentro” il penitenziario. Il Cdm stoppa la riforma Orlando. Il Pd: “cancellate norme di civiltà” La Repubblica, 3 agosto 2018 Il ministro Bonafede: “Garantiamo certezza della pena e qualità della vita”. I dem: “Vanificato il lavoro di anni compiuto da volontariato ed esperti del settore”. Stop alla riforma delle carceri voluta dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Il governo la riscrive in un consiglio dei ministri terminato in tardissima serata. La riforma - che allargava i benefici per i detenuti - era stata avviata e poi messa in stand-by prima del voto quando probabilmente era sembrato rischioso portare fino in fondo un progetto ribattezzato dagli oppositori “salva-ladri”. E naturalmente quelle norme sono ora state spazzate via dall’esecutivo gialloverde. A urne chiuse, il 16 marzo, il Consiglio dei ministri - con Gentiloni ancora presidente del Consiglio - approvò il testo, ma senza modificare i punti più discussi su cui le Camere chiedevano interventi, accogliendo comunque alcuni emendamenti, il che ha reso necessario un altro passaggio in Parlamento e poi il ritorno in Consiglio dei ministri. Dove si è consumato come previsto lo stop, nonostante un intervento del presidente della Camera Fico, nei mesi scorsi. Ed è stato deciso di predisporre un nuovo testo da sottoporre al parere delle Camere e del Garante dei detenuti. Il guardasigilli, Alfonso Bonafede, assicura che “ministero e governo stanno lavorando per migliorare la qualità della vita nelle carceri garantendo comunque la certezza della pena. Abbiamo modificato il vecchio decreto salvando tutto ciò che poteva essere salvato. Le commissioni di Camera e Senato avevano dato parere negativo. E nel pieno rispetto della centralità del Parlamento, abbiamo colto il messaggio. Adesso, in tempi brevi, le Camere avranno la possibilità di esprimersi sul nuovo testo”. Quindi il precedente decreto legislativo che doveva attuare la riforma dell’ordinamento penitenziario sfuma e il governo ha il tempo di riprendere in mano l’intera materia. Non tutto della precedente riforma verrà cancellato, assicurano dal ministero guidato da Bonafede. Dovrebbe essere tutelata soprattutto la parte che riguarda l’incentivazione del lavoro dei detenuti. Ma sarà invece in gran parte affossato il cuore della del provvedimento Orlando, cioè le alternative al carcere. Il Pd parla di una decisione che cancella norme di civiltà. Per Walter Verini, responsabile Giustizia del Partito democratico, “il ministro Bonafede e il governo danno un colpo non solo a norme di civiltà che puntavano a garantire certezza della pena e alla rieducazione per evitare che chi sconta la pena torni a delinquere. Ma mortificano anche e vanificano il lavoro di anni compiuto da associazioni di volontariato, docenti, esperti, mondo dell’avvocatura e della magistratura”. Il governo M5S-Lega riscrive la riforma delle carceri di Samuele Cafasso lettera43.it, 3 agosto 2018 Il fulcro del provvedimento era l’estensione dell’esecuzione penale esterna come alternativa al carcere. Ed è qui che bisogna attendersi modifiche sostanziali. Il governo M5S-Lega mette da parte e riscrive la riforma del sistema penitenziario firmata Andrea Orlando, quella che il precedente esecutivo aveva prima promosso e caldeggiato, poi messo a bagnomaria e stoppato sotto elezioni, quando non era utile approvare un testo bollato dalla Lega come “salva-ladri”, che allargava le maglie dei benefici per i detenuti. A urne chiuse, il 16 marzo, il Consiglio dei ministri ci aveva riprovato e aveva approvato il testo, senza modificare i punti più controversi su cui le Camere chiedevano interventi, ma accogliendo comunque alcuni emendamenti, il che rendeva necessario un altro passaggio in parlamento e poi il ritorno in Consiglio dei ministri. Uno step, quest’ultimo, che si è consumato nella tarda serata del 2 agosto, con la decisione di predisporre un nuovo testo da sottoporre al parere delle Camere e del Garante dei detenuti. “Ministero e Governo - ha detto il guardasigilli Alfonso Bonafede - stanno lavorando per migliorare la qualità della vita nelle carceri garantendo comunque la certezza della pena. Abbiamo modificato il vecchio decreto, del vecchio governo che ci ha preceduto, salvando tutto ciò che poteva essere salvato. Le commissioni di Camera e Senato avevano dato parere negativo. E nel pieno rispetto della centralità del parlamento, abbiamo colto il messaggio. Adesso, in tempi brevi, le Camere avranno la possibilità di esprimersi sul nuovo testo”. Quindi il precedente decreto legislativo che doveva attuare la riforma dell’ordinamento penitenziario sfuma e il governo ha il tempo di riprendere in mano l’intera materia. Non tutto della precedente riforma verrà buttato via. In particolare la parte che riguarda l’incentivazione del lavoro dei detenuti rispecchia anche l’indirizzo espresso pubblicamente da Bonafede. Ma il fulcro del provvedimento targato Orlando era l’estensione dell’esecuzione penale esterna come alternativa al carcere. Ed è qui che bisogna attendersi le modifiche sostanziali. Protesta il Pd. “Con la decisione di affossare il cuore della riforma dell’ordinamento penitenziario - afferma Walter Verini, responsabile Giustizia del Partito democratico - il ministro Bonafede e il governo danno un colpo non solo a norme di civiltà che puntavano a garantire certezza della pena e alla rieducazione per evitare che chi sconta la pena torni a delinquere. Ma mortificano anche e vanificano il lavoro di anni compiuto da associazioni di volontariato, docenti, esperti, mondo dell’avvocatura e della magistratura”. Arriva la riforma del carcere: più cella per tutti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2018 Inasprimento per l’accesso al lavoro penitenziario ed eliminazione dello sconto di pena speciale. Questo è uno pareri che le commissioni giustizia delle Camere hanno espresso per il decreto legislativo alla riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro. Una mini riforma che, appunto, ha subito modifiche, contrarie allo spirito della delega ricevuta un anno fa dal Parlamento, anche sulla giustizia riparativa e l’esecuzione penale minorile. Il Consiglio dei ministri si riunito ieri sera per approvare i decreti per l’attuazione della riforma penitenziaria già depotenziata. Una mini riforma che, appunto, ha subito modifiche nel tempo. Quindi non solo per quanto riguarda l’ordinamento minorile che il governo precedente ha modificato rendendo più stringente l’accesso ai benefici tramite l’inserimento del 4bis, ma ora anche per quanto riguarda il lavoro nei confronti di tutta la popolazione detenuta, rinnovando i limiti di accesso al lavoro esterno. In sintesi, per accedere al lavoro all’esterno le limitazioni riguardano tutti i detenuti che hanno commesso i reati dell’art 4bis, nel dettaglio i delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater. Quindi non più solo quelli condannati per il 416bis o ad esso connessi come prevedeva il testo originale. Il nuovo parere indica che l’assegnazione al lavoro di pubblica utilità svolto all’esterno può essere disposta solo dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena e, comunque, di non oltre cinque anni. Mentre nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni. Una notevole stretta di maglie sia in termini di bacino di utenza sia in termini di tempistica per l’accesso durante l’esecuzione della pena. Ma non solo. Nel testo originario era prevista una liberazione anticipata “speciale” che avrebbe aumentato da 45 a 60 i giorni dello sconto previsto a semestre per il detenuto che proficuamente avesse svolto il progetto dei lavori di pubblica utilità dando prova di risocializzazione. Il parere della commissione, invece, indica l’abrogazione di questa novità, con la conseguenza che nessuno sconto ulteriore si vuole venga concesso a chi porti a termine con dedizione il progetto dei lavori di pubblica utilità. Di fatto, se il Consiglio dei ministri decidesse di accogliere questi pareri, il testo risulterebbe del tutto sostituito con altro, decisamente dal contenuto di minor ampio respiro rispetto ai principi e parametri offerti dalla legge delega. Sì, perché quest’ultima aveva imposto in materia di lavoro in carcere: l’incremento delle opportunità` di lavoro retribuito, sia intramurario sia esterno, nonché di attività di volontariato individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento; la previsione di una maggiore valorizzazione del volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici dell’esecuzione penale esterna e la previsione di norme volte al rispetto della dignità` umana attraverso la responsabilizzazione dei detenuti, la massima conformità della vita penitenziaria a quella esterna, compresa la sorveglianza dinamica. La panoramica sui principi che la legge delega aveva imposto come riferimento nell’elaborazione del decreto non può essere letta senza fare a meno di conoscere il senso che il governo diede all’art 20 ter, che si occupa di lavori di pubblica utilità: parliamo di attività che svolte sia all’interno che all’esterno del carcere, purché in favore della collettività, con la funzione di soddisfare l’esigenza del valore risocializzante del lavoro, ma nel senso di un impegno assunto e perseguito dal detenuto attraverso anche proprie iniziative e progetti, che per lui non sarebbero stati remunerativi ma di vantaggio alla società. La lettura del nuovo testo in tema di lavori di pubblica utilità, con l’estensione dei vincoli di accesso, pare disattendere l’obiettivo che si era posto il governo precedente di consentire a tutti i detenuti di svolgere i lavori di pubblica utilità, anche in ragione di una scarsa offerta di lavoro in carcere sia per fondi che per organizzazione. Con la sola esclusione dei 416bis. Il potere e il senso del limite di Sabino Cassese Corriere della Sera, 3 agosto 2018 La maggioranza corre il rischio di superare quella sottile linea che separa l’uso legittimo di poteri dalla violazione delle norme. Finora, la nuova maggioranza ha usato a piene mani il potere di nomina di organi parlamentari, di amministratori di società con partecipazione pubblica, di componenti di autorità indipendenti, di consigli di garanzia delle diverse magistrature, seguendo un antico uso, ma mostrando la fretta di chi si mette alla tavola per la prima volta. Ora, però, essa corre il rischio di superare quella sottile linea che separa l’uso legittimo di poteri dalla violazione delle norme. Sia la legge sul servizio televisivo del 2015, sia il successivo statuto della Rai dispongono che la nomina del presidente, fatta dal Consiglio di amministrazione, diventa efficace se ha il parere favorevole (in pratica, una approvazione) dei due terzi dei componenti della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi televisivi. Il Consiglio di amministrazione della Rai ha fatto una proposta che non ha avuto quella super-maggioranza. Esso avrebbe dovuto affrettarsi a fare un’altra proposta. Invece, presieduto dal consigliere più anziano di età, che era anche la persona designata (ed è, quindi, in conflitto di interessi), prende tempo. Antonio Polito ha lucidamente indicato le implicazioni politiche di questo stallo. Se questo si protraesse, diventerebbe anche una tensione tra maggioranza e minoranza parlamentare su una decisione per la quale la legge richiede un loro accordo. Insistere, ripresentando la stessa proposta, o, peggio, consentire che il candidato che non ha ottenuto la super-maggioranza continui nell’esercizio delle funzioni vicarie, come consigliere anziano, significa sfidare le regole della democrazia. Un’altra forzatura è quella aperta, in sede parlamentare e in sede governativa, sulla nomina del presidente della Consob. Su di essa si è già pronunciata la Corte dei conti e l’atto di nomina è stato già da tempo firmato dal presidente della Repubblica. Porre in dubbio, a distanza di mesi, tale nomina e la sua correttezza, apre una strada senza fine, perché così ogni governo sarà tentato di ritornare indietro alle investiture già decise, aprendo conflitti - questa volta - non tra attuale maggioranza e attuale minoranza, ma tra maggioranza di oggi e maggioranze di ieri. Un appetito retrogrado di questo tipo conduce a una inedita competizione “across time”. Introducendo, nel 1984, una sua raccolta di saggi dal titolo “Il futuro della democrazia”, Norberto Bobbio scriveva che “per regime democratico s’intende primariamente un insieme di regole di procedura per la formazione di decisioni collettive in cui è prevista e facilitata la partecipazione più ampia degli interessati”. Una di queste regole è quella che prescrive super-maggioranze. Un’altra è quella che impone il rispetto del principio “stare decisis”. Sulla scia di Madison e di Jefferson, Tocqueville, già nel 1835, metteva in guardia contro il dispotismo della maggioranza, a cui riteneva vi fossero solo due barriere, la giustizia e la ragione. Da allora, tutte le Costituzioni moderne e molte leggi dispongono che su questioni etiche, religiose, linguistiche, costituzionali, la maggioranza non debba pronunciarsi da sola, ma debba poter raccogliere anche il consenso di una minoranza. Da noi, questo è previsto, ad esempio, per le prime votazioni dirette alla elezione del presidente della Repubblica e per le modificazioni della Costituzione. Un altro principio essenziale della democrazia è quello che non si modificano, durante il gioco, le relative regole, e che non si riaprono le partite chiuse, come farebbe chi mettesse in dubbio tutte le decisioni già raggiunte, anche per l’incertezza che questo produrrebbe circa il punto al quale ci si vuole fermare. È singolare che la tentazione di limitazioni tanto rilevanti del tasso di democraticità del nostro ordinamento venga proprio da un governo che promette maggior democrazia. Il diritto al rovescio di Michele Ainis La Repubblica, 3 agosto 2018 La legge Mancino (n. 205 del 1993) promette un anno e mezzo di galera a chi diffonde l’odio razziale. C’è un giudice, un pubblico ministero, un attendente del pubblico ministero che ne rammenti l’esistenza? Perché un fatto è sicuro: in Italia il razzismo soffia come il vento. Altrimenti non si spiegherebbero le 11 violenze in meno di due mesi. Dunque c’è chi attizza questa fiamma, chi vi avvicina le mani per scaldarle, chi ci sparge sopra incenso e mirra. Ma non si può, è vietato dalla legge. E se il diritto, nella patria del rovescio, fosse una cosa seria, i nuovi apostoli dell’odio sarebbero alla sbarra. Invece dichiarano, twittano, bloggano, sproloquiano senza che alcun gendarme li degni d’uno sguardo. La legge sul razzismo c’è, però nessuno vuole leggerla. Da qui la doppia vittima di questa brutta storia: da un lato gli stranieri, dall’altro il senso stesso della legalità. Perché non è vero, non è affatto vero che manchino gli anticorpi normativi contro l’infezione. Semmai ne abbiamo troppi, col risultato che s’annullano a vicenda. La prima disciplina di contrasto fu la legge Scelba (1952), seguita poi dalla legge Reale (1975): entrambe puniscono l’apologia d’idee o metodi razzisti, attuando la XII disposizione finale della Costituzione, che vieta la riesumazione del fascismo. Dopo di che abbiamo battezzato la legge n. 654 del 1975, questa volta in attuazione della Convenzione internazionale del 1966 contro la discriminazione razziale; e da allora in poi il razzismo, in tutte le sue forme, incorre nel bastone del diritto. Ma il bastone bastona anche il diritto, nel senso che gli cambia incessantemente i connotati. La prima modifica coincide, per l’appunto, con la legge Mancino, che nel 1993 aggiunge al reato di razzismo una specifica aggravante. In seguito la modifica viene modificata altre quattro volte (nel 2006, nel 2016, nel 2017, nel 2018). Se non è tombola, è cinquina. Sarà per questo che a consultare “Normattiva, la banca dati ufficiale delle norme in vigore, la legge Mancino vi figura in un testo ormai superato: nemmeno la Repubblica italiana conosce gli atti della Repubblica italiana. E se non li conosce chi li ha scritti, figurarsi chi dovrebbe farne applicazione. Sta di fatto che il reato commesso dai razzisti è desaparecido dai nostri tribunali: rari processi, conclusi quasi sempre con un’assoluzione. Ai violenti viene spesso contestata l’aggravante dell’odio etnico o razziale; ai parlanti, a chi predica l’odio senza passare ai fatti, invece no. Come se le parole fossero innocue, come se l’istigazione non fosse già un delitto. C’è qualche eccezione, tuttavia. Così, nel ‘2009 la Cassazione penale (sentenza n. 41819) ha applicato la legge Mancino per castigare manifesti contro i campi nomadi, basati sul presupposto che ogni zingaro sia un ladro; nel 2013 (sentenza n. 33179) ha condannato i gestori di un blog; mentre nel 2017 il Tribunale di Brescia è intervenuto contro alcuni post su Facebook che degradavano i richiedenti asilo a clandestini. Ecco, sarebbe bene trasformare l’eccezione in regola. Del resto, se i giudici italiani non conoscono la legge Mancino, c’è invece chi la conosce a menadito: è il caso della Lega, che nel 2014 promosse un referendum per chiederne l’abrogazione. Certo, può darsi che gli abolizionisti abbiano a cuore la libertà di manifestazione del pensiero, può darsi che il nostro ordinamento ospiti troppi reati d’opinione. Ma c’è un diritto per il tempo di pace e un diritto per il tempo di guerra, quando ogni libertà s’affievolisce in nome della salvezza collettiva. E adesso siamo in guerra, l’odio razziale è già una guerra. Nomine e best practice, ecco il Csm targato Legnini di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 agosto 2018 “Abbiamo in programma molte attività per il mese di settembre. E inviterò a parteciparvi tutti i neo consiglieri. Sarà questo il modo migliore per favorire il passaggio di testimone fra il Consiglio uscente e quello di nuova costituzione”, dichiara il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Giovanni Legnini ci riceve nel suo ufficio a Palazzo dei Marescialli e ci illustra le iniziative già in calendario al ritorno dalla pausa estiva. Il 10 settembre un incontro con i presidenti delle sezioni specializzate in materia di protezione internazionale. Poi, il 13, un Plenum straordinario in occasione dell’ 80° dalla entrata in vigore delle leggi razziali dove verrà presentato il volume “Razza e in Giustizia”, una ricerca storica sui magistrati e avvocati che non si piegarono alle norme volute dal fascismo e con l’elenco di tutte le toghe che subirono l’epurazione. Un lavoro che è stato condotto con la collaborazione del Consiglio nazionale forense. Il 18, quindi, la presentazione del Codice dell’Organizzazione giudiziaria. Ed infine, il 24, un Plenum straordinario presieduto dal Capo dello Stato per celebrare l’anniversario del 60° dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Csm. Non solo nomine, dunque, ma momenti formativi di alto livello. Un cambio rispetto al passato. In questi quattro anni, il Consiglio ha svolto un lavoro importante finalizzato ad un profondo cambio culturale nella giurisdizione. Nelle intenzione di Legnini un “orizzonte innovativo”. Non sono però mancate le polemiche, in particolare a proposito nomine degli incarichi direttivi. La modifica dell’età pensionabile delle toghe ha costretto il Csm ad effettuare oltre mille nomine che hanno cambiato il volto della magistratura italiana. Un lavoro che è stato svolto, archiviato il parametro dell’anzianità, seguendo quello dell’attitudine e del merito. Il prossimo Consiglio dovrà procedere alla conferma, allo scadere del quadriennio, di questi mille direttivi e semi direttivi nominati. Un banco di prova importante. Una delle accuse mosse all’attuale Consiglio è quella di “dirigismo”, di aver voluto imporre agli uffici giudiziari regole stringenti. Una accusa respinta dagli interessati che hanno sempre ribadito come sulla cultura dell’organizzazione non sia possibile tornare indietro. Esempi, al riguardo, la circolare sulle Procure, quella per velocizzare le esecuzioni immobiliari, quella sulla comunicazione giudiziaria, e le linee guida sulle intercettazioni. Norme di soft low, non vincolanti, ma che sono un riferimento per agevolare il lavoro dei magistrati. Critiche sono venute da settori minoritari della magistratura, caratterizzati da “pigrizia ed insofferenza”, ha puntualizzato un consigliere laico uscente. Legnini è molto orgoglioso del nuovo approccio del Csm. Da luogo lontano dall’efficienza degli uffici che si occupava solo di nomine a centro di riferimento per le best practice in tema di organizzazione. Chi non comprende il cambiamento ha una visione “antica” della magistratura. Rispettoso dei poteri dei magistrati, senza limitarne l’autonomia, il Csm ha voluto dare dei suggerimenti alle toghe per fare al meglio il proprio lavoro. Nessuna visione dirigistica, dunque, ma solo voglia di estendere a tutti le migliori esperienze dei Tribunali italiani. Un rammarico, per Legnini, è stata la bocciatura della riforma della legge sull’Ordinamento penitenziario. In Plenum era stato votato un parere positivo su questa modifica legislativa attesa da anni. Uno degli esempi del rinnovato protagonismo istituzionale del Csm, aperto alle istanze di tutti gli operatori del diritto, magistrati e avvocati, è rintracciabile consultando il portale, dove sono contenute utili informazioni. Oltre ad una sempre maggiore trasparenza: è consultabile tutto, tranne quanto segretato o vincolato dalla normativa della privacy. Le recenti elezioni per il rinnovo del Csm sono state caratterizzate da un forte condizionamento mediatico. In particolare per uno dei candidati che era appoggiato apertamente da diversi quotidiani. Una novità. Limitata la componente femminile, nulla per i membri laici. E sulla proposta di inserire l’avvocato in Costituzione, Legnini ricorda che già ora la Carta contiene principi importanti sul diritto di difesa e sulla parità fra accusa e difesa. Una ulteriore riconoscibilità della funzione dell’avvocato non può che essere vista positivamente. Interdittive e misure antimafia, un sistema da cambiare di Emiliano Silvestri Il Dubbio, 3 agosto 2018 Nella suggestiva cornice del parco di Villa Piccolo a Capo d’Orlando il 30 luglio si è tenuto un convegno (registrato da Radio Radicale) organizzato dalle Camere penali di Patti e Barcellona Pozzo di Gotto. Al centro della discussione, otto proposte di legge di iniziativa popolare del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito “contro il regime”. A introdurre i lavori il presidente della Camera penale di Patti, l’avvocato Carmelo Occhiuto, che ha ricordato una recente sentenza della Corte Costituzionale (n° 149/2018) che ha sancito: “l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 289-bis del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato”. Ha poi ricordato l’allora presidente del Parco dei Nebrodi e attuale responsabile nazionale legalità del Pd, applaudito nel corso di un convegno per avere concorso alla chiusura di 42 cooperative sulle 44 presenti nel territorio di sua competenza. Al convegno hanno partecipato anche Pietro Cavallotti e Massimo Niceta che hanno illustrato la proposta di legge di revisione del sistema delle informazioni interdittive e delle misure di prevenzione antimafia. I due imprenditori hanno risposto a chi li accusa di voler cancellare la legge Rognoni-La Torre: “vogliamo invece, come Partito Radicale e come associazione InDifesa, riportare quella legge alla sua purezza originaria, limitando l’eccessiva discrezionalità che le attuali norme consentono”. Oggi basta un semplice sospetto, nemmeno sorretto da riscontri: un indizio non grave, non preciso e non concordante. La proposta di legge prevede la sospensione della misura di prevenzione nell’attesa della sentenza penale e la revoca quando questa sia di assoluzione. Il professore Angelo Mangione, ha ricordato come confisca e prevenzione siano ora estese anche ai corrotti; misure basate sulla logica del sospetto e centrate più sulla pericolosità che sul fatto. Misure che non dovrebbero esistere in uno stato democratico e che, tuttavia, sembrano depotenziate dagli interventi della Cedu e delle Corti di Cassazione e Costituzionale. Elisabetta Zamparutti, rappresentante italiana al Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, ha presentato la proposta per la riforma del sistema di ergastolo ostativo (sono 1.200 sul totale di 1.600 ergastolani quelli che non potranno uscire se non dopo aver “offerto” collaborazione) e del regime del 4bis, chiamato carcere duro ma definito dal Comitato: “una forma di pressione fisica e psicologica volta a indurre alla collaborazione, che contrasta con la Costituzione e i trattati internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte” in pratica, come nel titolo di un libro di Sergio D’Elia e Maurizio Turco “Una tortura democratica”. Giuseppe Tortora, presidente della Camere Penali di Barcellona Pozzo di Gotto, si è soffermato sulla proposta di modifica dell’art. 143 del T. U. Enti Locali; sullo scioglimento dei Comuni per mafia: emblematici i casi di Scicli e di Vittoria, preceduti da campagne di stampa. Rita Bernardini ha ripreso un articolo del 17 lug 1944 di Luigi Einaudi: “Dove non esiste il governo di sé stessi, dov’è la democrazia? “ e ha ricordato al ministro Salvini che la Lega appoggiò la campagna “einaudiana” lanciata ne11992 da Marco Pannella per l’abolizione dei prefetti. Rocco Abruzzese, segretario della stessa Camera penale, ha sostenuto la proposta di abolizione degli incarichi extragiudiziali dei magistrati. Molti hanno sottolineato la necessità che il Partito Radicale raggiunga l’obiettivo dei 3.000 iscritti; diversamente, ha sottolineato il professor Antonio Matasso, l’unica voce che non si conforma acriticamente ai sondaggi mantenendo nel paese la fiammella dello stato di diritto sarà spenta. Una voce che parla di giustizia senza paura dell’impopolarità e che propone di combattere la criminalità organizzata senza distruggere l’economia già fragile dell’isola. Per dirla con Sergio D’Elia (e con Leonardo Sciascia) la mafia non si combatte con la “terribilità” ma con il diritto. Condanne cancellate dalla fedina penale dopo cento anni Italia Oggi, 3 agosto 2018 Certificati del casellario selettivi a disposizione della pubblica amministrazione: conterranno le informazioni pertinenti al singolo procedimento. Passa a cento anni il termine cancellare le condanne dalla fedina penale, mentre i carichi sono eliminati alla morte dell’interessato. È quanto prevede uno schema di decreto legislativo approvato ieri dal consiglio dei ministri in via preliminare, che unifica in un unico modello (certificato “del casellario”) i tre tipi di certificati attualmente previsti (generale, penale e civile). Il provvedimento attua la legge delega 103/2017 e dispone la revisione della disciplina del casellario giudiziale. Il provvedimento interviene su diverse materie e il filo rosso è quello della minimizzazione delle informazioni relative a episodi negativi sul conto delle persone. Ci sono interessi confliggenti: quello alla conoscenza delle notizie su gravi fatti di allarme sociale e quello alla possibilità di rifarsi una vita. Lo schema di decreto legislativo stabilisce nuovi equilibri, A favore della rieducazione e del reinserimento si pongono alcune disposizioni sulla eliminazione sul non inserimento di alcuni provvedimenti giudiziali che hanno un connotato fortemente demenziale. L’altro aspetto, che si pone in questa scia, è la scelta di fare certificati ad hoc in relazione alle verifiche che la pubblica amministrazione è chiamata a fare, di volta in volta, sulla onorabilità delle persone: qui si limita la circolarità delle notizie a quelle rilevanti per accertare un particolare spettro di moralità in relazione alle esigenze di un particolare procedimento. Vediamo più analiticamente le disposizioni del provvedimento approvato in prima lettura dal governo. Tempo limite - Si interviene sui tempi di conservazione massima dei dati. Quelli relativi ai carichi pendenti vengono tenuti fino alla morte della persona. I dati relativi alle condanne, invece, sono conservati per cento anni dalla nascita. Non è una diminuzione, anzi è una dilatazione dei tempi (attestati oggi agli ottanta anni di età dell’interessato), che, però è stato scelto in quanto. Così facendo, ci si allinea agli altri ordinamenti europei. Certificati selettivi - Si distinguono in casi in cui la pubblica amministrazione ha necessità del casellario generale: questo capita quando non è possibile individuare a priori le iscrizioni rilevanti e pertinenti rispetto a un determinato procedimento amministrativo. In tale caso la pubblica amministrazione procedente continuerà ad acquisire il certificato generale. Negli altri casi, invece, le pubbliche amministrazioni possono ottenere solo il certificato elettivo, che riporta le sole iscrizioni pertinenti alle singole finalità perseguite nello specifico procedimento. L’accertamento della moralità selettiva implica una diminuzione dell’effetto negativo delle iscrizioni al casellario e costringerà anche a verificare, caso per caso, quali siano le informazioni rilevanti. Le innovazioni previste sono anche di carattere organizzativo, in quanto si prevede che le pubbliche amministrazioni potranno avere accesso diretto e gratuito previa stipulazione di una convenzione con il ministero della giustizia. Eliminazioni - Si eliminano dal casellario giudiziale i provvedimenti di minor disvalore e cioè quelli applicativi della non punibilità per tenuità del fatto. Nel caso specifico il fatto particolarmente tenue merita una clemenza giudiziale, che viene estesa anche alle conseguenti iscrizioni negative nel casellario. Lo schema di decreto legislativo esclude dalla iscrizione nel casellario anche i provvedimenti relativi alla messa in prova dell’imputato. Esclusa l’iscrizione anche in caso di rescissione del giudicato. Certificato unico - Si individua un unico tipo di certificato che unifica i tre tipi attualmente previsti: generale, penale e civile. Il certificato unico si chiamerà semplicemente “certificato del casellario”. Avvertenza Ue - Nel certificato va inserita un’avvertenza per indicare se esistano condanne in ambito europeo. Questo per la completezza delle certificazioni. Nei rinvii pregiudiziali alla Corte Ue il giudice nazionale deve anonimizzare i dati di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2018 Corte di giustizia Ue, Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale. Protezione dei dati personali rafforzata nei procedimenti pregiudiziali dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Con le nuove “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (pubblicate sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea C 257), che sostituiscono quelle del 2016, la Corte è intervenuta a rafforzare la cooperazione tra giudici interni e giudici Ue anche nel segno della tutela dei dati personali e di una maggiore digitalizzazione nel procedimento. In particolare, nel fornire le indicazioni pratiche sulla forma e sul contenuto delle domande pregiudiziali, sono state interpretate le regole per favorire una maggiore tutela dei dati personali, tenendo conto che, in base all’articolo 23 del Protocollo n. 3 dello Statuto della Corte Ue, la decisione di Lussemburgo deve essere pubblicata in tutte le lingue ufficiali dell’Unione. Di qui una maggiore tutela delle persone fisiche coinvolte. Di conseguenza, il giudice nazionale che solleva la questione pregiudiziale e che “è il solo a disporre di una conoscenza integrale del fascicolo trasmesso alla Corte” deve farsi carico degli obblighi di protezione dei dati e procedere all’anonimizzazione “dei nomi delle persone fisiche menzionate nella domanda o interessate dal procedimento principale, nonché a occultare gli elementi che potrebbero consentire di identificarle”. La necessità di un obbligo a monte, a carico dei tribunali interni, è dovuta - scrive la Corte - alla circostanza che le tecnologie dell’informazione e il ricorso costante ai motori di ricerca renderebbero “priva di utilità un’anonimizzazione effettuata dopo il deposito della domanda di pronuncia pregiudiziale e, a fortiori, dopo la notifica di quest’ultima agli interessati di cui all’articolo 23 dello Statuto e alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea della comunicazione relativa alla causa considerata”. Questo porterà anche a una rivoluzione nel tradizionale metodo di citazione della causa perché, se coinvolte persone fisiche, non potranno più essere indicati i nomi delle parti ma solo le iniziali. Una limitazione che, invece, non si applicherà alle persone giuridiche. Precisato che spetta al giudice nazionale - che si trova nella posizione migliore per valutare in quale fase effettuare il rinvio - decidere il momento più idoneo per rivolgersi a Lussemburgo, la Corte ha evidenziato che, per gli effetti della pronuncia, spetta, in ogni caso, al giudice del rinvio “trarne le conseguenze concrete, disapplicando all’occorrenza la norma nazionale giudicata incompatibile con il diritto dell’Unione”. Tra i suggerimenti per assicurare una corretta amministrazione della giustizia è richiesto che il rinvio pregiudiziale sia deciso dopo un contraddittorio tra le parti. Le raccomandazioni contengono un allegato con l’individuazione degli elementi essenziali per la domanda in via pregiudiziale, che potrà essere trasmessa per via telematica o per posta. Induzione indebita e non concussione, la richiesta mazzetta al titolare del bar per evitare multa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 2 agosto 2018 n. 37589. Non rientra nella concussione ma nell’induzione indebita tentata, la richiesta di denaro da parte del poliziotto, all’esercente del bar per evitare la multa per occupazione di suolo pubblico, se la vittima finge solo di accettare il “ricatto” mentre ha già deciso di denunciare. La Cassazione, con la sentenza 37589, accoglie il ricorso di funzionario di polizia di Roma capitale, condannato per concussione nei precedenti gradi di giudizio. L’imputato aveva chiesto 1500 euro alla proprietaria di un bar che aveva messo sul marciapiede tavolini e sedie, avvertendola che l’abuso di “ampliamento delle superficie di vendita” era sanzionabile con 3000 euro. Il pubblico ufficiale si era detto disponibile a lasciarla tranquilla, almeno per un anno, se avesse versato nelle sue “tasche” la metà. Alla fine la cifra incassata dal poliziotto in denaro “fac simile” e alla presenza di poliziotti in borghese, era stata di 1310 euro. La Cassazione accoglie però la tesi della difesa che non di concussione si trattava, ma di tentativo di induzione indebita. E chiarisce perché. La signora avrebbe conseguito comunque un vantaggio illecito nell’accettare il patto, perché la multa la rischiava davvero, sebbene non per ampliamento dell’attività. Ma questo, all’epoca, il pubblico ufficiale non poteva saperlo perché la questione era ancora controversa, anche tra gli addetti ai lavori. Solo nel 2014 è arrivato un chiarimento con il quale il governo ha precisato che l’occupazione di suolo privato con tavoli e sedie non comporta l’ampliamento dell’attività, ma solo una violazione del codice della strada soggetta a sanzione pecuniaria. In più, rispetto a quanto avviene per la concussione, non c’era stata un’intimidazione di intensità tale da incidere pesantemente sulla libertà di autodeterminazione del destinatario. Per finire l’indebita induzione era tentata perché la donna aveva solo finto di accettare la proposta, mentre aveva già deciso di chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. La Cassazione precisa, infatti, che certamente il delitto si consuma con la semplice “promessa” di denaro o altre utilità, ma questa deve essere valida ed effettiva e non “simulata” come avvenuto nel caso esaminato. Mutuo concesso ad usuraio, banca perde credito se è stata incauta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2018 Corte di cassazione -?Sentenza 2 agosto 2018 n. 37558. Rischia di perdere il credito la banca che abbia accordato un mutuo fondiario su di un immobile poi confiscato perché appartenente a un soggetto condannato per usura. Non basta infatti la regolarità formale delle procedura o l’assenza, al momento, di condanne penali per ritenere assolti gli stringenti obblighi di verifica sulla “affidabilità” e “solvibilità” dei clienti che gravano su di un operatore professionale qualificato come la banca. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 2 agosto 2018 n. 37558, accogliendo il ricorso dell’“Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata” contro l’ordinanza del Gip di Siracusa che invece aveva ammesso l’istituto al pagamento del credito ipotecario residuo (nella misura di 47mila euro sui centomila complessivamente erogati). Secondo l’Agenzia infatti l’istruttoria bancaria, e poi il provvedimento del Gip, avrebbero dovuto “cogliere l’inadeguatezza dei redditi leciti dichiarati in rapporto alla sopportazione del mutuo e all’obbligo della sua restituzione nei tempi e con le modalità concordate”. La banca si è difesa sostenendo che si era trattato di una “regolarissima operazione di finanziamento fondiario” e sottolineando l’“adeguatezza” della somma erogata rispetto al valore dell’immobile. Per la Suprema corte, però, “omettendo di considerare le ragioni poste a fondamento del sequestro e della successiva confisca”, l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione ha disposto l’ammissione al passivo della banca “ha del tutto astratto dall’analisi dei pertinenti profili patrimoniali e della proporzionalità tra i redditi del condannato e del coniuge e gli esborsi rateali per il pagamento del mutuo”. Aggiungendo che “se è evidente che l’istituto di credito non è titolare di autonome prerogative investigative, la dimostrazione, di cui lo stesso è onerato, attiene alla verifica svolta in ordine alle caratteristiche soggettive della parte richiedente l’erogazione del mutuo, e segnatamente, nella specie, con riguardo alla sua affidabilità e solvibilità derivante dalla capacità produttiva di un reddito lecito”. Mentre, prosegue la decisione, la compatibilità tra il valore dell’immobile e la cifra erogata “non assicura affatto che attraverso l’erogazione del mutuo non si realizzi un fenomeno di sostanziale ripulitura di capitali di provenienza illecita utilizzati al fine di sostenere le obbligazioni nascenti dal contratto”. Inoltre, l’ordinanza fondando “il giudizio positivo relativo alla buona fede della Banca creditrice”, unicamente “sul rispetto delle procedure tipizzate per la concessione dei finanziamenti, non si è confrontata con il tipo di attività svolta dal terzo creditore, che, tenuto ad attenersi alle specifiche direttive emanate dagli organi di vigilanza, è soggetto a particolari obblighi di diligenza professionale qualificata per la peculiare posizione rivestita per la gestione del credito nel sistema socio-economico”. Il rispetto di tali obblighi, che l’Agenzia ha tradotto in qualcosa di più della semplice “assenza di anomalie”, conclude la Corte, avrebbe richiesto la dimostrazione che “la erogazione del mutuo era avvenuta in presenza di un reale controllo della capacità finanziaria e delle condizioni patrimoniali del richiedente e della famiglia e della sua affidabilità soggettiva, anche alla luce dei rapporti pregressi o pendenti”. Sicilia: nelle carceri impennata di tentati suicidi, l’appello del Garante dei detenuti palermotoday.it, 3 agosto 2018 “La stagione estiva tende ad accentuare le difficoltà e i disagi anche di ordine psicologico normalmente connessi alla vita detentiva”. “I dati sui suicidi, gli atti di autolesionismo e di tentato suicidio dentro le carceri invitano tutti noi ad aumentare la vigilanza a protezione delle persone più a rischio”. Lo dice il Garante regionale dei diritti dei detenuti Giovanni Fiandaca che denuncia un’impennata dei tentativi di suicidio in Sicilia con l’arrivo dell’estate. “Dall’inizio dell’anno - dice - solo due detenuti sono riusciti nel loro intento di togliersi la vita ma nell’ultimo mese sono aumentati in maniera significativa gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio”. I numeri parlano chiaro: da gennaio 2018 alla fine di giugno gli atti di autolesionismo sono stati in tutta l’Isola 397 mentre da fine giugno ad oggi sono diventati 479. In crescita anche i tentativi di suicidio passati da 42 (dato al 30 giugno 2018) a 54 (dato al 2 agosto 2018). “La stagione estiva - dice Fiandaca - tende ad accentuare, per intuibili motivi, le difficoltà e i disagi anche di ordine psicologico normalmente connessi alla vita detentiva. Ne deriva, pertanto, un aumento delle situazioni conflittuali, dello scatenarsi di condotte violente e della tendenza al compimento di gesti auto ed etero lesivi, sino alla scelta estrema del suicidio. Per evitare esiti tragici serve una particolare attenzione da parte di tutti coloro che operano all’interno delle carceri: dal personale dell’Amministrazione penitenziaria al personale sanitario, a tutti gli altri soggetti a vario titolo responsabili operanti in Sicilia”. “Pur avendo gli eventi cause molteplici - conclude Fiandaca - e pur non essendo oggettivamente tutto prevedibile e prevenibile, non c’é dubbio che il ricorso ad adeguate misure preventive può ridurre di molto il pericolo di gesti estremi. Come Ufficio del Garante regionale ribadiamo la disponibilità a fornire il nostro contributo nell’ambito di un’articolata strategia di prevenzione”. Viterbo: il detenuto morto suicida al Mammagialla denunciò maltrattamenti di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 agosto 2018 Aveva denunciato di aver subito violenze e aveva paura di morire: lo aveva confidato ad una delegazione del Garante regionale dei detenuti del Lazio andata in visita nel carcere Mammagialla di Viterbo dove era recluso. Le sue dichiarazioni vennero poi riportate, insieme alle denunce di altri detenuti, in un esposto inviato dal Garante alla Procura viterbese il 5 giugno scorso. Eppure Hassan Sharaf, un detenuto egiziano di 21 anni che avrebbe finito di scontare la pena il 9 settembre, il 23 luglio scorso è stato trovato impiccato nella cella di isolamento dove era stato trasferito da appena due ore. Entrato in coma, è morto il 30 luglio nell’ospedale locale di Belcolle. Suicida, secondo le autorità penitenziarie. A darne notizia è stato lo stesso Garante, Stefano Anastasia, che di Hassan si era già occupato in passato: “Alla nostra delegazione che lo incontrò il 21 marzo scorso - ricorda Anastasia - Sharaf mostrò alcuni segni rossi su entrambe le gambe e dei tagli sul petto che, secondo il suo racconto, gli sarebbero stati provocati da alcuni agenti di polizia che lo avrebbero picchiato il giorno prima”. È il terzo detenuto morto dall’inizio dell’anno nella casa circondariale di Viterbo, il secondo suicida in cella d’isolamento, “segno - è il commento di Patrizio Gonnella - di un malessere diffuso le cui cause devono essere portate pienamente alla luce”. Nel caso specifico, sul quale indaga la procura, il presidente di Antigone chiede anche di chiarire “se corrisponda a realtà quanto starebbe emergendo, ovvero che il 21enne fosse in carcere per un reato commesso da minorenne. Se così fosse avrebbe dovuto essere recluso presso un Istituto di pena per minorenni. Anche in questo caso - conclude Gonnella - andrebbe quindi accertato cosa è accaduto”. Secondo quanto riportato da Anastasia, infatti, Hassan Sharaf nell’aprile scorso aveva finito di scontare la pena per un reato commesso da adulto ma avrebbe dovuto trascorrere ancora 4 mesi in carcere per un fatto risalente a quando era minorenne. Per questo residuo di pena, avendo meno di 25 anni, la norma prevede che avrebbe potuto essere trasferito in un istituto per minorenni, a discrezione del magistrato di sorveglianza e del giudice dell’esecuzione minorile, che devono essere avvisati dalla direzione penitenziaria. Cosa che, in questo caso, rimane da accertare sia mai avvenuta. Comunicato dell’Associazione Antigone Lunedì scorso nell’ospedale di Viterbo è morto Hassan Sharaf, un ragazzo egiziano di 21 anni, arrivato lì in fin di vita dopo essersi impiccato nella cella di isolamento, dove era stato condotto da poche ore, della locale casa circondariale. “Quello che chiediamo, dopo questo suicidio, è che si faccia un’indagine approfondita anche alla luce di quanto esposto dal Garante regionale sulle presunte violenze che avverrebbero a Viterbo. Quello di Hassan è la terza morte avvenuta in questo carcere nei primi sette mesi dell’anno, la seconda a seguito di un tentativo di suicidio compiuto in isolamento, segno di un malessere diffuso le cui cause devono essere portate pienamente alla luce”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Nel caso specifico di questo ragazzo poi - prosegue Gonnella - c’è da accertare se corrisponda a realtà quanto starebbe emergendo, ovvero che il ventunenne fosse in carcere per un reato commesso da minorenne. Se così fosse avrebbe dovuto essere recluso presso un Istituto di Pena per Minorenni. Anche in questo caso - conclude il presidente di Antigone - andrebbe quindi accertato cosa è accaduto”. Udine: una trans si impicca nel bagno del carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2018 Non si fermano i suicidi in carcere. Al carcere di Udine si è uccisa, nella cella della sezione protetta, una detenuta transessuale. La tragedia è avvenuta martedì, si è impiccata con un lenzuolo nel bagno del carcere. Inutili, purtroppo, i tentativi di soccorrerlo da parte della polizia penitenziaria e dei sanitari. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del Segretario regionale del Friuli Venezia Giulia, Giovanni Altomare che ha anche segnalato, sempre nello stesso carcere, un’aggressione di un detenuto con problemi psichici nei confronti dello psichiatra che lo stava visitando. “Ancora una volta - denuncia il segretario regionale del Sappe -, va pur detto, con la riduzione degli organici e gli accorpamenti triplicati dei posti di servizio è sempre più difficile attuare una sorveglianza adeguata nelle sezioni detentive. Difatti, l’addetto alla sezione del piano terra, luogo del tragico evento, doveva sorvegliare altre due sezioni detentive più la rotonda del piano e il cortile passeggi. Insomma, contemporaneamente ricopriva cinque posti di servizio. Peraltro, attualmente, il carcere di via Spalato è interessato da due piantonamenti in luoghi esterni di cura che incidono ulteriormente sull’organico di Polizia Penitenziaria”. Con l’ennesimo gesto, siamo giunti a 31 suicidi dall’inizio dell’anno, compresa una persona ricoverata in una Rems. Lo stesso giorno in cui si è suicidata la detenuta al carcere di Udine, nella mattinata - come già riportato da Il Dubbio - è deceduto nel reparto di rianimazione del locale ospedale un tunisino di 33 anni che una settimana fa nell’Istituto di La Spezia si era impiccato nella sua stanza. Analogamente, il giorno prima- dopo sette giorni di ricovero in terapia intensiva - era morto un 21enne egiziano, detenuto a Viterbo, che avrebbe finito la pena a settembre. Si era impiccato con un laccio rudimentale fermato alle grate della finestra il 23 luglio, poco dopo essere stato assegnato al reparto di isolamento per scontare una sanzione disciplinare risalente a un fatto di marzo. Nello stesso reparto del carcere di Viterbo si trovava anche l’italiano che si è tolto la vita il 22 maggio scorso, dopo sette giorni in isolamento. La media dei suicidi, oramai è di uno a settimana e l’estate potrebbe essere destinata a salire. Per quanto riguarda la detenuta che si è suicidata ieri, rappresenta una delle problematiche specifiche che riguardano le vulnerabilità di gruppi come, appunto, le persone Lgbti, i migranti e le minoranze etniche. Per le detenute transessuali, una osservazione a parte è stata fatta dalla relazione del 2018 presentata in parlamento e curata collettivamente dal Collegio (il Presidente Mauro Palma e le componenti Daniela de Robert ed Emilia Rossi) e dallo staff del Garante nazionale. Si apprende che le persone transessuali, attualmente censite in 10 sezioni specifiche con 58 presenze, sono tutte collocate in Istituti maschili. Si legge sempre nella relazione che Il Garante nazionale ha da tempo espresso l’opinione “che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica”. Nello scorso anno aveva valutato con soddisfazione la stesura di un decreto del ministro che, almeno in via sperimentale, andava in questa direzione e ridefiniva le sezioni destinate alle persone transessuali. Purtroppo il decreto non è stato più emanato e il tema sembra sparito dall’agenda delle urgenze. Per questo, Palma raccomanda che sia almeno riaperta la discussione, “anche al fine di considerare le perplessità che possano averne frenato il percorso”. Ribadisce comunque, che anche per tali sezioni, la cui specificità è ineliminabile, valga il principio dell’inclusività nella vita detentiva generale dell’Istituto e che siano predisposte sia attività specifiche, sia attività in comune con altre persone detenute. Bolzano: carcere, riscatto possibile di Fabrizio Mattevi Corriere dell’Alto Adige, 3 agosto 2018 Anche quest’anno le attività e i corsi realizzati nel carcere di Bolzano si sono conclusi con la consegna di diplomi e attestati: un’occasione per mostrare e condividere, anche in modo festoso, quanto realizzato. Tra le alte pareti del cortile interno, sotto lo sguardo vigile della polizia penitenziaria, si è suonato, si sono messi in scena i testi del laboratorio teatrale, si è gustato il buffet allestito dai partecipanti al corso di cucina. È stato anche distribuito “Voci dal silenzio”, pubblicazione annuale della Casa circondariale di Bolzano, curata dalla Formazione professionale, con interventi e testimonianze raccolte durante le esercitazioni al computer. Molteplici sono gli obiettivi e gli intenti delle proposte formative: accrescere l’istruzione, soprattutto linguistica; promuovere il conseguimento della licenza media; ampliare le opportunità occupazionali con i corsi, assai richiesti, per addetto di cucina; offrire momenti di socializzazione e spazi espressivi per occupare il tempo della detenzione e apprendere qualche semplice tecnica artigianale. Per realizzare simili finalità, direzione del carcere, personale interno, polizia penitenziaria, Tribunale di sorveglianza cooperano con enti e agenzie esterne: Intendenza scolastica, Formazione professionale italiana, Alphabeta, Caritas, La strada-der Weg. L’impegno per la rieducazione e la riabilitazione sociale è faticoso e a volte frustrante. Tanto più all’interno di una struttura fortemente limitata come quella bolzanina, pressoché priva di locali per attività didattiche e laboratoriali. L’adesione e la partecipazione dei detenuti sono condizionate dall’elevato turnover dovuto a trasferimenti, fine pena, concessione di misure alternative. Interventi e proposte debbono poi fare i conti con la composizione della popolazione carceraria: attualmente, del circa centinaio di detenuti, più o meno l’80% sono stranieri, per due terzi extraeuropei, tra cui una quota di clandestini. Le storie complesse e tormentate di queste persone, la lontananza dei luoghi di provenienza e spesso delle famiglie, le differenze di cultura, la scarsa conoscenza dell’italiano rendono irta la via del recupero, ma al contempo irrinunciabile per contrastare il ritorno all’illegalità. Perciò l’esito più prezioso perseguito dalle attività interne è la riscoperta del valore di sé. Merita dunque attenzione e sostegno quanto si sta facendo, pur tra ostacoli e fallimenti, affinché la pena detentiva, che comporta ingenti oneri per lo stato, possa essere per davvero proficua, per i singoli e per la collettività. Avellino: “senza farmaci e dottori, non lasciateci morire in carcere” di Andrea Fantucchio ottopagine.it, 3 agosto 2018 Novantacinque firme consegnate in redazione. In calce a una denuncia e la storia di un detenuto. Carcerati malati e senza cure. Molti decidono di farla finita: una media di quattro suicidi al mese. Un quadro disastroso, anche ad Avellino. “Qui dentro non possono curarmi. Ho sempre più male alle gambe. Aiutatemi, sono un essere umano anche io”. Giovanni Chiodo, 64 anni, in carcere da tre. La sua storia è allegata a quattro fogli di quaderno consegnatici a mano da un detenuto in permesso. Portavoce di 95 carcerati che hanno denunciato gravi carenze nell’assistenza medica nel penitenziario di Bellizzi Irpino. Il caso di Giovanni è emblematico. “Ho il diabete mellito tipo 1. Il dirigente sanitario ha spiegato che il carcere non è attrezzato per curare la mia malattia. I documenti li ho inviati all’Asl di Avellino. Non mi hanno mai risposto”. In mezzo, un piccolo giallo. “In una relazione l’istituto scrive che ho rifiutato la mia cura, ma non è vero. Ho solo rifiutato il cambio reparto”. Una storia come tante. I detenuti, nella loro lettera, scrivono che nel penitenziario “Non ci sono medicine adatte a tutte le malattie. Farle arrivare da fuori costa troppo. E mancano gli specialisti come cardiologi e ortopedici. Gli infermieri sono tirocinanti”. L’assistenza precaria in carcere è un problema purtroppo comune in tutta Italia. Basta guardare i numeri relativi ai disagi psichici: più di quarantamila i casi. Oltre il 65 per cento dei detenuti soffre di disturbi della personalità, stati di ansia (12 per cento), disturbi psicotici (4 per cento). L’assistenza è carente. Situazione simile anche per patologie differenti come il diabete. Problemi che, spesso, uniti ad altri disagi sfociano in gesti estremi. In meno di cinque mesi, dall’inizio dell’anno a oggi, sono più di 30 i decessi in carcere. Ventiquattro i suicidi. Morti inarrestabili e silenziose legate, in molti casi, allo stato delle prigioni sovraffollate. Il decreto “svuota carceri” dell’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando (2014), ha avuto effetti positivi brevi: più di 55mila i detenuti per 50mila posti a disposizione. Ne hanno parlato anche i sindacati delle guardie carcerarie nei mesi scorsi. Nel mirino i tagli nelle piante organiche dei penitenziari, le condizioni di insicurezza delle strutture, la mancanza di presidi permanenti di agenti, le liste di scorrimento bloccate che pesano su un personale già ridotto all’osso. Condizioni che aumentano i rischi di aggressioni e disordini in carcere. Senza che si intraveda una soluzione all’orizzonte. Oristano: nel carcere di Massama scatta l’emergenza acqua di Eleonora Caddeo La Nuova Sardegna, 3 agosto 2018 Per risparmiare i rubinetti restano a secco dalle 23 alle 6 del mattino Ma le perdite della rete interna cancellano i benefici del razionamento. Da un lato si interrompe l’erogazione dell’acqua per risparmiare, dall’altro non si riparano le tante perdite presenti nella struttura. Al carcere di Massama si raziona l’acqua ma solo a parole, visto gli sprechi. I rubinetti sono chiusi da otto mesi, nella fascia notturna dalle ventitré alle sei del mattino, sia nelle cento ventitré celle, negli alloggiamenti dedicati al personale di polizia penitenziaria, e in tutti gli altri locali, fatta eccezione dell’infermeria. Al posto dell’acqua a corrente, sono stati acquistati circa duecento bidoni di plastica da venti litri, posizionati nelle celle, uno per ciascun detenuto, più altri condivisi dagli agenti di polizia penitenziaria, da riempire tutte le sere. La scelta di razionare l’acqua, presa dalla direzione della casa di reclusione di Oristano, risponde ad una direttiva ministeriale del 2017, relativa al Piano di contenimento dei consumi idrici. L’ordine di servizio, emanato dalla direzione del carcere già a dicembre, è attivo. Tutto chiaro? Neppure per sogno. Da un lato vengono chiusi i rubinetti, dall’altro, da altrettanti mesi, c’è uno spreco di acqua a causa di perdite nelle tubature dell’impianto e di malfunzionamenti in alcuni bagni della casa di reclusione. Secondo i sindacati nel seminterrato, le tubature che passano sul soffitto perdono da molti mesi. Per un banale guasto al sifone, uno dei due bagni dell’infermeria, per molti mesi, ha causato una perdita d’acqua pari a diversi metri cubi al giorno, limitata, naturalmente alle diciassette ore di apertura dei rubinetti. Questo spreco d’acqua potrebbe essere risolto con l’intervento di un idraulico, e con una serie di manutenzioni non certo complesse e costose. Il caso dell’infermeria, solo da poco risolto, non è l’unico: sono tanti i malfunzionamenti tutt’ora presenti e segnalati nelle forme dovute dal personale di sorveglianza. Una carenza di manutenzione, quella della casa di reclusione Salvatore Soro, di cui sono stati informati da febbraio, il prefetto di Oristano, Giuseppe Guetta, il provveditore delle carceri sarde, Maurizio Veneziano, e lo stesso direttore della casa di reclusione, Pier Luigi Farci. Oltre all’emergenza idrica, il carcere di Massama sembrerebbe presentare altre problematiche legate alla scarsa manutenzione: dai cancelli, molti dei quali andrebbero sistemati, alla video-sorveglianza, che andrebbe potenziata. Necessità importanti ma forse non come lo spreco d’acqua, se si pensa che la struttura detentiva oristanese ha consumi che superano quelli delle limitrofe frazioni cittadine. Palermo: un detenuto in semilibertà continua l’opera di Don Puglisi di Lucandrea Massaro aleteia.org, 3 agosto 2018 “Per me padre Puglisi è tutto” così dice Stefano Taormina, 61 anni e una condanna all’ergastolo. Quando aveva 21 è finito in carcere al prima volta. “Ho iniziato rubando le auto. Poi ci sono state le rapine e gli omicidi”. Oggi è in semilibertà. Esce dal penitenziario al mattino e rientra alla sera, in mezzo la giornata la passa Centro Padre Nostro, nel quartiere Brancaccio di Palermo, una ex (?) roccaforte mafiosa. Il Centro nasce proprio da don Pino Puglisi, il sacerdote beato martire della Mafia. È qui che Stefano cerca e trova redenzione, aiutando i ragazzi del luogo in questo centro polifunzionale in cui si fanno corsi, si tiene l’asilo, ma soprattutto si dà una prospettiva in un pezzo d’Italia che prospettive non ne ha. “Ho conosciuto il presidente Maurizio Artale - dice Stefano ad Avvenire - durante uno dei suoi colloqui in carcere. Di solito non prende persone che hanno sulle spalle pene da scontare come le mie. Ma si è fidato…”. Adesso lui ha scoperto di avere molti talenti, vuole dare una mano e soprattutto non vuole che i tanti ragazzi del quartiere facciano la sua fine Stefano è stato anche il testimonial del Progetto Pari, un percorso per promuovere “buone relazioni” nelle scuole superiori di Palermo voluto dal Comune con il Centro Padre Nostro. “Agli studenti ho raccontato la mia adolescenza. Perché ci vuole davvero poco a passare dal bullismo alla delinquenza, da una bravata ai reati. Così a loro ripeto: non fatevi ingannare, non cedete ai richiami dei soldi facili”. Quindi rivela: “Già i miei insegnanti mi chiamavano delinquente”. Oggi va orgoglioso della sua famiglia. “Mia moglie lavora e abita non lontano da qui. I miei due figli sono già sistemati: lui è un imprenditore, lei ha un ingrosso”. Eppure, continua, “le mie notti sono segnate dagli incubi per quello che ho fatto. Non ho mai nascosto gli errori che ho commesso. Infatti sto pagando”. Poi la voce si abbassa. “In carcere ho avuto anche un infarto. Il pensiero di aver rovinato un’intera famiglia con le mie mani mi ha talmente tormentato che il cuore ha ceduto. Se sono ancora vivo, lo devo alla polizia penitenziaria che mi ha salvato”. Il suo riscatto è iniziato proprio in cella. “Io, che non avevo mai avuto voglia di studiare, ho preso due diplomi. E ho seguito corsi di computer, idraulica, elettrotecnica”. Con i suoi quadri, venduti in una mostra a Torino, ha aiutato anche quattro ragazzi rimasti orfani dopo l’alluvione del 1994 in Piemonte. “Un sogno che ho adesso? Poter stringere la mano a papa Francesco e avere da lui una benedizione. So che sarà a Palermo per rendere omaggio a don Pino. Chissà se ci sarà la possibilità di abbracciarlo…”. Svolta di Bergoglio: “la pena di morte mai ammissibile” di Sara Volandri Il Dubbio, 3 agosto 2018 Il Papa cambia il Catechismo della Chiesa Cattolica. la battaglia per l’abolizione in tutto il pianeta. fino ad oggi il vaticano ammetteva il ricorso al boia di stato per i “casi estremi”. Il rifiuto della pena di morte ora si fa catechesi e ricongiunge la dottrina della Chiesa con il buon senso dei Vangeli. L’intervento di Papa Francesco contro le esecuzioni capitali nel mondo ha un’importanza storica proprio perché non è soltanto faltus vocis. Al contrario presuppone una modifica in calce al testo del Catechismo della Chiesa Cattolica che sarà poi tradotta nelle diverse lingue e inserita in tutte le edizioni. L’ultima edizione del 1992 non escludeva il ricorso al boia di Stato per i “casi estremi”. Ora nessuna eccezione alla regola, la vita umana deve essere preservata e difesa in ogni caso. Non solo il rifiuto della primitiva legge del taglione, non solo il rispetto del Quinto comandamento (“Non uccidere!”), non solo l’idea che l’uomo (o lo Stato) non può sostituirsi al Dio creatore decretando la morte dei suoi simili, l’idea di Francesco è soprattutto politica e la sua strategia è “attiva”. Il Vaticano vuole in tal senso lottare per una moratoria mondiale della pena di morte, è un suo obiettivo concreto e per raggiungerlo eserciterà tutta l’influenza di cui dispone. Già nel 2015, durante il papa argentino, in un toccante discorso pronunciato nella “tana del lupo” e cioè al Congresso degli Stati Uniti paese fieramente anti- abolizionista, condannò con fermezza la pena capitale, annunciando l’impegno del suo magistero per abolirla ovunque nel pianeta. Molto dettagliate le parole di Bergoglio: “Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi”. La dignità della persona non viene dunque perduta neanche di fronte al più efferato dei crimini, un concetto che verrà normato dalla Congreazione per la Dottrina della Fede. “La Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che la pena di morte è inammissibile - prosegue Bergoglio - perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”. Finora l’insegnamento tradizionale della Chiesa non escludeva in modo assoluto il ricorso alla pena di morte. È per questo motivo che Papa Francesco ha auspicato che il Catechismo venga modificato. Il punto in questione era il 2267: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”. Questa formulazione era stata chiesta esplicitamente alla Santa Sede dal rappresentante dell’Episcopato del Cile nel Comitato di redazione del Catechismo, come aveva poi rivelato l’allora cardinale Joseph Ratzinger. In realtà il Concilio di Trento, nel suo Catechismo, ripreso dal Catechismo maggiore di Pio X, diceva che è lecito uccidere quando si combatte “una guerra giusta” e quando “quando si esegue per ordine dell’autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto”. Lo stesso Stato del Vaticano prevedeva la pena capitale fino alla prima abolizione de facto, ma non de jure da parte di Paolo VI. Fu papa Wojtyla che, con l’enciclica motu proprio nel febbraio 2001, che abolì in modo definitivo l’estremo supplizio dalla Legge fondamentale vaticana. Diecimila minori si allontanano dai Centri di accoglienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2018 Relazione del Commissario straordinario per le persone scomparse sul primo semestre del 2018. Registrato un aumento sostanziale degli allontanamenti dei minori, in particolar modo di quelli stranieri, dai centri di accoglienza. Questo risulta dalla relazione del Commissario straordinario del governo per le persone scomparse, relativo al primo semestre del 2018. In compenso, analizzando in generale, salgono al 70,2% i ritrovamenti di persone scomparse rispetto al 60,3% dello stesso periodo del 2017. Nei due periodi comparati, si legge ancora nella relazione, sono diminuite le denunce di scomparsa: 9.950 nel 2018 rispetto alle 10.858 del 2017. Nel complesso, le persone scomparse in Italia ancora da rintracciare sono 55.949 (9.581 italiani e 46.368 stranieri). Per quanto riguarda le categorie e le motivazioni, si riconferma la tendenza degli anni precedenti. Secondo i dati forniti dal Sistema d’Indagine Interforze della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, gli “allontanamenti volontari” sono in totale 28.870, di cui 26.262 stranieri e 2.608 italiani. I maggiorenni sono 4.471 cui si aggiungono 326 ultra 65enni. I minorenni sono 24.073 (23.052 stranieri e 1.021 italiani). Il fenomeno più preoccupante resta, dunque, quello degli allontanamenti dei minori dai centri di accoglienza. Di questi ultimi ne risultano ancora da rintracciare 9.718, di cui 9.258 stranieri e 460 italiani. Si legge nella relazione che “la maggior parte di questi ragazzi, una volta giunti in Italia, viene coinvolta in attività criminali quali lo spaccio di sostanze stupefacenti, il borseggio, i furti in appartamenti, la vendita per strada di prodotti contraffatti”. Nel contempo si “mira verosimilmente a favorire l’attività di immigrazione clandestina nonché a permettere l’ottenimento di benefici economici collegati alle politiche di welfare”. Secondo il commissario straordinario, ad oggi, in Italia, queste forme di sfruttamento non sono state oggetto di monitoraggio sistematico e “solo da poco cominciano a ricevere la dovuta attenzione, anche sulla scorta degli obblighi che derivano dal recepimento della normativa comunitaria in materia di tratta, nonché sulla scia degli esiti delle attività investigative che sono state sviluppate nel nostro Paese attorno a situazioni riferibili allo sfruttamento”. Per favorire la collaborazione con i soggetti interessati alla problematica è stato sottoscritto nel 2015 un Protocollo d’intesa con la Prefettura di Roma, il Comune di Roma Capitale, la Sapienza - Università di Roma, il Tribunale per i minorenni e la competente Procura per la promozione e lo sviluppo di azioni, progetti ed iniziative volti a prevenire e contrastare la scomparsa dei minori stranieri non accompagnati. A conclusione dei due anni di sperimentazione, il 14 dicembre 2017, presso la Sala dei Musei capitolini, è stato promosso un convegno per favorire buone pratiche utili a scoraggiare e a prevenire il coinvolgimento dei minori stranieri in attività illegali e di sfruttamento da parte della criminalità organizzata. Da tale esperienza è nato l’Osservatorio permanente delle criticità legate al fenomeno dei minori stranieri non accompagnati, costituito presso la Prefettura di Roma - insieme al Tribunale Ordinario di Roma, al Tribunale per i Minorenni di Roma, la “Sapienza” - Università di Roma, il Dipartimento Politiche Sociali del Comune di Roma, la Questura di Roma, il Comando Provinciale Arma dei Carabinieri di Roma, l’Anci Lazio. Compiti dell’Osservatorio sono il monitoraggio e l’approfondimento del fenomeno, anche in collaborazione con le organizzazioni del terzo settore presenti sul territorio ed impegnate nella presa in carico e nel sostegno continuativo dei minori in condizioni di particolare vulnerabilità (come le vittime di tratta e di sfruttamento o i richiedenti asilo). Altro importante obiettivo da continuare a perseguire, si legge nel documento, “è l’integrazione sociale, scolastica e lavorativa da realizzarsi anche attraverso l’affido familiare e l’istituzione della figura dei “tutori volontari” adeguatamente formati”. Migranti. Il Pd si divide sul decreto per le motovedette alla Libia di Giovanna Casadio La Repubblica, 3 agosto 2018 E riemergono le differenze sulla linea Minniti. Il voto è previsto all’inizio della prossima settimana. A chiedere di schierarsi contro è stato per primo il presidente Matteo Orfini. Intanto il partito presenta tre emendamenti. A prendere la parola per chiedere di votare contro le motovedette alla Libia, a meno che non ci siano garanzie sui diritti umani, è stato Matteo Orfini. Il presidente del Pd del resto aveva già motivato il suo no in un articolo su Avvenire, il quotidiano dei vescovi. E oggi nella riunione del gruppo del Pd della Camera, che si appresta a votare il decreto motovedette a inizio della settimana prossima, la discussione si è accesa e ha diviso i dem. Da un lato i contrari al sì su quelle 12 motovedette che Matteo Salvini ha promesso alla Libia, dall’altro chi ha ricordato che non si può smentire la posizione già assunta al Senato. A Palazzo Madama infatti i senatori dem hanno votato a favore. Piero Fassino lo ha ricordato. Anche Dario Franceschini ha posto il problema. Pur sottolineando le criticità del decreto, e insistendo affinché si denuncino in aula le politiche del governo sui migranti, l’ex ministro dei Beni culturali ha ricordato che un comportamento difforme del Pd tra Senato e Camera non sarebbe opportuno. Ma un fronte ampio e trasversale, dai cattolici alla sinistra del partito, è sulle barricate. Lia Quartapelle, la responsabile Esteri della segreteria, ha ammesso che alla luce della vicenda di Asso 28 - la nave italiana che ha soccorso in mare 108 migranti riportandoli poi in Libia su indicazione della guardia costiera libica - occorre un di più di cautela. Orfini ha ribadito che forse i compagni senatori hanno sottovalutato il voto. A Palazzo Madama contro si erano schierati solo i senatori di Leu e Emma Bonino. “Non c’è più nessun tipo di garanzia, per Salvini si tratta di armare i libici e lasciare nelle loro mani i migranti: noi non possiamo accettarlo”. Ha ripetuto Orfini. Giuditta Pini è anche lei per il no al decreto. Graziano Delrio, il capogruppo, ha mediato: se la maggioranza non accetta i nostri emendamenti, potremmo astenerci. Delrio è un cattolico, dossettiano. Quando Marco Minniti, ministro dell’Interno del centrosinistra, propose di chiudere i porti, Delrio, allora responsabile delle Infrastrutture, disse di no. Intanto il Pd ha preparato tre emendamenti. Uno di questi prevede che l’ok alle motovedette sia subordinato alla presenza di organismi internazionali sulle navi della Guardia costiera libica e nei campi profughi libici. Inoltre si chiede che il governo libico ratifichi la convenzione di Ginevra. I Dem si augurano che “nelle orecchie dei grillini qualcosa risuoni” e che alcune modifiche possano essere accolte, aprendo una falla nella maggioranza gialloverde. Nel Pd non si vuole sconfessare la politica che fu di Minniti e quindi di aiuto della Libia, ma dall’altro non si può offrire sponda a Salvini. Per Leu invece, con Laura Boldrini in testa, il decreto motovedette è inemendabile: da bocciare. Domani il decreto potrebbe sbarcare nell’aula di Montecitorio o slittare a lunedì. Hate speech. L’Agcom avvia l’iter per un regolamento contro l’istigazione all’odio La Repubblica, 3 agosto 2018 Il provvedimento sarà pronto entro 90 giorni. L’obiettivo contrastare la discriminazione basata su etnia, sesso, religione e nazionalità nella rappresentazione mediatica: sia nei programma di informazione che di intrattenimento. Dicono di aver agito per “goliardia” i tre ragazzi italiani identificati come gli aggressori di Daisy. E minimizzare sembra essere la scelta di molti - forze politiche e non solo - in questo momento in Italia. Mentre gli episodi di violenza, le aggressioni, le manifestazioni di odio in Rete si moltiplicano. Ma non sembra pensarla così l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Che invece raccoglie l’allarme. Il Consiglio dell’Agcom ha avviato l’iter per l’adozione di un regolamento - relatori il presidente Angelo Marcello Cardani e il commissario Antonio Nicita - per il rispetto della dignità umana, del principio di non discriminazione e di contrasto all’hate speech. L’obiettivo è quello di contrastare l’istigazione all’odio basato su etnia, sesso, religione o nazionalità nei servizi media audiovisivi. Le nuove regole, da sottoporre a consultazione pubblica, riguarderanno sia i programmi di informazione che quelli di intrattenimento. L’obiettivo è scriverle entro 90 giorni, dopodiché saranno pubblicate sul sito web dell’Autorità. L’Agcom parte dalla preoccupazione per il clima che emerge nel dibattito pubblico, nel timore che sui flussi migratori possano alimentarsi “posizioni polarizzate e divisive in merito alla figura dello straniero e della sua rappresentazione mediatica”. E naturalmente - in questa rappresentazione mediatica - il ruolo del mezzo radiotelevisivo può essere fondamentale. Ecco quindi la necessità, per l’Agcom, di un regolamento “vista la pervasività del mezzo radiotelevisivo e l’importante contributo che l’informazione radiotelevisiva svolge nella formazione di un’opinione pubblica sulla corretta rappresentazione dello straniero, sull’inclusione sociale e sulla promozione della diversità”. Regole volte “a prevenire e combattere fenomeni di discriminazione, spesso alimentati da strategie di disinformazione, in contrasto con i principi fondamentali di tutela della persona e del rispetto della dignità umana, in particolare allorquando alimentato da notizie inesatte, tendenziose o non veritiere”. L’Agcom sottolinea, con preoccupazione, gli ultimi dati diffusi dall’Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce): “i crimini generati dall’odio, prevalentemente basati su razzismo e xenofobia, sono quasi raddoppiati nell’arco di un triennio, dal 2013 al 2016, confermando i timori di una possibile correlazione tra la crescente diffusione dei discorsi d’odio (hate speech) sui diversi media e l’incremento di aggressioni concrete e violente, anche se isolate, nei confronti di categorie di persone oggetto di azioni mirate, secondo un preoccupante schema che sembra accomunare, peraltro, i numerosi episodi accaduti negli ultimi mesi, con la ribalta assunta, sui diversi media, dal dibattito pubblico nazionale ed internazionale sul fenomeno dei flussi migratori e delle politiche di soccorso umanitario, accoglienza, integrazione ed educazione alla diversità”. Insomma, il contagio del virus dell’odio può moltiplicarsi sui media. Per questo diventa fondamentale intervenire subito e chiedere un supplemento di attenzione ai mezzi di comunicazione di massa. “Il governo diffonde risentimento”, tornano in campo gli intellettuali di Fabio Martini La Stampa, 3 agosto 2018 Dal pianista Pollini all’architetto Gregotti, appello contro “il pensiero unico” del rancore. Non è il solito appello degli intellettuali “fiancheggiatori”, uno di quei documenti scritti dai partiti (di solito di sinistra) e puntualmente sottoscritti da registi, scrittori, pittori e architetti. Nei prossimi giorni inizierà a circolare qualcosa di molto diverso, un appello scritto da undici uomini di cultura, politicamente non sovrapponibili, nel quale si denuncia la “spirale distruttiva” nella quale si starebbe avvitando il Paese; il rischio di un nuovo “pensiero unico” all’insegna del rancore; la possibilità che sia proprio l’Italia a dare la spallata decisiva ad una costruzione europea in atto da più di mezzo secolo. In definitiva una chiamata alle armi intellettuali contro il rischio del “più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale”, che potrebbe manifestarsi alle elezioni europee del 2019. È un documento scritto da intellettuali di diverso orientamento culturale, Accademici dei Lincei come Massimo Cacciari, Michele Ciliberto, Biagio De Giovanni, Enrico Berti. Personalità che rappresentano l’eccellenza nei rispettivi campi. Come l’architetto Vittorio Gregotti. O come il pianista Maurizio Pollini. E ancora: il filosofo Giacomo Marramao, i compositori Giacomo Manzoni e Salvatore Sciarrino, lo storico Paolo Macry, l’artista Domenico Palladino. L’appello dei “professori” rappresenta l’ultima espressione di un fenomeno recente e tutto italiano: l’emergere, in assenza di un efficace contrasto politico, di una variegata e trasversale “opposizione extraparlamentare” che non ha nulla a che vedere col movimentiamo degli Anni Settanta, o con i Girotondi dei primi Anni Duemila. Da alcune settimane contro le scelte del governo giallo-verde si stanno accendendo spontaneamente - e con le motivazioni più disparate - diversi soggetti: docenti universitari momentaneamente impegnati in incarichi pubblici come Tito Boeri, personaggi atipici come Roberto Saviano, ma anche gli industriali del Veneto o “Famiglia Cristiana”, la più diffusa rivista cattolica italiana. L’appello dei “professori” - che “La Stampa” è in grado di anticipare - è iniziativa più pensata e strutturata di altre ed ha preso la forma in un documento volutamente breve, che condensa in pochi concetti-guida l’essenza della denuncia. Contro il nuovo corso Si parte da una prima istantanea sulla natura politico-culturale del nuovo corso: “La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura - europea e occidentale - dell’Italia” e politiche “gravemente demagogiche”. Il rischio più consistente è che questi linguaggi e queste pratiche, “nella mancanza di una seria opposizione”, configurino “una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento”. Con un messaggio distorsivo: “Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi”. La concentrazione sul problema dei migranti, “ingigantito oltre ogni limite e gestito con inaccettabile disumanità”, acuisce in modo drammatico una crisi dell’Unione europea, che è “sull’orlo di una drammatica disgregazione”, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, “contrario ai suoi stessi interessi”. Per questo è diventata “urgentissima” un’iniziativa che contribuisca a una discussione in vista delle elezioni europee del maggio 2019; in quella occasione si tratterà di contrastare il più vasto schieramento di destra dal 1945 ad oggi e “la responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande”. Conclusione vibrante: “Non c’è un momento da perdere”. Gioco d’azzardo. Divieto di spot, la multa è più cara di Adriana Pollice Il Manifesto, 3 agosto 2018 Per giocare alle slot machine sarà necessario inserire la tessera sanitaria, come si fa per acquistare sigarette nei distributori automatici. E sui gratta e vinci comparirà la scritta “nuoce alla salute”. Dal primo gennaio 2020 le slot e le videolottery sprovviste dei meccanismi per impedire l’accesso ai minori dovranno essere rimossi. In caso di violazione scatta una sanzione di 10mila euro per apparecchio. Sono le novità introdotte ieri nel Dl dignità sul gioco d’azzardo. Inserito in corso d’opera anche il logo “No slot” per esercizi pubblici e circoli che bandiscono le macchinette per il gioco d’azzardo. Il testo prevede come fulcro della lotta alle ludopatie lo stop a “qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa, le affissioni e internet” con l’esclusione di lotterie nazionali e giochi gestiti dall’Agenzia dei monopoli. In base a un emendamento approvato ieri, le violazioni saranno punite con sanzioni del 20% (in origine era il 5%) sul valore della sponsorizzazione. I proventi delle multe sono destinati al fondo per il contrasto alle ludopatie. I contratti già siglati scadranno obbligatoriamente entro il 30 giugno 2019. Già dal 18 luglio Google ha bloccato questo tipo di pubblicità: l’azienda ha comunicato agli inserzionisti che la decisione avrebbe avuto “efficacia immediata” nella sezione italiana. Il decreto è una delle bandiere del Dl voluto dal vicepremier Luigi Di Maio che, alla presentazione del decreto il mese scorso, aveva sottolineato: “Migliaia di famiglie sono finite sul lastrico. Smettiamola con i messaggi subliminali e i testimonial famosi”. In quanto al calo degli introiti per lo stato, si stima un ammanco che va dai 147 milioni del 2019 ai 198 degli anni successivi. Per coprirlo si prevede un aumento del prelievo erariale sulle slot: lo 0,25% dal prossimo settembre, uno 0,25% aggiuntivo dal prossimo maggio. Se le associazioni dei consumatori plaudono alla norma e, anzi, il Codacons vorrebbe estenderla anche all’Agenzia dei Monopoli, gli operatori del Sistema Gioco Italia hanno chiesto una riforma concertata con il settore. I 5S citano uno studio effettuato da Maurizio Fiasco: l’azzardo ha un moltiplicatore economico negativo in termini di depressione dei consumi, di mancati stimoli alla produzione e distruzione di opportunità d’impiego, più si allarga e meno l’economia reale cresce. Secondo il ministero della Salute, i giocatori problematici sono tra l’1,5% e il 3,8% della popolazione, cui si aggiunge il 2,2% di giocatori patologici. Nel 2017 gli italiani hanno speso complessivamente, tra slot machine, gratta e vinci e gaming online, oltre 102 miliardi di euro, 10,3 miliardi sono andati all’erario. I mancati introiti da pubblicità colpiranno soprattutto Tv e radio private perché in Rai è già vietata. Mediaset, in particolare, gestisce il 50% del budget annuale sui media tradizionali. Sarà un problema anche per le squadre di Calcio: in Serie A nella stagione 2017/2018 dodici società hanno sottoscritto una partnership con aziende del betting. Azzardo, isolamento e “umanizzazione” delle slot inducono al gioco patologico Redattore Sociale, 3 agosto 2018 Un gruppo di ricercatori dell’Università Bicocca di Milano ha dimostrato, con esperimenti in laboratorio in cui sono stati coinvolti alcuni giocatori, che esiste un rapporto diretto tra la condizione sociale e lo sviluppo della dipendenza dal gioco d’azzardo. Chi si sente emarginato rischia più degli altri di sviluppare una dipendenza dal giocatore d’azzardo. Una ricerca dell’Università Bicocca di Milano ha dimostrato scientificamente quel che già molti operatori sociali hanno denunciato da tempo. Secondo i ricercatori questa dipendenza patologica nasce perché “l’isolamento porta a creare delle relazioni parasociali”, vale a dire relazioni “che simulano le relazioni fra esseri umani per compensare la mancanza di interazioni con le persone” e “queste relazioni parasociali possono svilupparsi anche con con oggetti inanimati quali le slot machine, cosa che diventa ancor più probabile nel caso vi si attribuiscano qualità umane, come la volontà di decidere gli esiti di gioco”. La ricerca è stata curata da Luca Pancani, Paolo Riva e Simona Sacchi, docenti del Dipartimento di Psicologia e gli esiti sono stati pubblicati sulla rivista “Journal of Gambling Studies” con il titolo “Connecting with a Slot Machine: Social Exclusion and Anthropomorphization Increase Gambling”. La ricerca è stata condotta in laboratorio. I ricercatori hanno chiesto ad alcuni partecipanti di giocare con una slot machine on-line. Ed hanno verificato che anche solo ripensare e descrivere una situazione in cui si è provato dolore sociale (ad esempio, circostanze in cui si è stati ignorati o esclusi da altre persone) è condizione sufficiente ad influenzare la successiva interazione con la slot machine, portando a un numero di giocate quasi doppio rispetto a coloro ai quali era stato chiesto di descrivere situazioni in cui avevano provato dolore fisico o un pomeriggio qualsiasi. L’approccio al gioco cambia, inoltre, anche in base alla percezione che si ha della slot machine. Se viene fatta percepire come un “essere” che interagisce col giocatore e che “decide” se far vincere o meno, la persona gioca di più. “Nonostante questo sia fra i primi articoli che mostrano l’influenza diretta dell’esclusione sociale sul gioco d’azzardo con una metodologia sperimentale rigorosa - spiega Luca Pancani, ricercatore in Psicologia all’Università di Milano-Bicocca - è già possibile trarre alcune conclusioni in grado di orientare la ricerca futura sul tema. L’emarginazione resta un problema grave nel nostro Paese: l’Italia detiene il record europeo di slot machine pro-capite, una ogni 143 abitanti, e le caratteristiche estetiche di queste macchine sono già orientate ad indurre una loro maggiore antropomorfizzazione. Questi fattori, alla luce dei risultati del nostro studio, richiedono una forte attenzione al fenomeno sia a livello di ricerca, sia in termini di politiche sociali, in modo da affrontare e contrastare efficacemente il problema del gioco d’azzardo patologico”. Il dottor Stranamore è tornato di Gianluca Di Feo La Repubblica, 3 agosto 2018 Il mondo si è lanciato in una nuova corsa agli armamenti. La nuova era della tecnologia militare nel documentario “La minaccia delle superbombe” in onda lunedì 6 agosto alle 21.50 su History Channel. Il dottor Stranamore è tornato. Pensavamo che il generale a cavallo della bomba creato da Stanley Kubrick fosse stato sepolto nei musei della Guerra Fredda, invece ha fatto scuola. Sì, oggi tutto il mondo si è lanciato in una nuova corsa agli armamenti, cercando di produrre ordigni sempre più grandi e devastanti. Per scoprire questi arsenali History ha realizzato un documentario denso di documenti originali, testimonianze di esperti e ricostruzioni: La minaccia delle superbombe, in onda lunedì 6 agosto alle 21.50 sul canale 407 di Sky. Pochi ricordano che l’esordio di Donald Trump alla Casa Bianca è stato segnato proprio dal lancio di un mega-ordigno, retoricamente chiamato Moab ossia “Madre di tutte le bombe”: una bestia da 10 tonnellate con una carica pari a undici tonnellate di tritolo, sganciata nella valle dove lo Stato Islamico aveva costruito la sua base afgana. Per colpire i guerriglieri annidati in un groviglio di tunnel e caverne, si è ricorsi a una testata progettata per uccidere con lo spostamento d’aria. Non esiste protezione: nel raggio di cinquanta metri ogni cosa viene incenerita, ma l’onda d’urto cancella la vita in un raggio di oltre 300 metri. Tutto sommato si è trattato di una prova di forza effimera, che non ha spaventato i miliziani afgani, figli di una terra desolata dove da quasi 40 anni non c’è stata mai pace. Mosca ha però voluto rispondere con un’esplosione ancora più micidiale. Ha presentato una bomba a testata termobarica, con una carica che disintegra l’ossigeno e provoca una doppia onda letale: prima il calore immenso, poi la forza dell’aria che viene come risucchiata dal vuoto. Secondo notizie non confermate, è stata impiegata a fine 2017 contro i ribelli siriani. Gli scienziati stimano che la devastazione ottenuta sia quattro volte quella della Moab statunitense, equivalente a 44 tonnellate di tritolo. E i russi hanno battezzato provocatoriamente l’ordigno con il nome di Foab ossia “Padre di tutte le bombe”. Padri e madri stanno mettendo su rapidamente famiglia, con i tecnici bellici di molti Paesi - a partire dalla Cina - impegnati nello sviluppo di nuovi sistemi mortali, destinati a fare strage negli scenari di combattimento più diffusi: le città. È la terribile eredità delle lezioni apprese durante le battaglie contro le formazioni jihadiste a Mosul, ad Aleppo, a Derna, ridotte a cumuli di macerie. I generali russi e americani, ma anche quelli degli altri eserciti che hanno studiato questi assedi, si sono resi conto che affrontare sul campo un nemico votato al sacrificio implica scontri lunghi e sanguinosi. Meglio allora ricorrere alle mega-bombe, che con lo spostamento d’aria uccidono anche chi si è trincerato nei palazzi e nelle cantine. Un percorso che segna l’anticamera per l’apocalisse. Come si è visto in Siria, il passo successivo sono le armi chimiche, quei gas che sterminano le persone nascoste nei rifugi. E lungo questa strada si passa poi alle testate nucleari. Non è un caso che Donald Trump abbia autorizzato la produzione di nuove bombe atomiche. E Vladimir Putin sia pronto a seguirlo. Insomma, il mondo ha ricominciato a correre verso il baratro. E nessuno sembra mobilitarsi per impedirlo. Albania. Ogni detenuto in carcere costa 539 euro al mese Nova, 3 agosto 2018 Ogni detenuto in carcere è costato allo Stato albanese nel 2017 circa 539 euro al mese: lo rivelano i dati ufficiali del ministero delle Finanze albanese citati dal portale di informazione economica “Monitor.al”. In totale per il trattamento dei 5.800 detenuti, la spesa annua è stata di 37 milioni di euro, ossia 6.469 euro per ogni detenuto. La spesa per l’alimentazione rappresenta l’8,6 per cento dei costi, pari a 46 euro al mese, mentre il servizio di sicurezza invece ammonta a 207 euro per ogni detenuto. Ai costi vanno aggiunte anche le spese per la formazione del personale penitenziario, quelle per le cure mediche, e le altre spese per lo speciale trattamento dei minori oppure delle donne detenute. Sudan. Attivista per i diritti umani nel Darfur sfugge all’esecuzione grazie alla mobilitazione Avvenire, 3 agosto 2018 Matar Younis Ali Hussein, un insegnante islamico di religione, era stato arrestato per “spionaggio e guerra contro lo Stato”. Rischiava la pena di morte per aver preso posizione in favore della popolazione del Darfur - dal 2003 vittima collettiva di un’offensiva militare per la quale il presidente sudanese Omar al-Bashir è imputato presso il Tribunale penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio - ma dal 26 luglio è libero. Matar Younis Ali Hussein era stato arrestato il primo aprile dopo aver criticato il governo sudanese per gli omicidi, i rapimenti, le devastazioni e i saccheggi dei villaggi, la violenza sessuale e altro ancora in corso da 15 anni in Darfur. Più volte, aveva denunciato il falso “processo di pace” promosso dal governo del dittatore Bashir e aveva sollecitato protezione per gli sfollati del conflitto. Il 24 giugno era stato incriminato per “guerra contro lo Stato”, “tentativo di sovvertire il sistema costituzionale” e “spionaggio”. Se giudicato colpevole anche di uno solo di questi reati, sarebbe stato messo a morte. E invece, grazie a un’enorme mobilitazione interna e internazionale promossa anche da Amnesty International, è stato assolto e rilasciato. Ora si spera che Matar Younis Ali Hussein possa riprendere a insegnare la religione islamica e a chiamare alla preghiera dalla moschea di Zalingei, nel Darfur centrale, senza temere ulteriori persecuzioni e rappresaglie giudiziarie. Arabia Saudita. Prosegue la repressione: arrestate altre attiviste di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 agosto 2018 Amnesty International ha appreso che nei giorni scorsi sono state arrestate altre due note attiviste per i diritti umani dell’Arabia Saudita, Samar Badawi e Nassima al-Sada. Samar Badawi è la sorella di Raif, il blogger condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, 50 delle quali già eseguite, per aver pubblicato un sito nato per favorire il dibattito pubblico. Nel 2014 è stata colpita da un divieto di viaggio e nel 2016 era finita in carcere. Nassima al-Sada ha svolto campagne nella Provincia orientale in favore dei diritti civili e politici, dei diritti delle donne e di quelli della minoranza sciita che vive nell’est del paese. Nel 2015 si è candidata alle elezioni locali ma la sua candidatura è stata respinta. È stata anche protagonista della campagna per il diritto delle donne di guidare e per la fine del sistema repressivo del tutore maschile. A sua volta, le era stato imposto il divieto di viaggio. Nei giorni scorsi è stata arrestata anche Amal al-Harbi, moglie di Fawzan al-Harbi, difensore dei diritti umani già in carcere. Nonostante i reiterati tentativi delle autorità di Riad di mostrare l’immagine di un paese che sta attuando riforme modernizzatrici, la realtà è che continuano gli arresti degli attivisti e delle attiviste che portano avanti la loro azione in favore dei diritti umani in modo del tutto pacifico. Nell’Arabia Saudita del principe della Corona Mohamed bin Salman non c’è spazio per chi difende i diritti umani. A partire da maggio, sono state arrestate diverse note attiviste e promotrici di campagne per i diritti umani. Tra loro figurano Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef. Molte di loro restano in carcere senza che sia stata formalizzata alcuna accusa e rischiano fino a 20 anni di detenzione se processate dal tribunale anti-terrorismo. Sono in prigione anche Nouf Abdulaziz e Mayàa al-Zahrani, così come attivisti impegnati nella difesa dei diritti umani come Mohammed al-Bajadi e Khalid al-Omeir. Tutti con il premier nella Cambogia senza giornali e radio di Massimo Sideri Corriere della Sera, 3 agosto 2018 Lanciare o appoggiare commenti critici sui social può voler dire ricevere la visita della polizia a casa. Non è ormai inusuale sentire ipotizzare che, senza una soluzione come quella in discussione presso l’Europarlamento per bilanciare gli effetti distorsivi del mancato rispetto del copyright online, potremmo entrare in una nuova era senza media tradizionali. La Cambogia ce ne ha appena dato un assaggio: com’è noto il premier Hun Sen, ex capitano dei Khmer Rossi, ha appena rivinto le elezioni senza elezioni, forte della presenza sulle schede di un unico partito, il suo, il Cambodian Peoplès Party. Hun Sen è premier ufficialmente dal 1993, ufficiosamente già dagli anni Ottanta. In particolare ha potuto “rivincere” le elezioni attuali anche grazie alla totale assenza di giornali e radio (la tv appartiene alla sorella): ha fatto chiudere negli ultimi 12 mesi tutti i media non asserviti al suo potere come “Voice Of America”, il “Phnom Penh Post”, il “Cambodian Times” e “Radio Free Asia”. In questo vuoto Facebook l’ha fatta da padrone diventando il principale sito di informazione del Paese asiatico. Libero, potremmo pensare. Chi può influenzare una società da centinaia di miliardi di dollari? A questo riguardo è utile sapere che Hun Sen risulta uno dei leader globali più amati al mondo stando ai like di Facebook: 13 milioni, circa la metà di quelli di Donald Trump, su una popolazione di 13,3 milioni. I cambogiani sanno che lanciare o appoggiare post critici (anche non mettere un like al leader si nota...) può volere dire ricevere la visita della polizia a casa. Senza contare che proprio in Cambogia la stessa Facebook ha testato dal 2017 un nuovo algoritmo per le News che privilegia le informazioni ufficiali e dunque, senz’altro involontariamente, il governo. Già ai tempi in cui Voltaire scriveva del termine Gazette sull’”Encyclopédie” si metteva in guardia dal considerare sinonimi termini quali giornali, democrazia e opinione pubblica. Ma proprio come la democrazia di Churchill i giornali sono il peggior sistema che conosciamo esclusi tutti gli altri. Hun Sen sembra saperlo bene.